Mentre scrivo scorrono le immagini delle manifestazioni che infestano Roma da quando esiste la libertà di esprimere qualunque idea in qualunque forma, anche quando non si tratta di idee ma di posizioni di rendita di pochi, fortunati sindacalisti che manipolano molti, moltissimi sfortunati (e impreparati) lavoratori. I quali, invece di perdere tempo e energie, potrebbero aggiungere valore alle loro vite con una relativa facilità.

Mentre scrivo scorrono le immagini dei lotti delle aste di Londra: Gursky un milione e mezzo di sterline, Wade Guyton ottocentomila sterline, Cindy Sherman mezzo milione di sterline. E così via. Tutti nomi “indovinati” anni fa, molti anni fa quando i soloni e i principianti dell’arte gridavano alla bolla. Era il 2003, dura da dieci anni. Le bolle durano, quando va bene, un anno e mezzo… Tutti zitti davanti ai risultati, salvo ricominciare a gridare a fine week end di Frieze, quando tornano protagoniste l’invidia, le gelosie, le piccinerie di chi percepisce le proprie incapacità e accusa gli altri di “fare sistema” in chissà quale modo. Bassezze tutte italiane.

Adrian Paci_The walk

Nel frattempo, come ampiamente previsto, le aste macinano record da dieci anni e il nostro Fisco, sordo a qualunque sollecitazione da parte nostra, continua a punire i ricchi per mandare in piazza i poveri. A far niente. A far finta di protestare contro un nemico invisibile: la crisi. La categoria dei trasportatori d’arte, intanto, in tutto il mondo, è il settore più in crescita dell’intero comparto. Si chiama indotto, si studia in seconda liceo.

Infatti la crisi, oltre che oggettivamente in molti mercati, in Italia è anche nei comportamenti, nella quotidianità, nelle attitudini che vengono o non vengono alimentate. Nella fattispecie vengono alimentate le attitudini alla protesta sterile, inutile e scomposta, spesso volgare e fuori luogo. Non vengono invece alimentate le attitudini alla creatività organizzata, all’arte come professione millenaria (Rembrandt faceva anche il mercante d’arte…), alla cultura come sistema identitario e imprenditoriale che distribuisce intelligenza e denaro. Noi sappiamo benissimo come si fa, conosciamo le best practice, le dinamiche operative e strategiche dell’economia culturale, le abbiamo messe in pratica per anni e continuiamo a farlo. Perché crediamo nell’organizzazione e nella solidarietà messe insieme. Crediamo nell’Uomo e nel ragionamento, nella flessibilità e nell’immaginazione, nella scientificità dell’arte e nella sua imprescindibile preziosità per la crescita e l’evoluzione. E per questo portiamo risultati, comprese le previsioni di crescita degli artisti, che non sono in contraddizione con il concetto di generosità e divulgazione, anzi.

Solo che bisogna applicarsi, saper leggere, ragionare, riflettere, controllare ed evolversi. Senza gridare, possibilmente. Le braccia che si agitano inutilmente, oltre a sottrarre energie all’agricoltura, distraggono per primo chi le muove.

 

Carmentano - Bandiera siamo stati uniti

Un gettito come quello dell’arte oggi, impressionante, enorme e in continua crescita, merita di essere trattato fiscalmente con un IVA al 10% (se non al 7 come in Germania o al 4 come in Danimarca…) visto che siamo tra i primi cinque Paesi al mondo per spesa sul Contemporaneo. Un atteggiamento punitivo di imprese e investitori, da parte del Governo, oltre ad essere novecentesco e tristemente fallimentare, è dannoso e ferma la crescita che tanto sbandierano di voler perseguire. Se poi i soliti piccoli invidiosi, quelli che non sanno analizzare serenamente le situazioni e i loro rapidi cambiamenti, danno una mano a questa demagogia imperante, il danno diventa irreversibile. E ci vorranno 25 anni per risolvere il problema più grave di tutti: quello dell’intelligenza al comando.

Francesco Cascino è Contemporary Art Consultant,  Cooltural Projects Curator e Presidente ARTEPRIMA No Profit

Immagini:
ADRIAN PACI – The Walk
DARIO CARMENTANO – Siamo Stati Uniti

italian museum signIn Italia, negli ultimi vent’anni, il ruolo del privato nel settore culturale si è costruito e giocato principalmente sul fronte dei servizi aggiuntivi. Facendo il loro ingresso con la Legge Ronchey del 1993 ed ampliando progressivamente il loro raggio d’azione con le misure normative che sono seguite – dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio del 2004 al Decreto Legge 159 del 2007 – imprese e organizzazioni hanno provato ad introdursi nel mercato dei servizi culturali, fronteggiando numerose difficoltà, dall’inadeguatezza normativa alle restrizioni amministrative imposte.

Se inizialmente la Legge Ronchey ha previsto la concessione di un set ristretto di servizi – nello specifico: il servizio editoriale, di vendita e riproduzione, i servizi di caffetteria e ristorazione e la vendita di beni legati all’informazione museale – perseguendo criteri di convenienza finanziaria e aumento della qualità offerta, col passare degli anni è cresciuto il numero delle attività affidate a soggetti esterni all’amministrazione pubblica. Sempre più spesso sono i servizi afferenti la gestione ordinaria ad essere dati in concessione, dalla gestione delle biglietterie alla vigilanza delle sale, insieme ad attività strettamente connesse alla valorizzazione, come ad esempio la didattica. Il Codice Urbani ha posto l’accento sulla volontà di favorire forme di sussidiarietà orizzontale nella gestione del patrimonio e i “servizi al pubblico” sono oggi diventati, a tutti gli effetti, un tassello nel più ampio piano di valorizzazione delle strutture culturali.

L’evoluzione del contesto e delle stesse attività culturali rendono oggi particolarmente manifesti i limiti e le criticità dell’assetto giuridico vigente, che dovrebbe essere rivisto e aggiornato da molteplici punti di vista, dalle modalità di esternalizzazione dei servizi alla durata degli affidamenti, dalla sperimentazione di forme innovative di collaborazione alla concessione di una maggiore autonomia decisionale ai privati.

Il mondo dei servizi aggiuntivi in Italia si trova ad affrontare una situazione di forte confusione, le esperienze maturate negli ultimi vent’anni presentano oggi un settore frammentato, poco trasparente, dall’apparente scarsa redditività, popolato da soggetti imprenditoriali incapaci di progettare i servizi e la valorizzazione in un’ottica ad ampio spettro. Si pone la forte necessità di rivederne le dinamiche e la regolamentazione, così da far evolvere il settore e i suoi protagonisti.

In questa fase di transizione sempre più spesso viene chiamato in campo il Facility Management, quale potenziale best practice per il settore culturale, vera e propria chiave di volta per avviare una nuova fase della gestione pubblico-privata della cultura. In estrema sintesi, per Facility Management s’intende il coordinamento unitario di tutte le attività che non rientrano nel core-business aziendale ma che sono tuttavia necessarie per il funzionamento dell’organizzazione. A caratterizzare con forza questo approccio è l’affidamento unitario di tutte le attività non core – quindi di servizi fra loro anche molto diversi – ad una singola impresa o ATI, che ne cura la gestione in un’ottica integrata, riducendo i costi amministrativi e gestionali legati alla diversificazione dei contratti e agevolando l’accorpamento di alcune prestazioni. Il fornitore che subentra s’impegna a predisporre una sorta di cabina di regia sulle varie attività – si pensi ad esempio al Global Service – deve per questo possedere un insieme di competenze ampio e diversificato ed è spesso vincolato da accordi e contratti basati sulle performance

Ma il sistema culturale italiano è pronta ad accogliere il Facility Management?
L’ecosistema italiano della cultura può essere efficacemente paragonato ad un museo diffuso, una rete che ospita quattro o cinque attrattori e circuiti di grande richiamo, ma che annovera poi un fitto tessuto di istituti culturali di dimensioni minori, disseminati capillarmente sul territorio nazionale. Per ricchezza e frammentazione il patrimonio culturale italiano può considerarsi unico e non si può non prendere atto di tale unicità anche nelle scelte amministrative.

Il Facility Management può rivelarsi uno strumento adeguato anche per la gestione dei servizi culturali nei sistemi minori? Le nostre imprese sono giunte ad uno stato di maturità che consenta loro di competere con i grandi gruppi internazionali attivi nel settore? Se così non fosse, questi soggetti sarebbero gli unici a beneficiare dell’apertura del mercato e, ancora una volta, assisteremo inerti alla colonizzazione delle nostre risorse.

Prima di rivolgere tutte le attenzioni ad uno strumento come il facility management forse dovremo partire dai limiti strutturali della situazione attuale per sostenere la nascita e la crescita delle PMI del settore culturale, guidandole all’interno di sistemi territoriali ben oliati, capaci di trasformare gli attrattori culturali in fonti di ricchezza da ridistribuire sul territorio. I musei, le aree archeologiche e i siti culturali sono catalizzatori di flussi, attorno ai quali possono nascere e svilupparsi tutta una serie di servizi, dal retail al turismo, alle nuove tecnologie – che possono costituire terreno fertile per una generazione di startup e micro imprese innovative.

Un giorno, forse, queste imprese saranno maturate ad un punto tale da poter competere con i grandi player internazionali e l’apertura del mercato non potrà che essere lo step fondamentale per proseguire con una crescita virtuosa. Fino a quel momento, non possiamo pensare di fronteggiare i giganti con le nostre sole mani e dobbiamo saper valutare attentamente i retroscena di ogni scelta di gestione afferente il patrimonio.

 

fildelcoMilano, centro nevralgico della produzione culturale italiana, città di riferimento per l’editoria, così come per l’arte contemporanea e per la moda. Per molti la più internazionale delle province italiane,  il capoluogo meneghina è alla vigilia di un biennio fitto di impegni e di difficoltà, che si concluderà con un Expo che ha già attirato critiche e disappunti. Abbiamo parlato di questo, e di molto altro, con Filippo Del Corno, Assessore alla Cultura del Comune di Milano.

 

Qual è il rapporto tra cultura e spazio urbano?
La relazione tra cultura e spazio urbano è centrale, soprattutto in una città come Milano, che ha una caratteristica molto particolare, e forse non ancora del tutto compresa e valorizzata ma che, di fatto, la contraddistingue da molte città italiane ed europee: è, infatti, una città che vanta una presenza molto diffusa di centri di creazione culturale. La pianta della nostra città, costruita intorno ad un centro immediatamente riconoscibile che, con un movimento quasi spiraliforme, va verso i confini, consente la diramazione di nuclei diffusi in cui la cultura si espande, nuclei che non sono collocati in zone circoscritte o in singoli quartieri. Ciascuno di questi luoghi intesse ha, infatti, un rapporto molto forte con lo spazio urbano circostante, diventando anche luogo di integrazione e aggregazione per i flussi sociali della città. Credo che la prima considerazione da fare sia proprio questa: essendo la cultura, uno strumento valido per la creazione di ponti di dialogo, di rapporti sociali e di aggregazione, quanto più questa riesce ad essere diffusa in maniera capillare, tanto più dispone il territorio a vivere lo spazio urbano in maniera diversa. Da questo punto di vista, ritengo che non ci sia miglior presidio di legalità per un territorio che una serie di luoghi che diffondano e promuovano la cultura.

 

Milano città della moda ma Milano è anche città dell’arte contemporanea: ritiene che quest’aspetto sia ben comunicato all’estero?
Sì, ritengo sia ben comunicato all’estero, almeno per quanto riguarda gli operatori del settore. A Milano c’è una rete molto fitta di gallerie private e varie manifestazioni, come la Fiera Internazionale d’Arte Moderna e Contemporanea (MiArt), recentemente rilanciata grazie alla nuova direzione che ha sicuramente fornito un respiro più internazionale rispetto alle edizioni che l’hanno immediatamente preceduta. Però il grado di diffusione raggiunto nei confronti degli operatori, non è altrettanto diffuso presso il pubblico. Ciò nonostante, le ultime analisi inerenti il turismo rivelano che sempre di più questa città sta diventando una meta importante per il turismo culturale.

 

Cosa, secondo il suo parere personale, manca a Milano dal punto di vista culturale?
È molto difficile rispondere, perché a mio avviso, Milano è una città che non ha forti mancanze dal punto di vista culturale. Più precisamente credo che Milano abbia sempre saputo sopperire con grande capacità, ingegnosità e laboriosità ai vuoti di offerta culturale. Come uomo di cultura, e meglio ancora come cittadino, non ho mai avvertito una grave o forte mancanza. Quello su cui sicuramente Milano è in ritardo rispetto ad altre città, è la scarsa presenza di luoghi deputati alla produzione culturale rivolti ai giovani: credo che facciano molta fatica a trovare luoghi fisici e spazi istituzionali nei quali lasciar emergere il proprio potenziale creativo.

 

Questo è un problema comune a tutto il Sistema Paese, del resto
È vero, è un problema che riguarda tutto il Sistema Paese e che affonda le sue radici in due fattori principali: da un lato il Paese soffre della mancanza di un ricambio generazionale ai vertici, per cui ci troviamo con Istituzioni Culturali dirette da attori che non riescono ad intessere un dialogo fertile con le nuove generazioni, e a questo punto stiamo cercando di porre rimedio; l’altro fattore è che, ritornando all’esempio di Milano, la riconversione di spazi che il Comune potrebbe mettere a disposizione di questa emergenza culturale giovanile fatica a trovare le risorse necessarie per trasformare questi luoghi in locali agiati ed agibili.

 

In merito a questa tematica, si parla molto di collaborazione tra pubblico e privato. Il dibattito ha interessato tutte le possibili collaborazioni che si possono intessere tra queste categorie di attori, dalla partecipazione diretta alla co-gestione. Lei ritiene che questo connubio (le famose 3P) possa riguardare tutti i campi della cultura o crede ci siano dei settori che per loro natura non interessano il privato?
La collaborazione deve essere assolutamente estesa a tutti i campi, altrimenti si verrebbero a creare delle sacche di esclusione che porterebbero inevitabilmente a fenomeni di inefficienza e di recessione. Ritengo che la strada che bisogna intraprendere passi attraverso lo sviluppo di un’alleanza tra utilità pubblica e utilità privata. Il privato va coinvolto in conformità a un principio condiviso, ossia che il patrimonio cognitivo di una comunità ne innalza le potenzialità di sviluppo sociale ed economico. In questo senso il privato deve intervenire nei progetti di sviluppo culturale non tanto, o non esclusivamente, nelle forme del mecenatismo, o nelle forme del mero ritorno di visibilità, ma spinto dalla consapevolezza di investire anche sul proprio futuro. Questa consapevolezza è alla base di qualunque tipo di collaborazione, perché non si può chiedere ad attori privati di sopperire alla contrazione di finanziamenti di cui soffre il settore pubblico, senza che ci sia la certezza che ad una comunità con un alto patrimonio culturale corrisponda un terreno fertile per nuovi progetti di innovazione e di spirito di imprenditorialità, nonché slancio all’internazionalizzazione, fattori questi che si rivelano sempre più importanti per la crescita di un’utilità privata. Da questo punto di vista la grande sfida che stiamo affrontando oggi è quella relativa ai modelli di gestione: è ormai in crisi, direi in tutto il mondo, l’idea di una gestione diretta da parte del Pubblico dei luoghi produttori di cultura. Il Pubblico deve stimolare il Privato ad essere un alleato nella creazione di modelli di gestione che siano in grado di rendere questi luoghi sostenibili: è la sostenibilità, ormai, il principio fondamentale della capacità della cultura di generare un valore positivo per la comunità. Si tratta di un’idea ottima, ma è molto difficile riuscire a concretizzarla.

