L’idea primigenia di Zuckeberg quando ha ideato Facebook era di creare un portale tramite il quale socializzare e fare rete. Oggi Facebook è diventato una realtà molto più articolata e complessa, e gli usi che se ne fanno si sono a dir poco moltiplicati. Facebook è diventato anche uno strumento per promuovere l’arte e la cultura, per curare la brand image di un’istituzione culturale o di un museo.

L’ha ben capito l’Essl Museum di Vienna, il museo a venti minuti dal centro della città, che raccoglie la collezione di arte contemporanea dell’austriaco Karlheinz Essl. Si tratta di un museo all’avanguardia, che basa la sua policy sul coinvolgimento diretto dei visitatori. Questi non sono semplici fruitori passivi delle opere esposte, ma sono protagonisti, soggetti direttamente coinvolti nelle attività del museo. Persino nelle sue scelte curatoriali.

La mostra LIKE IT!, inaugurata il 23 ottobre, nasce proprio seguendo i gusti degli utenti dell’Essl Museum che hanno scelto le opere da esporre tramite Facebook. L’esperienza social di LIKE IT! si è sviluppata in due fasi. Dal 30 settembre all’8 ottobre, i fan della pagina ufficiale dell’Essl Museum hanno avuto la possibilità di votare, attraverso un like, tra circa 120 opere, di varie tipologie – pitture, fotografie, video –  tutte appartenenti ad artisti della collezione, nati a partire dal 1973. Le più votate sono andate a costituire la mostra allestita nella Great Hall del museo. Una volta scelte le opere era necessario dare inizio alla seconda fase del processo: a tutti gli “Amici” Facebook del Museo è stata data la possibilità di candidarsi come curatori della mostra. 5 elementi sono stati scelti per collaborare con Andreas Hoffer, critico professionista del museo. E così, dopo un workshop intensivo di due giorni, l’allestimento ha avuto inizio e i curatori in erba hanno potuto occuparsi anche dei testi di commento a corredo delle opere.

 

like it

 

Un’opera fra tutte è stata scelta ad emblema della mostra, sia perché la più votata, sia perché effettivamente rappresentativa della natura della mostra: Estrella di Patrìcia Jagicza. Si tratta di un dipinto raffigurante una donna che si specchia in un bagno per uomini mentre si sta mascherando. È stata individuata come un simbolo del problema della privacy, del dilemma tra pubblico e privato di cui sono appunto espressione i nuovi mezzi di comunicazione digitale.

 

essl museum

 

L’esperimento con la mostra LIKE IT! è continuato anche durante la Vienna Fair, tenutasi dal 10 al 13 ottobre. I visitatori della fiera sono stati chiamati a votare, stavolta, le 5 opere che costituiscono la parte speciale della mostra “Vienna Fair – The New Contemporary Special Selection”. Il parere degli utenti di Facebook, inoltre, è richiesto per tutto il corso della mostra – che si terrà fino al 6 gennaio – attraverso commenti e like che possono determinare cambiamenti nell’allestimento.

Andreas Hoffer stesso ha spiegato la necessità di portare avanti questo esperimento di curatela social partecipata: è inutile per un museo avere una pagina Facebook, un’identità sui social network, se questi devono essere usati passivamente. I social vanno considerati uno strumento professionale vero e proprio, indispensabile se sfruttato in tutte le sue potenzialità.

 

like it3

 

Ed effettivamente un prima esperienza del genere l’Essl Museum l’aveva già sperimentata con il progetto “Festival of Animals”. In quel caso erano quattro gruppi a scegliere le opere, a contribuire al catalogo della mostra e a interagire direttamente con gli artisti: i bambini di due scuole, un gruppo di donne della Caritas e i fan Facebook del museo.

Sempre Andreas Hoffer ci ha tenuto a precisare, però, che quello di LIKE IT! sarà un evento “one shot”: è assolutamente vietato ripetersi nel mondo dei social e le domande da porre al pubblico devono variare di continuo. Il caso di questo museo di Vienna va sicuramente tenuto in conto come esempio intelligente di uso dei social media, un modo interattivo e dinamico per coinvolgere pubblici sempre più vasti, soprattutto giovani, all’interno di strutture e processi che spesso sono percepiti troppo settoriali o elitari. Uno sguardo fresco e nuovo sulle cose, specialmente nel mondo dell’arte e della creatività, non fa mai male.

 

Stai passeggiando per le strade di New York, la città in cui tutto – ma davvero tutto – accade e può accadere. Ti trovi a Times Square, detta anche l’ombelico del mondo, quando d’un tratto il flash di una macchina fotografica ti cattura. Ti giri di scatto, giusto in tempo per vedere una figura angelica librarsi in volo, in una posa plastica. No, non si tratta di una visione mistica di fantozziana memoria, ma di un set fotografico vero e proprio, quello di Dancers Among Us” di Jordan Matter.

 

Dancers-Among-Us-in-Times-Square-Jeffrey-Smith

 

Per tre anni questo fotografo statunitense ha immortalato ballerini, “congelati” in pose meravigliose, non dentro una sala da ballo o una palestra, ma nelle strade, nelle piazze, nei luoghi pubblici, sotto gli occhi ammirati della gente comune. Sono immagini fresche, gioiose, che esprimono la magia della dinamica e del movimento, l’eleganza e la bellezza delle forme del corpo umano. Tutto è cominciato con degli scatti per Jeffrey Smith, un ballerino della Paul Taylor Dance Company al quale Jordan ha confessato il suo progetto di fotografare danzatori in luoghi comuni, di raccontare storie attraverso i loro passi di danza e le loro movenze. Jeffrey è riuscito a coinvolgere altri dieci membri del suo corpo di ballo, i primi protagonisti di quello che è diventato un progetto durato quasi tre anni.

 

Rockefeller_Center_NYC

 

Elemento fondamentale di questo lavoro è lo scenario, all’inizio costituito principalmente dalle strade di New York. Le foto di “Dancers Among Us” sono tutte naturali, e la posa che il fotografo coglie è reale, non è il frutto di modifiche apportate con programmi grafici. Jordan gira per la città alla ricerca della location adatta a far emergere in maniera più potente la natura dell’artista che posa per lui. Al ballerino è richiesta solo molta pazienza. Si tratta di un processo creativo che ha i suoi tempi e che artista e fotografo devono compiere assieme. L’ultimo anno Jordan ha cominciato a girare anche per altre città americane, come Philadelphia, Washington o Santa Monica. Prima di recarvisi, twittava e postava su Facebook la sua prossima destinazione, chiamando a raccolta i ballerini interessati. E le risposte alla sua chiamata sono state numerose, tanto che i soggetti immortalati arrivano a più di 200.

 

Dancers_Among_Us_Sun_Chong_Washington_DC

 

Da questa incredibile esperienza, portata avanti con pazienza e tenacia, è nato un libro, dal titolo omonimo al progetto, “Dancers Among Us”, che ha raccolto gli scatti migliori dei tre anni vissuti dal fotografo accanto ai suoi ballerini. L’ostacolo più difficile per Jordan è stato fare una cernita delle foto create, e dover così escludere alcuni danzatori dal suo progetto.
Il volume pubblicato è divenuto in pochissimo tempo New York Times Bestseller e ha ottenuto l’Oprah Magazine Best Book 2012 e il Barnes & Nobles Best Book 2012. Il segreto del suo successo, a detta di critici e lettori, sta nel suscitare in chiunque guardi quelle immagini un sorriso, un lampo di meraviglia, un pensiero positivo, un sospiro felice. Jordan Matter ha raggiunto il suo scopo, insomma: quello di far rivivere a tutti lo stupore divertito che prova un bambino davanti alle cose semplici e belle, lo stesso stupore che dimostra di avere suo figlio quando, giocando con una macchinina, immagina storie e avventure grandiose

 

Dancers-Among-Us-in-Columbus-Circle-Michelle-Fleet

 

La vicenda di Jordan Matter non finisce qui, però. Dalla prima esperienza con i ballerini è nato il sequel Athletes Among Us, che si concentra stavolta sulla potente fisicità degli sportivi, degli atleti, anche loro immersi in contesti ordinari. D’altra parte neanche “Dancers Among Us” è giunto al suo ultimo capitolo. Anzi, quei tre anni girando per l’America sono stati solo un inizio, e adesso il progetto vuole piroettare verso altri lidi, verso altri continenti, verso nuovi scenari.

 

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Dancers Among Us goes around the USA in Ninety Seconds from Jordan Matter on Vimeo.

Il panorama della app è in continua espansione e aggiornamento, come dimostrano i dati relativi al mercato del settore: si calcola che solo in Europa abbiano creato fino ad ora ben 800 mila nuovi posti di lavoro e le stime ritengono che i numeri vadano in crescendo per gli anni a venire.

Molte di queste ingegnose applicazioni nascono dal lavoro di giovani start up che hanno scommesso sulle proprie idee, volte principalmente a facilitare e rendere più agevoli i piccoli gesti quotidiani di ognuno di noi.

Ecco alcune delle ultime novità emerse in particolare nelle file italiane, perché il nostro Paese non è rimasto a guardare, ma è sceso in campo con app interessanti e innovative che nulla hanno da invidiare ai prodotti delle Silicon Valley.

Loro e molte altre saranno presenti alla prossima edizione di SMAU Milano, dal 23 al 25 ottobre.

 

weagoo

 

 

 

Poter contare su consigli utili, interessanti e soprattutto sintetici è diventato al giorno d’oggi un aiuto fondamentale per chi viaggia e necessita informazioni relative ad hotel, ristoranti, shop e punti di interesse. Proprio per questo nasce WeAGooun portale d’informazioni turistiche localizzate e descritte in modalità “short information”, volte a fornire indicazioni essenziali ma capaci di cambiare le sorti di un viaggio. Il format utilizzato è standardizzato e i testi sono rielaborati e concentrati in 480 caratteri di lunghezza massima.

 

 

 

 

 

wheresup

Dove? Quando? Cosa? A questi interrogativi risponde Where’s Up?, l’app per chi è alla ricerca di concerti, aperitivi, serate in discoteca ma anche sagre, eventi culturali, enogastronomici, sportivi, spettacoli e molto altro. Questa applicazione georefenziata consente perciò di conoscere nell’immediato quali appuntamenti gravitano attorno a noi, garantendo anche sconti e particolari promozioni.

