Culture21 srl – Gruppo Monti&Taft Ltd
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Vijay Varma è il giovane interprete di Monsoon Shootout, film d’azione indiano diretto da Amir Kumar e proiettato all’ultimo Festival di Cannes. Abbiamo incontrato Vijay nel suo albergo fiorentino in occasione del River to River – Florence Indian Film Festival, durante il quale ha presentato il film e ha parlato della sua esperienza sul grande schermo. Simpatico, disponibile e affascinante, ci ha subito conquistato.
Quest’anno Bollywood è stata special guest a Cannes, dove è stato proiettato Monsoon Shootout. Com’è stata la sua esperienza al Festival francese?
È stato il primo festival della mia vita. La ricorderò come una giornata speciale. Un protocollo prevede che gli ospiti abbiano il trattamento migliore. Quando sono arrivato, appena sceso dall’aereo, ho pensato di essere ad una festa della moda o su una passerella. Poi, in realtà, mi sono trovato in una sala piena di gente, a mezzanotte (ora di proiezione del film), che voleva vedere il film. Questo mi ha fatto riflettere e mi ha dato maggiore sicurezza in me stesso e mi sono sentito molto fortunato di aver iniziato la mia carriera con il festival di Cannes.
So che ha fatto teatro, come è approdato al cinema? Ha lasciato il teatro?
Sono nato e cresciuto a Hyderabad, nel sud dell’India, dove c’è una grande industria cinematografica, soprattutto in lingua locale, telugu, ed è stato lì che ho iniziato a fare teatro. Presso una compagnia, Sutradhar (tr. il narratore o voce fuori campo), ho frequentato alcuni workshop e ho iniziato a recitare. In realtà io volevo fare cinema, ma non per questo ho abbandonato il teatro: l’ultima opera a cui ho partecipato risale a un anno fa. Né ho intenzione di lasciare il teatro, perché mi fa crescere.
Come è cambiata la sua vita con il successo? Cosa ha aggiunto o tolto?
La prima cosa, e la più più importante, che il successo ha portato nella mia vita è stata la riappacificazione con mio padre, in quanto per fare l’attore sono scappato di casa. Il mio rapporto con mio padre era piuttosto freddo, non accettava la mia vocazione, non ha mai stimato il lavoro dell’attore e non amava molto il cinema. Avrebbe voluto farmi lavorare nell’azienda di famiglia. Quando però ha visto il mio film e come ha reagito il pubblico allora è cambiata la sua posizione: ha capito che mi stavo impegnando seriamente e quindi ci siamo riappacificati. L’aspetto negativo del successo è la perdita di orientamento, per compensare pratico reiki e meditazione.
Che rapporto ha avuto con Bedabrata Pain, il regista del pluripremiato Chittagong, in cui lei ha recitato? Come è stato lavorare con lui e con Amit Kumar?
I due registi hanno personalità molto diverse ma li accomuna una forte integrità nel loro modo di lavorare, credere nei valori fondamentali, il calore con cui accolgono chi lavora con loro. Bedo (diminutivo di Bedabrata Pain) è un perfezionista, ti fa ripetere una scena 30/40 volte, lasciandoti anche il tempo di sbagliare, finché non sono contenti sia lui che l’attore. Entrambi non ti dicono cosa fare esattamente sulla scena, ti pongono delle domande, sta a te trovare la risposta, lasciandoti esprimere. Bedo è una persona estroversa, ti fa capire subito cosa gli piace oppure no, Amit è sintetico e ti domandi: “ho fatto bene?”.
A quale personaggio si sente più vicino: Adi di Monsoon Shootout o Jhunku Roy (adulto) di Chittagong?
Entrambi i personaggi mi hanno aiutato a capire alcune mie caratteristiche. Jhunku Roy diventa, da testimone, un seguace, un leader della rivolta contro gli inglesi, un ruolo che mi ha appassionato. E’ stato un debutto ideale, un ruolo non da protagonista nel film ma che mi dava la responsabilità di concludere il percorso del personaggio principale. Il ruolo di Adi è incentrato sul come è possibile rimanere se stessi.
C’è qualcosa del cinema italiano che ha apprezzato o che è stata per lei una fonte di ispirazione?
Mi ha colpito il Nuovo cinema Paradiso, il Postino, Ladri di biciclette e Gomorra, Mi piace Monica Bellucci, è molto bella (sorrisi).
Preferisce la partecipazione degli spettatori indiani a quella compassata degli occidentali?
Preferisco l’attenzione al film del pubblico occidentale, non mi piace la gente che ride, scherza o mangia qualcosa al cinema.
Il prossimo film o progetto?
Un film di Bollywood, interpreto una rockstar, canto e ballo, è un ruolo molto divertente.
TAFTER è mediapartner di River to River – Florence Indian Film Festival
#svegliamuseo! No, non è il claim di una nuova “notte al museo” ma un progetto giovane e ambizioso che guarda lontano e lo fa da vicino. Come si fa?
Prendete l’energia di tre fanciulle con studi e passione per l’arte, un’idea buona e generosa e il giusto mix di tecnologia… E’ quanto basta per comunicare al mondo la propria “chiamata alle “arti””.
Sì, sveglia museo è una vera e propria call to action nata da un forte spirito digitale e da una ricerca condotta nell’ambito dei musei sull’utilizzo degli strumenti di comunicazione più in voga: i social network!
Si potrebbe pensare ad un progetto estemporaneo che sfrutta la nuova onda di canali come Twitter quotati in borsa o acclamati da un quotidiano passaparola e, invece no, l’idea alla base potrebbe promuovere collaborazioni e sinergie naturali nel Bel Paese dei campanilismi: nuovi stimoli per musei troppo spesso inchiodati al passato.
Sveglia museo, infatti, non è solo uno spazio web di informazione, ma un vero e proprio esperimento che nasce dalla volontà di riunire attorno ad un cinguettio le migliori esperienze museali social provenienti da tutto il mondo. Scomoderei volentieri la tecnica internazionale del buzz marketing per riassumere in due parole #svegliamuseo ma lascio a Francesca De Gottardo, ideatrice del progetto, il racconto di un’esperienza tutta italiana.
Come nasce #svegliamuseo? Quali le basi e quali le prospettive future?
Il progetto è nato da un’osservazione: quest’estate ho svolto per lavoro una mappatura delle strutture culturali del Nord Est e mi sono accorta di come in Italia molti musei, anche importanti, fossero assenti dai social media e comunicassero online con siti antiquati e poco aggiornati. C’era, quindi, un problema e c’erano alcuni articoli che lo evidenziavano, ma non c’era nessun progetto specifico che provasse a dare una soluzione. Ho coinvolto due amiche – Aurora, che ha lavorato al Getty Museum, e Federica, appassionata di social media – e mi hanno aiutata a dare vita a #svegliamuseo. Speriamo serva a creare maggior consapevolezza e a spingere professionisti e appassionati del settore a confrontarsi in un dialogo costruttivo sull’argomento.
Qual è l’obiettivo primario e come pensate di raggiungerlo?
#svegliamuseo vorrebbe aiutare i musei italiani a migliorare la comunicazione online, da un lato chiedendo suggerimenti e best practice ai colleghi stranieri, dall’altro intervistando i musei che sono “già svegli” in Italia. Entrambi gli approcci servono ad accendere i riflettori sul problema e a fornire possibili idee su come affrontarlo. Stiamo inviando email ai community manager stranieri e Aurora ha già ottenuto l’ok di 4 grandi realtà. La piacevole sorpresa è stata che alcuni piccoli musei italiani si stanno offrendo volontari per essere consigliati ad hoc dai professionisti d’oltreoceano, a dimostrazione che la volontà di crescere c’è e che stiamo andando nella direzione giusta!
Come definiresti #svegliamuseo? Un’open call, un contest o un possibile format per il futuro dei musei?
In cuore mio, spero davvero che #svegliamuseo diventi un format da replicare in futuro! Il progetto è nato quasi per caso, spinto da una forte passione personale. Abbiamo invece scoperto che questa passione è condivisa e che le persone hanno sempre a cuore i musei e vorrebbero parlare più direttamente con loro, ma non vorremmo limitarci a chiedere consigli all’estero. Stiamo cercando anche noi di capire in che direzione muoverci. Ad esempio, ci sono ragazzi laureati in materie umanistiche come me che vorrebbero fare questo mestiere e musei che vorrebbero avere qualcuno che si occupi dei loro social: perché non mettere in contatto questi due mondi, magari fornendo la formazione adeguata tramite workshop?
Consulta il sito di #svegliamuseo
Per la giornata contro la violenza nei confronti delle donne River to river ha previsto una programmazione speciale, tra cui la proiezione del film Lessons in Forgetting, tratto dal romanzo della famosa scrittrice Anita Nair. Si tratta di una pellicola sui problemi più scottanti dell’India: il feticidio femminile, la violenza sulle donne e la discriminazione di genere. Questa è l’intervista al regista del film Unni Vijayan.
La storia che viene raccontata sul grande schermo vede protagonista un padre single alla ricerca delle cause per cui la giovane figlia è stata coinvolta da un grave incidente. Ad aiutarlo a ricostruire quanto accaduto c’è una madre, Meera, abbandonata dal marito.
Lei ha lavorato, precedentemente, al montaggio di documentari e la vicenda del film è rappresentata come fosse la ricostruzione di una storia vera. Il dato riportato alla fine del film è purtroppo reale: dal 1994 in India 10 milioni di donne non sono nate perché abortite. La storia è inventata?
Il film non è basato su una storia vera, ma sono fatti che possono accadere. Nel film è descritta sia la realtà urbana che quella rurale e in entrambe esiste la società patriarcale. Il patriarcato è un fenomeno presente in molte società e in alcune è molto radicato. In India c’è una nuova legge contro la violenza sulle donne ma, finché non cambia la mentalità, questa non sarà mai sufficiente ad eliminare gli abusi contro il genere femminile. Esiste un rito in alcune zone dell’India legato all’eliminazione delle figlie femmine. Ora è proibito abortire quando si conosce il sesso del nascituro (n.d.r. per chi non vuole figlie femmine è sufficiente fare un’ecografia per conoscere in anticipo il sesso e abortire, per questo è stato proibito ai medici di non dare risposte in tal senso ma, come si vede anche nel film di Vijayan, alcuni medici si lasciano corrompere per soldi e informano i genitori). Nel caso di famiglie benestanti i genitori cercano di concepire figli maschi attraverso la selezione di cromosomi, ma la pratica è molto costosa e soltanto poche persone possono permetterselo. Il fatto di avere un figlio maschio è ancora l’ambizione di molte persone.
Che tipo di rapporto c’è stato con Anita Nair, autrice del romanzo e sceneggiatrice del film?
Il rapporto è stato ottimo, ha accettato di lavorare con noi nonostante non fossimo famosi, mentre lei era già una nota scrittrice. Il film è diverso dal libro, dove la storia è incentrata su Meera. Invece il film si è concentrato sul personaggio maschile del padre della ragazza. Quando abbiamo iniziato a lavorare siamo entrati molto in empatia con questo personaggio perché io ho una figlia di 18 anni e anche il produttore è padre di una figlia femmina. Ecco perché il film è orientato più sulla figura paterna e anche noi come padri di due figlie femmine siamo confusi, ci interroghiamo: ‘abbiamo fatto bene a educarle in questo modo?’. Molti mi hanno chiesto soluzioni, risposte, ma non ho certezze. Infatti il film pone domande, non offre risposte.
Si è trattato di un investimento coraggioso, è stato difficile trovare un produttore?
No, perché lui ci credeva, era convinto e voleva fare il film.
Il film è presentato questa sera a River to river in anteprima europea, come è stato accolto in India?
E’ uscito nelle sale in India ad aprile. La referente per le Nazioni Unite per l’India e il Buthan ha supportato molto il film, ha organizzato incontri e conferenze anche in contesti accademici.
Il film ha vinto il premio come miglior film indiano in lingua inglese al 60° National Film Awards, l’Oscar del cinema indiano, ma oltre l’inglese si sente anche un’altra lingua, rispecchiando in tal modo il multilinguismo del subcontinente. Perché questa scelta?
I giovani in India parlano lingue diverse, nelle città si parla inglese mentre nell’India rurale si parlano le lingue delle diverse regioni.
I comportamenti liberi o anticonformisti di Meera sono sempre puniti da sensi di colpa. Perché?
Perché le persone sono deboli e lei è una persona debole. Nel film non ci sono personaggi ideali, ma reali, con le loro debolezze. In fondo siamo un po’ tutti così. I personaggi non sono dei vincenti, sono dei perdenti.
Sono le stesse donne a non combattere, anche la testimone, ha visto tutto, ma non ha difeso Smriti, non è intervenuta. Come mai?
Lei infatti è impaurita, si nasconde. Non volevamo rappresentare, come di solito accade in altri film indiani, il personaggio che, alla fine, trova la soluzione, risolve o vince. Nel libro è il medico il mandante della violenza: se nel film avessimo identificato un colpevole allora il padre si sarebbe scagliato contro di lui per vendicare la figlia. Non volevamo rappresentare la vendetta.
I suoi progetti futuri, il prossimo film?
Sto lavorando ad un film insieme allo stesso produttore, siamo una squadra affiatata e lavoriamo bene insieme.
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TAFTER è mediapartner di River to River – Florence Indian Film Festival
Dopo il successo della prima edizione è tornato anche quest’anno il bando Che Fare volto a premiare con 100 mila euro progetti culturali innovativi e con forte impatto sociale. Per capire le novità introdotte abbiamo intervistato Marco Liberatore, responsabile comunicazione del bando, che ci ha spiegato non solo come partecipare, ma ci ha fornito anche qualche dritta per aggiudicarsi il premio.