 

Un tentativo di questa collaborazione è però l’Expo: dal punto di vista culturale, ho notato che c’è molta difficoltà a creare un’empatia tra ciò che sarà l’Expo e la Città di Milano. Qual è la più grande difficoltà che si incontra nel comunicare un evento di questo tipo?
Credo ci sia una difficoltà quasi ontologica, perché è estremamente difficile immaginare e raccontare qualcosa che non c’è e che è ogni volta diverso. L’Expo è una grande manifestazione, ma ha ogni volta una declinazione così particolare legata al tema e al luogo in cui questa viene ospitata che è impossibile raccontarla secondo logiche comunicative seriali. Faccio un esempio banale: se Milano dovesse ospitare un grande evento sportivo (come i Mondiali di Calcio o le Olimpiadi) non ci sarebbero grandi difficoltà di comunicazione: la curiosità si concentrerebbe sui luoghi o sull’organizzazione scenografica, ma questi eventi sono immediatamente riconoscibili e riconosciuti. Un’esposizione universale è un grande evento culturale (e non solo) che assume ad ogni manifestazione forme diverse. La più grande difficoltà nella creazione di un immaginario legato a quest’evento è la totale assenza di termini di paragone forti. Ciò che però va assolutamente fatto è la costruzione di una narrazione dell’Expo come grande opportunità per Milano e per il Sistema Paese: ripensare al tema dell’alimentazione sotto i vincoli di sostenibilità, cooperazione e condivisione di strumenti e di conoscenza è fondamentale, e Milano 2015 può essere davvero l’occasione dalla quale veder nascere una nuova visione dell’alimentazione per l’intero pianeta. Questa è sicuramente un’opportunità di sviluppo che non va assolutamente sottovalutata.

 

 

 

 

 

labculturaSulla scena italiana il management culturale ha mosso i primi passi fra gli anni Settanta e Ottanta. Quasi un ossimoro, considerato al pari di un’eresia, si è piano piano affermato catalizzando l’interesse della comunità scientifica e diventando lo snodo focale di ricerche, pubblicazioni, convegni e disquisizioni. Volgendo lo sguardo agli ultimi venti o trent’anni si vede molta astrazione accademica di fatto basata sul principio del copia-incolla: prendiamo il management generalista, attacchiamogli l’aggettivo culturale e salveremo le sorti finanziarie della cultura.

Il sillogisma, fragile e velleitario, è nipote di Baumol e figlio di qualche economista bravo con i numeri ma estraneo alle Muse; visto che così non funziona, importiamo i protocolli gestionali delle aziende senza se e senza ma. Tuttora molti punti nevralgici del sistema culturale sono in attesa di un’analisi che si basi sulle specificità uniche della cultura e non, come di norma avviene, sulla sua acritica omologazione al paradigma manifatturiero.

In un Paese ossessionato da pezzi di carta e certificazioni non può sorprendere che il bisogno di management culturale sia stato accompagnato da un proliferare di corsi di studio, seminari, workshop e convegni connessi al patrimonio culturale e alla sua capacità di generare valore. Qui, da molti anni, si assorbe un gran numero di giovani (studenti o professionisti) che il mercato del lavoro culturale non è in grado di assorbire, vuoi per le forti barriere all’ingresso vuoi per l’insufficienza di percorsi formativi che spesso distribuiscono risposte a buon mercato senza mai circostanziare domande pertinenti.

Si deve peraltro osservare che la parziale efficacia della formazione è dovuta anche – o soprattutto? – alla mummificazione del sistema culturale, cristallizzato sotto il reticolo piuttosto blindato di una nomenklatura di vecchia generazione nella quale spesso l’esperienza cede all’automatismo compiacente e teme la sperimentazione come un grimaldello che farebbe vacillare il consenso esterno (ossia della classe politica che stabilisce le regole del gioco) e interno (ossia dei sindacati che lavorano con impegno per il mantenimento dello status quo).

Un insieme ristretto di nomi occupa gli spazi disponibili, spesso ricoprendo molteplici cariche contemporaneamente. Non sorprende dunque che il sistema cuturale italiano sia un magnifico fossile: alle nuove generazioni l’ingresso è sostanzialmente precluso e molte delle poche possibilità che si aprono non offrono la reale occasione di progredire e fare carriera. Uno stagista che conclude un master si affanna per fare il cassiere nel bookshop di un museo, con ogni probabilità lo ritroveremo a rilasciare scontrini anche a quarant’anni.

Le norme che regolano il lavoro culturale sono fortemente costrittive, e le risorse umane non possono essere valutate secondo il loro merito, né gestite secondo le necessità strategiche del datore di lavoro. Organismi anomali come le Fondazioni di Partecipazione possono considerarsi private solo sulla carta. Spesso le figure prescelte per occuparne i vertici sono nomi ripescati dalla politica locale o dalla pubblica amministrazione, insigniti del ruolo sulla base di interessi più o meno evidenti, provenienti da percorsi formativi e professionali anche molto distanti dalla gestione del patrimonio culturale.

Allo stesso tempo, rinnovare la forza lavoro esistente può risultare un’impresa ardua, se non impossibile. I posti disponibili sono pochi, le assunzioni possono considerarsi bloccate anche nel privato o “para-privato” e spesso non è possibile operare una messa in discussione dei ruoli sulla base dei risultati registrati. I bizantinismi del mercato del lavoro culturale impediscono qualsiasi possibile misurazione e valutazione di performance, tanto per i vertici quanto per i dipendenti, compresi quelli con mansioni fungibili.

Per il settore culturale il capitale umano è una risorsa fondamentale per tutte le fasi che ne declinano la vita, produzione, gestione, valorizzazione, comunicazione. Senza strategia non si può attivare alcun percorso evolutivo, il che esclude il bisogno di innovazione. Le risorse umane così finiscono per essere scelte in quanto passive, le esperienze esterne e le best practices vengono dimenticate, le relazioni con il resto del sistema culturale e con l’economia territoriale vengono snobbate. La cultura italiana è descritta da una mappa di poli verticali che si ignorano reciprocamente e si considerano nemici.

Quando si parla del problema delle competenze degli operatori culturali, tematica tutt’altro che nuova sull’orizzonte del dibattito, si fa riferimento a molti dei ragionamenti appena esposti. E’ dalla fine degli anni Novanta che s’invoca la necessità di creare una nuova e più moderna “cultura dell’impresa culturale” (Lucio Argano, 1998), procedendo con una valutazione degli effettivi bisogni formativi e d’impiego in ambito gestionale rispetto al settore. Il processo di rinnovamento organizzativo delle istituzioni e delle organizzazioni artistico-culturali e l’inquadramento delle figure professionali dal punto di vista giuridico, della spendibilità dei titoli, dei meccanismi di valutazione, selezione e reclutamento sono svolte essenziali, la cui necessità è stata denunciata a gran voce da diversi anni.

In questi tempi di profonda crisi, in cui si assiste alla progressiva riduzione del sostegno pubblico alla cultura, è fondamentale ragionare sulle fonti alternative di finanziamento. Questo non vuol dire pensare in maniera esclusiva al fundraising e ai contratti di sponsorizzazione, ma piuttosto impegnarsi nella definizione pratica di modelli di business che, pur considerando queste voci d’entrata, vedano nella generazione autonoma di reddito il motore fondamentale della sostenibilità economica. In altre parole, è giunto il momento di passare dalla teoria alla pratica.

I manager culturali dovrebbero saper interpretare il ruolo che la cultura (già) occupa in un paradigma economico inedito, in una società tendenzialmente cosmopolita e relazionale. E’ tempo di sperimentare nuovi indirizzi strategici che si fondino sui profili specifici della cultura come prodotto multidimensionale, capace di penetrare nuovi mercati, di ibridare produzioni eterogenee, di dar forma a modelli sociali che accrescano la qualità della vita urbana. Convegni e tavole rotonde non bastano più. Il thread dei prossimi anni deve mescolare visioni ed esperienze, e immaginare scenari liberi da dogmi e luoghi comuni.

djLa rivista Forbes ha pubblicato la lista dei DJ che hanno guadagnato di più nel corso dell’ultimo anno, stilata non solo sulla base delle vendite di produzioni e remix, ma soprattutto dei guadagni derivanti dalle performances live nei più prestigiosi clubs del mondo.
È il secondo anno consecutivo che la prestigiosa rivista di economia e finanza, conosciuta a livello internazionale, decide di pubblicare una classifica per certi versi bizzarra, che prende in considerazione non gli uomini più potenti della terra o quelli dal patrimonio personale più grasso, bensì dei musicisti che sono impegnati ogni giorno in una missione solo all’apparenza facile: intrattenere milioni di giovani in tutto il mondo. Professionisti che non troverete mai in tv e solo raramente sui giornali, perché la loro forza è nel contatto con i giovani e gli appassionati del settore, soprattutto attraverso il web e i new media.

I guadagni sono cospicui, soprattutto per chi, in questi ultimi anni, è riuscito a costruirsi un nome di tutto rispetto: chiedetelo a Calvin Harris, che grazie a collaborazioni di alto livello (Rihanna, giusto per fare un nome), remix e performance coinvolgenti, è riuscito a guadagnare in un anno la bellezza di 42 milioni di dollari. Del resto, la classifica di Forbes è uno specchio dei tempi: inutile discutere e riflettere su quanto sia giusto che un DJ guadagni queste cifre. La questione è un’altra e copre diversi aspetti, dall’economia alla cultura.

In qualche modo, non deve neanche sorprendere che la rivista americana abbia scelto di compilare questa classifica: la EDM (sigla che indica l’insieme di generi relativi alla Electronic Dance Music) non è più un mondo underground e di nicchia come accadeva solo dieci o quindici anni fa. E’ facile, oggi, trovare dei DJ nelle classifiche degli album o dei singoli più venduti, soprattutto negli stores digitali. Basti pensare all’escalation dello svedese Avicii, che dopo il grande successo di Levels, ha catturato nuovamente il favore del pubblico con il recente Wake Me Up, brano campione di vendite.

Si tratta di un boom che ha conquistato l’Europa intera nel giro di poco meno di un decennio e che ora va alla conquista di un mercato particolarmente difficile, quello americano. Nessuno può prevedere se questa operazione di conquista culturale da parte dell’Europa avrà successo, ma alcuni piccoli segnali lasciano intendere che il futuro della EDM in America sarà alquanto roseo, come dimostra l’attenzione del pubblico verso questi generi (Trance ed Electro House in testa) e i loro produttori più famosi, e anche l’exploit di alcune località, come Las Vegas, che stanno diventando sempre di più un punto di riferimento importante per i Clubbers (gli amanti della musica da discoteca e dei generi Dance Elettronici) di tutto il mondo, contendendo il prestigioso scettro a luoghi leggendari come Ibiza.

Ma la questione è molto più ampia e, come anticipato, interessa il mondo della cultura sotto diversi punti di vista: se la EDM sta conquistando sempre più spazio nel pubblico, soprattutto grazie alla vitalità e freschezza che la caratterizza. Gli appassionati chiedono sempre qualcosa di nuovo e i big li accontentano, non solo proponendo singoli e album originali con una certa velocità, ma soprattutto lanciando nuove stelle emergenti e futuri prodigi della Dance Elettronica. Ecco allora che quei milioni di dollari conquistati in un anno iniziano ad assumere una luce diversa: se da un lato una buona parte di questi soldi vengono spesi in ville, staff, divertimenti personali e jet privati (necessari per viaggiare da una parte all’altra del mondo ed essere presenti nelle più prestigiose discoteche del pianeta, soprattutto in estate), dall’altro è anche vero che un buon livello di queste entrate viene investito nella ricerca e promozione di giovani talenti. Non stiamo parlando più di semplici DJ, ma di veri e propri investitori culturali.

Prendiamo il caso dell’olandese Armin van Buuren (ottavo nella classifica Forbes con “appena” 17 milioni di dollari): un nome che in Italia, purtroppo, non è ancora conosciuto come dovrebbe (anche se l’ultimo singolo, This Is What It Feels Like è andato benissimo anche da noi!), ma che all’estero viaggia su livelli altissimi, tanto da posizionarsi al primo posto della classifica dei DJ più conosciuti e amati al mondo per ben 4 volte negli ultimi 5 anni. Un record imbattibile! Ebbene, Armin è co-fondatore e mentore dell’etichetta discografica Armada Music, una delle label EDM più famose e prestigiose, che oltre ad avere sotto contratto alcuni grandi nomi del settore (Paul Oakenfold, Chicane, ATB, Dash Berlin e altri), riunisce tante piccole labels indipendenti, spesso create, a loro volta, dai produttori più “anziani” e dalla forte esperienza. Lo stesso Armin ha da poco lanciato una nuova label, la “Who’s Afraid of 138?!” (due sole uscite all’attivo al momento), che riprende il titolo di uno dei brani del suo ultimo album “Intense” ed è impostata maggiormente sullo stile Uplifting che tanti proseliti ha in Europa, soprattutto nelle regioni settentrionali.

I giovani produttori “sfornati” da queste labels sono tanti e spinti non solo da una forte passione per la EDM, ma anche da una carica creativa unica nel suo genere, in grado di rinnovare costantemente questo settore. Dall’altro lato, i DJ più maturi non hanno paura di investire sulle nuove risorse. E non hanno neanche paura che uno di loro, un giorno, possa prendere il loro posto. Anzi, ne sono quasi felici, perché significa assicurare una linea di continuità a un mondo, quello EDM appunto, che nel corso dei prossimi mesi e anni continuerà a crescere in modo irrefrenabile.

Immaginate se una logica del genere fosse attuata dalla nostra classe politica o da alcuni segmenti della nostra società. Immaginate un responsabile d’azienda che, con coraggio, decide di investire sui giovani più capaci come fanno i DJ professionisti: riuscirebbe a dare una risposta concreta al drammatico problema della disoccupazione giovanile, garantendo un ricambio generazionale che può portare solo freschezza, originalità e creatività nel mondo industriale e, di conseguenza, all’interno della società nella sua interezza. E se altri potessero seguire il suo esempio, magari a livello nazionale, le cose non potrebbero che migliorare. In poche parole, dal mondo Dance Elettronico possiamo solo imparare…

Certo, ci fosse un’attenzione maggiore da parte dei DJ più noti nei confronti di alcuni temi caldi, come quello dei diritti umani (per fare un esempio, lo stesso Armin ha ricevuto critiche da molti fans per aver suonato in Russia, nazione che da diversi mesi calpesta i diritti degli omosessuali in modo brutale e orribile), il quadro sarebbe perfetto. Dalì consigliava di non avere paura della perfezione, perché non riusciremo mai a raggiungerla. Ma chissà, qualcosa potrebbe muoversi anche in questo segmento. E a quel punto, non resterà che aprire gli occhi di fronte a una rivoluzione socio – culturale che sta già scorrendo sotto i nostri occhi e suonando nelle nostre orecchie.