 

 

 

 

 

 

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Assistere ad un’opera lirica è un’esperienza immancabile, ma spesso per il pubblico esordiente o straniero può apparire ostica la comprensione dei testi. Opera Voice arriva a risolvere questo inconveniente: è infatti una piattaforma web a cui si collegano i dispositivi mobili del pubblico, che ricevono così, in perfetta sincronia, i sottotitoli. Opera Voice arricchisce la tradizionale titolazione con due, tre o più lingue che lo spettatore sceglie in autonomia, con un considerevole abbattimento dei costi.

 

 

 

 

 

 

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Se poi voleste usufruire delle app precedenti, concedendovi un viaggio o la partecipazione ad un evento, ma non sapete a chi affidare i vostri bambini, ecco che giunge in vostro soccorso Oltre TATA. Si tratta di un motore di ricerca geolocalizzato nato per supportare famiglie in cerca di tate per i propri figli e per dare valore al ruolo dell’educatore. Qui troverete tate, baby sitter, aiuto compiti, animatrici e tagesmutter, suddivise per località e con profili dettagliati, corredati di foto, descrizione, eventuali referenze, costo. Un modo facile, veloce e sicuro per affidare in buone mani i vostri piccoli.

 

 

 

 

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Inbookiconsente invece un’esperienza di lettura innovativa, attraverso gli e-book che diventano così in-book, una nuova forma d’arte, per vivere racconti, libri e guide turistiche in maniera immersiva e coinvolgente. Il lettore è partecipe del racconto, può condizionare le sorti della storia o leggerla da diversi punti di vista. Un’apposita libreria virtuale consentirà inoltre di scegliere tra una variegata lista di titoli che si moltiplicano grazie anche alla creatività dei lettori.

 

 

 

 

joinjob

Per chi avesse bisogno di una mano per svolgere qualche lavoro domestico c’è Join Job, un innovativo service networking. Questa piattaforma facilita l’incontro tra domanda e offerta: cuochi, pulizie, consegne, traslochi, dog sitter, personal shopper, elettricisti, idraulici, pittori e altro saranno così a portata di mano. E’ possibile scegliere tra le diverse offerte e pagare in sicurezza, il tutto corredato da feedback finali utili per gli altri utilizzatori.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

techcrunch13TechCrunch è l’evento che per due giorni (26 e 27 settembre) al Maxxi di Roma ha reso protagonisti progetti e scommesse per il futuro. Start-up vincitrice della II edizione di questo appuntamento internazionale è GiPStech.

GiPStech, selezionata tra 200 candidature, è una tecnologia per la geolocalizzazione indoor, utilizzabile in assenza di copertura del segnale GPS, non usa Wi-fi, ma il campo magnetico terrestre. Utilizzabile negli spazi interni, come per esempio i musei, è stata scelta come l’idea imprenditoriale digitale più interessante tra 8 finaliste. I suoi fondatori: Matteo Faggin, Gaetano D’Aquila e Giuseppe Fedele, si aggiudicano 2 biglietti per il prossimo Disrupt SF e il premio, offerto da Populis, consistente in un finanziamento da 10.000 euro più un pacchetto di visibilità da 40.000 euro sulle media properties di Populis, fondata da Luca Ascani e Salvatore Esposito.

Tra i progetti interessanti Fluentify, una delle finaliste, piattaforma attraverso cui entrare in contatto con docenti di madrelingua, a scelta, con cui conversare online. Il progetto non è una novità in assoluto, ma sicuramente utile nel campo dell’apprendimento linguistico. Molte start-up presenti non erano orientate ai consumatori, ma all’offerta di servizi alle aziende, come per es. BeMyEye (servizio che consente di vedere cosa accade nei negozi di un’azienda) o Vivocha (offerta di assistenza da parte delle aziende ai propri clienti, che spesso abbandonano un acquisto online proprio per la mancanza di supporto).

Techcrunch, in collaborazione con Populis, ha dimostrato anche quest’anno di essere il palcoscenico dell’imprenditoria digitale, attenta alle innovazioni in campo informatico e impegnata a dare visibilità alle start-up digitali italiane. Il bilancio dell’edizione 2013: un migliaio di partecipanti, oltre cento giornalisti, decine di relatori affermati nel campo, presentati e intervistati da Marco Montemagno, come l’investitore israeliano Yossi Vardi, Francesco Caio (Responsabile di Agenda digitale), Renato Soru (Co Founder di Tiscali), Lucas Carné (co founder e CEO di Privalia), John Underkoffler (founder di Oblong e ideatore dell’interfaccia del film Minority Report), Steffi Czerny (founder delle conferenze tech DLD e DLD Women) e molti altri.

Tra gli interventi più significativi quello della giovane Amelia Showalter (Former Director of Digital Analytics della campagna per la rielezione a presidente di Obama) che ha dimostrato come una squadra di 18 giovanissimi scrittori di email si sia occupata, con successo, della raccolta fondi per la campagna volta alla rielezione di Obama. Questi diversi stili di email venivano testati continuamente per capire quale funzionava, dovevano essere il più possibile diversi e a volte quello esteticamente migliore non otteneva i risultati sperati. Era necessario inventare, osare, perché il pubblico è diverso, per appartenenza sociale, cultura etc. Questa squadra di giovanissimi, su cui Obama ha puntato, è stata vincente e la fiducia nei giovani è stato forse il messaggio più utile che Amelia poteva darci.

John Underkoffler ha illustrato come la tecnologia ‘touch’ sia superata: quella del film Minority Report non era un effetto speciale, ma è ciò che già esiste; ad oggi è infatti possibile con dei gesti davanti ad uno schermo, senza toccarlo come nel film, far eseguire funzioni ad un pc o spostare contenuti da un dispositivo all’altro.

L’investitore francese Fabrice Grinda, oltre ad organizzare numerosi incontri, ha rappresentato l’utilità sociale dei nuovi prodotti informatici che ci consentiranno in breve tempo di abbattere i costi dell’energia solare, della purificazione dell’acqua, di eliminare gli incidenti stradali grazie al self-driving, di computerizzare il controllo sulla nostra salute. Forse non tutti sanno che in Estonia il 24% della popolazione ha votato online nel 2011, il 93% paga online tasse, spese scolastiche e sanità, ma che soprattutto l’Africa è economicamente in crescita. Se gli scenari di guerra o depressivi fanno più notizia queste prospettive rincuorano non poco.

Ed è forse proprio una prospettiva sociale ed ecologica, investimenti nel welfare, che ci sarebbe piaciuto vedere di più in questo convegno. A parte l’esempio di Charity Stars che convoglia donazioni di personaggi famosi, a favore di associazioni quali Emergency o Medici senza Frontiere. Speriamo che in Italia venga superata la difficoltà per le giovani start-up di trovare capitali per finanziare progetti innovativi e che sempre più giovani abbiano il coraggio e la creatività di presentare progetti tesi a migliorare la società, la qualità della vita o l’ambiente, e non soltanto i profitti.

 

CagliariIntervista a Enrica Puggioni, Assessore alla Cultura del Comune di Cagliari.

 

 

Qual è l’identità del territorio dalla quale scaturiscono le strategie e il progetto del 2019?

Il nostro territorio presenta caratteri di unicità – paesaggistici e geografici, linguistici, storico-culturali – e nello stesso tempo partecipa da sempre a un respiro chiaramente europeo.
Situata in una posizione strategica, luogo millenario di incontri, centro fin dalla preistoria di irradiazione e diffusione di saperi e competenze, Cagliari e la Sardegna sono state sempre un crocevia strategico di tutte le culture del Mediterraneo: di età fenicio-punica e romana, bizantina, pisana, aragonese e spagnola, sabauda, del ‘900, fino ad arrivare ad esempi di architettura contemporanea.  Per questo parlare di identità nel nostro territorio vuol dire parlare di un continuo innesto di culture e di un incrocio di civiltà. Questa identità parla attraverso una costellazione di ecologie plurime e di paesaggi fatti di ampiezza di orizzonti e di molteplicità di punti di vista, paesaggi che sono il risultato di stratificazioni di segni lasciati nei millenni dalle diverse comunità. Questa identità – o, meglio, queste identità – sono il risultato di storie intrecciate e del “fare” di millenni. La sfida è rendere questa storia, in fondo europea, anche il suo futuro, saldando i fili di questo fare millenario con i nuovi fili da progettare.

 

 

Quali sono gli asset che la città immette in questo programma?

Attraverso il progetto si intende tessere un nuovo paesaggio culturale di Cagliari e del Sud Sardegna attraverso la trasformazione dei saperi e delle conoscenze in azioni e prodotti concreti. Fare, non solo mostrare. Costruire, non solo ospitare: la cultura (materiale e immateriale), la creatività e l’innovazione sono strumenti imprescindibili nel percorso di cambiamento e di rigenerazione urbana. Questi sono gli asset principali: produzione, creatività, innovazione come motori di sviluppo di un territorio che, puntando sull’economia della conoscenza, vuole promuovere il passaggio dalla cultura immateriale al fare, dall’arte antica a quella contemporanea, dall’Europa Mediterranea a quella continentale, dall’identità alle identità, dall’isolamento alla contaminazione e all’integrazione. Accompagna tutto il percorso tematico e temporale il potenziale di trasformazione derivato da un approccio dinamico e dialogico con il territorio, nei termini di  studio, ripensamento, rivitalizzazione del paesaggio urbano, entità complessa, costituita da luoghi, oggetti, “segni” dell’uomo e della natura.

 

 

Quali sono le mancanze cui dovrete invece sopperire?