È partita la nuova edizione del Bando Che Fare 2013. Quali sono le novità rispetto all’anno passato?
Il 28 ottobre abbiamo aperto la seconda edizione del nostro bando, quella dell’anno passato è stata la prima e ci è stata utile per lanciare a livello nazionale un dibattito su uno dei temi che riteniamo di grande interesse collettivo, quello del finanziamento alla cultura, che non vuol dire solamente “Come si pagano i musei” o “dove trovano i soldi gli enti lirici” ma anche, e più semplicemente, in un paese che investe sempre meno in ricerca e in istruzione, come posso rendere sostenibile un’iniziativa culturale se i referenti tradizionali di un tempo (enti locali e istituzioni) si sono eclissati?L’edizione dello scorso anno ci è quindi stata utile per sollevare un problema e per metterci nell’ottica di cercare delle possibili risposte. Data la situazione politica ed economica come muoversi? Che strade percorrere? Di fatto il bando è espressione di un’operazione culturale più ampia.
Preso atto dell’esperienza molto positiva abbiamo deciso di riprovarci. Quando rifai una cosa del genere per la seconda volta cerchi di farla meglio, naturalmente, e questo vuol dire soprattutto potenziare la struttura, lavorando sulla squadra e ottimizzando gli aspetti critici, che ci sono sempre, individuati alla prima esperienza. Gli aspetti più evidenti sono ovviamente legati al sito, nuovo, più funzionale e ricco di contenuti. Uno di questi è il Vademecum, una sorte di guida che abbiamo stilato grazie all’apporto di alcuni nostri partner (Fondazione Fitzcarraldo, Tafter, Fondazione <ahref, Avanzi). L’altra novità è legata all’allargamento della rete dei partner.
Squadra che vince non si cambia. Con chi collaborate quest’anno e quale il valore aggiunto del vostro network?
Alcuni partner sono gli stessi dell’anno scorso: Avanzi, Fondazione<ahref, Tafter, Domenica del Sole 24 ore. A questi si sono aggiunti altri: Fondazione Fitzcarraldo, Societing, Vita, Bollenti Spiriti della Regione Puglia, Enel e Lìberos, il progetto che ha vinto l’anno scorso.
L’allargamento della rete è fondamentale, rafforza cheFare e ci permette di collaborare con realtà di cui abbiamo grande stima. Soprattutto ci permette di unire competenze e capacità differenti.
Ho un progetto nel cassetto riguardante l’innovazione sociale e culturale. Come faccio a partecipare al bando? Ci sono dei requisiti da rispettare?
Il bando e aperto a organizzazione profit e non profit e per partecipare è sufficiente andare sul nostro sito (www.che-fare.com), scaricare il bando e compilare il form online. Noi però suggeriamo prima di tutto di leggere il vademecum e di scaricare il fac-simile del modulo da compilare, in modo da avere tutto il tempo per rispondere al meglio alle domande e alle richieste lì esposte. E solo in un secondo momento riempire il modulo online.
In generale sono soprattutto due gli elementi da tenere in considerazione, gli otto requisiti richiesti ai progetti e il business model. Il nostro bando si rivolge a progetti culturali di innovazione sociale e abbiamo cercato di identificare otto criteri utili a identificarli: collaborazione, progettazione innovativa, scalabilità e riproducibilità, sostenibilità, equità, impatto sociale, approccio open source, capacità di coinvolgimento delle comunità.
Cosa è successo a chi ha vinto lo scorso anno?
Ha potuto dare un impulso significativo al proprio progetto, rafforzando l’organizzazione e realizzando una buona parte degli obiettivi. La prima edizione è stata vinta da Lìberos, un comunità di lettori scrittori, editori, librai e associazioni della Sardegna, un social network del libro che sfrutta la filiera editoriale per creare valore sociale, una rete virtuale e fisica, radicata sul territorio che promuove e organizza incontri, reading ed eventi culturali in mille forme e modi diversi. Per dieci mesi, dopo la premiazione, abbiamo monitorato il progetto, confrontandoci con loro sulle possibilità di crescita della loro iniziativa. Tra pochi giorni, inoltre, si terrà il loro convegno annuale (durante il fine settimana del 30 novembre) e avremo modo di conoscere quali saranno le loro prossime mosse. È un progetto molto bello e valido e anche per questo li abbiamo voluti come partner per la seconda edizione del nostro bando.
È tempo di consigli. 3 consigli che daresti a chi decide di partecipare…
Studiare il vademecum, fare network, guardarsi intorno e imparare da chi ne sa di più.
Sul vademecum e sul collaborare e fare rete abbiamo già detto, sull’imparare da chi ne sa di più le cose stanno così: a scuola ci insegnano che copiare dal compagno di banco è sbagliato ma nella vita come nel mondo animale si apprende soprattutto per imitazione. È il primo passo per poi fare le cose a proprio modo. C’è sempre qualcuno più bravo di noi o che ha più esperienza e che magari ha già affrontato e superato problemi che noi incontriamo per la prima volta. Credere di sapere tutto non è l’atteggiamento giusto per fare innovazione e vedere come fanno gli altri può essere il modo migliore per creare qualcosa di veramente unico e originale.
TAFTER è mediapartner di Che Fare
È possibile far apprezzare ai bambini (e anche ai grandi) Mozart, Schubert, Rossini, la musica classica e il teatro? L’autore Ennio Speranza e il regista Stefano Cioffi hanno pensato ad uno spettacolo i cui protagonisti saranno proprio la musica, il flauto, la magia e i bambini. Te lo suono io il flauto si terrà l’1 dicembre all’Auditorium Parco della Musica di Roma. La storia di uno degli strumenti più dolci, affascinanti e democratici, il flauto, sarà accompagnata dalla musica dal vivo di duecento flautisti.
La voce narrante di questa suggestiva esibizione sarà quella di Valerio Aprea, giovane e brillante attore di teatro, cinema, televisione, che ha recitato in ruoli drammatici, profondi, leggeri e comici, con artisti e registi d’eccezione. Per l’occasione gli abbiamo chiesto cosa ne pensa della musica, del teatro, dei bambini e dei sogni.
Sei la voce di Te lo suono io il flauto, in un reading fantastico sulla storia di questo strumento. Come si mescoleranno, in questo caso, il tuo talento comico, la performance teatrale, la musica e la necessità di coinvolgere i bambini e catturare la loro attenzione?
In realtà non abbiamo ancora stabilito definitivamente ciò che accadrà sul palco nei minimi dettagli. So per il momento che presterò la voce ad un excursus sul flauto e la sua storia, e questo in alternanza con la musica ma anche mescolato ad essa, il tutto cercando anche un modo di interagire con i giovani spettatori, che immagino saranno affascinati dall’insieme di parole e suoni.
Sarà quindi uno spettacolo non tanto di comicità, ma di evocazione e, spero, forte suggestione.
Te lo suono io il flauto è uno spettacolo per tutti, ma con un occhio di riguardo particolare per i bambini. Hai lavorato altre volte a stretto contatto con i più piccoli? Com’è collaborare con loro e recitare per loro?
No, veramente non ho mai recitato davanti a loro. Al limite mi è capitato, in un paio di occasioni, di recitare insieme a loro e, come sempre in questi casi, di rimanere impressionato dalla naturale capacità di recitare molto meglio di me.
Il flauto è uno strumento particolare, democratico, che, per motivi scolastici, un po’ tutti abbiamo avuto l’opportunità di suonare. Partecipando a questo spettacolo ti sei appassionato anche tu allo strumento? E in generale che ruolo ha la musica nella tua vita?
A dire il vero mi sono appassionato allo strumento molto prima di questo spettacolo, più o meno all’età di 9 anni, quando, come tutti credo, lo studiavo a scuola nell’ora di musica (ma è esattamente, tra l’altro, quello che dirò nello spettacolo). Quanto alla musica in generale, bè, ha un ruolo direi congenito forse perché appartenendo ad una famiglia di musicisti classici ne ho conservato l’inclinazione, pur non avendo proseguito studi musicali, comunque approcciati da adolescente. Credo che se non avessi fatto l’attore, avrei fatto il musicista.
Pensi che alcune forme artistiche, considerate di solito elitarie, come la musica classica e il teatro in generale, dovrebbero essere comunicate in modi diversi ai pubblici giovani? Come potrebbero essere attratti nuovi spettatori e ascoltatori?
Temo di sì. Quando fui portato con la scuola al cinema o a teatro a vedere qualcosa, che per fortuna non ricordo più, diciamo ecco che non fu esattamente una folgorazione. E infatti non lo ricordo più. Mentre dovrebbe essere il contrario. È una questione enorme e di difficilissima risoluzione. Diciamo che si dovrebbe essere bravi a selezionare accuratamente ciò che si vuole proporre a dei giovanissimi, pensando davvero che possano essere gli unici colpi a disposizione per andare a segno nella loro sensibilità, nella loro immaginazione e capacità di ricezione. Sprecati quei colpi, si avrà probabilmente una forma di rigetto. Inutile dire che il discorso vale esattamente anche per il pubblico adulto.
In Te lo suono io il flauto si parla anche tanto di magia, di storie, di sogni. E tu da bambino eri un sognatore? Cosa pensavi che saresti diventato “da grande”? E cosa consigli ai sognatori di oggi che vorrebbero intraprendere una carriera come la tua?
Diciamo subito che non rientro nella categoria di quelli che sin da piccoli sognavano di fare l’attore ecc. Non ho mai saputo cosa volessi fare, e anche quando ho iniziato a studiare recitazione ci sono voluti anni e anni perché mi decidessi ad ammettere di fare l’attore. Quello che posso suggerire a questi ‘sognatori’ è di capire più in fretta possibile se hanno davvero le qualità per essere quello che vorrebbero essere e poi di quale tipo siano queste qualità. Perché si può poi essere attori o attrici in vari modi. Tutto sta ad individuare qual è quello più congeniale a se stessi.
TAFTER è mediapartner dell’evento. Scarica qui la riduzione riservata ai nostri lettori!
Durante la presentazione delle statistiche sull’attività di spettacolo relative ai primi sei mesi del 2013, il direttore generale della SIAE Gaetano Blandini ha colto l’occasione per parlare di diversi temi scottanti del settore, quali le conseguenze derivanti dalla legge di stabilità, il regolamento dell’Agcom contro la pirateria on line e, immancabile, la spinosa questione del Teatro Valle Occupato, ora trasformato in Fondazione. La SIAE come l’AGIS da sempre ritengono che nel palco capitolino permanga una “situazione di illegalità e di alterazione della concorrenza”, sebbene in molti, tra cui il nostro editorialista Gioacchino De Chirico, abbiano accolto la neonata Fondazione Teatro Valle Bene Comune come un importante traguardo.
Sul tema abbiamo voluto interpellare una voce super partes, rivolgendo alcune domande ad un esperto in materia di economia della cultura, qual è il Professore Michele Trimarchi. Questa la sua analisi sul “fenomeno Valle”.
E’ nata la Fondazione Teatro Valle Bene Comune. Cosa è cambiato rispetto a prima?
Dalla fine del modello ETI alla nascita della Fondazione sono cambiate molte cose: lo spiazzamento, l’occupazione, una partecipazione intensa di artisti e di pubblico, un’inedita attenzione intellettuale. La prospettiva, tuttavia, è che le cose tornino più o meno com’erano prima, con un teatro che produce poco e distribuisce molto nell’ambito di un circuito commerciale sostenuto da fondi pubblici, e con processi decisionali che in poco tempo sostituiranno la condivisione assembleare e lo spontaneismo con dei protocolli convenzionali.
Ci saranno novità per il pubblico? Quali?
Per il pubblico le cose cambiano soltanto se cambia la varietà e la qualità della programmazione teatrale, e anche se agli spettacoli si associano sistematicamente ulteriori e più ampie opzioni artistiche. Si tratta di cose che vanno progettate con acutezza e che dipendono dalla capacità di coniugare le strategie gestionali e gli orientamenti artistici.
Ci indichi un aspetto positivo ed uno negativo presenti nello statuto della neonata Fondazione.
Lo Statuto è portatore di un indirizzo politico ben chiaro, e contiene molteplici vincoli e divieti. La sua effettiva caratura si potrà comprendere solo nel corso del tempo, quando cioè le attività di ogni giorno dovranno fare i conti con la rotazione obbligatoria delle cariche sociali, con l’unanimità indispensabile nelle prime due riunioni per ogni decisione, con l’equalizzazione delle posizioni, con il ruolo quasi ancillare delle attività teatrali rispetto alla vocazione politica. E’ uno Statuto ricco di principi molti belli e di intenzioni positive e trasparenti. Lo erano anche le Tavole della Legge.
SIAE e AGIS contestano l’illegalità del Valle. Hanno ragione? Perché?
L’occupazione di uno spazio da parte di persone diverse dai suoi proprietari non può essere definita legale. In momenti complessi come quello che stiamo attraversando lo scontro tra formalismi rigidi e spontaneismi che si giustificano da sé non può sorprendere. Quando le regole del gioco finiscono per mummificare un sistema il desiderio e il bisogno di superarne le strettoie emergono naturaliter. Di norma le rivoluzioni non generano un mondo migliore, ma solo un mondo diverso; ad alcuni appare irrinunciabile, ad altri nefasto, anche questo accade ogni volta.
Ritiene che questo “modello” sia sostenibile a lungo termine? Come?
Un modello non può essere sostenibile o fallimentare, la realtà sì. Lasciamo che la Fondazione cominci a funzionare, e si vedrà quali intuizioni risulteranno praticabili, e quali illusorie. Regole forti possono non piacere, ma se ben concepite possono arginare i problemi generati dalle dinamiche umane; il modello adottato dalla Fondazione combina processi di partecipazione che richiedono grande senso di responsabilità e griglie piuttosto rigide che probabilmente dovranno essere gestite con qualche flessibilità. Solo nel corso degli anni si potrà comprendere la sostenibilità del progetto.