 

pubblicoprivatoIl 30 luglio scorso, è stato sospeso il bando europeo di aggiudicazione della concessione di servizi relativi all’area archeologica romana del Teatro di Marcello, offrendoci nuovamente lo spunto per approfondire l’annosa questione sull’affidamento al privato del patrimonio culturale Italiano.
Sono anni che gli esperti s’interrogano riguardo l’eticità di interventi privati nella gestione del nostro patrimonio.

Il punto di partenza fu nel 1993 la legge Ronchey, che prevedeva la concessione dei servizi aggiuntivi museali a istituti privati. L’assegnazione, della durata massima quinquennale, sarebbe stata aggiudicata alla migliore offerta dal punto di vista qualitativo ed economicamente più vantaggiosa, o meglio, a maggiore canone di locazione e di percentuale versata al Ministero dei Beni Culturali sulle vendite effettuate. La legge stabiliva che sarebbero stati a carico del concessionario gli oneri di allestimento, di realizzazione ed erogazione di servizi e prodotti di vendita, i quali avrebbero dovuto seguire rigidi canoni stabiliti dalle Sovrintendenze; qualora fossero disattese le specifiche in termini di tempistiche o di qualità, vi sarebbe stato il decadimento della concessione e il versamento di un compenso.
Dopo il primo slancio della fine degli anni ’90 e l’aggiudicazione delle prime grandi concessioni presso aree archeologiche e museali illustri, tra cui il Colosseo e Pompei, non si sono raggiunti i risultati attesi, perdendo nel tempo il controllo anche sulle concessioni già accordate e determinando un clima d’incertezza per le poche imprese private che operano nel settore.
In un periodo di tagli alla spesa pubblica, e ai beni culturali, è necessario l’avvio di Partenariato Pubblico Privato per la tutela del patrimonio Italiano, che ormai lo Stato non solo non riesce a valorizzare, ma non è in grado nemmeno di mantenere.
Gli strumenti per questa finalità sono molti, dalla concessione di servizi, che come già illustrato, grazie all’intervento dei privati, dei loro fondi e del loro spirito imprenditoriale riuscirebbero a rendere l’offerta culturale più appetibile e la gestione dei siti economicamente sostenibile.

Un altro strumento, è il Project Financing che prevedrebbe la realizzazione di grandi restauri a carico di privati in cambio della concessione di gestione del sito e dei relativi proventi per un numero stabilito di anni, al termine dei quali il bene ritornerebbe allo Stato restaurato e già avviato ad attività in grado di garantirne la sostenibilità economica.
Nel Partenariato il Pubblico deve ricoprire il ruolo di garante della tutela del bene, della qualità delle opere e dell’eticità dei servizi; mentre il privato è portatore di fondi e di know-how imprenditoriale finalizzato alla valorizzazione e alla sostenibilità economica del patrimonio.

Il mondo anglosassone, già dagli anni ’80, vede nel contributo dell’imprenditoria privata un ruolo cardine nella gestione dei siti culturali. Laddove la gestione dei servizi aggiuntivi ai musei è erogata in collaborazione con i privati si è guadagnato sia in qualità sia in redditività, si veda la capacità dei musei Inglesi e Americani, Tate e Guggenheim in primis, di sviluppare il ramo del merchandising tanto da aver aperto shop on-line nei siti internet istituzionali. Grazie allo sviluppo delle attività museali collaterali, sono riusciti ad ottenere la fidelizzazione del pubblico, dati provano che delle circa 4.500.000 persone/anno della Tate Modern i due terzi sono inglesi, potendo così contare non solo sul passaggio dei turisti, ma sulla presenza costante di pubblico locale.
La diatriba sulla gestione Pubblica o Privata del patrimonio culturale Italiano è un argomento che deve essere superato, oggi la necessità è di iniziare la collaborazione per salvare il patrimonio che man mano si sta irrimediabilmente perdendo, e puntare a renderlo economicamente sostenibile e redditizio in modo che possa diventare punto di partenza per lo sviluppo dell’intero Paese.

notteforiIl neoeletto sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha deciso di chiudere al traffico delle auto private via dei Fori Imperiali, dal Colosseo a Piazza Venezia. Con concretezza, l’operazione si sta realizzando in tempi brevi e sembra avere le caratteristiche per proporsi come biglietto da visita della nuova giunta. Intorno a questa scelta stanno crescendo aspettative che tendono a farla diventare un punto di riferimento di riflessioni, proposte e interrogativi di chi ha cuore il rapporto con la cultura nel nostro paese.
E’ realistico pensare che questa attenzione vada attribuita a una felice coincidenza che pone il provvedimento del sindaco Marino nel punto di snodo di diverse problematiche che riguardano la vita nelle nostre città.

La chiusura infatti nasce dalla preoccupazione per la tutela del Colosseo e dell’area circostante messe a dura prova dal traffico, dallo smog e dai lavori della Metro C. A questo vanno aggiunte le proteste di cittadini e operatori per il rischio di degrado di un’area che sembra essere stata abbandonata al turismo di massa tra venditori di paccottiglia, giganteschi torpedoni e pochi servizi. Nei quartieri limitrofi a via dei Fori Imperiali non sono pochi gli abitanti che preferiscono usare le proprie case per i bed and breakfast piuttosto che abitarci. E il problema riguarda da tempo tutto il centro storico romano abitato solo da una esigua minoranza di cittadini.
Ecco allora che sulla questione della chiusura di via dei Fori Imperiali confluiscono le attenzioni di diverse sensibilità: la necessità di un ambiente non inquinato; la speranza di liberare Roma dal traffico delle auto in favore di un migliorato trasporto pubblico; la possibilità di avviare politiche di turismo sostenibile in contrasto con il turismo di massa, “mordi e fuggi” che molto toglie alla città senza restituirle nulla; e finalmente il recupero della centralità della cultura.

Il quadro generale per avviare questo lungo e virtuoso cammino è fornito dalla necessità di ricostruire quella “città pubblica” il cui tramonto è descritto con cura e attenzione nel recente libro di Francesco Erbani. Un campo semantico che vede al suo centro la cultura restituita ai cittadini perché elemento di costruzione del senso civico e della dimensione sociale, fattore di inclusione e cittadinanza, formidabile motore di democrazia e partecipazione.
Se questo venisse realizzato verrebbero sciolti i dubbi intorno al ruolo di Della Valle per il restauro del Colosseo. Capiremmo meglio quale indirizzo dare alle politiche culturali e come migliorare il problema del rapporto tra centro e periferia.

Infine, potremmo riflettere più serenamente sulla scelta di affidare alle sorelle Fendi e al magnate francese del lusso Bernard Arnault l’uso del Palazzo della Civiltà del Lavoro all’Eur. E liberarci della gabbia strettissima dell’ideologia dominante che vede nell’affido ai privati l’unica strada per risolvere il problema dei beni culturali nel nostro paese. Riusciremmo così a intravvedere soluzioni più civili e responsabili per la gestione del nostro patrimonio.

In questo quadro, due iniziative apparentemente di valore secondario, potrebbero far sperare in una diversa concezione delle politiche pubbliche: la somministrazione ai cittadini di un questionario e l’invito a partecipare alla festa di inaugurazione. Sono solo un’operazione di marketing? Prevedono autentica partecipazione? E in che modo?

La festa sarebbe interessante se rappresentasse il primo passo di una restituzione del patrimonio culturale ai cittadini. Il questionario è benvenuto se fosse l’inizio di una pratica di partecipazione.
Fruizione e produzione culturale hanno bisogno di modalità precise per essere attivate. E queste modalità riguardano la sostenibilità della vita nei nostri quartieri, al centro come in periferia, per i residenti come per i turisti.

Le isole pedonali non bastano: possono anzi diventare un boomerang. Una brutta ferita come quella che vede il centro di Roma, da Fontana di Trevi al Pantheon, attraversato da masse di turisti ignari della città che percorrono un solco che ha mutato profondamente la fisionomia di quelle strade oggi occupate solamente da negozi di souvenir, pizzerie a taglio, bar e ristoranti. Si deve fare meglio, molto meglio. E di più.

Gioacchino De Chirico è un giornalista culturale ed esperto di comunicazione

colquaIl 18 luglio scorso è stato annunciato l’accordo che sancisce la concessione d’uso del Palazzo della Civiltà Italiana, per 15 anni, a Fendi, società che oggi fa capo al gruppo francese LVMH. A promuoverlo è stata EUR S.p.a., l’azienda pubblico-privata che rappresenta l’evoluzione di quello che era l’Ente EUR, fondato nel 1936 in qualità di Ente Autonomo per l’Esposizione Universale di Roma del 1942.

La storia ha poi voluto che quell’anno l’Italia, l’Europa e il mondo si trovassero a combattere la Seconda Guerra Mondiale. L’esposizione non si è mai tenuta e con lei le celebrazioni del ventennio fascista; ma l’EUR, il quartiere sorto a sud di Roma, deve molto ad entrambe.
Oggi ribattezzato quartiere Europa, è stato progettato negli anni Trenta in vista del grande evento, voluto da Benito Mussolini in persona, per celebrare i vent’anni della marcia su Roma. Da sempre ha voluto rappresentare l’espansione della Capitale verso il mare.
Costruito sul modello dell’urbanistica classica romana, reinterpretata secondo l’ideologia fascista e il Razionalismo Italiano, quello che viene oggi considerato il business district della città di Roma è costellato di edifici monumentali, massicci e squadrati, in marmo bianco e travertino, dal forte valore simbolico. L’EUR è un complesso architettonico ed urbanistico denso di significato, di storia, di cultura, pensato sin dagli esordi per essere più di semplice materia, per costituire viva testimonianza di una parte del nostro passato.

L’edificio che più di ogni altro simboleggia l’operazione condotta e il modello architettonico e culturale secondo cui questa è stata sviluppata è proprio il Palazzo della Civiltà, noto anche come Colosseo Quadrato per la presenza degli archi sulle sue quattro facciate. Progettato da Giovanni Guerrini, Ernesto Lapadula e Mario Romano è una struttura dal grande eco storico e politico, densa di simbologia e significati allegorici: dall’incisione che vuole raccontare l’italianità, alle statue narranti le virtù del popolo italiano, alla scelta del travertino che, oltre a ripristinare il legame con le tradizioni dell’Impero romano, voleva sottolineare i moti autarchici del regime, fiero di esibire la propria autosufficienza economica.

Dal punto di vista amministrativo il quartiere rappresenta, a tutti gli effetti, un’anomalia. A governare il patrimonio di palazzi, musei, strade e parchi naturali, lasciati in eredità dall’ente originariamente fondato per l’esposizione del 1942, è dal 2000 EUR S.p.a., una società controllata al 90% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e per il restante 10% dal Comune di Roma.
Tale soggetto è stato creato per gestire e valorizzare il patrimonio mobiliare e immobiliare di sua proprietà, ma negli ultimi anni si è rivelato particolarmente interessato alla sua messa a reddito, perseguita tanto con l’affitto di spazi ed intere strutture, quanto con attività inerenti lo sviluppo immobiliare, l’energia e i servizi in genere.

EUR S.p.a. rappresenta a tutti gli effetti la privatizzazione di una porzione di territorio, un soggetto giuridico fuori dagli schemi che, sfruttando la forza patrimoniale dei beni che dovrebbe gestire e valorizzare e la protezione politica ed istituzionale che deriva dalla sua natura ibrida, s’impegna in forti indebitamenti e porta avanti operazioni d’investimento secondo logiche d’interesse non sempre trasparenti.
Non estranea alle critiche, la società è stata di recente portata all’attenzione dei media per l’accusa di corruzione rivolta a Riccardo Mancini, ex AD, per le assunzioni e i favoritismi in pieno stile Parentopoli e per la magistrale bravura nell’innescare giochi di scatole cinesi fra società connesse e controllate.

L’ultima operazione controversa riguarda proprio il Colosseo Quadrato, il cui uso è stato dato in concessione a Fendi per 15 anni, alla cifra apparentemente esorbitante di 2.800.000 euro annui. La griffe vuole fare della struttura il proprio headquarter, adibendo il piano terra a contenitore per un’esposizione dedicata al Made in Italy e alla creatività italiana. La società ha dichiarato di aver scelto l’edificio per valorizzare il suo legame con l’italianità e la città di Roma.
Peccato però che dal 1999 il marchio sia stato sapientemente acquisito da Patrizio Bertelli e Bernard Arnault, quest’ultimo – particolarmente interessato ai brand del Made in Italy – è proprietario del colosso francese LVMH, che controlla circa una sessantina di marchi nei settori moda e lusso, e che nel 2012 ha registrato un fatturato di 28 miliardi di euro.

Le multinazionali straniere iniziano così a farsi strada verso la nostra più grande ricchezza, il patrimonio culturale, nella cui gestione continuiamo a mostrare debolezza e mancanza di prospettive. Non c’era un modo migliore di intervenire sul Palazzo della Civiltà Italiana se non quello di darlo in concessione ad un colosso internazionale della moda? Siamo sicuri che procedendo in questo modo EUR S.p.a. possa dire di perseguire l’obbiettivo per cui è stata creata, ovvero la gestione e la valorizzazione del patrimonio affidatole?

Non la pensa così Umberto Croppi, che sulla questione ha molto da dire. Direttore generale della Fondazione Valore Italiana, in un recente intervento su Repubblica ha chiamato in causa la legge 24 dicembre 2003 n. 350, con la quale è stata istituita l’Esposizione Permanente del Design Italiano e del Made in Italy, la cui gestione è stata affidata proprio alla Fondazione Valore Italia in seguito ad una convenzione sottoscritta in data 28.05.2009 dal Ministero dello Sviluppo Economico, dal Ministero dei Beni Culturali e da EUR S.p.a.
Ebbene sì, l’esposizione avrebbe dovuto avere sede proprio nel quartiere sud ovest della Capitale, all’interno del Colosseo Quadrato.

La struttura, infatti, più volte era stata destinataria di investimenti pubblici, sia da parte del Mibac, che spese 16 milioni di euro per interventi di consolidamento e restauro quando si pensava di farne il Museo dell’Audiovisivo, che da parte della società partecipata. L’obbiettivo era farne una struttura espositiva sicura e attrezzata per ospitare attività culturali, oltre alla Discoteca di Stato.
Nel luglio 2012 anche il governo tecnico ha intuito la necessità strategica di un’iniziativa per la promozione del Made in Italy, differendo di fatto al 2014 la decisione di sopprimere la Fondazione Valore Italia, avanzata nel decreto “spending review”.

Secondo Croppi l’operazione condotta da EUR S.p.a. è di una gravità assoluta per diverse motivazioni. Innanzitutto, la convenzione sottoscritta nel 2009 è da considerarsi, di fatto, ancora in vigore e, inoltre, l’intesa è stata sottoscritta quando nella società pubblica non era ancora stato nominato uno degli organi – l’amministratore delegato. In aggiunta a tutto ciò, se anche le autorità competenti dovessero autorizzare tale procedura, si dovrebbe comunque procedere con un’evidenza pubblica e, oltretutto, procedendo in questi termini, l’investimento di 16 milioni di euro effettuato dal Mibac in passato costituirebbe, di fatto, un’indebita elargizione di denaro pubblico a beneficio di un privato.