Le mancanze e i punti deboli sono anche gli snodi nevralgici sui quali si è costruito il progetto:  questo nasce e si sviluppa proprio all’interno di una strategia complessiva di sviluppo che individua  nella creatività un motore di sviluppo urbano sociale ed economico e che riguarda i diversi ambiti di intervento. Sicuramente, uno dei punti di debolezza ai quali il progetto dà una risposta concreta è l’evidenza di un isolamento geografico che da un lato ha lasciato incontaminati ampie porzioni di territorio ma dall’altro ha costretto l’isola a una posizione marginale, quasi di sospensione culturale, rispetto al dibattito e alla produzione artistica contemporanea. Ripartire da paesaggi non sovraccarichi di segni, lontani dalla spettacolarizzazione e anche da una certa moda dell’effimero, vuol dire avere la possibilità di offrire alle nuove generazioni europee spazi dove sperimentare, produrre e sedimentare le nuove forme e i nuovi linguaggi del domani. In questa centralità del ”fare”, del “produrre” più che del mostrare, l’Uomo può ritrovare la sua centralità, dispiegare i suoi saperi passati, presenti e futuri, progettando nuove relazioni e nuove forme attraverso un confronto interculturale. Questa forte connotazione del progetto verso la produzione e l’innovazione è nata anche per dare risposta a un’altra delle mancanze della Sardegna: la forte disoccupazione giovanile che determina forme di emigrazione intellettuale e priva i territori delle migliori energie creative  tenendoli separati da contesti e scenari più ampi. Ecco, uno dei punti di forza del progetto nasce proprio dalle mancanze e dalla convinzione che queste, grazie anche alle politiche culturali, si possano colmare.

 

 

I flussi economici delle città d’arte riguardano solitamente pochi addetti ai lavori. Il programma relativo alla candidatura intende coinvolgere uno spettro più ampio di operatori economici?

Noi abbiamo già coinvolto uno spettro ampio di operatori economici perché la stessa candidatura nasce come evoluzione naturale di un processo partecipato che, partito due anni fa, ha portato alla redazione di documenti programmatici nei diversi campi di azione nell’ambito di una strategia complessiva di sviluppo economico. Per poter arrivare a una visione della città, alla città di domani, è stata usata la cultura nei suoi molteplici aspetti come elemento trasversale di coesione e come significante ultimo delle azioni di sistema messe in campo. Parallelamente al processo di integrazione delle politiche di valorizzazione culturale attraverso accordi tra i diversi enti presenti sul territorio, si è avviato il processo di costruzione sinergica della Cagliari futura con tutti gli attori locali: associazioni culturali, operatori economici e turistici, associazioni di categoria, datoriali e sindacali. Inoltre, la visione della “città del domani” ha restituito un’immagine di territorio urbano difficilmente riconducibile ai soli limiti comunali e la programmazione dei più importanti asset strategici ha coinvolto tutto il territorio dell’area vasta e dell’intero golfo ampliando la portata delle politiche in atto. Obiettivo di tutte queste politiche è sempre la cittadinanza che è stata coinvolta in processi di costruzione e condivisione delle scelte. Questo patrimonio di conoscenza dei territori e di programmazione integrata ha costituito il punto di partenza della candidatura che è nata come sintesi e approfondimento sia di una visione strategica di sviluppo che di un metodo di partecipazione delle scelte pubbliche. In tal senso, la candidatura non si è calata come un corpo alieno ma è stata occasione per un approfondimento maggiore di politiche che, lungi dall’essere pensate nel solo ambito di riferimento, si sviluppano in modo integrato. Pochi esempi per dare atto di un coinvolgimento operativo del settore economico e imprenditoriale: il protocollo di intesa con la Fondazione Banco di Sardegna che sostiene il progetto culturale per e su Cagliari, la presenza nel partenariato dei principali attori economici, il protocollo Visit South Sardinia che mette insieme gli operatori turistici del Sud Sardegna. Il mondo economico ha mostrato entusiasmo per un progetto di candidatura che, per come è stato pensato, rappresenta un grande laboratorio di partecipazione attiva, finalizzato anche alla creazione di occasioni formative e professionalizzanti che contribuiranno a offrire sbocchi occupazionali e opportunità di nuove imprese creative e innovative e a stimolare il ripopolamento dei quartieri, l’insediamento di nuove attività commerciali. Il progetto, che pone al centro dell’attenzione l’uomo, come detentore delle tradizioni e dei saperi, punto cardine all’interno dell’economia della conoscenza, prevede un sistema complesso di attività che vanno a coinvolgere un target molto ampio.

 

 

Cosa rimarrà alla città dopo il titolo di Capitale europea della Cultura?

Noi intravediamo nella candidatura e nell’eventuale riconoscimento finale lo snodo di un processo articolato finalizzato all’affermazione della creatività come uno degli assi principali del tessuto urbano. Per tale motivo, il 2019 rappresenta una tappa in un percorso che, per come è stato ideato e strutturato, non intende concentrare le risorse e gli sforzi di programmazione solo a un anno ma che al contrario mira al radicamento nel territorio delle esperienze e delle attività artistiche, ponendosi come obiettivo duraturo e trasversale quello di rendere la città un centro permanente e inesausto di produzione creativa e un punto di riferimento certo nell’ambito del dialogo interculturale e della riflessione artistica.

Leggi le interviste alle altre candidate a Capitale europea della Cultura 2019.

Alla fine, chi l’avrebbe mai detto, ci sono riusciti: hanno raggiunto l’obiettivo di 10 mila sterline e ora sono pronti ad avviare il loro innovativo progetto.
Non stiamo parlando dell’ultima startup presentata al Techrunch, né di opere d’arte all’asta. Oggi andiamo oltre e vi raccontiamo la storia di quattro ragazzi che ora cominceranno un nuovo business. Costruire code per le persone.
Vi sembrerà paradossale ma uno dei più grandi desideri di questo team era proprio quello di vedersi crescere una coda. Andrew Shoben, Neil Gavin, Fabio Lattanzi Antinori e Daniel Clarkson sono un gruppo di artisti, scultori, tecnici informatici e creativi che hanno dato vita, 15 anni fa, a Greyworld, società che si occupa principalmente di installazioni urbane sul territorio. Qualche anno fa hanno realizzato un prototipo di coda, scolpito e sono rimasti sorpresi dal numero di richieste di vendita che hanno ricevuto dalle persone.

coda1

Quindi, l’idea. Cercavano qualcosa di originale che unisse il loro lato geek alla loro vena creativa. Che doveva essere allo stesso modo qualcosa di mai provato prima, di inconsueto e paradossale. E così il 13 agosto parte, in sordina, la raccolta fondi su Kickstarter, piattaforma internazionale di crowdfunding.
La stravaganza del progetto fa sì che le persone lo condividano, i più curiosi chiedano maggiori informazioni, e che le donazioni comincino ad arrivare. La stampa comincia a parlarne e a seguirne l’andamento fino al 12 settembre, ieri, giorno che segna la fine della loro raccolta.
12 mila sterline il ricavato (di 10 mila sterline era il goal per avviare il progetto) con il quale cominceranno a costruire i primi prototipi di coda.

“La coda permette di esprimere il nostro lato bizzarro e ingenuo. Dà voce alle nostre emozioni anche quando non parliamo e restiamo immobili con il corpo – afferma con serietà il team-  Riteniamo diventerà la moda del momento, perché ci farà divertire e sarà bellissima”.

Per capire come funziona la coda, personalizzabile in lunghezza, pelo e tipologia (più da cane, da gatto, da dinosauro o da drago), ecco un divertente video esplicativo.

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Dietro quello che potrebbe sembrare un progetto troppo eccentrico per poter andare avanti, c’è comunque un grande lavoro di ricerca tecnologica che i quattro ragazzi sono riusciti a sviluppare dopo anni di studi e solo grazie alle ultime innovazioni di stampa in 3D.
Lo scheletro della coda, infatti, è realizzato in plastica ABS e contiene elementi di giuntura studiati al millimetro affinché tutte le parti riescano a muoversi con naturalezza senza far rumore.
La coda si inserisce nella cintura ed è dotata di un contenitore per le pile. Colui che la indossa azionerà poi un piccolo controller per selezionare i movimenti da fargli compiere. 4 i pulsanti a disposizione: Slow Moves (tremolio, scodinzolio, rotazione lenta), Fast Moves (rotazione veloce, sbattimento a terra, scodinzolio veloce) Super Mix (un mix di tutti i movimenti random) e Dancing (premi il pulsante a ritmo di musica e balla!).

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Ora, arrivati a questo punto e soprattutto dopo aver visto il video, vi verrà da sorridere (anzi forse sarete proprio piegati dalle risate) e forse questa è l’unica reazione possibile vista l’assurdità della cosa. Fatto sta che 12 mila sterline sono state raccolte e che circa 80 persone hanno ordinato una coda da indossare.
Se le vedete in giro, sapete da dove provengono e, nel caso sentiste anche voi l’esigenza di dialogare tramite una coda, questo il link dove è possibile acquistarle.

fallen2“…E vissero per sempre felici e contenti?” Non è esattamente così secondo Dina Goldstein, fotografa di Vancouver che ha ripensato i finali ottimistici delle fiabe della Disney, proponendo una serie di principesse contemporanee tutt’altro che felici.

Si chiama Fallen Princesses il suo progetto e a fare la loro comparsa sono una Cenerentola ubriacona, una Raperonzolo malata di cancro, una Biancaneve schiava delle mura domestiche. Si tratta di foto provocatorie con le quali l’artista porta a riflettere sulla condizione della donna e, in generale, sull’imporsi di stereotipi illogici e convenzioni negative.

Questo e gli altri lavori di Dina Goldstein sono reperibili sul sito ufficiale dell’artista.

TITOLOjustdelete.me just-delete-me-service-3

COSEAvete mai sentito parlare di diritto all’oblio, tutela della privacy sul web et similia? Quante volte vi siete registrati su un sito e dopo alcuni giorni, mesi, anni avete provato il desiderio di cancellarvi e scomparire dalla faccia di quella piattaforma online? justdelete.me è proprio un sito che agevola la cancellazione da social network, applicazioni, siti che richiedono un’iscrizione e che spesso non chiarificano come potersi cancellare.

COMESi tratta di una pagina web in cui, in ordine alfabetico, sono indicati i principali servizi web che richiedono una registrazione. I rettangoli che ospitano i servizi sono colorati in base alla difficoltà che l’utente incontra nell’eliminare il proprio account: si va dal verde di Facebook, che indica una cancellazione rapida, all’arancio di Whatsapp, di difficoltà media, al rosso di Skype, dal quale è molto difficile eliminare i propri dati, fino al nero di Pinterest, che non permette una ripulitura definitiva dei propri dati dalla piattaforma. Cliccando sul sito “incriminato” si viene rimandati direttamente alla pagina con il “bottone” di cancellazione relativo. Molti servizi web, infatti, nascondono volontariamente l’opzione di cancellazione, oppure come skype, richiedono dopo diversi passaggi, di contattare il customer service. Per i siti più ostici, Just Delete Me offre una spiegazione della procedura, cliccando su “show info”.
Un motore di ricerca, poi, permette di arrivare rapidamente al sito di interesse.