E’ un esperimento replicabile? Se tutti gli spazi occupati seguissero il medesimo iter, cosa accadrebbe?
L’occupazione degli spazi in tutto il mondo è il risultato di molteplici ed eterogenee motivazioni, di solito condivisibili e in alcuni casi addirittura drammatiche. Ma quasi mai è assistita o originata (come sarebbe ragionevole) da una strategia orientata a costruire un reticolo di scelte e azioni che superino il passato evitandone fragilità e sbagli. Che molta comprensibile rabbia serpeggi e si diffonda è nella logica delle cose, dopo due secoli abbondanti di un paradigma aggressivo e frettoloso, la pars destruens è ben chiara.
Lucio e Anna sono una coppia di Genova come tante altre, hanno un lavoro, una bambina di nome Gaia e una casa in città. Eppure un giorno si rendono conto che la loro vita, le loro giornate, hanno bisogno di qualcosa in più rispetto alle opportunità che ogni giorno offre la realtà urbana.
Decidono allora di intraprendere, tutti e tre, un progetto ambizioso e pionieristico: viaggiare alla scoperta di nuovi modi di vivere, di fare economia e di intendere il rapporto uomo-natura. Capire come si vive in una fattoria biologica, cosa comporta il cohousing, come effettivamente si svolgono le giornate in un villaggio ecosostenibile, provare in prima persona forme alternative di educazione e di apprendimento.
Anche il modo di spostarsi di Unlearning – così si chiama il loro progetto – avverrà in maniera originale e sostenibile, sfruttando le più avanguardistiche forme di baratto: WorkAway, Banca del tempo, Couch Surfing, scambi di ospitalità in cambio di lavori in fattorie biologiche, in strutture culturali indipendenti, baratto di conversazione per imparare le lingue, e così via. Da questa particolare avventura verrà fuori un documentario, un prodotto culturale che sarà il risultato di un’ulteriore forma di scambio e condivisione “dal basso”, basandosi sui finanziamenti del crowdsourcing.
Ma sentiamo dalla voce dei suoi stessi protagonisti i dettagli di questa esperienza, unica nel suo genere.
Come spiegate nel trailer di presentazione di “Unlearning”, l’idea del vostro progetto è nata da un pollo a quattro zampe, che è diventato il simbolo della vostra iniziativa. Potete raccontarci l’aneddoto che ha dato inizio a tutto e rivelarci i motivi che vi hanno spinto a intraprendere un’avventura del genere?
Viaggiare e curiosare ha sempre fatto parte del nostro DNA di coppia. L’arrivo di una figlia ha cambiato molti aspetti pratici della nostra quotidianità. Ma quando Gaia ha disegnato un pollo a quattro zampe si è riaccesa la scintilla e ci siamo detti “Perché non coinvolgere anche la bimba?” Meraviglioso… la nostra crescita individuale si è trasformata esponenzialmente a livello familiare. Il pollo a quattro zampe è diventato il simbolo della nostra epoca, dove i bambini di città conoscono gli animali al supermercato, guardano gli speciali in tv e, se va bene, vanno allo zoo.
Tutto il vostro viaggio si baserà sull’idea del baratto. Si tratterà di un’esperienza all’insegna dell’improvvisazione e della scoperta o potete già dare delle anticipazioni sull’itinerario, i tempi, le persone che incontrerete?
Viaggeremo con una bimba piccola, non possiamo pensare di fare come Indiana Jones!
Sarà un viaggio pianificato perché non è l’aspetto avventuroso che ci interessa.
Anticipazioni: vi possiamo dire che questi ultimi giorni sono fantastici perché abbiamo ricevuto numerosi inviti da parte di persone che hanno trovato interessante il progetto, e li ringraziamo. È molto probabile che ci vedrete alle prese con un progetto educativo indipendente, una famiglia di “artisti del riciclo” e… un circo! Abbiamo sei mesi di viaggio e qualche mese per decidere le ulteriori tappe.
Quanto e come pensate che “Unlearning” possa essere importante per vostra figlia? E in generale, pensate che il vostro potrebbe o dovrebbe essere un esempio per altre famiglie, per altri bambini?
Noi non pensiamo di essere un esempio, ciascuna persona ha il diritto di vivere come preferisce, ma le famiglie che vogliono sperimentare differenti modi di vivere e di viaggiare troveranno in Unlearning un manuale pratico per affrontare con serenità questo tipo di esperienza.
Noi abitiamo a Genova e, come molte altre famiglie, siamo contenti della nostra vita e Gaia ha i suoi punti di riferimento: amici, giochi, casa. Certo, il confronto con altri stili di vita, non sarà indolore perché metterà a nudo aspetti di forza e di debolezza delle nostre convinzioni, della nostra routine. Come una sorta di depurazione, alla fine resteranno solo le cose più preziose.
I finanziamenti per compiere il vostro singolare viaggio si basano interamente sul crowdfunding. Perché un individuo, un’altra famiglia come la vostra, o una collettività dovrebbero finanziarvi?
Bella domanda! E ti ringrazio perché è molto importante spiegare questo passaggio, tanto delicato quanto importante.
Unlearning è un progetto di documentario indipendente. Ti piace il trailer? Puoi acquistare il film in prevendita qui: www.unlearning.it. È come comprare un biglietto del cinema ma vedere il film dopo sei mesi. Capiamo che può sembrare strano, ma il ricavato della prevendita ci permetterà di realizzare Unlearning al meglio! Non chiediamo soldi per organizzarci una vacanza, ma per creare un prodotto culturale a stretto contatto con i suoi fruitori. Il costo del download è di dieci euro ma se proprio vi siamo simpatici, potete richiederci i fantastici gadget creati appositamente per Unlearning: t-shirt per uomo, donna e bambino, fondini per il desktop, stampe e segnalibri magici.
In Francia, e in altri paesi europei il finanziamento da basso (crowdfounding) è un metodo molto utilizzato per progetti di tipo sociale, scientifico, musicale, letterario.
Ci è sembrata una buona idea adottare questa nuova formula di finanziamento anche da noi, in Italia. La nostra scelta è pioneristica ma, se compresa dalla collettività, potrebbe rivelarsi molto utile anche per altri progetti.
Intraprendere un percorso del genere non è un avvenimento di tutti i giorni. Cosa pensano le vostre famiglie e i vostri amici di “Unlearning”? C’è un territorio o una realtà che vi sostiene particolarmente?
Familiari e amici sono stati in nostri primi fans! Ma non solo, sono state le prime persone con le quali confrontarci e mettere a fuoco il progetto. Insomma, sono il nostro “territorio amico”.
Probabilmente la vostra vita sarà cambiata dopo aver portato a termine un’avventura come questa. Cosa vi aspettate per il futuro, dopo “Unlearning”? Il vostro proposito di sperimentare nuove forme di vita e di economia avrà un seguito?
In realtà i cambiamenti sono iniziati già da ora! “Imparare, disimparare per imparare nuovamente”. E quando rientreremo a casa dopo sei mesi, chissà! Magari saremo felici di ritornare alla nostra quotidianità, oppure… Questo sarà il finale del nostro documentario!
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Il BTO – Buy Tourism Online è l’evento dedicato al turismo innovativo che si terrà a Firenze il prossimo 3 e 4 dicembre alla Fortezza da Basso. Vero appuntamento da non perdere per i professionisti del settore, propone quest’anno tante interessanti novità. Non mancherà Alberto Peruzzini, dirigente del settore turismo di Toscana Promozione, cui abbiamo avuto modo di rivolgere qualche domanda.
Dottor Peruzzini, sta per aprirsi una nuova edizione del BTO a Firenze in cui si parlerà nuovamente di turismo e delle sue prospettive per il futuro. Cosa è cambiato, ad esempio in Toscana rispetto all’anno scorso in termini turistici?
Continua l’incremento degli stranieri sia dai mercati storici della Toscana che da nuovi mercati. Aumentano i russi che scoprono nuove zone della Toscana, tornano i giapponesi e aumentano i cinesi con un turismo legato alle città d’arte. Il nord Europa conferma l’attenzione per la campagna toscana e cerca nuove idee e motivi di viaggio in Toscana. Muovono i primi passi nuovi paesi emergenti del turismo come India e Corea del sud.
I paesi BRIC si sono avvicinati alla nostra penisola, e soprattutto in Toscana. Come spiega questo fenomeno?
La notorietà delle città d’arte come Firenze, Roma, Venezia è un fenomeno planetario che pone l’Italia tra le mete imperdibili per chi vuole viaggiare in Europa. L’Italian style offre quella marcia in più al nostro Paese per essere méta e motivazione ulteriore di viaggio, soprattutto per chi oltre o in alternativa all’arte sceglie in base ad altri desiderata quali l’enogastronomia, lo shopping, il paesaggio o il fatto di visitare luoghi resi cool grazie a ambientazioni di film, la frequentazione di vip, la presenza di brand famosi.
La Toscana vive un posizionamento particolarmente fortunato grazie a molti di questi fattori tra cui ovviamente la moda e i molti marchi di prodotto top level che esprimono nel loro nome un richiamo al territorio, produzioni cinematografiche e letterarie di grande successo (da Under the Tuscan sun alla saga di Twilight fino a Inferno di Dan Brown), vip che si rifugiano in Toscana.
E una attività promozionale nei Paesi BRIC attenta, in passato, a valorizzare e diffondere questi contenuti, prima ancora che vendere i pacchetti, ha permesso oggi di avere un posizionamento di appeal e diversificato che facilita notevolmente la richiesta da parte della domanda.
Come giudica le attività di promozione turistica delle regioni italiane? Quali sono le principali criticità in questo ambito a suo avviso e come possiamo migliorare?
La strada è quella di targettizzare; sia la domanda che l’offerta. Oggi le motivazioni di viaggio sono molto differenti, soprattutto se si pensa ai Paesi emergenti e alle nuove generazioni. Non solo contenuti però ma anche modalità di informare e di presentare l’offerta. Capire gli interessi del target e saper interpretare le motivazioni di viaggio permetterebbe di dare la giusta chiave di lettura del proprio territorio e reinterpretare la propria offerta. Ciò darà la possibilità di promuovere il giusto pacchetto ad un target mirato.
Pensiamo positivo: quali sono invece le potenzialità esclusive del nostro territorio?
Prima di tutto abbiamo un vantaggio di posizione, ovvero un brand molto forte. Secondo punto un territorio indissolubilmente legato ad alcuni valori di eccellenza (style, cultura, moda, paesaggio e natura, enogastronomia, mare..) tanto ricco da poter soddisfare gran parte delle motivazioni di viaggio. Terzo una offerta così differenziata su un territorio piuttosto raccolto e raggiungibile. Come detto prima il lavoro più importante e declinare tutto questo, uscendo da macro prodotti per proporre un’offerta dalla forte personalità.
Al BTO si parlerà di promozione turistica. Quali sono le nuove frontiere che si aprono grazie al turismo online (sharing economy, community online ecc…)
Si rafforza l’uso del web sul mercato italiano mentre è uno strumento ormai imprescindibile per gli stranieri sia per la raccolta di informazioni turistiche che per la ricerca di eventi, ricettività, etc…
Per sviluppare al meglio il turismo online anche in Italia è necessario chiedere al mondo delle imprese uno sforzo ulteriore nel creare innovazione nelle formule, nelle idee, nelle modalità e nelle proposte di viaggio.
Applausi in sala dopo la proiezione in anteprima stampa del primo film italiano in concorso: “I corpi estranei” dello sceneggiatore e regista milanese Mirko Locatelli con Filippo Timi e Jaouher Brahim e la colonna sonora dei Baustelle. Il regista arriva al Festival di Roma per presentare dopo, il primo giorno d’inverno, il suo secondo lungometraggio.
La storia è quella di Antonio (Filippo Timi), padre di un bambino con un tumore al cervello che dall’Umbria arriva a Milano, da solo, per cercare di guarire il piccolo. In ospedale la sua vita si intreccia con quella Jaber, quindici anni, scappato dal Nord Africa e dagli scontri della Primavera Araba. Jaber assiste il suo amico Youssef anche lui gravemente malato.
Due anime sole che si intrecciano, per puro caso, due corpi estranei che entrano in contatto per condividere una situazione straziante. Dopo l’iniziale diffidenza e fastidio, Antonio, un uomo umbro, semplice e pieno di preconcetti nei confronti della cultura araba, fa amicizia con Jaber e instaura un dialogo. I due si muovono in un mondo fatto di corsie di ospedali e di bancali di mercati notturni dove Pietro lavora per guadagnare due soldi e di immigrati solidali, in attesa di quel cambiamento che riporti equilibrio nelle loro esistenze. Questa conoscenza darà ad Antonio la forza e la volontà di assistere il figlio malato e di accettare che il dolore e la preghiera sono uguali in tutti i posti del mondo.
“Siamo partiti da un’immagine” – racconta Locatelli in conferenza stampa -. “Mia moglie (Giuditta Tarantelli che è anche la sceneggiatrice e co-produttrice del film) mi ha sottoposto un uomo solo con in braccio un bambino in un reparto di oncologia pediatrica. Intorno a questa immagine abbiamo creato una storia, puntando sulla fragilità dell’adulto che è anche più forte di quella del bambino. Insomma, volevamo parlare della solitudine del papà in un film non sul dolore ma appunto sulla fragilità. Così la malattia diventa solo un pretesto”.