C’è ancora un aspetto, però, assai difficile da capire. Croppi parla di una valutazione effettuata in data 26 ottobre 2007 dall’Agenzia del Territorio su istanza dell’Eur Spa che, a fronte dei 2.800.000 euro anni chiesti a Fendi, attribuisce alla porzione del palazzo un valore locativo di 4.680.000 euro annui. Se questi dati sono corretti, perché mai il canone richiesto alla griffe dovrebbe essere più basso? Saremo mica innanzi alla svalutazione di una delle nostre più eloquenti testimonianze di civiltà a favore di una multinazionale straniera?

Quel che è certo è che ancora una volta il management italiano della cultura ha dimostrato di vivere dell’espediente e mancare di prospettive. Che sia semplicemente un limite delle figure preposte alla gestione e alla valorizzazione del patrimonio o piuttosto la spia di una vulnerabilità che ci rende particolarmente appetibili agli occhi dei colossi internazionali?

filmfundCome è noto, Nicola Zingaretti è stato eletto nel febbraio del 2013 Presidente della Regione Lazio con 1 milione 330mila voti (41 %). Il 12 marzo è stato proclamato Presidente, ed il 22 marzo ha presentato alla stampa la nuova Giunta. Lidia Ravera ha accettato l’incarico di Assessore alla Cultura ed allo Sport e, ad inizio giugno, ha convocato una riunione in Regione, per ascoltare le tante voci del cinema e dell’audiovisivo (ne abbiamo scritto con dovizia di dettagli su queste colonne). Sono trascorsi 4 mesi dall’insediamento, è ora per alcuni primi provvisori bilanci. In materia di cinema e audiovisivo, cosa bollisse realmente in pentola non era di pubblico dominio, almeno fino a qualche giorno fa.
Lunedì scorso, 15 luglio, arriva un segnale ufficiale: in occasione di un incontro promosso dal Pd nell’ambito della Festa nazionale de l’Unità, intitolato “Cinema e audiovisivo. La forza del Made in Italy”, Ravera si disvela ed annuncia a chiare lettere che intende scardinare la legge sul cinema promossa da Polverini e Santini, e che non intende avviare le procedure per la costituzione del Centro Regionale per il Cinema e l’Audiovisivo, da lei definita “struttura burocratica inutile che sarebbe costata due milioni di euro l’anno”.

La legge sul cinema e l’audiovisivo cui si riferisce l’Assessora, promossa dalla sua predecessora Fabiana Santini (Giunta Polverini), è stata frutto di una lunghissima gestazione, nella quale, nel bene e nel male, sono state coinvolte tutte o quasi le associazioni rappresentative del settore: dai produttori potenti dell’Anica agli autori effervescenti dei 100autori. Insomma, grandi e piccoli, “majors” ed “indies”.
Si è trattato di una legge che ha visto il plauso di apprezzati produttori come Riccardo Tozzi e Angelo Barbagallo (certamente non sospettabili di simpatie destrorse). La legge è stata approvata il 14 marzo del 2012, con 36 voti favorevoli, 5 contrari e 3 astenuti. In occasione del voto finale, l’ex Assessora (Giunta Marrazzo) ed esponente dell’Italia dei Valori Giulia Rodano (leader dell’opposizione in Consiglio Regionale durante la Giunta Polverini) dichiarò: “Questa legge quadro, annunciata da mesi in pompa magna dalla Giunta, non avrà alcun capitolo di spesa corrente nel bilancio regionale: siamo di fronte ad un assurdo politico e giuridico.

I 45 milioni di euro di cui parla la Giunta sono stati stanziati solo in conto capitale: non sono spendibili per contributi”. Si osservi come la Rodano ponesse l’accento sul rischio di finanziamenti annunciati e non concreti, e non manifestasse critiche di fuoco sull’architettura complessiva della norma.
A quanto ci è dato sapere, i primi 15 milioni di euro previsti sono peraltro stati effettivamente peraltro assegnati, e sono entrati nelle case di decine e decine di imprese cinematografiche e audiovisive italiane, grandi e piccine (forse troppi soldini alle grandi e pochi soldini alle piccole, ma questo è un altro discorso).

Molti avranno peraltro notato che buona parte dei film cinematografici italiani e delle opere di fiction audiovisiva italiana che sono state proiettati nelle sale e trasmesse in televisione nell’ultimo anno recano, in bella mostra nei titoli di testa e di coda, il “marchio” ovvero il logotipo della Regione Lazio.
Gli strumenti principali della legge “Interventi regionali per lo sviluppo del cinema e dell’audiovisivo” (legge n. 2/2012, ex proposta di legge n. 135 del 13 gennaio 2011) erano giustappunto il Centro Regionale per il Cinema e l’Audiovisivo ed il Fondo Regionale, nati proprio con l’obiettivo di superare la famigerata polverizzazione policentrica degli interventi, la cui responsabilità va senza dubbio attribuita alla Giunta Marrazzo..
Il Fondo Regionale per il Cinema e l’Audiovisivo, dotato di uno stanziamento complessivo pari a 45 milioni di euro per il triennio 2011-2013, si poneva peraltro come primo vero Film Fund di taglio europeo di cui una Regione italiana si fosse mai dotata: 15 milioni di euro l’anno sono (erano) un budget veramente importante, di grande significatività nell’economia complessiva del sistema audiovisivo italiano.
Certo, alcuni automatismi previsti dalla legge potevano essere criticabili: ad esempio, a chiunque avesse realizzato nel Lazio una certa “percentuale” della propria opera cinematografica o audiovisiva qualificata come “prodotto culturale” da uno specifico test, sarebbe stato assegnato (troppo) meccanicamente un contributo
Va rimarcato che non esistono studi valutativi indipendenti sull’efficienza ed efficacia della legge, né in termini di rafforzamento del tessuto industriale del settore, né in termini di estensione del pluralismo espressivo: è però un dato di fatto che 15 milioni di euro rappresentino (abbiano rappresentato) comunque un’ossigenazione forte di un sistema stremato e boccheggiante (a livello nazionale e quindi regionale).
Cosa avrebbe potuto fare la neo Assessora, in questi sui primi quattro mesi di governo?! Studiare al meglio magari, attraverso una valutazione di impatto, gli effetti del Fondo e della nuova legge, e magari correggere le storture del nuovo impianto. Perché quindi cassare tutto, col solito rischio – tipicamente italiano – di buttare, insieme all’acqua sporca, anche il bambino?!
Tra l’altro, è bene ricordare che nell’agosto del 2012 la (ora) contestata legge Polverini-Santini ha ottenuto anche la benedizione della Commissione Europea, che l’ha giudicata compatibile con le delicate normative in materia di aiuti di Stato.

NO al Centro Regionale per il Cinema e l’Audiovisivo quindi, SI al rientro della Regione Lazio nella Roma & Lazio Film Commission, dalla quale la Regione era uscita, perché la Polverini avrebbe voluto che la Film Commission venisse assorbita dal nuovo Centro Regionale per il Cinema e l’Audiovisivo.
Eppure, durante il dibattito alla Festa de l’Unità, alla domanda di Francesco Siciliano (Vice Responsabile Cultura del Pd nazionale sotto la segreteria Bersani) “ma quante risorse pensate di destinare al cinema ed all’audiovisivo?” la Ravera, simpaticamente elusiva, non risponde.
A distanza di qualche giorno, il 18 luglio, il Presidente Zingaretti conferma le anticipazioni di Ravera, e comunica che, per le attività della Roma & Lazio Film Commission, la Giunta regionale ha approvato uno stanziamento di 100mila euro per il 2013, 300mila euro per il 2014 e 300mila euro per il 2015. Si tratta di dotazioni – sia consentito osservare – veramente modeste. E per quanto riguarda il resto degli interventi a favore del cinema ed audiovisivo?!
Il quesito che la collettività degli operatori del cinema e dell’audiovisivo laziale pone è quindi: “prendiamo atto dell’inversione ad u, ma cortesemente ci informate dell’entità del budget complessivo che la Regione Lazio intende allocare concretamente, nel 2013 e nel 2014, a favore dell’audiovisivo?!”.

La domanda è semplice, e ci auguriamo che la risposta sia chiara. Poi, magari ci andrete a spiegare anche i criteri selettivi, sicuramente basati sulla massima trasparenza, tecnocrazia, meritocrazia.
Siamo tutti interessati alla migliore promozione della cultura, e specificamente del cinema (e che sia il più indipendente, libero, plurale, innovativo, coraggioso e finanche trasgressivo…), ma vogliamo anche avere cognizione delle risorse che la Regione Lazio intende concretamente allocare. Non basta teorizzare e proclamare un… “cambio di paradigma”.

Peraltro, il 1° luglio, la Regione Lazio ha stanziato 3 milioni di euro, sui fondi Por Fesr 2007-2013, a sostegno degli investimenti per le piccole e medie imprese, per accelerare la digitalizzazione del parco-sale cinematografiche, da realizzarsi entro il 1° gennaio 2014. Una buona notizia, non c’è che dire, ma ci domandiamo se questo finanziamento rappresentasse davvero una priorità per il “sistema” cinema e audiovisivo, dato che la “deadline” del 1° gennaio 2014 è molto teorica, considerando che molte sale cinematografiche d’Italia, d’Europa e del mondo intero continueranno ad essere alimentate da film su pellicola, perché uno “switch-off” radicale è oggettivamente impraticabile, nonostante le major planetarie lo teorizzino.

A livello mondiale, la digitalizzazione ha raggiunto il 75 % degli schermi (circa 90mila sale), spiegava Bruno Zambardino (Iem-Istituto di Economia dei Media della Fondazione Rosselli), durante un convegno tenutosi ad inizio luglio a Riccione: l’Italia è al di sotto del 60 % di schermi digitali. In Italia, sono stati digitalizzati 2.035 schermi in 651 strutture. Le sale che mancano all’appello sono ancora 1.750 su un totale di 3.864 schermi del “campione” Cinetel. Nutriamo seri dubbi che dal 1° gennaio 2014 vadano proprio a chiudere, questi schermi minori. La “morte della pellicola” riguarderà forse il mercato Usa nel 2014, ma non il pianeta intero.

E segnaliamo una dichiarazione del 2 luglio 2013 della Kodak: “Kodak smentisce quanti affermano che a fine anno terminerà la produzione di pellicola 35mm per la distribuzione nei cinema. Fino a quando il mercato lo richiederà, Kodak fornirà pellicola”. Siamo proprio sicuri che la digitalizzazione delle sale cinematografiche rappresenti il “driver” per riportare il pubblico in sala, e comunque proprio il primo elemento emergenziale su cui intervenire?!
Non si vive soltanto di coraggiose e novelle progettualità, ma anche di risorse adeguate, affinché le nuove idee non restino belle intenzioni e vacui proclami. Sono necessarie strategie di sistema e non interventi sporadici. E risorse risorse risorse. È indispensabile una programmazione pluriennale ed una conseguente gerarchizzazione degli interventi.
E va rimarcato che la cultura andrebbe sostenuta non soltanto perché c’è anche un fondamento economico nella sua funzione, ma soprattutto perché è uno strumento di coscienza civile e coesione sociale.

Ne scrivevamo su “Tafter”, nel maggio del 2012, in occasione della presentazione della “agenda della cultura” promossa dalla Fondazione Democratica di Walter Veltroni e continuiamo a scriverlo oggi.
Come dire? Attendiamo una nuova “politica culturale” che passi dalla teoria alla pratica: un “new deal” autentico di teorie nuove e nuove pratiche.

Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult.

icsDire ICS, in riferimento allo sport, fa pensare al pareggio qualsiasi appassionato di calcio.
Eppure non parleremo qui di pareggio (anzi, forse di una sconfitta) bensì di un acronimo, quello dell‘Istituto del Credito Sportivo, ultima banca pubblica italiana la cui funzione principale, come intuibile dal nome, è quella di erogare finanziamenti al settore sportivo, sostenendo interventi mirati alla costruzione, ampliamento, acquisto di strutture e attrezzature sportive o iniziative di promozione legate allo sport.
La Legge Finanziaria del 2004 ha disciplinato l’ampliamento della sua sfera di competenza anche ai Beni e alle Attività Culturali anche se, c’è da dirlo, le azioni intraprese in questo campo sono state finora limitate alla sponsorizzazione del Padiglione Italiano Expo Universale di Shanghai e a quella di DNA ITALIA, Salone delle Tecniche e Tecnologie per la Cultura.
Ma non è questa di certo la critica che recentemente è stata rivolta verso l’Istituto: il motivo per cui l’ICS è balzato agli onori (?) della cronaca è l’indagine della Corte dei Conti sulle anomalie riscontrate in fatto di ripartizioni degli utili.
Facciamo un passo indietro: l’istituto del Credito Sportivo è ad oggi finanziato sia da soggetti privati (soprattutto altre banche) sia (prevalentemente) dallo Stato attraverso i ricavi dei Concorsi Pronostici (le “nostre” scommesse).

Nel 2004, in occasione della modifica dello Statuto operato da Mibac e Mef, si è cercato di soddisfare la richiesta di maggior rappresentanza per gli enti locali ed è stato inoltre variato il sistema di ripartizione degli utili.
Il risultato di questa modifica è che lo Stato, a fronte di conferimenti di quasi 60 milioni di euro nel periodo 2005-2010, ha avuto indietro solo 2 milioni e 800 euro, mentre le altre banche si sono spartite più di 80 milioni di euro nonostante avessero versato decisamente meno del Pubblico.

Una anomalia che ha tutta l’aria di non essere una svista e notata solo a causa del commissariamento (partito nel 2011) da parte della Banca d’Italia, dalla quale sono partite una serie di segnalazioni a livello ministeriale.

A questa andrebbero poi accostate altre “stranezze” che vedono protagonista l’Istituto: come i prestiti e gli interessi a tassi particolarmente competitivi a comparti, come quello calcistico ad esempio, che di certo non sono tra coloro che necessitano di maggiori tutele assistenziali.
In tutto ciò, il fatto che per definire la situazione si faccia ricorso a termini quali “svista”, “anomalia” o a locuzioni come “si sono accorti” risulta quanto meno inquietante.

Mettere il sale nel caffè al posto dello zucchero è una svista, trovare quel caffè comunque di proprio gusto è una anomalia. Sorseggiarlo tranquillamente mentre magari si dirottano 80 milioni di euro, però, è sicuramente anti-sportivo.

Per approfondire:
http://www.mondoeconomia.com/la-corte-dei-conti-indaga-sull-ics
http://www.repubblica.it/economia/2013/07/02/news/indagine_della_corte_dei_conti_sull_istituto_di_credito_sportivo-62227573/
http://www.gioconews.it/cronache/70-generale20/36966-che-fine-han-fatto-i-proventi-dal-gioco-indagine-della-corte-dei-conti-sull-istituto-di-credito-sportivo
http://www.corriere.it/notizie-ultima-ora/Economia/Credito-Sportivo-governo-Monti-azzera-statuto-scontro-banche/22-04-2013/1-A_006063140.shtml

AB26146I dati di scenario sui consumi culturali in Italia sono ripetitivi e non sorprendono più. Ormai si possono ridurre a un banale dato di fatto e ad una amara considerazione conclusiva. Il dato di fatto è che se diminuiscono gli investimenti in cultura diminuiscono anche i consumi culturali (sic!).