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proÈ possibile contribuire allo sviluppo del sito suggerendo le procedure di cancellazione per nuovi siti, o richiedendo di inserirli, tramite l’invio di un’email ai creatori del sito.

CONTROjustdelete.me rappresenta un passo avanti nella procedura di eliminazione dei propri dati dall’oceano di informazioni, personali e non, che è il world wide web. Ma la strada verso la tutela della privacy è ancora lunga e contorta, anche perché, spesso, non basta un semplice bottone di cancellazione per scomparire del tutto da un sito.

SEGNI PARTICOLARIGli ideatori di justdelete.me, due giovani studenti britannici, sono rimasti stupiti dal successo del loro servizio che, nato il 20 di agosto, in solo una settimana ha totalizzato più di 30.000 visitatori e ha conquistato persino una recensione da parte della nota rivista tecnologica Wired.

CONSIGLIATO ATutti i naviganti della rete, con particolare attenzione a chi si annoia presto di qualcosa, a chi ha istinti da agente segreto, a chi ha qualche piccola mania di persecuzione.

INFO UTILIhttp://justdelete.me/#

bed&LearnChi l’avrebbe mai detto che nell’era del capitalismo più spietato e del consumismo più sfrenato il buon vecchio baratto sarebbe tornato di moda? E, invece, è successo davvero. Solo che ad essere barattati non sono più un chilo di zucchero in cambio di una dozzina di uova, una pelliccia di pecora in cambio di una lancia per cacciare. Adesso si baratta conoscenza, esperienza, cultura in cambio di vitto e alloggio in una città straniera, di viaggi e di turismo.

È questo il nuovo modello di attività turistica low cost e “social” proposto dalla nuova piattaforma Bed&Learn. Chi è desideroso di scoprire nuove cose e di imparare, o di trasmettere il proprio sapere, chi ama viaggiare o conoscere nuova gente è accontentato sotto tutti i punti di vista.
Iscrivendosi a Bed&Learn, infatti, è possibile pubblicare un annuncio sotto la voce “Voglio viaggiare insegnando” oppure “Voglio ospitare imparando”.

Tutti noi possediamo una dote particolare, coltiviamo un hobby o siamo ferrati in un campo specifico: con Bed&Learn è possibile mettere al servizio degli altri queste nostre abilità. Scegliendo l’opzione “Voglio viaggiare insegnando” si possono indicare le attitudini particolari che si posseggono, e specificare se le vogliamo esercitare “come insegnamento” o “come servizio”. Esempio: se ho una passione per la cucina e voglio trasmetterla a chi mi ospita, segnerò la casella “come insegnamento”. Voglio solo cucinare per gli altri, cliccherò sulla casella “come servizio”. Se sono molto disponibile e socievole, sbarrerò entrambe le caselle. E così via.
Le esperienze che si possono mettere a disposizione sono svariate e per tutti i gusti: si va dalla scrittura creativa al giardinaggio, dalla rilegatura di libri all’insegnamento della filosofia occidentale, dalla scultura alle tecniche di meditazione. Prima di annunciare le proprie doti, è necessario inserire il luogo che si vuole visitare e il periodo prescelto, sperando che le nostre perizie tecniche interessino a qualcuno.

Se si sceglie l’opzione “Voglio ospitare imparando” ci si dichiara disponibili a incontrare qualcuno che ci offra il servizio o l’insegnamento da noi richiesto. In cambio, chi ospita può mettere a disposizione vitto e alloggio, solo vitto, o un servizio da guida turistica per le via della città.

Questo innovativo portale, quindi, – opera di un gruppo di ingegneri di Chieti – ha lo scopo di mettere in stretta correlazione domanda e offerta, senza passare per terzi intermediari, permettendo, così, un notevole risparmio economico. Non a caso il sito è consigliato anche a Bed&Breakfast, associazioni culturali o ditte che lavorano molto con l’estero che, usufruendo della piattaforma, possono ricevere notevoli vantaggi, in maniera divertente e low cost.
Esempio: sono un B&B e decido di diventare un BeLearner. Potrei invitare a trascorrere, gratuitamente, un soggiorno nella mia struttura qualcuno che mi possa insegnare una lingua straniera, che mi aiuti con dei lavori di manutenzione o riparazione, che spieghi a me e ai miei avventori come cucinare un piatto tipico del suo paese, e via dicendo.

D’altra parte iscriversi e pubblicare un annuncio è facilissimo, impiega davvero poco tempo ed è gratuito. Presto verrà introdotto un sistema di feedback post esperienza, per rendere l’avventura da BeLearner più sicura e controllata. Per cominciare, bisogna tenere in mente che, come scrivono sul sito, “essere un BeLearner è un modo di vivere” e il primo insegnamento da assimilare, se si vuole partecipare, è quello di Mark Twain: “Tra vent’anni sarete più delusi per le cose che non avete fatto che per quelle che avete fatto. Quindi mollate le cime. Allontanatevi dal porto sicuro. Prendete con le vostre vele i venti. Esplorate. Sognate. Scoprite.”

TITOLOCambiamo tutto! La rivoluzione degli innovatoricambiamotutto

 

 

COSE“Innovazione” è un termine spesso inflazionato, usato molto di frequente all’interno del vocabolario odierno. Nel saggio Cambiamo tutto! “innovazione” è una parola usata con cautela, e collegata principalmente ad uno strumento che si offre a coloro che non vogliono restare con le mani in mano di fronte alla crisi: internet. Il World Wilde Web viene indicato come la causa della “terza rivoluzione industriale” che stiamo vivendo; è  il luogo in cui le cose accadono, il banco di prova per eccellenza per coloro che credono che nella vita si va avanti con il merito e con le intuizioni. Il lavoro non va più cercato, va creato, e internet – rete immensa di persone, non di computer – è lo strumento più democratico per dare vita a una società globale che si basi su “la trasparenza, la collaborazione, la partecipazione”. L’autore accredita questa tesi presentando esempi di start up, imprese o semplici individui che partiti da un’idea astratta, l’hanno perseguita e sviluppata, fino a farne un business di successo.

 

COMEIl saggio si snoda in una serie di capitoli che esplorano, con freschezza e curiosità, testimonianze concrete di come il web sia davvero la chiave per una rivoluzione positiva non solo per la vita quotidiana del singolo, ma anche per la società, la politica, la scienza, l’istruzione.
Sono storie modernissime, come quella di Vito Lomese, un giovane pugliese che ha creato il motore di ricerca globale per il lavoro, Jobrapido; o più datate, come quella del team di Perotto della Olivetti che nel 1964 presentò all’Esposizione Universale di New York, il primo “computer fai-da-te”, quando ancora l’affermazione “vedremo un computer su ogni scrivania prima di vedere due macchine in ogni garage”, sembrava una profezia strampalata. Si parla anche di idee attualissime che oggi ci sembrano assurde e ci fanno sorridere, ma che un giorno, chissà, forse avranno costituito il primo passo verso un’altra rivoluzione epocale. È il caso, ad esempio, delle stampanti 3D e della intuizione di un certo Enrico Dini di utilizzarne una versione gigante per costruire case: il rapid building. Staremo a vedere…

 

proNon è il solito manuale che ti consiglia come uscire dalla crisi con una brillante idea geniale che per magia ti renderà il nuovo Zio Paperone. È una collezione di storie reali, effettivamente accadute a gente normale, a italiani. È un saggio che serve all’Italia, un paese spesso troppo radicato in convenzioni e schemi desueti e timorosi, un paese che ha bisogno di aprirsi al nuovo con coraggio, freschezza e convinzione, preferibilmente col supporto delle istituzioni che ci governano.

 

CONTRO“Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare” e le idee geniali, purtroppo, non nascono tutti i giorni sul davanzale delle nostre finestre. Gli esempi di successi sono tanti, ma per riuscire bisogna perseverare molto e non arrendersi al comparire dei primi ostacoli

 

SEGNI PARTICOLARIRiccardo Luna, l’autore del libro, giornalista di Repubblica, direttore delle riviste Campus, Romanista e Wired, ha candidato Internet nel 2010 al premio Nobel per la Pace, e ha fondato Wikitalia, associazione che promuove la partecipazione e la trasparenza politica in Italia, attraverso la rete. Per Cambiamo tutto! ha creato un sito in cui interagire con i lettori, dando vita a un libro “in progress”, che permetta di partecipare al progetto di una “rivoluzione dell’innovazione”.

 

CONSIGLIATO AChi è in cerca di ispirazione per un’idea innovativa. Chi è pessimista e vuole smettere di esserlo. Chi è ottimista (con raziocinio) e vuole una conferma alle sue convinzioni.

 

INFO UTILICambiamo tutto! La rivoluzione degli innovatori di Riccardo Luna, Laterza 2013, 14 euro.

TITOLOPotluck
potluck

 

 

COSE“Un party in casa online”, è questo lo slogan di Potluck, un social network con lo scopo di “chiacchierare” con altri utenti sugli argomenti che si ritengono più cool. L’azione principale è, infatti, quella di condividere link con gli amici. I link postati possono riguardare orientamento politico, convinzioni sociali e morali, o semplicemente gusti musicali, hobby, pagine divertenti sulle quali si vuole avviare una conversazione. Potluck può essere definito, quindi, una via di mezzo tra un forum e un social network.

 

COMEIl prodotto, disponibile su pc e presto anche su iphone, ha una sezione “Notifiche” e una “Profilo” che funzionano come su Facebook, e permette tre azioni principali:
Post: per postare i link che si ritengono interessanti, col semplice strumento del  “copia e incolla”.
Friend Activity: per vedere i link postati, commentati o segnalati (hearted, corrispettivo del like di Facebook) dagli utenti amici.
Rooms: per vedere tutto quello che è stato detto su un link, le persone che lo hanno apprezzato, ed eventualmente unirsi alla conversazione.
È possibile anche vedere i profili degli amici in comune e aggiungerli.

 
proÈ un’idea interessante per sviluppare conversazioni e dibattiti su quello che si ritiene piacevole e appassionante, anche sui social, mezzi che spesso non danno spazio ad approfondimenti. Potrebbe essere uno strumento utile per capire in maniera più completa gli orientamenti di pensiero di amici, vecchi e nuovi.