Il regista pone l’attenzione anche sulla dignità dei protagonisti e non solo: “Antonio è un eroe silenzioso, lontano dalla famiglia per proteggere suo figlio; Jaber, poco più che un ragazzino, si muove quasi sempre nel buio, come fosse a guardia del corpo, ancora vivo, del suo amico Youssef; e quella di tutti gli uomini e le donne che lottano per la sopravvivenza, propria o dei propri cari, nella corsia dell’ospedale come tra i bancali di un mercato notturno”.
Riguardo il suo personaggio Filippo Timi dichiara: “Antonio è uno gretto, un umbro incapace di aprirsi al mondo, ma che, grazie a questa trasferta a Milano, deve confrontarsi con delle cose che lui non conosceva” e racconta anche una sua personale vicenda: “da bambino ho avuto anche io un’esperienza d’ospedale – spiega Filippo Timi -. A sei anni mi portarono infatti a Pisa perché zoppicavo e mi regalarono la prima scatolina di Lego. Poi ho scoperto, a trenta anni di distanza, che pensavano avessi un tumore alle ossa. Comunque – aggiunge – questo è il film più documentaristico che ho fatto e, devo dire, anche per questo non mi sono mai preoccupato di recitare. Ho cercato di essere solo naturale, me stesso”.
Un film dove il regista riesce a raccontare il contatto tra diversità e culture lontane, inizialmente, carico di odio e razzismo, poi evolve in accettazione e compassione.
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Il nuovo fenomeno nell’editoria si chiama “graphic novel”: si tratta di romanzi narrati attraverso immagini a fumetti e realizzati grazie al talento di scrittori e illustratori. A parlarci di questa nuova dimensione del racconto è il bravissimo Riccardo Falcinelli, che di grafica e illustrazione ha fatto la sua professione: dal 2000 cura infatti l’immagine grafica di Minimumfax, di Laterza, Carocci e della collana Stile Libero Einaudi, e dal 2002 è professore universitario di grafica e comunicazione visiva.
Quale esperto nel campo, ci chiarisci una volta per tutte cosa differenzia un graphic novel da un fumetto o da un romanzo illustrato?
In verità non credo di essere un esperto, ho scritto e disegnato alcuni graphic novel come pezzi di un progetto più ampio di ragionamenti sulla grafica e sulla comunicazione visiva, ovvero i miei libri sono soprattutto degli esperimenti per vedere cosa è possibile fare di una narrazione visiva. Le nomenclature sono – come è noto – convenzionali: fumetto sarebbe quello tradizionale e seriale (strisce o albi con personaggi ricorrenti), graphic novel invece l’opera unica in forma di libro più simile come impianto concettuale alla narrativa tout court, romanzo illustrato poi può essere qualsiasi unione di testi e immagini ma che abbia un “respiro” romanzesco, che si distenda per più pagine con un impianto narrativo largo e non necessariamente concentrato sulla trama. Ma appunto sono convenzioni.
Una ricerca dell’AIE attesta che questo genere copre il 10,8% della produzione di fiction. Come spieghi tale grande successo? Lo ritieni un “fuoco di paglia” o un risultato destinato a perdurare e magari crescere nel tempo?
Difficile fare previsioni. Francamente mi pare un numero enorme, in libreria non sembra così massiccia la loro presenza. Però di sicuro i lettori vanno aumentando. Le generazioni più giovani sono più disposte al visivo ma non vuol dire che lo capiscano davvero, anzi alle volte lo danno per scontato, non sono consapevoli dei meccanismi in atto. Quello di cui mi accorgo sempre più spesso è come un grande numero di persone subisca le immagini anziché capirle, ma di questo è anche responsabile la scuola che non allena abbastanza al pensiero critico: si insegna la storia dell’arte (quando lo si fa), si parla di film e di design come elenco di cose belle senza concentrarsi sul ruolo che questi artefatti giocano nella nostra vita quotidiana. Un ruolo che spesso è anche politico, indirizzando gusti e comportamenti.
Come prende forma un graphic novel nel tuo studio? Da dove si comincia e dell’aiuto di chi ti avvali?
I libri che ho scritto fino a oggi li ho fatti tutti con Marta Poggi. Mesi e mesi di infinite discussione su come raccontare. Poi a lei il compito delle parole, a me quello delle figure. Come dicevo sono degli esperimenti, nel senso che quello che ci è sempre interessato, oltre la trama, era capire come mettere il relazione testi e immagini in maniera inconsueta. E infatti le nostre storie sono fondamentalmente metalinguistiche: tutte le trame parlano di mass media e di comunicazione globale. Grafogrifo è un rinascimento che funziona come Matrix o come un pamphlet di McLuhan, Cardiaferrania racconta del rapporto tra la nostra identità e quella degli oggetti industriali, cos’è originale e cosa è una copia? L’allegra fattoria è una parodia dell’informazione giornalistica, dei fatti che si pretendono “veri”. Sono tutte storie che parlano della complessità di vivere nella società delle immagini. E poi volevamo fare libri “difficili”, oggi tutto è entertainment, volevamo scrivere libri che chiedono una partecipazione forte del lettori, anche al punto da metterli in difficoltà, di spaesarli, di fargli chiedere dove si stesse andando a parare.
“L’Arte delle Felicità” di Alessandro Rak o “La vita di Adele” di Abdellatif Kechiche sono stati graphic novel riprodotti sul grande schermo. Se dovessi trasporre cinematograficamente una delle tue creazioni, quale sceglieresti? Perché?
La risposta è facile: nessuno. Ho sempre voluto scrivere graphic novel che non fosse possibile trasformare in film e per una ragione precisa: trattandosi di lavori concentrati sul codice narrativo volevo trovare un modo di raccontare che non fosse trasferibile facilmente in un altro linguaggio. Quello che trasponi in un film è la trama e niente altro, forse un po’ dell’atmosfera. Ma se la trama è tutt’uno con le strutture visive allora questo diventa difficile. In verità la maggior parte dei graphic novel mi annoia perché sono testi scritti con aggiunte le immagini, i due pezzi sono disgiunti e possono appunto vivere l’uno senza l’altro.
Da insegnante di Psicologia della percezione, come leggi questa preponderanza dell’immagine nella comunicazione odierna? Oltre al graphic novel, si è assistito infatti all’exploit delle info grafiche e di social dedicati a foto e immagini. Come mai al giorno d’oggi diamo la precedenza al senso della vista?
Non credo che diamo precedenza alla vista, gli diamo il giusto spazio. La nostra ci sembra una società molto visiva solo perché facciamo il confronto con la cultura ottocentesca che ci ha preceduti e che era maggiormente incentrata sul verbale. Però proprio perché tante immagini ci circondano bisogna stare in guardia, come dicevo non c’è nulla di più pericoloso di quello che diamo per scontato, che ci pare ovvio e innocente. Anzi proprio perché viviamo nella “civiltà delle immagini” dovrebbe essere responsabilità un po’ di tutti saperne di più. Se uno vive in una foresta con animali feroci si munisce di armi adeguate, sarebbe sciocco il contrario. Eppure in tanti vivono circondati dalla comunicazione visiva in ogni momento della loro vita senza nessun tipo di strumento di difesa o di comprensione.
Per chi ancora non conoscesse questo genere letterario, quali titoli consiglieresti?
Asterios Polyp di Mazzucchelli e Jimmy Corrigan di Chris Ware. Però bisogna prima aver letto tutto Carl Barks, “Paperino e la scavatrice” è la più grande storia mai disegnata: c’è una finezza psicologica rarissima nei fumetti e c’è quella verità umana di cui sono capaci solo i grandi artisti.
“Hometown – Mutonia” è il documentario realizzato dal collettivo ZimmerFrei, che indaga la realtà della comunità-villaggio costituita negli anni ’90 da gruppi di creativi cyber-punk, nei pressi di Santarcangelo di Romagna. L’opera viene presentata al Festival Internazionale del Film di Roma e proiettata al MAXXI.
La produzione fa parte di un progetto più ampio denominato “Temporary Cities” e si è avvalso del sostegno del Santarcangelo Festival.
Abbiamo voluto saperne di più interpellando direttamente Anna de Manincor e Massimo Carozzi, tra i componenti di ZimmerFrei, per comprendere meglio quanto da loro documentato.
Il documentario Mutonia rientra nel progetto più ampio “Temporary Cities” del vostro collettivo ZimmerFrei. Di cosa si tratta? Quali sono le sue peculiarità?
“Temporary Cities” è una serie di documentari in cui ci dedichiamo a un’area molto piccola di una grande città: una strada di Bruxelles (LKN Confidential), una collinetta che ricopre un centro sportivo in mezzo ai condomini a Copenhagen (The Hill), il quartiere ex-rom di Budapest (Temporay 8th), un bar del quartiere del mercato e del porto a Marsiglia (La beauté c’est ta tête). Sono ritratti molto parziali di territori complessi, in cui le trasformazioni urbanistiche, gli investimenti immobiliari e l’ingegneria sociale che accompagna i progetti di “city branding” stanno cambiando la vita quotidiana e stanno progressivamente rendendo le capitali europee molto simili tra di loro. Non giravamo in Italia dal 2008 (Memoria Esterna, dedicato a Milano) e, dopo il Kunstenfestivaldesarts e il circuito di festival di arte pubblica InSitu, è stato di nuovo un festival di teatro a produrre un nostro film.
Mutonia, a differenza delle altre realtà documentate nel progetto, si trova in un piccolo borgo di provincia, Santarcangelo di Romagna per l’appunto. Quali le differenze riscontrate rispetto alle altre comunità presenti invece in grandi agglomerati urbani? Come hanno accolto il vostro progetto i mutoid?
Hometown ha avuto una gestazione lunga, proprio per questa differenza con le altre città. Abbiamo considerato Mutonia un distretto, un quartiere di campagna del paese di Santarcangelo. Non siamo certo i primi a girare un video al Campo, i suoi abitanti sono abituati a veder spuntare operatori e reporter nei momenti più impensati, ma dopo i primi giorni, dato che non accennavamo ad andarcene, il nostro rapporto è cambiato progressivamente. Siamo passati dalla circospezione alla discussione sull’intero progetto, dalle interviste solo audio alle riprese “senza costrutto” in cui ognuno è intento a fare quello che fa senza occuparsi più di dove si trova la camera. Tutto “è campo”. E’ un processo lungo, accidentato e sempre diverso in ogni situazione. Non vogliamo ottenere la “trasparenza”, sarebbe una menzogna, e anche la “realtà” è irriproducibile, si tratta di vivere insieme mentre il film si va facendo e cambia il suo corso con quello che succede al momento.
Mutonia nasce in seguito ad un invito lanciato dal Festival di Santarcangelo alla Mutoid Waste Company, che per eseguire le sue performance ha allestito il campo, poi divenuto permanente, richiamando seguaci di questo stile di vita da tante parti del mondo. Che impatto ha avuto la loro presenza sugli abitanti di Santarcangelo? Come si è sviluppato il rapporto tra queste due comunità?
Quando i Mutoid sono arrivati nel 1990 erano dei marziani, traveller cyber-punk provenienti da Londra, Berlino, Barcellona, mescolati alle più diverse compagnie di artisti e teatranti che invadono Santarcangelo ogni estate. Ma in Romagna non si rimane marziani a lungo, è una terra che ama pensarsi popolata da personaggi singolari, i romagnoli non si stupiscono di nulla e la zona tra Gambettola e Santarcangelo è la mecca dei rottamai e customizzatori di motori e carrozzerie fin dal dopoguerra. Al bar del circolo in cui si gioca a bocce e a briscola ci hanno detto: “I Mutoid? Ma son dei patacca!”
Al momento l’amministrazione locale di Santarcangelo sta valutando lo smantellamento di Mutonia, decretando in qualche modo il destino di questo particolare villaggio. Quali conseguenze prevedete ne deriveranno per i mutoid? E quali per i santarcangiolesi?
L’ingiunzione di sgombero è arrivata questa primavera, appena dopo la caduta della giunta, come conseguenza della causa intentata da un vicino di campo per “abuso edilizio” e vinta dopo 10 anni di iter legale. Il fatto è che i Mutoid non hanno edificato nulla, ma le loro case mobili, truck, container, pullmann trasformati in laboratori di scultura e meccanica, sono tutti mobili e smontabili, ma non tutti possono essere regolarmente immatricolati. Come ad esempio una casa sull’albero, una doccia all’aperto, un capanno per gli attrezzi, la casetta del cane, delle galline, dei giochi dei bambini… Se il Campo fosse smantellato i suoi abitanti dovrebbero migrare nuovamente sulle rotte dei traveller con le loro case-guscio come seconda pelle, perdendo amici e lavoro (oltre che artisti o musicisti gli abitanti di Mutonia sono anche tecnici specializzati, editor, macchinisti teatrali e scenografi e scultrici come Lupan, KK e SU_e_side realizzano laboratori sul riciclo nelle scuole, installazioni e performance) e scomparirebbe una delle originalità per cui questo piccolo paese è conosciuta anche all’estero: le piadine, il festival di teatro, Tonino Guerra e i Mutoid!
Ma Santarcangelo perderebbe soprattutto dei propri cittadini a tutti gli effetti, il campo è un insediamento temporaneo ma anche un luogo di origine, homeland, una piccola hometown da cui partire e tornare. I figli e i nipoti dei primi arrivati adesso frequentano le scuole locali dalle materne alle superiori. Gli abitanti del campo hanno avuto molte conferme del sostegno degli abitanti del paese e della rete internazionale a cui sono collegati e gli amministratori locali prevedono di poter indire una conferenza di servizi che riunisca Comune, Provincia, Regione e Sovrintendenza ai beni architettonici e paesaggistici e scrivere una norma che dia spazio all’eccezionalità di un’esperienza che fa parte del patrimonio culturale e della storia contemporanea di quel territorio.