La considerazione conclusiva è che proprio non sappiamo cosa farcene della cultura.
Due relazioni presentate di recente da osservatori autorevoli convergono decisamente nella direzione appena accennata. Si tratta dell’ottavo Rapporto Annuale di Federculture e della Relazione Annuale 2011 – 12 presentata dall’Osservatorio Culturale del Piemonte che rielabora dati Istat messi in relazione con alcuni indicatori sociali forniti dell’IRES Piemonte.
Lo scenario lascia attoniti e verrebbe voglia di passare ad altro, ma dal cumulo di macerie si odono alcune voci che sembrano dare indicazioni di una via d’uscita. “La cultura non può essere un isola!” afferma Luca Del Pozzolo direttore dell’Osservatorio piemontese che lancia un segnale alla politica e alle istituzioni, al mondo delle imprese e alla società nel suo complesso. E, dal versante Federculture, giunge un richiamo che indica negli investimenti in cultura “la scelta per salvare l’Italia”. Quasi un appello perché si capisca come sia impossibile uscire dalla crisi senza investimenti in cultura, in Italia ancor meno che in altri paesi.

Tutto sembra chiaro e giusto. Ma perché non lo facciamo? Perché non ce la facciamo?
“La cultura come isola” denuncia Del Pozzolo. E ci viene fatto di interpretare questa considerazione nell’accezione più drammatica di “cultura isolata”. Isolata e emarginata, come la parente povera e ingombrante di un’ottusa famiglia di saccenti e presuntuosi.

A che serve la cultura? Ci si è spesso domandati negli ultimi anni. Serve al turismo! Ha sentenziato qualcuno e per questo l’ha sottratta ai cittadini per offrirla a un turismo di massa che a mala pena distingue un parco giochi da un parco archeologico. E’ la storia patria! Ha affermato qualcun altro impedendo che la cultura uscisse dai musei e si confrontasse con la realtà quotidiana. E’ business! Ha decretato qualche manager mentre iniziava a ragionare sugli spazi culturali esattamente come farebbe un affittacamere.

Mancanza di idee ma soprattutto mancanza di familiarità con la cultura. In una parola: “estraneità”. Abbiamo aspettato la metà degli anni Settanta per dotarci di un Ministero per i Beni Culturali. Abbiamo subito repentini e radicali cambiamenti economici e sociali nell’arco di pochi decenni e non abbiamo dato spazio adeguato a chi questi cambiamenti li interpretava e cercava di leggerli.

Negli anni Sessanta una città come Roma era al centro dell’attività artistica internazionale con gallerie come la Tartaruga, l’Attico e la Scaletta. Negli stessi anni Milano si animava grazie alle iniziative di Azimuth. Poi qualcosa si è rotto e quel periodo è rimasto l’ultimo significativo momento di contatto con la società e la sua cultura in movimento. E’ come se avessimo subito la modernità senza metabolizzarla e, in anni recenti, attraversato la contemporaneità nuotando in apnea. Oggi stiamo emergendo e ci accorgiamo che rischiamo la deriva.
Del Pozzolo invoca opportunamente “nuove sinergie” e “incontri sempre più strutturali tra il mondo della cultura e quello delle imprese innovative”. Ma dobbiamo sapere che si parte da un livello basso.

La Pubblica Amministrazione e il mondo della politica hanno avuto le loro colpe, ma l’impresa privata non è riuscita a far meglio. Un bagno di umiltà da parte di tutti è assolutamente necessario, confortati dal fatto che il 58% dei cittadini ritiene molto importante il ruolo delle istituzioni culturali, è favorevole al sostegno pubblico alla cultura e auspica un aumento dell’offerta culturale.

Ma non basta. La crisi impone di allargare lo sguardo verso ipotesi sociali ed economiche diverse da quelle che hanno fallito negli ultimi decenni. Forse questa prospettiva permette di rimescolare le carte e iniziare una nuova partita.

ledoQuando si affronta il tema dei beni culturali, di norma la discussione si polarizza su due estremi.

Da una parte si collocano quelli che ci spiegano l’importanza, il ruolo, quasi sempre assegnando ai beni culturali, e in generale alla cultura, tutti i compiti possibili e immaginabili (dalla formazione della coscienza civile alla promozione del made in italy e così via). Di norma costoro, dopo aver richiamato l’art. 9 della Carta Costituzionale, concludono denunciando il grave degrado in cui versa il patrimonio culturale, l’ingiustificato taglio delle risorse e infine l’insufficienza dell’organico ministeriale.

Dall’altra c’è una minoranza più riflessiva che non rinuncia a molto di quanto vanno sostenendo i primi, ma aggiunge qualche elemento di valutazione un po’ più raffinato e, spesso, arriva a invocare riforme radicali. Ciò che quasi sempre resta nell’ombra è una analisi delle ragioni per cui siamo arrivati al punto in cui siamo. Sicché la soluzione di tutto sembra essere o finanziamenti e più assunzioni, o abolizione del finanziamento pubblico.

Nessuno ci spiega per fare che cosa, con quali strutture, con quali mezzi e con quali strumenti e, soprattutto, per quali obiettivi. In un tale contesto rimane sullo sfondo un nodo essenziale del problema: l’analisi e la valutazione della macchina amministrativa e organizzativa che presiede al governo del patrimonio (da estendere a tutto il settore culturale).
I limiti sono evidenti da anni e il sovrapporsi di “riforme” non ha certo aiutato. Un esempio su tutti: quando c’erano più risorse, c’erano anche consistenti residui passivi (soldi che non si riusciva a spendere) e anche adesso, con meno risorse, i problemi non sono cambiati.

C’è quindi un problema che riguarda la carenza di professionalità adeguate a gestire processi amministrativi complessi, scarso senso di responsabilità (da cui si rifugge per timori di ricorsi e denunce) e, soprattutto, un meccanismo normativo che allunga i tempi a dismisura e favorisce l’illegalità.

 

Ledo Prato è Segretario Generale di CIDAC, Associazione Città d’Arte e Cultura

cadutaNon sappiamo se l’Assessore alla Cultura della Regione Lazio, Lidia Ravera abbia avuto occasione di leggere quel che scrivevamo ieri 2 luglio su Tafter, commentando criticamente la presentazione del rapporto annuale di Federculture, ed intitolando ironicamente con “ancora… parole parole parole” (riferendoci ai bei intendimenti annunciati dai Ministri Bray e Giovannini), ma oggi, mercoledì 3 luglio, l’edizione romana del “Corriere della Sera” pubblica un suo convincente articolo, intitolato “Cultura: abbiamo toccato il fondo, è ora di fare squadra”.

In sostanza, l’assessore Ravera manifesta il proprio sconforto per lo scenario desolante descritto da Federculture, e definisce “lucido e triste” il discorso del presidente Roberto Grossi. Ravera si sofferma sui deficit del sistema scolastico (“insegnanti mal pagati e scarsamente gratificati, programmi vecchi rimodernati in modo ideologico”), cui attribuisce la grande responsabilità di non stimolare la crescita culturale del Paese (“raccontare il presente e immaginare il futuro”).

Propone una prospettiva positiva ed ottimista: “l’era delle chiacchiere è finita”, scrive, ed auspica l’esigenza di “fare squadra” (intendendo Ministero + Regione + Comune), “invece di farsi i dispetti”. L’Assessore scrive, in perfetta sintonia con le tesi pubblicate ieri qui su Tafter: “al disinteresse generale, corrispondono vagoni di chiacchiere”. Ci auguriamo che Ravera possa presto annunciare che il Presidente della Regione Lazio ha deciso di allocare più risorse alla cultura, nell’economia di un piano strategico trasparente ed accurato.

Proprio in queste ore, l’ufficio stampa della Regione Lazio ha diramato una nota del Presidente Nicola Zingaretti, che riportiamo: “Grazie ai 70 milioni di euro che metteremo a disposizione dei Comuni del Lazio per il servizio di trasporto pubblico urbano, scongiuriamo gravissimi disagi per gli utenti dei mezzi su gomma, garantendo il diritto costituzionale alla mobilità, messo a dura prova dai tagli degli scorsi anni decisi dai governi nazionali. Il trasporto pubblico locale è stato considerato, purtroppo, la cenerentola dell’intero sistema dei trasporti ed ha subito tagli drastici con l’accetta nei trasferimenti di risorse alle Regioni, compromettendo un servizio universale. Oggi abbiamo raggiunto un importante traguardo e grazie al reperimento di ulteriori 20 milioni di euro, che si aggiungono ai 50 già messi a bilancio, potremo garantire ai Comuni del Lazio le risorse sufficienti a garantire il trasporto pubblico e a non lasciare, per mancanza di fondi, gli autobus fermi nei depositi”. Questi sono fatti, non parole.

Vorremmo presto leggere di “diritto costituzionale alla cultura”, e di una dotazione budgetaria dell’Assessorato assegnato alla Ravera adeguato alle sfide che la Regione Lazio deve affrontare.

Presidente Zingaretti, ha ragione: “non lasciamo, per mancanza di fondi, gli autobus fermi nei depositi”, e… “non lasciamo fermi, per mancanza di fondi”, gli artisti e i creativi e gli imprenditori della cultura, in teatri e cinema e librerie e sempre più chiusi…

Siamo stanchi, forse anche più di Ravera, di ulteriori “fiumi di parole” (la dotta citazione della canzoncina pop dei Jalisse non sfuggirà ai cultori del post-moderno).

Nel mentre, però, il Ministro Bray tace. E da Rimini, in occasione di Ciné, le Giornate Estive di Cinema, s’eleva oggi la protesta di molte delle associazioni del settore (Anica ed Agis in prima fila), che lamentano il taglio pesantissimo del “tax credit” ed annunciano che “il mondo del cinema è in mobilitazione”.

Al grido “il cinema e l’audiovisivo non vogliono chiudere!”, proclamano lo “stato di agitazione permanente, con un presidio delle sedi del ministero della Cultura”. Si legge nell’appello (dai toni in verità un po’ agitato-sindacalesi): “L’Italia potrebbe essere un grande paese industriale. Ma fa costruire le sue auto a Detroit, fa cucire i suoi vestiti in Cina, smantella la sua siderurgia e la sua chimica. E da oggi vuole che si smetta di produrre cinema! Perché tagliare il Fus e dimezzare il tax credit vuol dire: L’audiovisivo non serve a far crescere l’Italia”.

Attendiamo fatti (budget e progetti), dal Ministro Bray, dal Presidente Zingaretti, dal Sindaco Marino, e da tutti coloro che tanto appassionatamente dichiarano di avere a cuore le sorti del sistema culturale nazionale. Basta con “le vagonate” ed “i fiumi” di parole.

Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult

drinkculturaLa presentazione del rapporto annuale Federculture, giunto alla sua nona edizione, è ormai divenuta un’utile occasione per una radiografia sia del corpo culturale italiano sia della sua anima: va riconosciuto al Presidente della “associazione nazionale degli enti pubblici e privati, istituzioni e aziende operanti nel campo delle politiche e delle attività culturali” (così si autodefinisce Federculture, fondata nel 1997, che vanta oltre 150 soci in un eccentrico mix: Regioni, Province, Comuni, consorzi, fondazioni, imprese, associazioni…), Roberto Grossi, di aver esplorato, attraverso il rapporto  – di cui è stato ideatore e primo curatore, fin dal 2002 – molte tematiche importanti della politica e dell’economia culturale nazionale.

Lontano da poter essere ancora un testo fondamentale di riferimento (non lo sono peraltro nemmeno la relazione annuale dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni o la relazione annuale del Mibac sul Fondo Unico per lo Spettacolo… lo stato dell’arte delle conoscenze resta in Italia drammatico ed è forse l’emergenza prioritaria a livello di “policy”), il rapporto Federculture è certamente uno strumento interessante per tutti gli operatori, anche soltanto per l’utile appendice statistica. Di anno in anno, vengono chiamati a corte diversi contributori, e ciò arricchisce lo spettro delle opinioni, ma non esalta l’organicità e la necessità di un approccio critico globale e diacronico, affidato soltanto al capitolo introduttivo curato da Grossi.
Quel che qui interessa è l’aspetto “coreografico” della presentazione, kermesse che mostra, di anno di anno, nella composizione del “panel” e nelle presenze istituzionali, una strutturazione che ha valenze non soltanto simboliche.

Il 2013 rientra senza dubbio nella “serie A”. Il 1° luglio, parterre de roi, nella assai istituzionale (e molto rovente, causa deficit climatizzazione), Protomoteca del Campidoglio, oltre al Sindaco di Roma Capitale, Ignazio Marino, ed alle due fiere Assessore alla Cultura, Lidia Ravera per la Regione e (fresca di nomina) Flavia Barca al Comune, quest’anno, ben due ministri: Bray per la Cultura e Giovannini per il Lavoro. Abbiamo ascoltato discorsi alti: il primo è intellettuale colto, il secondo ricercatore serio.

La lettura “da sinistra” della crisi in atto (secondo Federculture, nel 2012 i consumi culturali sono caduti del 12 %, i Comuni hanno ridotto le risorse allocate alla cultura dell’11 %, gli sponsor privati hanno tagliato budget per il 42 %: in sintesi, un disastro) propone nuovi stilemi: abbiamo a che fare con amministratori pubblici senza dubbio più sensibili (e preparati e colti), ma il “pianto” resta del tutto simile: “no hay dinero” e quindi le “policy” restano belle intenzioni.

In sostanza, le analisi sono più evolute, finanche raffinate, ma la risposta concreta è la stessa: in questo, l’esecutivo Letta mostra la stessa insensibilità e colpevole inerzia dell’esecutivo Monti, così come di quello precedente ancora (eccetera eccetera eccetera).
Verrebbe da sostenere, ascoltando le analisi (e le lamentazioni) di Massimo Bray e Enrico Giovannini: cambia la “retorica”, non cambiano le “pratiche”. Questa dinamica è molto deludente, ancor più per chi sperava in un “new deal” da parte di amministratori giustappunto più sensibili rispetto alla cultura.

È quindi quasi paradossale ascoltare bei discorsi, migliori discorsi, se, alla prova dei fatti, questi ministri non si rivelano (non si rivelano ancora? beneficio di inventario perché sono al potere “soltanto” da due mesi?!) sostanzialmente differenti dai Bondi e dagli Urbani (per citare due ministri-simbolo della non politica culturale del centro-destra). «Parole-parole-parole» (ricordiamo, da cultori del diritto d’autore, che la canzone è divenuta famosa grazie a Mina nel 1972, ma il brano è stato composto da Gianni Ferrio, con testo di Leo Chiosso e Giancarlo Del Re).
Parole più suadenti, forse più convincenti nell’elaborazione teorica, ma di fatto soltanto parole.

Roberto Grossi, nel suo come sempre appassionato intervento, ha chiesto: sostenere i consumi delle famiglie grazie alla detraibilità delle spese per la cultura, promuovere il lavoro giovanile con un piano per l’occupazione culturale, rilanciare la produzione cancellando le norme che ostacolano l’autonomia di capacità di programmazione di enti e aziende. Sagge tesi, di cui non si trova alcuna traccia nell’azione di Governo.