 

CONTROÈ una piattaforma ancora poco conosciuta, disponibile solo in inglese e che, se non si doterà di un’identità forte e definita, rischierà di non riuscire ad allinearsi a Twitter e Facebook, con i quali ha molte cose in comune (forse troppe).

 

SEGNI PARTICOLARIGli ideatori di Potluck ci tengono a sottolineare che il loro social esce dall’ottica del cosiddetto “Success Theatre”, l’ansia da prestazione che nasce dalla ricerca di approvazione quando si posta sui social network. Su Potluck l’enfasi non è posta sull’individuo, ma sugli interessi comuni che condividono un gruppo di persone.

 
CONSIGLIATO AGiornalisti, politici, opinionisti, di professione o per vocazione. A tutti coloro che amano chiacchierare e “fare salotto” anche online. Ma anche a chi è un po’ timido e preferisce non essere giudicato.

 

 

INFO UTILIhttps://www.potluck.it/

 

 

 

Nella grande kermesse prevista per la tre giorni di Wired Next Fest, compaiono numerosi relatori importanti, provenienti da ambiti eterogenei e a prima vista distanti, ma tutti tenuti insieme dal filo conduttore del festival: l’innovazione.

Tra gli interventi più seguiti della prima mattinata di incontri spicca il nome di Alessandro Vespignani, professore di fisica, statistica e scienze cognitive alla Northeastern University e membro del Center for Complex Networks and Systems Research.

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Nel suo speech, dal retrogusto a prima vista futuristico, ha accompagnato a suon di evidenze il suo pubblico verso le nuove frontiere di un filone di ricerca piuttosto particolare: lo studio e la predizione dei fenomeni sociali. Per quanto i più scettici arricceranno il naso a sentir parlare di queste tematiche, l’argomentazione non ha mai dirottato dai binari di una rigida metodologia di studio.

Grazie a due grandi rivoluzioni degli ultimi anni, vale a dire la rivoluzione dei dati e quella dello studio dei sistemi complessi, è possibile oggi avere un approccio statistico che si differenzia da quello lineare.

I big data permettono infatti di creare “mondi sintetici” sui quali costruire modelli predittivi. Un esempio tra tutti, il lavoro svolto sull’analisi della pandemia di AH1N1: il team di cui Vespignani faceva parte è riuscito a prevedere con quattro mesi di anticipo, ovviamente secondo criteri probabilistici e tenendo conto di intervalli di confidenza del modello, le settimane in cui in determinate città si sarebbe verificato il picco pandemico. “Nessuna sfera di cristallo”, ci tiene a precisare.

Conoscendo le mappe della popolazione, il traffico di trasporto aereo, su rotaia, inserendo i dati sul pendolarismo urbano, è stato possibile prevedere gli spostamenti che i potenziali soggetti infetti potevano affrontare e di conseguenza, inserendo i modelli di diffusione della malattia è stato possibile ottenere un risultato che ha aiutato non poco la preparazione delle istituzioni sanitarie statunitensi al riguardo. Allora l’ipotesi è questa: se il comportamento sociale risponde  alle logiche tipiche delle epidemie, è possibile inferire dall’osservazione, dei modelli che aiutino a comprendere le evoluzioni dei fenomeni sociali. Dall’atomo sociale (individuo) passando per la molecola sociale (famiglia, etc) è dunque possibile intuire (prevedere) le evoluzioni che il corpo macrosociale potrebbe avere? Le risposte appaiono positive, soprattutto grazie alla grande mole di dati disponibili.

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Si pensi a twitter, al flusso di informazioni che ognuno di noi genera: sono informazioni visibili, che forniscono insight sul nostro modo di pensare, sulla nostra localizzazione, sui contatti che abbiamo con altri utenti della rete. Questo non vuol certo dire che chi ci osserva possa manipolare con esattezza i nostri comportamenti: se si riprende il paragone con le scienze naturali, allo stato attuale è possibile prevedere l’itinerario di un tornado, ma non per questo è possibile controllarlo. Nel corpo sociale c’è un’ulteriore livello di complessità, rendere nota una qualsiasi notizia riguardo al comportamento aggregato, eliciterebbe una reazione difficilmente prevedibile, tale da distorcere completamente i risultati.

Perché parafrasando il Professor Vespignani potremmo semplicemente dire che “Questa trasformazione epocale è un compasso grazie al quale possiamo tracciare una rotta, non determinare una direzione” .

Musica classica e pubblico italiano: un rapporto di amore e odio molto difficile, che vive di alti e bassi e che, senza dubbio, discrimina in misura maggiore i più giovani. Una constatazione che fa male per un Paese che ha dato i natali ad alcuni dei più grandi personaggi della storia della musica classica. Un problema che, a quanto pare, sembra difficile da risolvere.
Persino le politiche di prezzo lanciate da alcuni teatri storici, come il San Carlo di Napoli che propone forti sconti per gli “under 30”, sembrano non riuscire ad arginare il fenomeno continuo di disaffezione da parte delle nuove generazioni verso un tipo di musica che, per quanto possa non piacere, rappresenta la base fondamentale per tantissimi artisti e gruppi musicali di oggi.
Le ragioni di questa distanza sempre più grande e, sembra, incolmabile, sono tante, forse anche troppe per essere elencate nel breve spazio di un articolo. Senza dubbio, si tratta di un linguaggio artistico diverso da quello che i giovani di oggi sono abituati a sentire, tra pop, rock, dance e così via. E sicuramente gioca un ruolo pesante anche l’odore di “vecchiume” che emana la classica, ancora ovattata e rigida nei suoi costumi, quasi incapace di innovarsi e proporre qualcosa di nuovo e fresco.
Ma proprio in merito a quest’ultimo punto, va detto che qualche segnale, in realtà, si è intravisto: basti pensare alla scelta della Rai di aprire e chiudere il Festival di Sanremo (davanti a milioni di spettatori) con Verdi e Wagner, dei quali si festeggia il bicentenario della nascita, oppure ancora si può ricordare il grande successo di pubblico dello spettacolo “Red Bull Flying Bach”, dove ballerini di breakdance si sono esibiti sulle musiche di Bach.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=1ws1Fp-XAGs]

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=J1kHakyzLxE]

E qui bisogna fare una riflessione: il sold out delle due date italiane a Firenze e Torino dimostra che non è vero che gli italiani odiano la musica classica, anzi, la rispettano e sono ben felici di poterla conoscere da vicino qualora ne abbiano la possibilità. È una questione, ancora una volta, di linguaggi differenti: inutile far ascoltare ad un adolescente un’opera di Verdi, perché non riuscirà a capirla senza gli strumenti giusti e soprattutto non riuscirà ad apprezzarla perché troppo lontana dal suo modo di intendere la musica.
La soluzione al problema potrebbe allora essere questa mostrata dai Flying Steps (i ballerini impegnati nello spettacolo promosso dalla Red Bull): avvicinare i giovani alla classica con le tendenze musicali più moderne. Sembra una follia, ma in realtà è un processo in atto da quasi mezzo secolo…
Nel 1968, ad esempio, il compositore Walter Carlos (che cambiò sesso pochi anni dopo, diventando la più famosa Wendy Carlos) pubblicò il suo primo album, “Switched-On Bach”, destinato a entrare nella leggenda per diversi motivi. Si tratta, infatti, del primo album della storia composto interamente con un sintetizzatore. Erano gli anni in cui il leggendario Robert Moog aveva realizzato e messo sul mercato un nuovo strumento musicale, il synth appunto, capace di offrire al musicista possibilità di espressione infinite, grazie all’intervento diretto sul suono e sulle sue molteplici caratteristiche.

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Quell’album, che ha venduto mezzo milione di copie e si è aggiudicato tre premi Grammy, era non solo una prova del virtuosismo artistico di Carlos, ma anche una chiara dimostrazione della rivoluzione che quello strumento (in quel periodo molto ingombrante, oggi di meno) avrebbe portato nel mondo della musica.
Il titolo suggerisce tutto: Carlos non ha fatto altro che suonare musiche di Bach con un sintetizzatore, portando su un nuovo piano sonoro l’esperienza della musica classica.
Anche nella nostra epoca c’è chi ha scelto, con un coraggio che alla fine è stato premiato da critica e pubblico, di far parlare la classica con il linguaggio dell’elettronica. Un caso su tutti: il produttore inglese William Orbit.

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Un personaggio straordinario, con una carriera gloriosa alle spalle, costellata di premi, riconoscimenti e numerose collaborazioni (Madonna, giusto per fare un nome).
Nel corso dell’ultima decade, Orbit ha pubblicato due album intitolati “Pieces In A Modern Style”: anche in questo caso, il titolo tradisce l’ambizione del progetto discografico.

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I due lavori, infatti, raccolgono alcuni dei principali brani classici, tra cui “Adagio For Strings” di Barber, “Inverno” di Vivaldi, “Cavalleria Rusticana” di Mascagni, “Peer Gynt” di Grieg e “Nimrod” di Elgar (brano che è stato riadattato in chiave dance anche dall’artista inglese Chicane), reinterpretati in ottica moderna, con i linguaggi della musica elettronica più pura. Largo quindi ad arpeggi, batterie elettroniche, effetti sonori a volontà…

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I puristi della classica griderebbero allo scandalo, ma ascoltare queste tracce con una veste moderna è tutt’altro che deplorevole. Anzi, il risultato d’insieme è molto piacevole e, cosa più importante, ha il grande merito di avvicinare un pubblico giovane a un tipo di musica che, altrimenti, non ascolterebbe mai. Anche perché i ragazzi più intelligenti e curiosi, dopo aver ascoltato il pezzo in versione moderna, tentano di risalire alle origini e ascoltare il brano originale. Ed ecco, quindi, che si innesca un meccanismo automatico e a volte anche casuale di conoscenza della stessa musica classica. Perché non seguire con più tenacia questa strada?