Con quale spirito presentate il vostro lavoro in un parterre importante e ampio come quello del Festival Internazionale del Film di Roma?
Siamo curiosi di vedere gli altri film presentati insieme al nostro e contiamo sul fatto che il pubblico del cinema contemporaneo, appassionato ed esigente, abbia già da tempo superato le categorie e le “sperimentazioni” che i grandi festival scoprono e premiano in questo periodo.
“Come il vento” di Marco Simon Puccioni, presentato fuori concorso al Festival Internazionale del Film di Roma, è ispirato alla vita straordinaria di Armida Miserere, la prima donna a dirigere un carcere. Valeria Golino la interpreta con sguardo vivo e intenso. Nel cast anche Filippo Timi, Francesco Scianna e Chiara Caselli.
Specializzata in criminologia, Armida diventa direttrice, dalla metà degli anni ottanta (nel momento peggiore della storia italiana, quello della lotta alla mafia e al terrorismo) di alcuni dei più importanti carceri italiani l’Ucciardone a Palermo, Lodi, San Vittore a Milano fino ad essere mandata, in prima linea, a Pianosa, nel supercarcere riaperto per sorvegliare i mafiosi. Nonostante riceva critiche e intimidazioni, non demorde e non cede di un passo. Una vita dedicata al lavoro, con un forte senso dello Stato, incorruttibile e soprannominata “fimmina bestia” dai detenuti dell’Ucciardone, “magra o sovrappeso, comunque tesa e nervosa. Armida è intelligente, ironica, amichevole e scherzosa, ma anche inflessibile, moralista, giustizialista”, così la descrive Valeria Golino. Armida cerca di conservare la sua sensibilità e fragilità mentre applica la legge portandosi dietro una tragedia personale. L’uccisione del compagno, l’educatore del carcere Umberto Mormile interpretato da Filippo Timi. Muore suicida a soli 46 anni. Il film uscirà nelle sale italiane il 28 novembre.
Come ti sei avvicinata a questo personaggio e cosa conoscevi della storia di Armida?
Non conoscevo Armida prima che Marco, il regista, me ne parlasse. L’ho scoperta attraverso il suo punto di vista. Armida è una persona così complessa e contradditoria e, per quanto possiamo raccontarla, ci saranno sempre delle zone d’ombra e dei lati del suo carattere che non conosceremo mai. E’ stata una delle prime direttrici di carcere di massima sicurezza. E’ una donna che ha avuto una vita tragica, molto determinata e severa con se stessa, appassionata del suo lavoro. Ho imparato chi fosse attraverso documenti, lettere e diari, fotografie e, poi, l’ho conosciuta personalmente a Sulmona, circa un anno prima che morisse. La Dott.ssa Miserere aveva organizzato, con altri collaboratori, un piccolo festival di cinema per i detenuti e io ero stata invitata con il regista Crialese per presentare “Respiro”. E’ stato molto commovente far vedere il film in quel luogo e lei mi ha salutata, accolta e accompagnata in quella visita e abbiamo fatto una foto insieme. Era molto cortese ma anche austera, dura. Quando, successivamente, ho rivisto quella foto, ciò che mi ha più stupita e commossa è il mio abbraccio sulle sue spalle. Un gesto di protezione verso di lei che è girata e mi guarda con una tale vulnerabilità.
La tua prova nel film dimostra un forte coinvolgimento. Ti sei sentita particolarmente ispirata?
E’ chiaro che un attore non può sentirsi sempre particolarmente ispirato e avere la possibilità di interpretare un grande personaggio così contraddittorio e complesso. La differenza è nel modo in cui il regista guarda il suo attore e la sua attrice, dove sta mentre tu fai quella cosa o non la fai, come ti monterà, che luce hai sul viso. L’interpretazione di un attore al cinema dipende da se stesso e moltissimo da tutti gli altri. Un bel ruolo e un regista che sa guardarti sono le occasioni, per noi interpreti, di sembrare più bravi e di fare onore ad un personaggio.
Perché all’inizio non volevi interpretare il personaggio di Armida?
Perché avrei dovuto penare e in qualche modo dare l’anima. Non era un ruolo in cui potevo passare e fare bella figura così, ma dovevo esserci. Quando mi è stato chiesto stavo preparando il mio primo film da regista, un’esperienza completamente nuova per me, difficile e misteriosa. Pensavo alla fatica e alla battaglia che avremmo dovuto affrontare per riuscire a girare una storia così difficile, in Italia, che non fosse solo puro intrattenimento, terminarla e distribuirla. Avevo paura di finire nel dimenticatoio. Poi però il desiderio del regista, quel desiderio su di te, mi ha messo voglia di farlo e quindi eccoci qua.
Cosa pensi della situazione delle carceri in Italia e quello che sta scatenando?
Vanno presi dei provvedimento al più presto. È chiaro che un paese civile, che ha rispetto di se stesso, non può non preoccuparsi del sistema carcerario che è un luogo e non un’astrazione ai margini della società. È la nostra vita non è qualcosa di lontano, è la nostra coscienza. Ne va della nostra dignità. È un argomento che ci riguarda troppo da vicino per non prendere dei provvedimenti. Bisogna muoversi per fare delle leggi giuste, non di marginalizzazione, ma di comprensione.
Costa stai facendo ora?
Ora sto girando un film con Gabriele Salvatores che si chiama “Il ragazzo invisibile” e mi sto molto divertendo. E’ un film fantasy, inedito in Italia, e poi ho fatto una piccola parte nell’ultimo film di Paolo Virzì che si chiama “Il capitale umano” e credo che inizierò a girare ad aprile “Il nome del figlio” di Francesca Archibugi.
Intervista al Direttore di Lucana Film Commission, Paride Leporace
Insieme alla Regione Basilicata avete promosso il bando per il finanziamento di produzioni sul vostro territorio, in scadenza l’11 novembre. Quali i principali punti di forza di tale opportunità?
Fino a duecentomila euro di finanziamento per ogni film da spendere sul nostro territorio. E una quota destinata a sperimentare la nascita di piccole imprese locali vocate all’audiovisivo. Si tratta della prima pietra per edificare un sistema di piccole e medie imprese che possano formare un distretto della creatività a supporto dell’industria cinematografica
Cosa consiglia alle PMI che si candideranno per ricevere i finanziamenti messi a disposizione? C’è magari qualche location particolare che vuole suggerire?
Consiglio innanzitutto di non pensare alla Basilicata come un bancomat da utilizzare nella forma usa e getta. Spero si ragioni tutti in modo virtuoso e mi auguro che qualche squalo che circola in questi ambienti venga demotivato dalla rigidità dei controlli che un bando europeo propone. Per chiarimenti abbiamo attivato un servizio FAQ consultabile dal nostro sito lucanafilmcommission.it. In merito ai set da proporre io preferisco chiamarli luoghi. La Basilicata è molto vasta, contrariamente a quello che restituisce il luogo comune. Si tratta di luoghi che a volte hanno visto l’alba dell’uomo. Sono poco abitati quindi molto cinematografici. Matera è un patrimonio dell’umanità e città del cinema. Ma abbiamo anche due mari, molti laghi, cime innevate e deserti brulli, paesini che sembrano presepi e nidi di vespe arrampicati sulle colline, cattedrali medioevali, palazzi barocchi, foreste, centri storici intatti, piccole savane, campi di grano, attrazioni con filo d’acciaio che imbracati vi conducono come un angelo da un paese all’altro a grande altezza. Un campionario di scenari naturali pronto a soddisfare ogni sceneggiatura da illuminare con una luce che ha già entusiasmato molti direttori della fotografia.
Che tipo di interazioni si attivano tra le produzioni che giungono da voi e le realtà locali, come imprese, associazioni, istituti culturali e amministrazioni?
C’è grande accoglienza e molta partecipazione. Le amministrazioni locali, a differenza dei luoghi metropolitani, non creano ostacoli burocratici, ma favoriscono permessi e mettono a disposizioni mezzi e risorse. Le relazioni corte lucane sono molto utili per risolvere i problemi di una produzione, dove ridurre i costi e i tempi è il primo risultato da raggiungere. Il mondo delle imprese deve attrezzarsi meglio, quello della cultura essere più propositivo.
Tra le produzioni che avete sostenuto in passato, quale a suo avviso ha meglio rappresentato e veicolato le bellezze della Basilicata?
“Basilicata coast to coast”, grazie ad un regista lucano come Rocco Papaleo e al racconto “on the road”, ha permesso di rendere riconoscibile la Basilicata e di renderla anche molto affascinante al visitatore che non cerca luoghi banali o scontati. Abbiamo favorito la distribuzione del film anche in Francia e grazie a questo prodotto cinematografico abbiamo notato come la nostra regione sia attraente anche all’estero. Tra l’altro molti studi indicano questa favorevole circostanza. Il film è nato grazie all’intuito del produttore che ha ricevuto attenzione e finanziamento dalla Regione Basilicata e dal ministero, godendo anche di un’ottima campagna pubblicitaria pagata da parte di alcune compagnie petrolifere operanti nella nostra regione. E’ stata un’ottima operazione di promozione territoriale, abbinata ad un prodotto di successo economico e artistico.
Che tipo di attività svolgete invece sul territorio per promuovere il cinema e la sua conoscenza? Che feedback riscontrate?
Siamo in stretto contatto con una rete di Centri della creatività, nati in Basilicata grazie alla Regione, che ha riqualificato delle vecchie cattedrali nel deserto inutilizzate affidandole a gruppi e cooperative che hanno partecipato ad un bando pubblico. In questi Centri abbiamo tenuto molti incontri con i territori e oltre ai lavoratori della creatività e del cinema abbiamo anche interagito con imprenditori, amministratori, banche e categorie produttive. La nostra narrazione dimostrativa convince sempre più persone. Siamo inoltre molto impegnati a difendere le sale cinematografiche esistenti e con un Apq tra governo e Regione speriamo di poter effettuare una sperimentazione sul nuovo cinema digitale nelle nuove sale del presente. Infine, e non da ultimo, dobbiamo formare dei cittadini spettatori che abbiano una buona cultura delle immagini, che le sappiano leggere e capire. Per questo è indispensabile partire dalle scuole e dall’Università.
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La Basilicata ha un lungo trascorso cinematografico: come spiega questa particolare vocazione?
Le inchieste sociali e i documentari aprirono la strada. Girare in Lucania era come andare in un posto esotico. Poi la spedizione di De Martino apri’ la vocazione antropologica che continua ancora oggi ad un cinema che indaga e prende a pretesto riti e costumi ancestrali. Poi la decisione di Pasolini di ritrovare la Palestina di Cristo a Matera e Barile per alcune scene monumentali del Vangelo segnerà per sempre la storia del Cinema. Da allora Matera in particolar modo, ma non solo, diventa set privilegiato per film legati alla vicenda di Gesù. Quasi un genere compresa qualche parodia, metacinema e qualche flop americano. Poi si gira “The Passion” di Mel Gibson che, grazie ai suoi incassi stratosferici e alle polemiche globali suscitate, ha fatto diventare Matera una delle mete di cineturismo più conosciute al mondo. A Pasqua il turista trova le croci sulla Murgia ormai diventato Golgota nell’immaginario collettivo. Poi c’è tutto il resto. L’esordio della Wertmuller, la trilogia di Francesco Rosi che riesce a impossessarsi dell’epopea contadina di Carlo Levi negli anni Settanta, la finta Sicilia di Tornatore. La Basilicata è un set naturale che ispira il cinema d’autore per contaminazione culturale di alcuni testi e per forza dei luoghi. Grandi documentari pure. Oggi il nuovo snodo. Mettere a sistema questo grande patrimonio.
Guarda l‘infografica che in 2 minuti ti spiega come partecipare al bando, che trovi in versione integrale qui
Intervista Matteo Scarduelli, responsabile marketing e comunicazione del Filmmaker Festival
Dal 1980 esiste a Milano questo festival straordinario che si chiama Filmmaker Festival. Eppure, c’è qualcuno che forse ancora non lo conosce. Spiegaci di cosa si tratta.
Quando la realtà è in continuo movimento, solo l’arte può anticipare i cambiamenti, intuire le svolte, individuare le tendenze o le eccezioni. Le narrazioni possibili che si nascondono sotto la superficie degli accadimenti devono essere scovate e riconosciute, e diventare oggetto di una scommessa difficile e affascinante: devono prendere una forma. Questa serie di passaggi – che è la pratica corrente dei cineasti che lavorano con la realtà – è un processo che Filmmaker conosce bene: il nostro festival oltre a mostrare i film (in concorso e fuori) si è sempre occupato del processo creativo e produttivo del film, seguendo lo sviluppo di progetti e finanziandone la realizzazione.
A partire dal 1980 Filmmaker, con il contributo di enti pubblici, sponsors privati ed istituzioni culturali, promuove sul territorio milanese la cultura cinematografica indipendente, sostenendo al tempo stesso la ricerca e l’innovazione nella produzione audiovisiva.
La caratteristica che più di tutte ha contraddistinto Filmmaker rispetto ad altri festival è da sempre stata l’azione tesa a favorire la produzione di nuove opere. Ad oggi più di ottanta film e video sono stati realizzati con il sostegno dell’associazione.
Nell’annuale sostegno alla produzione audiovisiva sono sempre stati privilegiati i giovani, i nuovi autori e tutti coloro che scelgono di realizzare un cinema “fuori formato”.
Ma poi, alla fine, chi ci lavora dietro? Insomma, chi siete?