Ma il Ministro Bray, nella sua prima intervista, ha sostenuto che non intende comunque dimettersi, anche se continuerà a ricevere schiaffi dalla sua stessa compagine di governo (basti pensare alla incredibile vicenda del tax credit de-finanziato…). E ardua intrapresa si rivela quella del Ministro Giovannini, gran teorico di quel benessere equo e sostenibile che dovrebbe avere nella cultura il proprio volano. Parole, nuovamente. Belle parole, ma soltanto parole. Se questo è il risultato di un Pd o di un Sel partiti “di lotta e di governo”, temiamo che il dissenso qualunquista dei grillini finirà per crescere ancora nei consensi di un elettorato sempre più stanco, esausto, esasperato.
Il titolo dell’edizione 2013 del rapporto Federculture (per i tipi di 24Ore Cultura) è “Una strategia per la cultura. Una strategia per il Paese”. La crisi è profonda, lo sconforto diffuso, gli interventi teorici, la speranza svanisce.

Quale… “strategia”, di grazia?! Il respiro strategico resta pia intenzione, a fronte della carenza di ossigenazione nel breve periodo.

Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult

libro“Si dice che la cultura non è “di destra” o “di sinistra”?! Ebbene, io non ci credo granché”: così il Ministro Massimo Bray (con l’accento sulla “y”, alla salentina), a conclusione del suo intervento all’incontro “E/leggiamo”, tenutosi mercoledì 26 giugno nella Capitale, organizzato dall’Associazione Forum del Libro a Fandango Incontri (uno spazio policulturale allocato all’interno del Palazzo Incontro della Provincia di Roma), in via dei Prefetti. Affermazione forte e netta (finanche discutibile da un punto di vista “liberal” o destrorso), comunque in qualche modo in contrasto col tono pacato con la quale è stata pronunciata. Il Ministro è peraltro ormai noto per i suoi toni morbidi, à la Letta (Gianni, il… camerlengo).

Nella fattispecie, si è trattato di una risposta al Presidente dell’Associazione Italiana Editori (nonché di Confindustria Cultura) Marco Polillo, ma… procediamo con ordine.

Nello scorso febbraio, il Forum del Libro presentò ai candidati parlamentari una lettera aperta dal titolo “Un voto per promuovere la lettura”, con la quale si chiedeva più attenzione da parte della classe politica “al libro, alla lettura e ai loro luoghi, dalle biblioteche alle librerie, dalla scuola all’università e agli enti di ricerca”: in particolare, i più di 6mila firmatari (ad oggi) propongono 5 “punti” programmatici, definiti “semplici ma importanti, che non hanno carattere di parte ma interessano tutti gli italiani”, da usare come ossatura per una legge organica ed efficace, volta a contrastare il drammatico effetto dei tagli alla cultura, scuola e ricerca messi in atto dai governi recenti (e nemmeno tanto recenti).

Sintetizziamo allora questi cinque punti:

Scuola: istituzione e riconoscimento come parte qualificante della formazione le biblioteche scolastiche, con l’introduzione in organico di un bibliotecario professionista; realizzazione annuale, da parte del Miur, di un “piano nazionale per la lettura”, valorizzando le migliori pratiche sul territorio e stimolando l’introduzione di attività di lettura nell’offerta formativa;

– Biblioteche: abrogazione dell’art. 19 del decreto n. 95 del 2012 cosiddetto “spending review 2” (ovvero: mantenere nelle cosiddette “funzioni fondamentali dei comuni” le attività e i servizi culturali); modifica dell’art. 15 della legge sul diritto d’autore, per rendere gratuite le letture pubbliche nelle biblioteche (si ricordi che il testo recita che “non è considerata pubblica la esecuzione, rappresentazione o recitazione dell’opera” esclusivamente “entro la cerchia ordinaria della famiglia, del convitto, della scuola o dell’istituto di ricovero, purché non effettuata a scopo di lucro”: da non crederci, ma così è e d’altronde abbiamo ancora a che fare, in Italia, con una legge sul diritto d’autore la cui radice risale al 1941);

Librerie: riconoscimento delle librerie “di qualità”, con agevolazioni fiscali e per la locazione delle sedi;

Digitale: concedere ai libri elettronici il pieno riconoscimento nel novero dei “prodotti culturali”, con le agevolazioni fiscali conseguenti; si ricordi che in Italia l’Iva è ancora al 21 %, mentre è agevolata al 4 % per i libri stampati, un vero paradosso! (l’ebook è considerato un “servizio” piuttosto che un “prodotto”); da segnalare che, nelle stesse ore, Giovanni Legnini, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, in audizione di fronte alla Commissione Cultura della Camera, ribadiva l’intendimento del Governo per l’equiparazione; garanzia di libera disponibilità in formato digitale dei prodotti della ricerca finanziata per oltre il 60 % da denaro pubblico; avviamento di un progetto nazionale di digitalizzazione dei prodotti fuori commercio o liberi da diritti;

– Coordinamento delle politiche pubbliche, statali, regionali e locali, in un “Piano Nazionale della Lettura”, da aggiornare annualmente; evoluzione del Centro del Libro e della Lettura, da dotare di maggiore autonomia e di strumenti normativi e finanziari adeguati, anche nell’ottica di un’adeguata formazione degli operatori.

Dopo l’introduzione di Giovanni Solimine (Presidente del debole Centro per il Libro e la Lettura, istituito nel 2005 e mai realmente decollato), il Ministro Bray ha fatto il punto della situazione secondo la propria prospettiva: dalle sue parole, si evince che al Ministero dell’Università e della Ricerca sembrerebbero molto sensibili alla questione delle biblioteche scolastiche, e che discussioni sul tema si concretizzino addirittura anche in Consiglio dei Ministri.

Fin qui, tutti d’accordo. I problemi emergono quando invece si valutano l’introduzione delle lavagne elettroniche («quando ormai le generazioni native digitali sono abituate a lavorare sui tablet: siamo cronicamente in ritardo all’appuntamento con la tecnologia…»), o l’editoria scolastica («ormai quasi totalmente in mano a soggetti stranieri…»).

E’ sul quinto punto, però, che il Ministro concentra l’attenzione più critica, tanto pungente quanto calma: «l’innovazione e una totale riforma dell’Amministrazione sono urgenti al Mibac. Ad esempio, non si possono gestire più di 750 siti internet-vetrina, con un’interattività pari a zero, senza rimandi e collegamenti (…) Sulla questione finanziaria, siamo in una situazione paradossale e nota a tutti: non siamo in grado non solo di effettuare, ma nemmeno di programmare gli interventi necessari.

Che poi non ci si venga a lamentare da me, se cade un pezzo di un muro a Pompei…». Carenza di fondi e nell’organicità delle amministrazioni che li devono gestire: un ritratto che conosciamo bene, noi italiani, soprattutto se si parla di cultura. Ci sia consentito, però, egregio Ministro: ma con chi dovrebbe lamentarsi, il cittadino o l’operatore, se non con il Ministro competente, che immaginiamo se ne faccia interprete nell’economia del Consiglio dei Ministri?! Se… Enrico Letta predica bene e razzola male, Lei è pur libero di dimettersi, per coerenza.

Sia chiaro: ben vengano iniziative come quella promossa dal Forum; ma va detto che non riteniamo così “automatica” l’attribuzione della colpa dei dati preoccupanti sulla lettura nel nostro Paese (nel 2012, solo un misero 18,4 % di italiani ha dichiarato di aver letto almeno un libro ogni tre mesi) a questi pur gravi ed innegabili deficit strutturali e di offerta; così come ci sembra di dover forse proporre una inversione del rapporto causale “lettura” / “qualità e tenore di vita” cui si fa riferimento nell’incipit dell’appello dell’Associazione Forum del Libro: piuttosto che un “chi legge, sta meglio”, un più realista (e cinico) “chi sta meglio, legge (e va al museo o a teatro)”!

Parlando di “sistema cultura”, di sinergie pubblico-società civile, Bray ha preso spunto dal dibattito sull’eccezione culturale: «In Francia – ha sostenuto – “Le Monde” ha pubblicato un dossier di 16 pagine sulla questione, e non limitandola al solo settore dell’audiovisivo: il nostro Paese deve costruire il proprio futuro sui contenuti, e questa direzione dev’essere chiara all’opinione pubblica». Viene da commentare che l’interesse dei media francesi per queste tematiche è direttamente proporzionale agli impegni governativi…

Dopo il Ministro, con un “intervento lampo”, la neo-parlamentare Flavia Nardelli (Commissione Cultura, Pd, già Segretaria Generale della Fondazione Sturzo) ha suggerito la possibilità dell’inserimento di alcune prime misure attraversi emendamenti mirati durante l’iter del “Decreto Fare”, ed è poi subito scappata alla votazione parlamentare sull’acquisto degli F-35, da cui la battuta di Bray: «Con un carrello di uno dei jet militari, si otterrebbero i 500 milioni di euro per concretizzare questi buoni propositi».

Lidia Ravera, Assessore alla Cultura della Regione Lazio, ha invece portato la sua esperienza pre-elettorale in “tour” nelle biblioteche laziali, osservando «precariato o lavoro gratuito associati a grande passione, dedizione ed entusiasmo».

Il Presidente dell’Aie Marco Polillo ha colto al balzo l’opportunità di parlare anche dei lavoratori in campo librario, editoriale e bibliotecario: «Non va bene che si “sfrutti” la passione, per ignorare le necessità dei lavoratori: le persone che lavorano nella cultura non hanno potere contrattuale, perché vanno avanti anche se le istituzioni e la politica se ne disinteressano». Sul “fare sistema”, locuzione tanto inflazionata nella teoria quanto ignorata nella pratica, ha sostenuto che «noi privati già lo facciamo, e le innumerevoli iniziative spontanee (vedi “Letti di Notte” o “Piccoli Maestri”, i cui padrini e madrine hanno partecipato all’incontro, ndr) lo dimostrano. Lo sforzo, insomma, deve essere reciproco e coinvolgere anche la politica…».

Ed ecco le parole che hanno provocato la reazione del Ministro, che aprono quest’articolo: «Non c’è una parte politica che si schiera dalla parte delle biblioteche ed un’altra che le vuole bruciare: c’è comunione d’intenti, ma non c’è costruzione di piani». La tesi di Polillo ha provocato diffusi borbottii della platea: è vero che la cultura, in sé, non è di destra o di sinistra, ed è forse anche vero che, in teoria, sia “a destra” sia “a sinistra” si auspica comunque una migliore diffusione della cultura nel tessuto sociale nazionale.

Ma dalle dichiarazioni di intenti alle azioni conseguenti, la distanza può essere abissale. Per rilanciare, anche a destra si auspica “la democrazia”, ma il concetto di “democrazia” non è evidentemente lo stesso a destra o a sinistra (o al centro). Nello specifico delle politiche culturali, a destra c’è chi auspica che “il mercato governi” (dagli estremisti brutali alla Brunetta ai “think tank” raffinati come la Fondazione Istituto Bruno Leoni), a sinistra permane il convincimento dell’esigenza dell’intervento della “mano pubblica” per sanare i fallimenti (ed i deficit) del mercato, e per proporre comunque un intervento che introduca sul mercato quel che il mercato stesso, da solo, non è in grado di garantire (estensione del pluralismo espressivo, provocazione di una domanda non necessariamente rispondente soltanto all’offerta…).

Tornando allo “specifico” librario, aleggiava nel dibattito la proposta di legge promossa recentemente da Andrea Martella, Vice Presidente del Gruppo Pd alla Camera, a sostegno delle piccole librerie e di quelle storiche (si tratta dell’Atto Camera n. 859 “Disposizioni per la diffusione della lettura e il sostegno del sistema delle piccole librerie”, presentato il 30 aprile 2013). La proposta prevede agevolazioni fiscali ai proprietari di immobili per contratti d’affitto stipulati a favore delle piccole librerie, sgravi contributivo del 100 % della contribuzione dovuta per i periodi contributivi maturati nei primi 5 anni di contratto e agevolazioni fiscali, per un importo non superiore a 1.000 euro, sostenute per l’acquisto di libri. Martella spiega: “ogni volta che una libreria storica chiude, un pezzo della storia e della memoria condivisa delle nostre città viene cancellato di netto.

Accade a Venezia, dove negli ultimi anni hanno già chiuso numerose librerie, ma anche a Roma, Firenze, Napoli, Palermo dove librerie indipendenti sono in grandi difficoltà e rischiano la sopravvivenza. Con questa proposta vogliamo affrontare l’emergenza culturale rappresentata dalla chiusura delle librerie indipendenti soprattutto nei centri storici delle città meta di turisti e visitatori dove l’offerta è quindi più diretta ai turisti che ai residenti stessi e dove il problema dei costi (affitti, personale, contributi, imposte) è estremamente oneroso. L’obiettivo di fondo è incentivare lo sviluppo delle piccole librerie e delle librerie di qualità come componenti del patrimonio culturale italiano e strumento della diffusione delle conoscenze. Ed inoltre promuovere una politica di sostegno a favore dei piccoli imprenditori che hanno a cuore la tutela del patrimonio librario e che sviluppano iniziative di promozione culturale sul territorio in cooperazione con enti, scuole, e associazioni culturali”. Eccellente iniziativa, ma si noti che, a distanza di due mesi, l’iter non è stato ancora avviato: come nelle dichiarazioni di intenti del Governo, si comincia a temere una qualche “contraddizione interna” tra “il dire” ed “il fare”!

Nell’affollata sala dello spazio Fandango, da registrare infine interventi e presenze di operatori del settore come il Direttore Generale della Direzione Biblioteche, Istituti Culturali e Diritto d’Autore del Mibac Rossana Rummo, il Presidente Associazione dei Bibliotecari Stefano Parise, il Vicepresidente dell’associazione nazionale dei librai Ali Paolo Ambrosini, Silvia Calandrelli di Rai Educational, il direttore di Rai3 Andrea Vianello, ed intellettuali del calibro di Tullio Gregory e Tullio De Mauro.

Auguriamoci che anche questa “mobilitazione” non resti… sulla carta!

L’articolo è stato redatto da Filippo Oriani, ricercatore e Angelo Zaccone Teodosi, presidente dell’Istituto italiano per l’Industria culturale IsICult

campidoglioIn queste ore (mercoledì 26 giugno 2013), circola con discreta insistenza, anzi viene accreditata come sicura, l’ipotesi che Flavia Barca, direttrice dell’Istituto di Economia dei Media (Iem) della Fondazione Rosselli (potente fondazione di ricerca, che vanta – per citarne soltanto un paio tra i più noti – Amato e Urbani tra i propri sostenitori), venga nominata dal neo Sindaco di Roma Ignazio Marino come Assessore alla Cultura. La Giunta Marino verrà presentata oggi alle 18 in Campidoglio, ponendo finalmente fine ad una lunga e travagliata gestazione.

Rivolgiamo alla Giunta e specificamente alla neo-Assessora un qualche suggerimento, che peraltro abbiamo già avuto chance di manifestare anche al Sindaco Marino, così come all’Assessore regionale Lidia Ravera. Per quanto riguarda l’assessora regionale alla Cultura (e allo Sport e alle Politiche Giovanili), le sue sortite, nelle ultime settimane, appaiono incoraggianti, rispetto all’esigenza di un “new deal” nelle politiche culturali, che debbono essere centrate più sull’innovazione/sperimentazione che sulla riproduzione/conservazione.