 

La vita sui social vi rende nervosi, stressati, apatici, privi di entusiasmo nell’affrontare le sfide di ogni giorno? Dateci un taglio…suicidatevi!
Ovviamente, resta ben inteso…solo sul web.
Se ancora non ne siete a conoscenza, infatti, sappiate che esiste un sito internet, chiamato Suicide Machine che in meno di un’ora (52 minuti per l’esattezza) vi permette di cancellare ogni traccia di voi da social network come Facebook, Twitter, Linkedin, Google Plus e MySpace.

L’idea rivoluzionaria sta non solo nel fatto di poter fare tutto ciò in un tempo esiguo rispetto alle ore che dovreste trascorrere nel caso vogliate intraprendere questa operazione manualmente per singolo account (ci si impiegherebbero circa 10 ore), ma anche nella, oserei dire, genialità con cui tutto il pacchetto è presentato.
Una video-testimonianza di persone che si sono suicidate nella rete per risorgere nella vita reale con effetti migliorativi sulla loro qualità del tempo a disposizione viene presentata all’inizio delle operazioni di distruzione account, così come la possibilità di lasciare un testamento virtuale inserendo del testo nella casella “ultime parole”. Una pagina “memorial” rende omaggio a tutte le persone che hanno abbandonato la rete stimando il numero di amici e contatti che abbandonano, e donando ai posteri frasi esplicative come “see you in hell, dudes”.

[vimeo 8223187 w=400 h=225]

Insomma, il sito sembra avere parecchio successo considerando che in appena 3 anni di attività ha già fatto suicidare centinaia di migliaia di utenti che, attirati dal fascino irreversibile dell’operazione, hanno deciso di passare a miglior vita.
Non è infatti possibile ripristinare gli account cancellati, a meno che non si utilizzino altre mail, credenziali e informazioni personali.

La questione, ovviamente, non è piaciuta molto ai grandi capi di Palo Alto che, nel gennaio 2010 hanno recapitato una missiva agli sviluppatori della macchina suicida intimandoli di fermare la loro attività nel rispetto della privacy degli utenti di Facebook.
Risultato: sito oscurato per mesi che però riappare magicamente a metà 2010, supportato da un altro server (posizionato in olanda) e con un proxy differente.
“Ci limitiamo a fornire un servizio agli utenti – si era giustificato Gordan Savicic, uno dei fondatori – non cediamo né password, né dati personali, né tantomeno mettiamo a rischio la sicurezza del proprio account. Semplicemente, lo eliminiamo”.
Semplice no? Ed infatti alla fine i fondatori l’hanno spuntata e ad oggi si godono il successo del loro sito, giudicato tra i migliori servizi degli ultimi anni.

Inutile dirlo, la Suicide Machine è disponibile solo dal sito internet ufficiale in quanto non utilizza social network per promuoversi online!

In piena campagna elettorale, sono stati numerosi i riferimenti a fondi europei e a programmi per un futuro che appare “bipartisanamente” incerto. Superato il confine italico, tuttavia, i disegni sembrano essere molto più chiari di quanto appaiano nello stivale, e tematiche come Digital Agenda, Social Innovation e Smart Cities perdono il mitico alone nostrano per trasformarsi in progetti ed iniziative molto strutturate su tempi, risorse ed obiettivi. Europe 2020, la Strategia comunitaria del decennio, ha categorizzato i propri obiettivi di crescita secondo tre direttrici: crescita smart, sostenibile ed inclusiva.

Queste direttrici sono finalizzate al raggiungimento di obiettivi concreti da perseguire entro il 2020: un tasso di occupazione tra le fasce di popolazione tra i 20 ed i 64 anni pari al 75%, il 3% del Pil investito in Ricerca e Sviluppo, il 20/20/20 delle energie ambientali (riduzione delle emissioni di gas serra, utilizzo di energie rinnovabili, aumento delle efficienza energetica), diminuzione dell’abbandono scolastico e aumento dei laureati (almeno il 40% della popolazione tra i 30 e i 34 anni), e riduzione dell’esclusione sociale e della povertà.

Per raggiungere tali risultati l’Unione Europea ha sviluppato una serie di strumenti tra i quali primeggiano le “iniziative faro”. Per la Crescita Smart sono tre le iniziative previste: la Digital Agenda for Europe, l’Innovation Union, e l’iniziativa Youth on the move.

Nel dettaglio, l’Agenda Digitale è costituita da 101 azioni programmatiche raccolte in 7 pilastri principali, ognuno dei quali è volto a limitare delle carenze che in fase di progettazione della Strategia Europa 2020 sono state evidenziate. Lo scopo dell’Agenda Digitale è quello di ottenere vantaggi socioeconomici sostenibili grazie ad un mercato unico basato su elevati livelli di connessione e su applicazioni interoperabili. Per raggiungere tali obiettivi è stata strutturata una timeline pianificata di azioni da realizzare con controlli a breve, medio e lungo termine. La prossima scadenza sarà il 2015 e l’Italia non mostra rosee prospettive in merito al raggiungimento degli obiettivi fissati. (vedi immagine).

L’immagine mette in evidenza alcune tematiche degne di riflessione: la prima è la mole di lavoro ancora da svolgere, in particolar modo nel rinnovamento della Piccola e Media Impresa (di fatto solo il 3% circa delle PMI allo stato attuale ha un servizio di vendita online); l’altra è che, gli scopi che l’Agenda Digitale persegue includono ma non si esauriscono con i servizi di e-government che tanta attenzione hanno richiamato presso la nostra stampa. In merito a questa specifica tematica, inoltre, è da dire che l’Italia fa parte degli unici 6 Stati Europei ad aver raggiunto l’obiettivo di fornire la totalità dei servizi di base (100%) attraverso l’e-government a cittadini ed imprese, mentre è al penultimo posto per quanto riguarda il loro utilizzo (con solo il 22,2% della popolazione), così come è tra gli ultimi posti nella graduatoria che misura l’utilizzo della rete.

Altro discorso è quello che riguarda le Smart Cities e la Social Innovation, che spesso vengono citati congiuntamente ma non sempre in maniera esatta. Nate a seguito di uno studio del 2007 che misurava le città di media dimensione su sei variabili (Smart Economy, Smart People, Smart Governance, Smart Mobility, Smart Environment e Smart Living), le Smart Cities si sono imposte nell’immaginario collettivo come il nuovo paradigma della città del futuro, in cui tutti gli elementi prioritari della Strategia Europa 2020 convergono. Questo paradigma, che ha dato vita a disparate proposte e ad altrettante classifiche, non trova immediata attuazione nel programma comunitario omonimo (Smart Cities and Communities).

Le Smart Cities and Communities costituiscono, infatti, una delle 5 European Innovation Partnership (EIP) che rientrano, a loro volta, tra le iniziative chiave della Innovation Union. Questa EIP, che vede uniti i settori Technology, Innovation e ICT, prevede a fronte di uno stanziamento di fondi pari a 365 milioni di euro, l’istituzione di azioni volte a “catalizzare i progressi in aree in cui Energia (produzione, distribuzione ed utilizzo), Sistemi di Mobilità e Trasporto, e ICT sono intimamente collegate e offrire nuove opportunità interdisciplinari per migliorare i servizi e, contemporaneamente, ridurre il consumo di risorse, energia, gas serra (GHG) ed altre emissioni inquinanti”  . Tali iniziative prevedono ovviamente anche l’installazione di prototipi che, se positivi,  andranno a costituire delle risorse disponibili per l’intera comunità europea.  Inoltre, le azioni promosse dovranno avvalersi di attività di Social Innovation mirate alla diffusione dei progetti realizzati, e non, di azioni di Social Innovation tout court.

Queste ultime saranno invece implementate attraverso l’Urbact, il programma Europeo di scambio e apprendimento che promuove lo sviluppo urbano sostenibile. In seno a questo programma è nato il progetto “Citizen Innovation in Smart Cities” che ha come obiettivo principale quello di sviluppare un nuovo modello di offerta di servizi pubblici progettati in accordo con i cittadini in un processo di open innovation. Sia le Smart Cities che la Social Innovation stanno subendo la sorte di identificare contemporaneamente lo strumento e l’obiettivo. Per riuscire a massimizzare i potenziali benefici dell’uno e dell’altro, è forse utile tenerne chiari i confini.

TAFTER, in qualità di partner del bando Che Fare, vi fa conoscere da vicino i 6 finalisti del premio dedicato all’innovazione sociale. Fino a sabato 26 gennaio, uno per uno, i responsabili dei progetti finalisti ci mostrano i loro obiettivi, i loro sacrifici e le loro ambizioni nel caso risultassero tra i favoriti della Giuria. La votazione finale, si svolgerà il 27 gennaio.

Verrà data comunicazione ufficiale del vincitore martedì 29 gennaio. Siete pronti a scommettere sul vincitore?

Parliamo della Casa del Quartiere San Salvario con Roberto Arnaudo, direttore dell’Agenzia per lo sviluppo locale di San Salvario

 

Siete tra i 6 finalisti del premio Che Fare. Come è nato il vostro progetto?
La nostra intenzione è di completare, con il premio cheFare, la fase di start up della Casa del quartiere di San Salvario attraverso la realizzazione di attività che rappresenterebbero per noi il coronamento di un lavoro iniziato molti anni fa.
La nostra opinione è che – in un generale contesto di crisi della scuola, delle politiche culturali e del welfare – sia sempre più importante investire su progetti che favoriscano l’accesso e la diffusione della cultura, favorendo la crescita delle persone e l’integrazione sociale di contesti urbani sempre più frammentati.
Proprio in ragione della crisi delle politiche pubbliche, piuttosto che pensare alla realizzazione di progetti ex-novo che quasi sempre non riescono a sopravvivere all’esaurimento dei finanziamenti, pensiamo sia più utile consentire il completamento e lo sviluppo di strutture in grado di auto-generare da sé le risorse necessarie per dare continuità ad un lavoro che si articola, non come esperienza estemporanea, ma come vero e proprio servizio pubblico di prossimità.

Perché il vostro progetto è innovativo?
Perché integra radicamento sociale, capacità di ibridare funzioni differenti (culturali, formative, aggregative, etc.) e capacità auto-generativa di produrre un’offerta socio-culturale accessibile a fasce differenti di popolazione.
Perché la Casa del quartiere è una struttura di produzione socio-culturale che nasce dal basso attraverso la partecipazione di cittadini, enti culturali e associazioni e che rappresenta una risorsa complementare alla scuola e alle sempre più deboli politiche culturali ed educative.
Perché sperimentiamo un’inedita modalità gestionale, con la quale l’utilizzo di risorse economiche aggiuntive rappresenta a tutti gli effetti un investimento capace di creare nuove risorse da reinvestire nel tempo.
Perché la Casa del Quartiere rappresenta un modello fortemente trasferibile che risponde a bisogni socio-culturali fortemente presenti nelle città contemporanee e che, per questo, si sta già diffondendo a livello nazionale.