Persone che credono e hanno creduto che il cinema possa essere realmente una forma di educazione e di confronto sociale e politico. Con il tempo l’associazione ha subito diversi mutamenti e negli ultimi anni sono entrate nuove generazioni che hanno nuove energie ed idee per parlare di cinema oggi. Il festival durante l’anno ha sempre cercato di organizzare laboratori e seminari accessibili a tutti per promuovere la critica e la regia cinematografica. L’anno scorso grazie a Fondazione Cariplo abbiamo lanciato il progetto “Nutrimenti” mettendo insieme da tutta Italia trenta giovani filmmaker che hanno avuto l’opportunità di seguire una masterclass di un anno con i più importanti registi e produttori del cinema contemporaneo.
Quest’anno grazie alla costituzione di Milano Film Network, il network dei festival cinematografici milanesi, abbiamo avuto l’incarico di gestire e organizzare i laboratori di tutti i sette festival del circuito (Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina, Festival MIX Milano, Filmmaker, Invideo, Milano Film Festival, Sguardi Altrove Film Festival e Sport movies & Fest.); una sfida e un’opportunità incredibile che porterà l’accento ancora di più sulla dimensione laboratoriale della nostra associazione. Luca Mosso direttore del festival da due anni, è coadiuvato dall’instancabile lavoro di Danila Persico ( responsabile della programmazione con Alessandro Stellino e Francesca Piccino). Per il secondo anno ho preso in gestione la parte di marketing e comunicazione della manifestazione; Cristina Caon è la nostra coordinatrice del programma e Ottavia si occupa della parte gestionale dell’associazione. Abbiamo anche uno chef, Andrea, e nuovi soci del calibro di Minnie Ferrara, Dario Zonta, Alina Marazzi e molti altri che quando possono ci dedicano le loro energie. Quest’anno abbiamo con noi anche Diego, tre Giulie e tutto lo staff del Network.
Per questa edizione avete deciso di pensare in grande e di chiedere aiuto a tutti coloro che hanno creduto, credono e vorranno credere nella magia di questo festival. Cosa bolle in pentola?
Come ben sai le pubbliche istituzioni sono in gravi difficoltà economiche ed è venuto il momento di coinvolgere il nostro pubblico, un pubblico forte che oltre trenta anni segue il festival nelle differenti location milanesi. Abbiamo costruito sulla piattaforma di crowdfunding Kapipal la nostra personale campagna. Per farlo e abbiamo pensato di creare un video lancio virale coinvolgendo tra i più importanti registi del che sono passati attraverso le produzioni di Filmmaker o che hanno vinto alcune edizioni del festival. Gianfranco Rosi, Alina Marazzi, Michelangelo Frammartino, Silvio Soldini sono solo alcuni dei nomi che hanno partecipato a questo progetto sposando il claim del festival: la prima volta non si scorda mai.
La campagna sarà accompagnata da una serie di attività off line e una serie di interviste che pubblichiamo settimanalmente sui nostri canali social in cui i vari registi ci raccontano le loro prime volte. Piccoli tuffi emotivi nel passato e momenti ispiratori per tutti i futuri registi.
Quindi, state diventando sempre più grandi e sempre più famosi. Quali sono le principali novità di questa edizione?
L’intenzione è questa, anche perché con l’entrata all’interno del festival network si presuppone che molte risorse possano essere condivise. Lo staff del festival in effetti si è decisamente ingrandito. Quest’anno oltre al concorso internazionale ci sarò una retrospettiva dedicata al documentarista americano Ross Mcelwee. Avremo una sezione fuori formato in cui saranno presentate in anteprima alcuni lavori italiani molto interessanti. La novità più grande però è ancora una sorpresa per l’intera città di Milano e non potremmo parlarne fino al 19 di novembre. Ci stiamo lavorando assieme al Comune di Milano.
3 buoni motivi per cui bisogna essere a Milano dal 29 novembre all’8 dicembre al Filmmaker Film Festival (non basta dire che TAFTER è media partner dell’evento)
1. Perché saranno presentate opere da tutto il mondo introvabili nei circuiti commerciali
2. Perché faremo l’Opening night in un luogo bellissimo e segreto
3. Perché durante il festival organizzeremo brunch, laboratori e workshop
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L’immagine di Filmmaker Festival è stata realizzata da Arianna Vairo
Seguo l’indicazione “Sala Conferenze”, scendo e vedo dietro la porta dalla vetrofania MAMbo una signora di mezza età che, completamente nuda, accarezza una sedia solitaria, in mezzo alla stanza come lei, facendo passetti di danza sbrinati; di fronte, pochi esseri umani, il pubblico, che se ne stanno vestiti di nero, stretti stretti come uccellini su un ramo quando fa freddo. Il silenzio. Solo, i miei tacchi che mi portano via.
Nella stessa giornata in cui Cattelan manda il duo I Soliti Idioti a ritirare un premio accademico assegnatogli per la sua carriera artistica, creando scontenti e malumori nell’ambito cattedrato, il concetto di arte mi ricorda quanto difficilmente sia riconducibile a un’ottica scientifica, a una evidenza.
Ci sediamo, con Gino Gianuizzi, a un caffè non distante dal museo, ma abbastanza distante perché ci riporti a un vissuto fatto di quotidianeità banale, un po’ così, che nulla ha a che vedere con l’arte. Ho chiesto a Gino di fare una chiacchierata con me sulla giornata di approfondimento degli studi di Francesca Alinovi, che si inaugurerà domani a Bologna, in occasione del 30ennale della scomparsa della ricercatrice del DAMS. E lui, che ai tempi di Neon>Campobase è stato il mio capo, con la sua costante gentilezza e disponibilità ha accettato.
Esordisco dicendo: “L’idea che avevo Gino, è di fare una chiacchierata di tipo informale su questa cosa. So che eri molto amico di Francesca Alinovi e vorrei incentrare il discorso su te e su come stai vivendo questo anniversario. ”
Al bar ci sediamo a un tavolino “intimo” nero con due sole sedie. Il bar è chiassoso, luminosissimo, vetrate a parete aprono scorci di strada, che gli fanno da quinta, mentre mi allontano per ordinare i nostri caffè. Dovrebbe ‘risvegliarci’ dal sogno dell’arte, e invece, per gente come noi, è solo un buon motivo per avvicinare le sedie e ripiombarci più convinti di prima.
G: Sono sempre un po’ imbarazzato nei bar, perché non so mai che cosa ordinare.
A: A cosa stavi lavorando prima che ti interrompessi?
G: Stavamo disponendo questi oggetti nelle teche… e beh…
A: Che effetto ti ha fatto mettere nelle teche i tuoi stessi oggetti?
G: Eh, ecco, vedi, io non sono mai stato tanto attento alla conservazione. Ho dovuto cercarli, letteralmente, a casa mia e nell’archivio di Neon.
A : Il mitico archivio…
G: Eh appunto… e mi ha fatto un certo effetto vederli mettere in una teca. Ma vedi lei, (Francesca Alinovi) aveva fatto in tempo a beccare questa meteora che era l’Enfatismo… e il materiale nelle teche parla di questo.
A: E’ stata tua l’idea di fare questa giornata di convegni?
G: Si, in occasione dell’anniversario, o meglio dei 30 anni, sono andato al MAMbo prima e poi all’Università. E hanno accettato tutti.
A: La concomitanza con il premio Alinovi_Daolio?
G: No, li c’è stata l’influenza di Cattelan che ha dato a Barilli la dispoibilità per ritirare il premio solo in ottobre.
A: A proposito che cosa ne pensi di quello ha fatto Cattelan?
G: Mah, vedi, è stato un evento tristo, secondo me. Io non conoscevo i due comici, ma mi sono sembrati di bassa qualità. E sembrava si comportassero secondo un canovaccio prestabilito, per cui non c’è stato neppure un reale dialogo con chi era presente. Sapevano che Barilli si sarebbe infuriato e lui lo ha fatto.
A: Forse, la scelta è caduta sui due li, perché c’era l’intento di abbassare, per cosi dire, il livello pomposo del premio dato da una Università…
G: Non possiamo saperlo, può essere anche cosi, resta però da ricordare come “l’abbassamento” può essere fatto anche in chiave colta, e qui non è successo. Bassa qualità, che il riferimento alla ‘Nona Ora’ non alza.
A: Cosa ne avrebbe pensato Francesca Alinovi?
G: Mah è difficile dirlo, sono passati 30 anni, e per fortuna queste cose le sono state risparmiate…
A: Quando vi siete conosciuti?
G: Ci siamo conosciuti all’inaugurazione di Neon, era il luglio del 1981. Lei scrisse in proposito “non andavo cercando opere, ma ho trovato un clima”. Ecco, lei era percepita esattamente come noi, un’ artista tra artisti, non una critica (o una curatrice, che all’epoca non esisteva), per noi non c’era alcuna differenza tra noi e lei. Attorno alla sua figura si era creato questo clima di persone, che lei chiamò “Enfatismo”.
A: Da?
G: Enfatismo viene dagli Enfaticalisti, in Cenerentola a Parigi, di Audrey Hepburn. La protagonista parte per Parigi per “vivere” il clima che ruota intorno a questi artisti chiamati Enfaticalisti. Ecco quello il motivo, per Francesca tutto ruotava intorno all’”enfasi dell’essere”. Nelle teche vi è in mostra anno per anno il percorso della sua critica, dal 1976 al 1983, la sua tesi su C. Corsi, quella di dottorato su Manzoni, le varie collaborazioni. Ma ciò che stupisce è come, dopo aver cominciato i suoi viaggi a NYC, ci sia una grande apertura, verso la musica, ad esempio. Ecco, per lei non c’era una forma d’arte più nobile dell’altra, valutava tutto con un ampio spettro. E poi, ci sono materiali che abbiamo trovato ma che non hanno trovato spazio nelle teche. Sono i suoi studi … e questo è straordinario… perché è raro trovare quello che si nasconde sotto il mescolamento di un cervello, e invece in lei lo abbiamo ritrovato tutto: c’è Sartor Resartus per dirne uno… ritrovi tutto nei loro scritti. Aveva studiato molto, e questo la rendeva ancora più problematica.
A: Tu dici? Perché problematica?
G: Problematica da accettare nel 1980. Considera che all’epoca l’Università era ancora un ambiente chiuso, studi seri riservati a gente seria, non a gente con i capelli sparati in aria come lei. Invece lei era seria. Lavorava con serietà anche con noi che eravamo dei ragazzi, non ci trattava meno bene di come trattava gli artisti, né abbiamo mai avuto l’impressione che ci volesse vendere come una sua scoperta. Non io almeno. La sua era una partecipazione totale, un clima, come lo chiamava.
A: Aveva ritrovato in voi qualcosa di simile alla New York degli anni ’80?
G: Si. Lei si era accorta che stava succedendo qualcosa di simile qui, ma quegli anni erano diversi da oggi. E’ diverso da oggi, oggi che alla ricerca è prediletta la citazione. O la ricerca della citazione. New York era assolutamente un altro mondo, non era possibile sapere cosa succedeva. Era un viaggio poco accessibile. Ognuno di noi lavorava alla propria ricerca, metteva fuori il risultato e poi lo confrontava con gli altri. Era questo clima che ci faceva assomigliare a New York, oltre a, chiaramente, l’uso di alcuni materiali o tematiche che sembravano comparire anche in altri lavori americani. Ricordo che lei fece una recensione su Flash Art del luglio dello stesso anno, in cui parlava proprio di questa energia nuova della galleria, con le sue luci al neon sparate e il suo aperitivo…
A: Doveva essere ben l’immagine di una galleria d’arte allora…
G: Esatto era totalmente un’altra cosa. Noi eravamo li, quello che veniva fuori emergeva spontaneamente, non citavamo nessuno, era la nostra ricerca, e veniva fuori dallo stare insieme, a casa di qualcuno, o uscendo in gruppo.
A: E come hai trovato il clima oggi?
G: Come ti dicevo, Francesca beccò questa veloce meteora dell’Enfatismo, e questa si chiuse con la sua morte. Ne seguì una diaspora, ho avuto contatti con alcuni degli artisti, ma con altri niente.
A: E come vivi questo momento?
G: E’ strano. Nel senso che ritrovarci dopo 30 anni a mettere i nostri ricordi in fila… ma io sono contrario al clima del “Ti ricordi…..???” . Più che altro, volevo spezzare questa rimozione che da trent’anni avvolge la sua figura, di Francesca Alinovi infatti si parla solo per il fatto di cronaca, lei è il “Delitto del D.A.M.S.” e nulla si sa delle sue ricerche come critica d’arte.
A: Come sono stati scelti i relatori?
G: Volevo fare una giornata studio di tipo scientifico. Quindi cercando di evitare tutte le forme di intervento non tali. Ho invitato persone che l’avevano conosciuta, per cui non è escluso del tutto il fattore affettivo. Per esempio ci sarà anche sua sorella, che per trent’anni ha allontanato tutti. E questo per me è molto bello.
A: Adesso poi che Ciancabilla sta tornando a frequentare, sembra, stabilmente l’ Italia… Leggevo dei suoi tentativi di fare un’ esposizione, ma che puntualmente sono abortiti, c’è chi parla di un’eminenza grigia… E’ per questo o perché i suoi lavori non convincono?
G: Ecco, Francesco (Ciancabilla) è un po’ “Ti ricordi come eravamo???”, non si è mosso da li. Voglio dire: se io prendessi un mio lavoro di trent’anni fa e lo mettessi fuori adesso…. Non avrebbe senso. Lui sembra voglia cavalcare il momento…
A: Posso scriverlo?
G: Si certo, infondo è questo quello cui va incontro. Anche se il serbatoio di una ricerca è sempre quello, questa fa strada e si evolve. Per esempio, tornando alle teche e al materiale, è questo il sentimento che ha fatto emergere in noi “Ci lavoriamo ancora!”, perché quel materiale ha riaperto tutte le nostre curiosità, e potrebbe interessare qualcun altro… almeno lo spero, spero che non sia un gioco fatto solo per noi perché ci piaceva.