Al Sindaco Marino, suggeriamo di accorpare alla “cultura” (ed alla “comunicazione”, immaginiano) anche le deleghe per il “turismo”, la “moda”, e magari anche l“innovazione”. Ne scriveva su queste colonne (per quanto riguarda turismo e innovazione) Stefano Monti in un articolo del 17 gennaio 2011.

Marino lo farà? Ce lo auguriamo. Il Sindaco ha peraltro prospettato un assessorato dedicato agli “Stili di vita”. Perché no, quindi, un “assessorato alla creatività ed alle industrie culturali”?!

Quel di cui ha necessità la Capitale, così come la Regione, è anzitutto una riflessione radicale e rinnovata sul senso dell’intervento della mano pubblica nel settore culturale. Questa riflessione non può che essere basata su un’analisi critica del sistema culturale (inteso a trecentosessanta gradi, beni ed attività culturali: dai musei alla concertistica, culture “alte” e “basse”, convergenza con il sistema dei media…): domanda ed offerta, ruolo dei privati ed istituzioni pubbliche, tra l’economico, il politico, il semiotico…  Senza dimenticare l’interazione tra i livelli dello Stato: Mibac, Regione, Province, Comuni… E vogliamo dimenticare il ruolo ormai fondamentale (e finora mal analizzato) delle Fondazione Bancarie???

Lo stato dell’arte delle conoscenze, a Roma e nel Lazio, è totalmente deficitario.

A differenza di altre Regioni d’Italia (come nel caso dell’Osservatorio Culturale del Piemonte, che proprio il 5 luglio prossimo presenta la propria nuova relazione annuale; si ricorda che è stato costituito nel 1998), a Roma e nel Lazio gli assessorati competenti non dispongono ancora di un dataset adeguato alla delicatezza delle politiche che pure debbono attuare.

Non esiste un’analisi degli investimenti pubblici, della loro efficienza e efficacia, ed il livello di trasparenza della spesa pubblica è modestissimo. Anzi inesistente, fatta salva l’ipotesi di andare a cercare – con approccio poliziesco, oltre che con il lanternino… – tra le pieghe dei criptici bilanci comunali e regionali.

Non è possibile comprendere quanto sia benefico, o meno, l’intervento della “mano pubblica”: si pensi al controverso caso di Musica per Roma, e del suo ruolo di disturbo (secondo gli operatori privati, che arrivarono a rivolgersi all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato) nel “libero mercato” culturale romano… Ma stesso discorso (assenza di analisi valutative) si può fare per Zètema e per il suo intervento nella gestione dei beni culturali, così come per le iniziative festivaliere: perché tanto danaro pubblico al Festival del Cinema di Roma e nemmeno un euro (incredibilmente) all’eccellente MedFilm (almeno nell’edizione 2013, che è la n° 19)?!

Infinite soggettività, simpatie/antipatie, cromie politiche, capitali relazionali, lobby... Tutto è gestito con grande approssimazione.

La “conoscenza” relazionale prevale sulla “conoscenza” tecnica. Della tecnocrazia, nemmeno una traccia.

L’ultimo tentativo di analisi lo si deve alle giunte Rutelli e Veltroni (e si perdoni un cenno… autoreferenziale): si tratta di due ricerche (l’ultima risale al 2008) realizzate dall’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult, che hanno gettato le basi di un “Osservatorio sulla Cultura” a Roma e nel Lazio, fortemente voluto dall’ex Assessore Gianni Borgna (il più longevo d’Italia: 1993-2006), iniziativa che la Giunta Alemanno e la Giunta Polverini hanno poi messo in un cassetto. L’Assessore Umberto Croppi (Comune di Roma) non ha ritenuto di aver necessità di una simile strumentazione, e certamente non manifestò esigenze cognitive di questo tipo l’Assessore Fabiana Santini (Regione Lazio).

Notoriamente, in questo nostro Paese malato, se una iniziativa è stata sostenuta da giunta di cromia avversa, la novella giunta tende a bollare la precedente esperienza, a priori, come partigiana.

Da ricercatore, chi scrive queste note ha maturato l’impressione che spesso l’italico politico/amministratore (sia rosso o nero o bianco o… a pois) giunge alla (perversa) conclusione che “meno si sa, maggiore è il mio margine di discrezionalità”, con buona pace di esigenze di trasparenza ed efficacia. Anche perché, riducendo il livello di conoscenza, si riduce la capacità critica dei… dissidenti e degli… esclusi.

Negli ultimi mesi della Giunta Marrazzo, IsICult aveva proposto all’allora assessore Giulia Rodano la elaborazione di quello che sarebbe stato un primo inedito eccezionale avanguardistico “bilancio sociale” dell’Assessorato alla Cultura, arricchito di dati dettagliati (“chi abbiamo finanziato, perché, quali sono stati i risultati dell’intervento pubblico…”), ma le dimissioni di Marrazzo hanno fatto svanire anche questa prospettiva.

Qualche altro tentativo di analisi (concentrato su Roma piuttosto che sul Lazio) è stato messo in atto da Federculture, qualcosa ha tentato di fare – nello specifico dello spettacolo – la Siae, ma siamo ben lontani dalla disponibilità di strumenti di conoscenza tecnica (si noti, non soltanto di approccio economico: la degenerazione economicista è sempre latente, e va scongiurata) che debbono essere accurati, approfonditi, e soprattutto resi di pubblico dominio: disponibili agli operatori, agli studiosi, e soprattutto agli “stakeholder” finali, cioè i cittadini.

Il risultato attuale qual è? Che Zingaretti e Marino governano, sono costretti – almeno per ora – a governare “a vista”, nasometricamente e spannometricamente, almeno nello specifico della cultura (del resto, taciamo). Ed in questo habitat, finisce per prevalere, quasi inevitabilmente, una logica conservativa-conservatrice, esattamente come avviene, a livello di Stato centrale, per la gestione del Fondo Unico dello Spettacolo, che è il fondo di sostegno alla cultura più chiuso d’Europa.
Il Fus è un fortino inaccessibile: chi è dentro, è dentro, e può sperare di essere risovvenzionato; chi è fuori, fuori resta! Ne ha scritto con efficacia Lucio Zan nel suo saggio del 2009 “Le risorse per lo spettacolo”, per i tipi de il Mulino.

Un esempio concreto del rischio di riproduzione di errori? Settimane fa, le “associazioni storiche” dell’Estate Romana hanno protestato perché il Comune di Roma aveva emanato un bando surreale, nel quale l’entità del finanziamento era rimandato ad un “si vedrà…”.
Eccesso di prudenza, forse, data l’incertezza pre-elettorale, ma anche un’assurdità amministrativa (crediamo che in nessun altro Paese sviluppato si assista a simili buffonate). Le associazioni hanno promosso un incontro di protesta ed hanno richiesto una sovvenzione di almeno 2,5 milioni di euro l’anno. L’allora candidato Marino si è impegnato per almeno un paio di milioni di euro, e, pochi giorni dopo l’insediamento, il Sindaco ha annunciato una dotazione di 1,5 milioni. La domanda è: perché 2,5 o 2 o 1,5 milioni, ovvero 10 o 0 (zero)?! Non è ben dato sapere, se non per… inerzia, o per valutazioni… “spannometriche” appunto.

E che dire dei 3 milioni di euro che Zingaretti, e gli assessori Ravera (Cultura) e Fabiani (Economia) hanno annunciato pochi giorni fa voler assegnare agli esercenti di Roma e del Lazio per accelerare la digitalizzazione dei cinema? Perché 3 o non 2 e non 5? Qualcuno ha analizzato con un minimo di serietà i fabbisogni? No. E lasciamo perdere le possibili necessarie analisi in termini di evoluzione della domanda, di nuovi linguaggi, di effetti dell’offerta culturale sulle “visioni del mondo” (e, quindi, anche sulla politica stessa: qualcosa ne sappiamo, dopo la “mutazione antropologica” provocata dai modelli culturali della televisione berlusconiana, quegli… “stili di vita” evocati da Marino).

Flavia Barca conosce queste problematiche: vanta un eccellente curriculum come ricercatrice e chi redige quest’articolo ne è stato ex datore di lavoro prima (tra il 2002 ed il 2003 Barca è stata direttrice dell’IsICult) e poi spietato competitore. Questi suggerimenti sono rivolti quindi in particolare alla neo Assessore, con simpatia finanche imbarazzo. In verità, Barca non ne ha necessità. Queste tematiche sono state oggetto di tante discussione e della comune sconsolata constatazione della diffusa insensibilità dei politici italiani, rispetto ai migliori modelli di valutazione dell’impatto delle politiche pubbliche (vale per il Mibac non meno che per la Rai), procedure che sono routine – da decenni – in Francia, Regno Unito, Germania, finanche Spagna… Addirittura l’Argentina può vantare una pluralità di “osservatori culturali” (anzi, meglio “sulle industrie culturali”!), che l’Italia può soltanto invidiarle.

Qualche critico ha osservato che Flavia Barca, a parte la ricchezza di un cognome familiare partitocraticamente pesante, è “soltanto” una ricercatrice, e non può vantare alcuna esperienza come “amministratore pubblico”: è vero, ma forse questa sua estraneità alle esperienze burocratiche potrebbe paradossalmente rivelarsi un plus e non un minus. Così come ci si augura stia avvenendo con Lidia Ravera, intellettuale umanista prestata alla politica. Se sapranno dotarsi delle adeguate cassette degli attrezzi, sia Ravera sia Barca potranno far sì che la “politica culturale”, in Italia, non resti un pio intendimento, anzi una pura illusione.

Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult

estateromana2Ieri, 19 giugno 2013, si è tenuta a Roma, nella cornice pomposamente istituzionale della sala che la Camera dei Deputati ha dedicato ad Aldo Moro (non sappiamo quanto l’eterodosso celebrato avrebbe in realtà apprezzato…), una giornata in memoria del più famoso Assessore alla Cultura d’Italia: Renato Nicolini (1942-2012), assessore nelle giunte romane guidate da Giulio Carlo Argan, Luigi Petroselli ed Ugo Vetere (1976-1985).

L’iniziativa, promossa da uno dei cinque figli, Ottavia (che si professa filosofa di professione) e dall’ultima compagna, l’attrice Marilù Prati, ha rappresentato un’occasione stimolante di riflessione, sia sulla politica culturale sia sulla politica italiana tout-court.

Brillante – come sempre – l’intervento di Stefano Rodotà, che ha ricordato come tutta l’esperienza politica e personale di Nicolini rappresenti la lotta al “riduzionismo”, ovvero al tentativo di ridurre la politica ad amministrazione del contingente, a rapporto con “la polizia ed il mercato”, allorquando dovrebbe essere invece continuo invito alla provocazione creativa, alla “fantasia al potere”. Rodotà ha rintracciato nelle teorie e pratiche di Nicolini la radice della sua idea di cultura come “bene comune”.

Il neo eletto Sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha ricordato di aver conosciuto Nicolini quando, allora al Policlinico Gemelli, fu il medico curante di colei che scoprì essere la madre dell’Assessore, e ha ricordato la fascinazione subita nei confronti di un uomo che aveva il dono di essere lieve anche nei momenti di tristezza, con un sorriso sempre un po’ malinconico (atteggiamento che peraltro molto affascinava le donne). Il Sindaco ha approfittato dell’occasione per annunciare che l’edizione 2013 dell’Estate Romana, che era a rischio a causa di un bando surreale emanato negli ultimi giorni della Giunta Alemanno (incredibile caso di bando che si dichiara subordinato all’eventuale – ?! – acquisizione di risorse…), si terrà, avendo reperito le risorse necessarie (almeno 2 milioni di euro, a fronte di una richiesta minima di 2,5 milioni da parte delle cosiddette “associazioni storiche” della manifestazione romana).

Franco Purini, amico e collega del Nicolini architetto sin dai tempi dell’Università, ha ricordato come Renato sia stato interprete di una lettura trasversale di autori che hanno formato la sua poliedrica personalità: da Nietsche a Gramsci a Debord. L’Estate Romana (progetto tutt’altro che “effimero”, se è vero che sopravvive dopo oltre trent’anni: la prima edizione risale al 1977) è in effetti un esempio eccellente di una logica (post-moderna) di ibridazione di linguaggi, di superamento della separazione ideologica tra culture alte e culture basse, nonché l’avanguardistico tentativo di “riappropriazione” della città, di rifondazione urbanistica, di ridefinizione degli spazi della socialità, da parte della cittadinanza.
L’organizzatore culturale Andres Neumann ha evocato l’immagine dello “sciamano”, per rappresentare la capacità di Nicolini di vedere oltre, di cercare di costruire realtà ispirate all’utopia.

Sono poi intervenuti Vincenzo Frustaci, dirigente dell’Archivio Capitolino, e Donato Tamblé, Soprintendente Archivistico per Roma ed il Lazio, che hanno comunicato che la biblioteca e l’archivio personale di Nicolini, messi a disposizione dalla famiglia, sono stati dichiarati proprio il 19 giugno beni di interesse culturale e storico nazionale, e verranno quindi messi a disposizione della collettività.
Infine, va segnalato che è stato pubblicato dalla Camera dei Deputati un libro che raccoglie gli interventi di Nicolini durante la sua attività parlamentare: è stato deputato per 3 legislature (IX, X e XI) ovvero dal 1984 al 1994, prima nelle fila del Pci e nel 1992 come esponente del Pds.

Nonostante il livello qualificatissimo degli interventi e la stimolazione intellettuale provocata, abbiamo percepito una qual certa nebbia farisea nella celebrazione della memoria del Nostro: stupisce molto che nessuno abbia nemmeno fatto cenno a come la “carriera politica” di Nicolini sia stata sostanzialmente interrotta quando nel 1993, in dissenso rispetto al proprio partito, decise di non sostenere la candidatura di Rutelli come possibile Sindaco di Roma, e si candidò con una lista autonoma, denominata “Liberare Roma” (si osservi che lo slogan “liberiamo Roma” è stato peraltro ripreso da Marino nella sua recente campagna elettorale).

Ne scrivo a ragion veduta, perché sono stato il responsabile della comunicazione della sua campagna elettorale, autofinanziata francescanamente: Nicolini ottenne un 8 % dei voti, al ballottaggio fu poi eletto Rutelli, Nicolini frequentò poi per un qualche tempo Rifondazione Comunista, ma mai tornò a ricoprire ruoli, a livello nazionale o locale significativi, se non quando Bassolino Sindaco lo chiamò, per una breve stagione (dal 1994 al 1997), come Assessore alla Cultura di Napoli. Nessuno ha ricordato che nell’estate del 2009 decise di prendere la tessera del Pd e prospettò una candidatura (che autodefinì “creativa e democratica”) alle primarie, cui presto rinunciò, rendendosi conto che aveva contro, ancora una volta, “il partito”.