In che modo riuscirete a rendere economicamente sostenibile la vostra iniziativa?
La Casa del quartiere di San Salvario, nell’attuale fase di start up, ha già raggiunto la capacità di auto-generare risorse economiche pari al 70% dei suoi costi complessivi. Un risultato notevole, se si tiene conto che realizziamo attività culturali e aggregative a bassissimo costo per il pubblico (non si paga l’ingresso agli spettacoli e le attività formative/educative sono tutte molto accessibili) e attività sociali del tutto gratuite.  Dal punto di vista economico, il nostro obiettivo è di completare, con il premio cheFare, la nostra fase di start up gestionale, raggiungendo una percentuale di autofinanziamento pari all’80% dei costi.
Tutto ciò sarà possibile perché il modello gestionale della Casa del quartiere permette di generare risorse significative sia attraverso la compartecipazione ai costi di tutta la vastissima rete di enti no profit e cittadini che collabora con noi, sia attraverso la realizzazione di alcune attività economiche (in primo luogo la gestione di un bar-caffetteria interno alla struttura).
L’investimento previsto consiste nell’acquisto di beni strumentali, nel potenziamento dell’offerta culturale e della comunicazione pubblica e rappresenta quindi anche un’occasione di crescita della struttura e quindi dei ricavi complessivi da reinvestire su nuove attività.

Che obiettivi vi siete posti?
La finalità della nostra proposta è di costituire un modello di intervento innovativo di diffusione sociale della cultura, capace di dare una risposta alla crisi delle politiche pubbliche e delle agenzia formative tradizionali, produrre coesione sociale e autosostenersi economicamente.
Gli obiettivi sono quelli di fare crescere in qualità e quantità l’offerta culturale della Casa del quartiere, raggiungere con più efficacia target di popolazione svantaggiata, acquisire maggiori capacità di autofinanziamento e di autonomia di azione.

Dateci 3 motivi per i quali la giuria dovrebbe votare per voi.
Perchè la nostra proposta:
1. risponde ad un bisogno diffuso di cultura accessibile a tutti i cittadini, di aggregazione, di progettazione condivisa, di servizi socio culturali a cui l’Ente pubblico non riesce più a dare risposta.
2. è un buon investimento per il futuro: la Casa ha dimostrato di essere capace di attivare un meccanismo di sostenibilità virtuoso nel tempo, aumentando progressivamente il proprio grado di autonomia.
3. e perché la Casa del Quartiere è considerato un modello imitato in città e fuori ed è esportabile e replicabile anche in altri contesti.

La scheda di Casa del Quartiere di  San Salvario su Che Fare
Leggi le interviste agli altri progetti finalisti su TAFTER

Il contest Creative wanted, in corso proprio in questi giorni, oltre ad offrire ai creativi di tutto il mondo un’occasione d’oro, rappresenta una della più interessanti applicazioni del web 2.0 al mondo della promozione artistica.

Ad istituirlo è la global community di See.me, che riunisce nella sua piattaforma ben 603.908 creativi fra artisti, musicisti, fotografi, designer, stilisti, grafici e programmatori informatici, consentendo loro di caricare sul sito un proprio portfolio e condividerlo, attraverso il web, con un audience di milioni di persone.
Alle spalle della community vi è il See Creative Network, una rete di personalità newyorkesi che dal 2008 lavora nella ricerca e nella promozione di nuovi talenti nei principali settori creativi, offrendo loro sostegno economico e visibilità internazionale. Nel corso della sua attività, il network ha sempre fatto del web lo strumento privilegiato per offrire ai suoi utenti la possibilità di affermarsi sulla scena internazionale.

Quest’anno, il valore complessivo dei premi messi in palio raggiunge i 125.000 $ e la sfida è aperta a tutti i membri della piattaforma: l’iscrizione gratuita e la creazione del portfolio costituiscono gli unici requisiti per partecipare al contest e provare ad aggiudicarsi uno dei riconoscimenti.
Fra questi il più interessante è, senza dubbio, il Times Square Award. Attraverso una modalità di selezione innovativa, gli utenti del web hanno la possibilità di designare il gruppo di finalisti fra cui il team di esperti di See.me sceglierà il vincitore.

Per votare è sufficiente accedere al sito della community, visionare i profili dei candidati e cliccare il Support button dei favoriti, lasciando poi ad un algoritmo il compito di conteggiare le scelte, i like, le visite degli utenti e calcolare un punteggio per ogni candidato. Il fortunato vincitore otterrà come premio, oltre ad una somma in denaro del valore di 5.000 £ e un servizio speciale sul sito, la proiezione di un video, dedicato a sé stesso  e al proprio lavoro, sugli enormi schermi di Times Square a NY.
Un’occasione irripetibile quella messa in palio dal network newyorkese, il quale offre, inoltre, una premiazione a categoria per i settori di arte, fotografia, musica e moda e un premio speciale per i candidati che hanno fatto domanda entro la Early Entry Deadline.

Ad unire i tre riconoscimenti vi è la volontà di promuovere nuove personalità creative sulla scena internazionale, una missione che viene portata avanti grazie all’utilizzo di strumenti online ed offline, dai servizi speciali su siti e riviste, all’organizzazione di eventi ed esposizioni, all’erogazione di somme in denaro.
L’iniziativa costituisce una prova tangibile delle possibilità aperte dalle nuove tecnologie digitali e dal web 2.0 nella distribuzione e nella promozione artistica. Ad oggi, infatti, sono potenzialmente disponibili canali alternativi per immettersi sulla scena e sul mercato culturale e la democratizzazione del giudizio artistico non è più un miraggio. Creative wanted e il network newyorkese si muovono su quest’orizzonte, proponendo un contest internazionale aperto a tutti gli utenti, nel quale, i mediatori tradizionali del mercato artistico – culturale sono in gran parte sostituiti da una community globale di peer.

Che cosa si intende oggi per innovazione sociale? Ma, soprattutto, può oggi questa definizione così generica soddisfare un’ampia rete di esigenze che si muovono dal profit al no-profit?
Ne parlano Marco Belpoliti e Bertram Niessen sull’inserto Domenicale del Sole24Ore, citando nel concreto uno dei più innovativi bandi in ambito culturale: “Che Fare”, uno spazio che permette alle imprese sociali profit e non profit di realizzare il proprio progetto grazie ad un premio di 100 mila euro.

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Il Novecento è stato interamente fondato su grandi processi di standardizzazione. Non solo uniformità dei processi di produzione industriale, come nelle catene di montaggio della Ford, ma anche uniformità nell’accesso al welfare e all’istruzione, nella burocrazia statale, nei mezzi di comunicazione e nei modelli di consumo.

Quando Castells ha scritto La nascita della società in rete molti lettori hanno preferito soffermarsi su una lettura prevalentemente tecnica della questione, secondo la quale il grande cambiamento paradigmatico, sopraggiunto con la fine del secolo passato, è stato soprattutto un problema infrastrutturale. Ma la trasformazione reticolare della società ha degli sviluppi che vanno ben oltre Internet: si tratta, infatti, di un fenomeno di vastissima portata che, proprio grazie alle possibilità di reperimento, organizzazione e ri-aggregazione delle informazioni, sta trasformando il mondo in cui viviamo in un’ecologia nella quale si affolla un numero di attori sempre più eterogenei.

È allora questo il momento per iniziare a ripensare il mondo attorno a noi come uno spazio della molteplicità, come aveva intuito Italo Calvino nella sua “lezione americana”. Accanto ad attori e processi che rimangono saldamente sotto il controllo dei monopoli della produzione di beni e servizi, iniziano a cercare, e trovare, un loro posto dei fenomeni nuovi, che si muovono secondo criteri inediti e non-standardizzati.

La definizione corrente per indicare questo panorama complesso è “innovazione sociale”; un termine che non può che lasciare insoddisfatti, per la sua genericità e il suo prestarsi a equivoci di ogni sorta. Eppure, al momento, nonostante questo, appare il termine migliore che abbiamo per indicare una serie d’iniziative, sia profit che non profit, che cercano di rafforzare il tessuto civico delle nostre società, favorendo relazioni orizzontali e comunitarie, colmando il più delle volte i vuoti lasciati dalla pubblica amministrazione nella sanità, nell’educazione, nella cultura.

L’innovazione sociale ha tanti volti quanti sono i territori nei quali opera; se si esplora a giro d’orizzonte le nuove forme di sostenibilità economica, sociale e ambientale s’intravedono iniziative che riguardano il micro-credito, il crowdfunding (il finanziamento di servizi o prodotti in modo distribuito attraverso Internet), passando poi per le social enterprise, che operano direttamente sul mercato.

 

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Grande affluenza per la giornata di approfondimento su innovazione e futuro dell’editoria all’Editech 2012, testimonianze importanti e hashtag #editech? tra i top trend su Twitter: questi i primi risultati riscontrabili dell’evento milanese che si è aperto il 21 giugno con gli interventi di Michael Healy del Copyright Clearance Centre e di Angela Bole del BISG sullo scenario globale e le possibili ricadute italiane.
In breve, i comportamenti di lettura dei libri digitali cambiano e cresce, in modo significativo, la preferenza per i device multi-funzione, i tablet e gli smartphone, che passano  dal 13% dello scorso anno al 24% del maggio 2012. In particolare, in America un acquirente di libri digitali su quattro sceglie il tablet per leggere gli e-book.

Spazio quindi alle nuove forme di libro digitale e ai nuovi testi, cosiddetti fluidi, multi-device e multi–piattaforma (ne hanno parlato Ana Maria Allessi di HarperMedia, James Atlas per Amazon Publishing e Craig Mod di Pre/Post Book), a come si progettano i prodotti-libro al tempo dell’agile publishing (ne hanno parlato, tra gli altri, Kristen McLean di Bookigee, Luc Audrain per Hachette), a come ripensare il marketing per i prodotti digitali (ne ha parlato, tra gli altri, Hermes Piqué di Robotmedia).
Ma soprattutto si è parlato del ruolo dell’editore in tempo di self-publishing, che negli Stati Uniti è in crescita per il +58% nel 2011 sull’anno precedente e che in Italia vede già circa 40mila titoli cartacei self-printing attualmente in catalogo, pari al 5% dei titoli in commercio, ed altri 6500 in e-book.