Cosi, questa chiacchierata m’è parsa giungesse a una chiave di volta. E m’è parso che tutto ci potesse rientrare dentro come in un abbraccio. Come l’abbraccio che ci scambiamo ogni volta che ci vediamo con Gino, e come l’abbraccio quasi sulle strisce pedonali che ci siamo scambiati poco dopo. Lui tornando verso il MAMbo ed io qui a scrivere questa conversazione.
Nella complessa geografia dell’arte, non mancano traiettorie che uniscono culture ed esperienze differenti, creando occasioni per realizzare, nella sua massima espressione, un dialogo realmente interculturale. Una di queste occasioni è il progetto che vede la collaborazione del Lucca Center of Contemporary Art e il Korean Artist Project di Soeul. Dopo la residenza degli artisti coreani Kim Jongku e Kim Seung Young presso il Lu.C.C.A, il dialogo continua con la residenza d’artista degli italiani Christian Balzano e Sandro Cabrini, il cui risultato è la mostra “Ask the Water” a cura di Maurizio Vanni e Jimin Lee, presso lo Youngeum Museum of Contemporary Art. L’occasione è stata propizia per un confronto con Sandro Cabrini, artista dallo stile fortemente evocativo.
A volte guardando le sue opere si può avere l’impressione che ricerchino lo status di stilemi, (non a caso una delle Sue personali recitava Archetipi dei sogni) intesi come elementi primari di un determinato linguaggio, attraverso il quale comunicare . Quanto è importante il concetto di comunicazione nell’arte secondo lei?
Il comunicare è essere. Voglio essere anche più preciso: l’arte, la pittura, la scultura, la videoarte, la musica e la poesia stessa esistono solo nel momento in cui comunicano. Solo allora svolgono la loro funzione di esistere. Il bello di questa situazione è che la comunicazione dell’opera è comunque condizionata da chi guarda o ascolta in modo decisivo, cioè condizionato dalla cultura della persona, dal suo stato d’animo, dal tempo. La stessa persona può guardare o ascoltare la stessa cosa più volte e sentirla sempre in modi differenti.
Sono stato colpito da alcuni titoli delle sue opere: la maggior parte delle opere che ho avuto modo di vedere della sua produzione si riferisce ad una delle possibili interpretazioni che le stesse suggeriscono (il caso di Danza o Parliamo); discorso differente è invece quello che si riferisce ad alcune delle sue installazioni esterne, mi riferisco alle diverse “Opera Monumentale” quasi si riferissero al significante più che al significato. Questa differenza è il frutto di una scelta premeditata?
Mi fanno sorridere spiegazioni complicate sull’origine di un’opera. Mi spiego meglio, un artista non può stare a fianco della sua opera e spiegarla a tutti quelli che guardano. L’opera una volta conclusa è abbandonata e allora si capirà se comunica, se dà emozioni e solo allora ha compiuto la sua missione. Io uso tantissimo i simboli sia nelle figure sia nei titoli che accompagnano la lettura, titoli che spesso sono banali se guardati con superficialità ma che diventano importanti in quanto fanno parte integrante dell’opera perché ne suggeriscono la semplicità: “non nascondo nulla”, “mi affido alle tue emozioni”, “sono una cosa semplice”. Un oggetto misterioso, un libro, una lettera, una casa, il mare, le nuvole, sono cose quotidiane spesso piene di emozioni e ricordi che non sempre ci fermiamo a considerare.
Nella sua opera assume particolare rilevanza l’aspetto cromatico: nelle sue più recenti produzioni il bianco è sempre più presente. Che significato assume per lei?
Anche i colori sono strumenti. Il bianco è uno spazio da riempire; è la purezza è luce, è la somma di tutti i colori. E’ in grado, secondo me, di dare spazio a chi guarda, di liberare la sua anima e le sue emozioni. Ben diverso è l’uso di cui faccio dei colori primari dove il gioco viene avanti in primo piano, dove il villaggio felice trova il suo essere gioia e dove tutti vivono condividendo colori e movimenti.
Lei è attualmente impegnato in una esposizione al museo di Youngeun Museum of Contemporary Art di Gwang-ju, in un progetto di scambio culturale italo-coreano. Può parlarci di quest’esperienza?
Da un anno sto seguendo ed esplorando il mondo orientale, e oltre alla lunga residenza in Corea ho già fatto diversi viaggi a Shanghai, Hong Kong e a Taipei dove sto portando avanti diversi progetti e spero di fare delle mostre nel 2014.
Un mondo quello orientale che fino a qualche anno fa mi faceva un po’ paura ora mi piace, mi ritrovo, ho stretto molte amicizie con artisti, curatori e gallerie vediamo cosa ne nasce.
Mi può elencare quali sono a suo parere un pregio ed un difetto dell’attuale sistema dell’arte internazionale? E per quanto riguarda il Sistema Paese Italia riferito al mondo dell’arte?
Il Sistema Arte in Italia e nel mondo è quello che è, non si può starne fuori anche se non sempre si condividono scelte o atteggiamenti. Il gallerista rimane a mio avviso, il garante dell’investimento che il collezionista o l’appassionato fanno in un’opera.
In quest’ultimo periodo però i galleristi tendono ad investire poco e lo fanno sempre sui soliti nomi, non rischiano cose nuove. Non parliamo poi di tutta una fascia di collezionisti che continuano ad investire cifre enormi su nomi buoni ma non eccezionali con il risultato di gonfiare quotazioni che prima o poi scoppieranno.
In un momento difficile come questo per le imprese italiane, ci sono notizie che aiutano a sperare. L’Associazione “Il Paesaggio dell’Eccellenza” ha infatti ricevuto il prestigioso Premio Internazionale sullo Sviluppo Locale. La consegna del riconoscimento è avvenuta lo scorso 4 ottobre a Cluses, il più famoso distretto industriale francese.
Questa realtà marchigiana e italiana è stata premiata per la capacità di coinvolgere aziende diverse su temi di interesse generale, riservando grande attenzione per la preservazione del paesaggio, la tutela di prodotti di qualità e la valorizzazione del lavoro. Il Paesaggio dell’Eccellenza è inoltre da sempre impegnato a conservare quella memoria storica delle imprese e delle competenze professionali che hanno fatto del Made in Italy un valore riconosciuto in tutto il mondo.
Abbiamo voluto saperne di più dell’attività di questa associazione culturale, rivolgendo qualche domanda al direttore Alessandro Carlorosi.
Quando e come nasce l’Associazione “Il Paesaggio dell’Eccellenza”?
L’Associazione “Il Paesaggio dell’Eccellenza” nasce da un’ipotesi progettuale partita nel 2003 su proposta del gruppo FIMAG iniziative Guzzini, che ha istituito un comitato promotore cui hanno aderito il Comune di Recanati, l’Università di Camerino e lo Studio Conti.
Dal comitato promotore è stato elaborato un documento progettuale per la costituzioni di un Centro Studi e documentazione della realtà produttiva del distretto recanatese. Successivamente sono state coinvolte altre importanti imprese del territorio, delle vallate del Potenza e del Musone, distretto a cavallo tra le province di Macerata e Ancona a forte vocazione multisettoriale, che hanno deciso di aderire a questo progetto culturale.
Nel 2005 si è deciso di istituire questa associazione no profit. Aderirono circa 20 imprese ed alcuni enti locali, come appunto l’Università di Camerino, il Comune di Recanati, la Camera di Commercio di Macerata, formando un fronte comune estremamente eterogeneo, ma motivato nel raggiungere le finalità del Paesaggio dell’Eccellenza.
Quali le finalità che l’Associazione si è posta? Con quali risultati fino ad ora?
Le finalità sono quelle di perseguire scopi culturali, di promozione e valorizzazione del patrimonio industriale ed artigianale, inteso come complesso di tradizioni ed esperienze innovative, in riferimento a tecniche, tecnologie, attività della produzione, professioni, uomini e imprese. Più in generale ci impegniamo nella conservazione, valorizzazione e promozione della cultura di impresa e del paesaggio marchigiano quale elemento coesivo.
E’ stato fondamentale fare una prima consultazione con tutti gli imprenditori associati, ascoltandoli uno ad uno, cercando una via comune sulla quale abbiamo cominciato a lavorare.
La necessità primaria è stata quella di avviare rapporti con le scuole e i giovani, coinvolgendo gli istituti locali e gli stessi docenti su questi temi. Il risultato è stato quello di avvicinare, con attività concrete, l’impresa alla scuola.
Iniziative, eventi e attività hanno invece portato alla costituzione del museo del patrimonio industriale, uno tra i primi obiettivi posti nel progetto, creando in questo modo un luogo fisico per far conoscere questo patrimonio e queste storie.
Sul fronte iniziative è interessante ricordare le partecipazioni annuali alla Settimana della Cultura d’Impresa promossa da Confindustria e organizzata da Museimpresa. In queste occasioni abbiamo portato, spesso nelle Università del territorio, delle iniziative mirate a trasferire esperienze locali e nazionali, sui temi legati al lavoro e alla cultura d’impresa, invitando ad esempio importanti professionisti del settore.
Alla costituzione del museo ha contribuito anche tutto il lavoro di raccolta della documentazione che è avvenuto a seguito della realizzazione di eventi o iniziative mirate, come l’organizzazione del concorso fotografico “Paesaggi del Lavoro”. Il contest ha permesso a molti fotografi di entrare nelle imprese e raccontare i luoghi del lavoro e analizzare il rapporto tra architettura industriale e paesaggio, costituendo così un fondo di circa 500 immagini di grande valore documentativo.
Il Museo, denominato Centro Studi Il Paesaggio dell’Eccellenza, ha trovato sede stabile nel giugno del 2010 presso la Galleria Civica Guzzini a Recanati e ospita un’area permanente che racconta l’Associazione e uno spazio dove si alternano esposizioni e iniziative organizzate dall’Associazione o in alcuni casi dalle imprese associate.
Cosa ha significato vincere il Premio Internazionale di Sviluppo Locale?
Sicuramente è stata una grande soddisfazione per il lavoro svolto in questi anni, cominciato da zero, attraverso cui si è potuto creare un qualcosa che non esisteva nel nostro territorio. Grande soddisfazione anche per le imprese e gli enti associati, che hanno investito tempo e denaro in un progetto culturale che sta dando frutti soddisfacenti, iniziando ad essere considerato a livello nazionale ed internazionale per la sua capacità di aver messo insieme aziende eterogenee, sia in dimensioni che in produzione, con istituzioni pubbliche.
Nel contesto del Premio Internazionale di Sviluppo Locale abbiamo avuto la possibilità di confrontarci con altre case history, a livello internazionale, provenienti ad esempio da Tunisia, Argentina, Marocco e altri progetti simili in altri Paesi.
In che modo l’Associazione si impegna nel sostenere le imprese del territorio, molte delle quali colpite dalla crisi?
Il ruolo dell’Associazione è quello di lavorare su un piano differente da quello del business e di profitto economico delle aziende. Vogliamo fornire un terreno comune, quello della cultura, in cui identificarsi e poter partire, creando una nuova occasione di dialogo tra le imprese, associate e non, e soprattutto tra le aziende e le istituzioni pubbliche per dare una solida base alla crescita futura delle comunità.
Quello dell’Associazione rappresenta un modo per far rete?
Attraverso il nostro progetto, negli incontri associativi, sono nate opportunità per le imprese, come commissioni di lavori sul territorio, che contribuiscono al miglioramento del paesaggio e dei centri storici, o addirittura il semplice incontro tra imprenditori durante un evento o una riunione, hanno avviato strategie comuni in campo economico. C’è un bilancio sociale, ma anche risultati in termini di possibilità di collaborazioni tra le imprese, che sono state poi proseguite sul piano commerciale autonomamente.
Ovviamente la rete è nata e prosegue con il principale intento di lavorare sul terreno della Cultura d’Impresa a favore del territorio con tante iniziative in cantiere o da avviare.
Quale collocazione ritiene avranno le imprese marchigiane e italiane nel prossimo futuro, anche in considerazione della concorrenza estera?
A mio avviso hanno tutti i numeri sul piano industriale e del lavoro per competere; hanno meno numeri sul piano burocratico, creditizio e in termini di politiche industriali del nostro Paese. Molto spesso, per tali motivazioni, ascoltiamo imprenditori con progetti interessanti che trovano però difficoltà a realizzarli nel contesto nazionale. Le nostre imprese possiedono però tutte le caratteristiche per vincere la crisi e la concorrenza estera.
Nello specifico, le aziende marchigiane puntano ad un ritorno sulla produzione, non dei grandi numeri, ma dall’elevata qualità. In questo caso l’associazionismo può essere utile per esportare l’idea di fronte unito.
In questo momento lo scenario economico vede venir meno l’esternalizzazione di alcune fasi produttive per gli elevati costi, soprattutto nel controllo, nella gestione e nel trasporto dei beni, che rischiano di far uscire i prodotti dal prezzo di mercato.
Le imprese del nostro distretto hanno la straordinaria capacità di ideare e realizzare i loro prodotti totalmente al loro interno, in una filiera estremamente corta che garantisce l’elevata qualità del prodotto e la capacità di creare ricchezza economica e sociale sul territorio.
Si tornerà dunque a produrre interamente in Italia?
Questo non so dirlo. Ma posso assicurare che esistono molte imprese nella Marche, è bene dirlo, che vantano 50, 100 anni di esperienza. Hanno dunque produzioni totalmente interne, poiché in questi anni si è creata una competenza molto alta e specializzata, e anche la tecnologia è all’avanguardia, grazie agli investimenti fatti nel tempo.
Ci sono dunque le possibilità per affermarci e farci ancora valere.
Associati de “Il Paesaggio dell’Eccellenza”
Acrilux – Banca di Credito Cooperativo di Recanati e Colmurano – Brandoni – Campetella Robotic Center – Castagnari Organetti – Clementoni – Fbt elettronica – Garofoli Vini – Pigini Fisarmoniche – Rainbow – Soema – Studio Conti – Valenti&Co.
Gruppo Guzzini: Fratelli Guzzini – Gitronica – iGuzzini illuminazione – Teuco
Gruppo Garofoli: Garofoli Porte – Gidea
Gruppo Pigini: Eko Music Group – Eli edizioni – Rotopress International – Tecnostampa
Gruppo Somi: Somidesign – Somipress
Soci onorari
Comune di Recanati – Fondazione ITS Recanati – ITIS “E. Mattei” Recanati – Università di Camerino
Intervista a Maurizio Cont e Gianmarco Serra, responsabili del progetto di candidatura di Grosseto e La Maremma a Capitale europea della Cultura 2019.
Qual è l’identità del territorio dalla quale scaturiscono le strategie e il progetto del 2019?
L’Europa entra nelle case. Si vuole creare qui un presidio, un distretto, una diffusa e capillare sensibilità culturale dove il Paesaggio capitale è la prospettiva del mondo contemporaneo. Riscattarsi dalla prospettiva della narrazione retorica e delle maschere e assumersi la responsabilità di affrontare seriamente l’amletico problema. Il progetto di Candidatura della Maremma a Capitale Fluttuante Europea 2019 della Cultura, della Natura e dell’Amore nasce da ideali anti-identitari (cioè antitetici a qualunque referenza identitaria: identità nazionale, locale, etnica, religiosa, linguistica, culturale, politica, sessuale, territoriale, ecc., e da qualunque punto di vista: psicologico, antropologico, storico, sociologico, filosofico, sessuologico, ecc.) e fonda ogni sua prospettiva sul cosmopolitismo. Non si ragiona di identità ma di responsabilità. Le radici sono quelle planetarie, l’appartenenza è al cosmo.
Nell’ottobre 2012 c’è stata l’Annunciazione e l’apertura di un dibattito sui Paesaggi anticipati (laddove il Paesaggio è la dimensione della dignità dell’essere e l’anticipazione l’opposto del ritardo, della passività) e sull’agire senza referente (al sindaco, alla mamma, allo sponsor, al pubblico questa cosa non piace…) per restituire il senso dell’azione alla sola meccanica della necessità e dell’assoluto.
La strategia prevede l’abbandono della malattia burocratica e autoritaria (laddove lo stesso bando europeo parla di autorità), sforzandosi di essere quanto più possibile indipendenti in ogni scelta. Con la candidatura si segna nuovamente e finalmente una linea netta di separazione tra cultura ed economia (e dunque turismo): cultura ed economia hanno finalità e funzioni diverse nella vita personale e sociale, sono cose separate che vanno tenute separate. Così come lo spettacolo della cultura e la cultura dello spettacolo: nella candidatura ci si sottrae al taglio del nastro e all’enfasi dei lustrini. Il pubblico non esiste.
Ciascuno spazio – cioè qualunque casa o luogo – può decidere di essere colpita da un meteorite (simbolo delle azioni del 2014) e divenire con ciò dimora della cultura, luogo che ospita una rivoluzione (40mila posti letto vuoti d’inverno in tutta la Maremma). La candidatura prevede solo ruoli attivi per chi partecipa. Non si riconosce il linguaggio delle minoranze o delle maggioranze: ogni azione è per tutti e per nessuno. Tutte le discipline e ogni tema sono ammessi purché chi agisce, intenda superarsi, rivoluzionare per primo se stesso.
Hanno aderito alla candidatura 216 imprese locali.
Quali sono gli asset che la città immette in questo programma?
Il Tenente Colombo ha ben presente che l’assassino farà di tutto per sfuggirgli e sa che ha circa un’ora per incastrarlo e dunque in un tempo limitato e con le risorse a disposizione sfrutta tutto il proprio talento e ogni più piccola energia. L’intelligenza va coltivata: ciascuno è responsabile della propria.
Quali sono le mancanze cui dovrete invece sopperire?
Non ci sono precedenti. Tutto è nelle mani di chi aderisce. Le possibilità di successo sono una su centomila.
I flussi economici delle città d’arte riguardano solitamente pochi addetti ai lavori. Il programma relativo alla candidatura intende coinvolgere uno spettro più ampio di operatori economici?
Grosseto non è una città d’arte e questa non è una candidatura sulla storia passata: in gioco c’è il presente, quello che si vuole fare di se stessi; riconoscere un merito culturale alle pietre o alle opere d’arte realizzate nel passato è assurdo: la Capitale Europea della Cultura deve esserlo per la cultura, le visioni che produce sul presente e la sua capacità di illuminare l’intera Europa con la sua forza rivoluzionaria: i paesaggi anticipati sono questo. Tutti sono coinvolti perché tutti possono diventare attivi dal punto di vista culturale, finanziando e ospitando in casa loro lo studioso, l’artista, lo scienziato che più pensano possa aiutarli a crescere e superarsi.
Cosa rimarrà alla città dopo il titolo di Capitale europea della Cultura?
Gli effetti sulle persone che vivono in Maremma sarebbero gli stessi di quelli di un miracolato.
Leggi le interviste alle altre candidate a Capitale europea della Cultura 2019.
Intervista al Prof. Francesco Adornato, Presidente del Comitato Scientifico responsabile del progetto di candidatura di Reggio Calabria a Capitale europea della Cultura 2019.
Qual è l’identità del territorio dalla quale scaturiscono le strategie e il progetto del 2019?
È un’identità le cui radici hanno lontane e significative origini e dalle quali si è diffusa una più ampia civiltà euro-mediterranea. Ulisse e Enea hanno attraversato il mare che bagna Reggio Calabria e sulle sue coste è approdato San Paolo. Non solo. La città ed il suo territorio, anche per via della posizione centrale rispetto alle rotte mediterranee, sono stati da sempre luogo di incontro e contatto di diverse culture. Di qui, percorsi e stratificazioni culturali di origine greco romana, bizantina, araba, medioevale, confermati tanto dal patrimonio archeologico e artistico, quanto dalla presenza ancora attuale di minoranze linguistiche ed etniche e, più recentemente, da numerose comunità di immigrati di area mediterranea, che costituiscono un’autentica emergenza umanitaria per l’Europa intera. Non a caso, il titolo del progetto che la Città presenta a sostegno della sua candidatura è “ Reggio Calabria porta del Mediterraneo”.
Quali sono gli asset che la città immette in questo programma?
L’obiettivo della candidatura di Reggio Calabria è quello di mettere al centro il tema della integrazione e della promozione di un’autentica dimensione interculturale, che servirà a rafforzare l’unità nella diversità delle culture comunitarie e la loro integrazione, pur nella differenza, nei rapporti con le comunità degli immigrati e, più in generale, con le culture mediterranee. In questo senso, gli asset storici e multiculturali di cui la città ed il suo territorio dispongono, vanno oltre lo spazio del mito e della classicità per diventare elementi fondamentali nel dialogo interculturale dei popoli.
Quali sono le mancanze cui dovrete invece sopperire?
Probabilmente, in modo particolare, possono riguardare qualche carenza infrastrutturale, specialmente per quanto riguarda il collegamento con le zone interne. Ma il programma delle iniziative previste è articolato in modo opportunamente diffuso e ciò consentirà gli opportuni interventi per sopperire a tale ritardo.
I flussi economici delle città d’arte riguardano solitamente pochi addetti ai lavori. Il programma relativo alla candidatura intende coinvolgere uno spettro più ampio di operatori economici?
Il programma può contare, innanzitutto, sul coinvolgimento e il sostegno delle istituzioni locali territoriali: oltre che il Comune proponente, la Provincia e, a livello più generale la Regione (Giunta e Consiglio) e, nel rispetto dei ruoli, la Prefettura di Reggio Calabria, che ha avviato l’iniziativa. È significativo, tuttavia, che gli imprenditori e gli operatori economici abbiano aderito e partecipato alla discussione attraverso le loro rappresentanze, ovvero Confindustria e Camera di Commercio, stimolando in tal modo il coinvolgimento delle imprese nelle iniziative previste nelle diverse realtà territoriali reggine. Il risultato che ci attendiamo dal progetto è che il tessuto economico reggino e della provincia possa avere margini di crescita e di rafforzamento, all’interno di una logica di sviluppo che intende fare della cultura un volano per nuove iniziative economiche.
Cosa rimarrà alla città dopo il titolo di Capitale europea della Cultura?
Da punto di vista ideale rimarrà una grande prova di cittadinanza attiva, ovvero di una comunità che vuole manifestare attraverso il progetto la sua determinata volontà di riscatto. Resteranno inoltre le esperienze e gli scambi che, sul piano culturale, andranno ad arricchire i cittadini e la collettività nel suo insieme, rafforzandone un’identità inclusiva e dialogante. Dal punto di vista materiale resteranno, in particolare, gli interventi pubblici e privati che, nell’ambito dei Progetti integrati di sviluppo urbano, vogliono realizzare una visone strategica di città sostenibile.
Leggi le interviste alle altre candidate a Capitale europea della Cultura 2019.
Intervista a Claudia Sartirani, Assessore alla Cultura della città di Bergamo.
Qual è l’identità del territorio dalla quale scaturiscono le strategie e il progetto del 2019?
Bergamo è un territorio dalle mille dualità: due città, la Alta e la Bassa, montagne e pianure, tradizioni e innovazione, misticismo (il luogo natale di Papa Giovanni XXIII) e laicità; creatività e razionalità. Città di impresa e di marcata solidarietà, di antiche tradizioni artistiche (si pensi ad Arlecchino) e di arte contemporanea. Queste le caratteristiche, il carattere di una comunità. Dualità che sono la nostra ricchezza, che fanno di Bergamo un posto un po’ speciale per molti aspetti. Un posto nel quale scoprire tutte queste sfaccettature, a volte sorprendenti.
Quali sono gli asset che la città immette in questo programma?
C’è un po’ l’imbarazzo della scelta: dalle stratificazioni storiche ed architettoniche a partire dalla antica Bergomum, alla città longobarda, veneta, fino alla città piacentiniana nel ‘900; i teatri, tra i più belli e frequentati di Lombardia; l’Accademia Carrara, depositaria di una collezione di capolavori pittorici del rinascimento, e non solo; e la galleria d’arte moderna e contemporanea, Gamec, oltre ad un numero elevato di affollati musei e biblioteche; il numero eccezionale di festival di ogni disciplina, ma soprattutto musicali, a partire da quello dedicato al genius loci Gaetano Donizetti. Il panorama mozzafiato dalle (e delle) Mura Venete; e ancora la nascita sul nostro territorio di circa 180 garibaldini, che ci permette di fregiarci del titolo Città dei Mille. Ma anche tanto futuro, tanta ricerca, una passione per le discipline scientifiche comprovato dal successo eccezionale tributato annualmente a Bergamo Scienza, una manifestazione che ogni anno porta in città più di un premio Nobel e una folla di visitatori, da un polo scientifico di eccellenza mondiale, e dall’attività dell’Istituto Mario Negri. Per non parlare di sport di ogni epoca, e stilisti… Un elenco che potrebbe continuare.
Quali sono le mancanze cui dovrete invece sopperire?
Le mancanze sono la storica eredità di una città di frontiera, cauta e qualche volta un po’ diffidente. Questo le ha regalato una immagine esagerata che non risponde più alla realtà. Ma che forse noi non abbiamo fatto molto per scrollarci di dosso, sempre più dediti da bergamaschi a costruire che ad apparire. Questa candidatura è anche un utile esercizio di riposizionamento di mentalità per molti di noi; tra l’altro un’occasione per molti bergamaschi di accettare senza esagerata umiltà, attaverso il crescente gradimento del turismo internazionale, che la nostra è davvero una bella città. Insomma come dice il nostro slogan di candidatura, un’occasione per andare “Oltre le mura”.
I flussi economici delle città d’arte riguardano solitamente pochi addetti ai lavori. Il programma relativo alla candidatura intende coinvolgere uno spettro più ampio di operatori economici?
Bergamo ha la fortuna di essere una città d’arte e contemporaneamente una città di impresa e commercio. Quindi rispetto ad altre città candidate ha opportunità di attrattiva per una platea più ampia. Una sintesi tra arte e scienza, impresa e turismo, cultura e tecnologia. Confidiamo quindi che la candidatura ci porti ad esaltare questa “unicità duale” rappresentata simbolicamente da Città Alta e Città Bassa che parlano al visitatore e alle sue potenziali diverse sensibilità e ai suoi diversi interessi. Insomma quella della Cappella Colleoni e del castello di San Vigilio, e della Tenaris Dalmine e del Kilometro Rosso sono la stessa città! Questo fa di Bergamo la vera outsider di questa competizione. Una outsider discreta e consapevole anche dei suoi limiti, ma con molte frecce al suo arco.
Cosa rimarrà alla città dopo il titolo di Capitale europea della Cultura?
Una diversa immagine più conforme all’identità complementare di città d ‘arte e cultura e città di innovazione e ricerca nell’ impresa. Una sintesi nella quale passato e futuro saranno collegati, in una Bergamo al centro di una rete di connessioni europee; da antica città fortificata a moderno crocevia di idee, iniziative, e turismo nel segno dell’arte. Una città nella quale il fermento che già da anni anima la città sia compiuto in una consapevolezza di cittadinanza europea. Bergamo come motrice di un nuovo benessere proveniente da un sistema produttivo integrato innovativo e sostenibile.
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