“Nel business editoriale ci sono solo due attori ad avere il futuro garantito – ha affermato Jeff Bezos, il Ceo di Amazon – i lettori,  che con gli e-book risparmiano moltissimo, hanno accesso alla loro libreria virtuale in ogni momento e possono scegliere tra una varietà maggiore di titoli e generi, e gli autori, a cui paghiamo il 70% dei diritti. Tutti gli altri devono lavorare per assicurarsi un futuro. L’ecosistema che ruota intorno al libro dovrà adattarsi al nuovo e per farlo bisogna sforzarsi di creare valore aggiunto. Non si vince mai se si combatte contro il futuro: il futuro vince sempre”.

In Italia la lettura digitale è un fenomeno che nel 2011 ha coinvolto il 2,3% degli italiani (52,2 milioni di persone); una percentuale ancora irrisoria ma in crescita del +59,2%  rispetto al 2010. Dopo lo sbarco di Kindle in Italia è quindi ragionevole aspettarsi un veloce ampliamento del mercato degli ebook, come è accaduto nel Regno Unito e ancora prima negli Stati Uniti, dove Kindle è lo strumento di 70 e-reader su 100.
In quest’ottica l’editore deve pensare di sviluppare una professionalità che spazia dalla capacità di trattare e valorizzare i diritti sul digitale, lavorare redazionalmente con i linguaggi di markup, sviluppare progetti grafici concorrenziali, fare marketing attraverso i social media, creare servizi mirati per questo nuovo lettore, ragionare in prospettiva sulle diverse possibilità commerciali dei nuovi format.

Gli eBook non sono una minaccia. Al contrario, l’indagine presentata da Book Industry Study Group a Editech 2012, conferma che il 30% dei lettori intervistati (a febbraio 2012) ha speso di più in libri da quando ha iniziato a comprare e-book. Il 50% ha acquistato più titoli in qualsiasi format, anche in cartaceo, da quando si è avvicinato ai libri digitali.
Certo, è importante saper gestire l’apertura che il digitale ha portato, grazie alla quale ognuno può prendere parte al processo produttivo e ai tempi di distribuzione del libro, ma con flessibilità e capacità critica. Questo è uno scenario di enormi opportunità, oltre che di grandi sfide, sia per il lettore che per l’editore. I ruoli stanno cambiando e fino a poco tempo fa quello centrale dell’editore era assicurato dal processo di creazione tradizionale del libro, nel quale l’autore scriveva e proponeva la sua storia a un editore, che dopo averla valutata, la pubblicizzava e la distribuiva.
I lettori erano statici utenti finali, oggi invece ne sono sempre più partecipi.

L’editore, quindi, per cogliere al meglio le possibilità che questo nuovo scenario gli presenta, dovrà essere capace di essere dove il lettore e l’autore parlano, altrimenti nessuno lo cercherà: sui social media, nel network e nelle community, inventandosi un modo nuovo per creare connessioni tra i libri interessanti e il pubblico.  Lo stesso Riccardo Cavallero, Direttore generale ibri trade Gruppo Mondadori, evidenzia come sia necessario porre attenzione a ciò che il pubblico cerca, rinunciando al Drm e dando buoni prodotti a prezzi accessibili, un problema su cui oggi influisce anche un’Iva fuori mercato.

Per Editech, quindi, il futuro dell’editoria ha una direzione chiara e prevede interessanti spazi di crescita e opportunità, soprattutto in Italia, dove siamo ancora solo all’1% del mercato dei libri digitali, paragonato al panorama del mercato americano in cui gli e-book pesano per il 17%.

“Innovare”, un imperativo diventato categorico nei programmi politici di molti paesi del mondo nel corso degli ultimissimi anni, nel tentativo di non perdere la sfida della contemporaneità e dello sviluppo tecnologico… “Innovazione”, un termine spesso abusato dal pubblico di massa, dai media e  quelle stesse classi socio – politiche che dovrebbero proporre dei programmi seri di crescita sostenibile. L’errore più comune è dato dal considerare l’innovazione come sinonimo di nuovo e originale. Nulla di più sbagliato… La storia ci insegna, in realtà, che per innovare non è necessario spremersi le meningi per produrre un prodotto o un servizio che prima non c’era o non era soddisfatto, o almeno non solo…

Prendiamo come esempio la Apple: oggi può essere considerata l’azienda informatica più potente al mondo, una delle pochissime a non aver risentito della crisi e ad aver aumentato il suo valore economico sul mercato, grazie soprattutto alle vendite record dei suoi gioielli di punta, iPhone e iPad. Due prodotti che sono entrati nelle case di milioni di utenti in Italia e in tutto il mondo e che, di sicuro, hanno modificato il nostro modo di vivere e di relazionarci con le altre persone. Merito del loro carattere innovativo, della novità che hanno rappresentato sul mercato quando sono usciti e anche, bisogna ammetterlo, delle originali campagne di marketing che l’azienda di Cupertino ha sviluppato nel corso degli ultimi anni: in fin dei conti, la migliore pubblicità non è data dai Keynotes o dagli spot televisivi, ma piuttosto da quelle notizie (costruite ad arte?) a mò di gossip che anticipano l’uscita di questi prodotti, come lo sbadato dipendente che lascia distrattamente il prototipo del nuovo iPhone in un ristorante oppure l’azienda succursale che mostra in Rete le componenti interne (ovviamente non le più sensibili) del nuovo iPad.

Ma se andiamo ad analizzare fino in fondo questi due prodotti, eliminando dalla nostra mente l’amore/odio che proviamo verso di essi, scopriremmo che, in realtà, la Apple non ha inventato nulla di nuovo… Consideriamo l’iPhone: il suo punto di forza, fin dal primo modello del 2007, è costituito dalla tecnologia touch-screen, che consente di fare davvero ogni cosa con il tocco delle dita, grazie alle app disponibili sullo store ufficiale. Una rivoluzione? In parte si, in parte no... La tecnologia touch screen, infatti, è ben più vecchia di quella data e i primi esperimenti risalgono addirittura agli anni ‘60. Incredibile ma vero, già nel 1983 questa tecnologia fece la sua comparsa sul mercato grazie alla HP, che sviluppò un pc (il modello HP-150) dotato di questo particolare sistema. Mentre spetta alla IBM il primato di aver lanciato il primo smartphone touchscreen della storia, Simon, un simpatico “citofono” uscito nel 1992 e dotato di una tecnologia “tattile” estremamente semplice.

I tempi forse non erano maturi per l’utilizzo di massa di questa tecnologia, ma i casi citati sono solo alcuni relativi a questa innovazione. Che dire allora dell’iPad? Spesso si tende a identificarlo come il primo tablet apparso sul mercato, ma, a un’analisi più approfondita, si può scoprire che, alla data di uscita del primo modello, il 2010, il mercato aveva già accolto questo tipo di prodotto, con multinazionali forti del calibro di HP, IBM, Asus, Microsoft, Nokia in prima linea. La stessa Apple aveva prodotto un modello di nome Newton che, pur essendo un PDA (Personal Data Assistant), riprendeva in pieno i canoni della moderna tecnologia dei tablet touch screen.

Quale merito va dato allora all’azienda di Cupertino? Semplicemente quello di aver saputo ridare valore a tecnologie già presenti sul mercato e snobbate dal pubblico di massa. Bastava impiantarci un sistema operativo user-friendly e sviluppare la tecnologia verso il multi-touch (queste sono le vere innovazioni “furbe” della mela col morso) per renderli più attraenti al pubblico. Poco importa se poi quei prodotti vengono pagati a caro prezzo dall’utente finale, perché i consumatori tendono, per loro natura, a soddisfare un bisogno (la famosa scala di Marlow, tanto cara a sociologi ed economisti), qualunque esso sia. E se in quel prodotto viene rintracciata un’utilità, il gioco è fatto e sul mercato si ingrana la quinta! Naturalmente è un discorso che vale per qualsiasi tipo di prodotto e di servizio.

Il caso della Apple è solo uno dei tanti che si può prendere in considerazione nel campo della tecnologia ed è, forse, la dimostrazione più lampante di come la cultura dell’innovazione e, con sè, quella dello sviluppo, possa partire da qualcosa che già esiste, che magari è sotto gli occhi di tutti, ma che nessuno riesce a notare perché manca quel quid capace di renderlo attraente e utile al consumatore. La parolina magica è “valore”… E se pensiamo all’innovazione in campo culturale? C’è tutto un mondo, anzi un universo, che si può spalancare di fronte ai nostri occhi: dai musei virtuali alle nuove frontiere dell’editoria cartacea e virtuale, dagli ebook al print-on-demand, dalla musica alla portata di tutti alle nuove forme del teatro underground. Come è stato messo in evidenza in modo impeccabile dal professor Trimarchi, il binomio web – cultura è ancora tutto da esplorare e le opportunità di creare valore con l’offerta culturale sono ancora moltissime e tutte a disposizione di audaci e potenziali giovani imprenditori.

La sfida è appena iniziata e l’Italia sembra essersi risvegliata dal torpore, considerando il pullulare di concorsi per idee innovative e creative, soprattutto nelle regioni meridionali: basti solo pensare all’ultima iniziativa, quella di ItaliaCamp, che promuoverà gli Stati Generali del Mezzogiorno d’Europa il prossimo 30 giugno con la selezione di 16 idee d’impresa innovative per ogni regione del sud in grado di rilanciare i territori meridionali e di creare occupazione. Le iniziative pervenute hanno sfondato quota 700, a dimostrazione della grande vivacità dei meridionali (alla faccia dei terroni) e della consapevolezza di non potere più aspettare di fronte a questa crisi cruenta. In poche parole, se il lavoro non c’è e si ha difficoltà a trovarlo, è necessario inventarselo da sè, anche partendo da zero, con pochi fondi a disposizione.

Il treno per l’innovazione è pronto a partire. Ma bisogna fare presto, il futuro è già domani!