Ad inizio 2010, aveva pubblicamente sostenuto la necessità delle primarie per la scelta del candidato del centro-sinistra a presidente della Regione Lazio, dichiarando di voler partecipare alle stesse. Poche settimane prima di morire (soffriva da tempo di una terribile malattia), pubblicò su “il Manifesto” (il 28 giugno 2012) un articolo che così iniziava: “Confesso di restarci un po’ male, quando vedo che nessun giornale o gruppo associa a sinistra il mio nome alle ormai prossime elezioni per il sindaco di Roma”. Come dire?! La passione e la tenacia, nonostante le batoste, non l’avevano certo abbandonato.
In sostanza, Nicolini rappresenta la figura di un politico irrituale ed anticonformista, un uomo colto e creativo, un intellettuale umanista, un artista eccentrico, sganciato dalle dinamiche della partitocrazia, vecchia e nuova, tollerato fino a quando non ha superato i “limiti”.

Alessandra Mammì ha intitolato un suo intervento su “l’Espresso” con un efficace “Nicolini, il Grande Escluso”. Spesso emarginato, comunque visto con sospetto dagli apparati vecchi e nuovi. Emarginato in vita e celebrato post-mortem: un po’ come avvenuto per Pasolini (che certamente aveva tratti comuni con Nicolini, entrambi agli antipodi rispetto all’idea di “intellettuale organico”), la “buona società” si rivela spesso abile nel cordoglio, ma non riesce a ben mascherare il respiro di sollievo per essersi liberata di un personaggio scomodo.

La lungimiranza che mostrarono i sindaci (comunisti) Argan, Petroselli e Vetere nei confronti del giovane Nicolini fu un atto di coraggio (soprattutto in considerazione dei tempi), rispetto alla conservazione che spesso caratterizza le macchine burocratiche dei partiti.
Nessuno ha però adeguatamente enfatizzato, nella celebrazione in memoria, la radicale diversità (caratteriale, culturale, arriverei a sostenere antropologica) di Renato rispetto alla gran parte dei “politici di professione”. Era veramente… un diverso!

Tutti hanno poi evocato l’Estate Romana, assurta quasi a dimensione mitica, dimenticando che negli ultimi anni Nicolini aveva assunto una posizione molto critica rispetto alla degenerazione mercantile che la sua idea aveva subito nel corso del tempo.

Si era (si è) esaurita la carica di innovazione e di trasgressione, e l’Estate Romana si è andata via via trasformando in una sorta di inutile bazaar culturale, in un banale supermarket dello spettacolo. Crediamo che questa visione critica di Nicolini verso la sua stessa creatura debba stimolare il Sindaco Marino, al fine di una lettura innovativa del mercato dell’offerta e della domanda culturale capitolina, che ha necessità di nuove invenzioni, nuove provocazioni, nuove trasgressioni.

Non di riprodurre l’esistente, ma osare: sperimentare nuove forme e nuovi linguaggi e… nuovi luoghi finanche. È certamente importante assegnare risorse alle “manifestazioni storiche” dell’Estate Romana (almeno per garantire l’occupazione, verrebbe ad aggiungere!), ma è forse più importante e strategico ragionare sul senso e sulla validità della mera riproposizione di un intervento pubblico che attualmente finisce per riprodurre quel che il mercato è ormai in grado di produrre da solo.
Nessuno, infine, ha ricordato che nonostante si tratti di uno dei concetti che più hanno reso famosa Roma negli ultimi 40 anni in tutto il mondo, incredibilmente non esiste una monografia sull’Estate Romana, né un saggio critico sull’esperienza politica, culturale, artistica di Renato Nicolini.

Quali le ragioni di questa incredibile rimozione??? Di fatto, l’unica pubblicazione è il suo libro di memorie, “Estate Romana 1976-1985. Un effimero lungo nove anni”, ripubblicato l’anno scorso dalla Città del Sole (la prima edizione era stata pubblicata nel 1991 da un editore il cui nome era tutto un programma, Sisifo…). Qualche riflessione storico-critica è contenuta nel nostro contributo al saggio a più mani pubblicato nel 2008 da Donzelli “Capitale di cultura. Quindici anni di politiche a Roma”, scritto con Gianni Borgna, Roberto Grossi, Carlo Fuortes, Franco Ferrarotti, ma quella voleva essere una piccola traccia che purtroppo non ha avuto gli adeguati sviluppi di ricostruzione politica e culturale di una esperienza profonda.

Mentre il Sindaco lasciava la Sala Aldo Moro, scusandosi per la necessità di tornare in Campidoglio per perfezionare la gestazione della Giunta, qualcuno ha simpaticamente urlato: “Sindaco, ci dia un Nicolini assessore!”. Magari fosse. Avrà Marino il coraggio necessario per affidare l’incarico ad una persona lontana dai poteri forti (anche del sistema culturale romano) e soprattutto fuori dal coro, per dare voce (e palcoscenici) alle infinità diversità che Roma ancora non riesce ad esprimere?! Ce lo auguriamo.

Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’IsICult – Istituto italiano per l’Industria Culturale

supermanagerUna domanda sembra ricorrere sempre più spesso, ora anche negli ambienti legati alla cultura e al turismo. Parliamo del “SUPERMANAGER”.
Ma chi è questo nuovo animale sociale? E, soprattuto, è veramente “super” come vorrebbe far credere?
Iniziamo col dire che il SuperManager ha molte facce diverse e riassume in sé la capacità di diversi personaggi leggendari meno “super”, più classici e con tutine più vistose.
I suoi stipendi fanno pensare ai soldi di Bruce Wayne perchè può arrivare ad intascare anche 300 volte lo stipendio dei suoi dipendenti, ricorda Flash Gordon per le sue presenze velocissime alla guida di imprese che poi automaticamente scarica, oppure Superman in grado di sorreggere da solo delle aziende in piena crisi economica.
Altre volte il suo super-potere viene disperso su tanti fronti in contemporanea, decine di diversi consigli di amministrazione per permettere a quante più società di beneficiare delle sue doti fuori dal comune.
Sono quelle persone che sanno cosa fare, che hanno il fiuto, l’intuizione. Sempre.
Le loro regole sono dure e il loro ruolo ingrato. Devono indossare una maschera come quasi tutti i supereroi, fatta di durezza e distacco, riassumibile nel principio “il medico pietoso fa la piaga purulenta”, perché loro fanno quello che devono: poche dichiarazioni pubbliche, nessuna consultazione, obiettivi da raggiungere, un incarico da portare a termine e l’unica cosa che deve quadrare alla fine dell’esercizio di stile sono i conti societari.
Non c’è pareto-ottimalità che tenga.
Probabilmente è in virtù di questo carico emotivo e di questo peso che vengono ricompensati con dei super-stipendi, oltre che per questione di coerenza con la loro super-natura.
Ma esistono anche i super-eroi per tutti i giorni, quelli che normalmente gestiscono le società e che per portare sulle spalle l’onere della decisione percepiscono stipendi varie decine di volte superiori ai dipendenti che invece si possono cullare nella routine dei romantici risvegli all’alba in piccole case accoglienti e del calore umano di treni e autobus affollati.
É poi una circostanza casuale il fatto che i super-manager debbano spesso intervenire a salvare le società gestite da altri eroi.
Uno dei tanti elementi di fascino anche sulle folle è la loro ecletticità: non fa niente che si tratti di produrre macchine, di latte, di sicurezza pubblica, di banche, di scarpe, di cultura o di metal meccanica. Anche perché, in fondo, un budget è un budget!
Non tutti sono però d’accordo con questo corso degli eventi.
A marzo 2013 in Svizzera Thomas Mindler ha ottenuto un ampio successo con il suo referendum che mira a limitare gli stipendi d’oro ai dirigenti delle società quotate in Borsa.
Anche a livello europeo si muovono frange di diggers e livellatori contro questi super-eroi: l’intesa raggiunta qualche mese fa da Consiglio Europeo e Parlamento Europeo è che i premi ai banchieri non possono superare il doppio del loro stipendio e devono essere approvati da una maggioranza pari a due terzi degli azionisti.
D’altra parte contromisure sono state prese già l’anno scorso, imponendo tetti di retribuzione per i grandi manager pubblici o di società partecipate (Hollande ha fissato il limite a 450mila euro e Monti a 294mila €). Con l’immancabile lista di chi continua a sforare ampiamente.
Ma alcune domande sorgono spontanee.
Sono super in quanto capaci di gestire correttamente determinate attività. Ma questo più che al super non dovrebbe afferire direttamente al concetto di manager?
Vengono spesso chiamati presso società al collasso che traghettano verso il fallimento in cambio di vari milioni. Questo non li dovrebbe rendere più simili a Caronte che a Spiderman?
Se è vero che un budget è un budget però è anche possibile ipotizzare che il settore merceologico, il comparto industriale e il contesto geografico abbiano un qualche peso.
I super-manager presenzialisti di CDA che abitualmente gestiscono tante realtà con quali azioni della loro forza lavoro rendono così innegabili i loro lauti stipendi?
A molte di queste domande non sapremo mai fornire una risposta, per il motivo che queste persone esistono sono nel mondo dei fumetti. La cosa grave è che noi cerchiamo e crediamo ancora nell’uomo dei miracoli. Il mondo della cultura e del Turismo necessità di serietà, impegno e buon senso. Caratteristiche di cui ormai l’uomo italiota manca totalmente

madonnaveloQuanto si spende effettivamente in Italia per la cultura? I dati statistici recentemente forniti dalle istituzioni europee ci dicono che la spesa media nazionale, 1,1%, è ben sotto alla media europea che si attesta al 2,2%.

Un dato preoccupante se si considera l’immenso patrimonio di beni culturali diffusi in ogni dove del nostro paese e le annesse opportunità che un’adeguata gestione degli stessi potrebbe comportare in termini occupazionali ed economici.

Ecco il punto. Un’adeguata gestione.
Possiamo definire adeguato un apparato ministeriale che nulla ha da invidiare all’amministrazione prefettizia napoleonica e che assorbe abbondante parte delle risorse finanziarie destinate alla valorizzazione dei beni culturali?

Vediamo, dunque, alcune delle cifre aggiornate al 2012 del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e dallo stesso MIBAC messe a disposizione.

Una struttura radicata nel territorio sì, ma che arriva a contare

10 Centri di responsabilità amministrativa;
17 Direzioni regionali;
34 Servizi dirigenziali centrali;
22 tra Istituti centrali, nazionali e Istituti dotati di speciale autonomia;
124 Uffici dirigenziali di II fascia periferici tra Soprintendenze, Biblioteche, Archivi di Stato e Sovrintendenze archivistiche;
100 Uffici periferici quali unità organizzative non dirigenziali per una dotazione organica totale che si articola come segue:
29 dirigenti I fascia,
194 dirigenti di II fascia;
21.232 unità di personale non dirigenziale.
Ragionando sul totale annuo lordo percepito dalle fasce dirigenziali, possiamo osservare che i dirigenti appartenenti alla prima fascia percepiscono una cifra pari a circa 167,000, 00 euro, con lo stipendio del Segretario Generale che ammonta a 194.453,21 euro, laddove lo stipendio dei dirigenti di seconda fascia si attesta sui 78,968,51 euro con alcuni picchi che raggiungono i 115.199,09 euro annui.

Cifre importanti, che dovrebbero essere giustificate da curricola più che eccellenti e da indiscusse capacità manageriali soprattutto in un periodo di carestia come quello in corso. Cifre che dovrebbero limitare il frequente e spesso oneroso ricorso a esperti e consulenti esterni.

Veniamo, infine, al bilancio.

Le risorse finanziarie assegnate al Ministero con bilancio di previsione per l’anno finanziario 2012 sono pari a euro 1.687.429.482, di cui

1.371.409.968 euro destinati alle spese correnti,
306.316.576 alle spese in conto capitale
9.702,938 quale rimborso del debito pubblico.

Analizzando nel dettaglio le spese correnti scopriamo che le spese da destinare al funzionamento delle strutture, tra le quali rientrano, come specificato dallo stesso Ministero, “stipendi e oneri accessori al personale, luce, acqua, gas, riscaldamento, climatizzazione, servizi igienico-sanitari, pulizie, cancelleria, strumentazione, ecc.”, sono pari a 869.043.350 euro.

Grosso modo il 50%, al quale vanno aggiunti gli oneri comuni di parte corrente pari a 105.327.351: il resto da destinare agli interventi.

Quanto rimane, dunque, in Italia per la valorizzazione dei beni e delle attività culturali?

Fonti:
http://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/Contenuti/Ministero/Organizzazione/visualizza_asset.html_1441740060.html

http://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/Contenuti/Ministero/Organizzazione/visualizza_asset.html_128888130.html

http://www.beniculturali.it/mibac/multimedia/MiBAC/documents/1329990742201_Piano_della_Performance_2012.pdf

http://www.beniculturali.it/mibac/multimedia/MiBAC/documents/1324628654445_Guida_MIBAC_TRASPARENZA_2011.pdf

audiovisivoIl 5 giugno si è tenuto a Roma, presso la sede della Regione Lazio, un incontro tra Lidia Ravera, Assessore alla Cultura e Sport e Politiche Giovanili della Giunta Zingaretti (insediatasi a metà marzo), ed una folta rappresentanza delle tante associazioni, professionali ed imprenditoriali, che caratterizzano il “piccolo mondo” degli italici cinematografari. È stata una occasione ghiotta, per chi cerca di comprendere gli orientamenti della eterodossa neo-Assessore (che si è autodefinita una “aliena”, rispetto ai “palazzi della politica”, in un bell’articolo pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 1° giugno scorso). Ravera è stata chiamata alla guida delle politiche culturali della Regione Lazio da Nicola Zingaretti, che ha voluto mettere in atto un’operazione spiazzante, anche perché Ravera, pur ben collocata a sinistra, non è iscritta al Pd, ed è quindi sganciata da dinamiche partitocratiche.

Da osservatori critici – quali siamo, da decenni – della politica culturale, a livello nazionale e locale, abbiamo, fin dai primi giorni, apprezzato la estrema cura comunicazionale (linguistica e semantica) con cui Ravera si è manifestata, in alcune pubbliche occasioni: che fosse un intellettuale ed un’artista, era evidente, ma che riuscisse ad arricchire il “linguaggio della politica” con una forma elegante ed al tempo stesso significativa (significante) è una bella sorpresa. Anche perché si tratta di un bel parlare che sembra riuscire a non cadere in quella qual certa ridondanza retorica che caratterizza invece talvolta un altro eccellente “affabulatore” – politico di professione – qual è Vendola, ad esempio.

Ciò premesso, la Ravera, che ha ereditato un assessorato retto per alcuni anni da Fabiana Santini (il cui curriculum evidenziava al massimo il ruolo di capo della segreteria dell’ex Ministro Scajola) nella Giunta Polverini, ha subito precisato, non appena insediatasi, che avrebbe “studiato”, e che avrebbe anzitutto “ascoltato”… “prendendo appunti” (formula che ribadisce spesso, e che effettivamente corrisponde alla realtà). Ha anche premesso con chiarezza: “la Regione Lazio, e questo Assessorato, non saranno più un bancomat, anche perché il bancomat s’è rotto”.

In estrema sintesi, va ricordato – ai lettori che non vivono a Roma e nel Lazio – che la Giunta Polverini (aprile 2010-marzo 2013) aveva, a sua volta, ereditato dalla Giunta Marrazzo (aprile 2005-ottobre 2009) un notevole livello di interventismo nelle politiche culturali, con particolare attenzione all’audiovisivo: finanziamenti consistenti, sostegno ad iniziative incerte come il Fiction Fest, iniziative promozionali varie.

Il deficit della Giunta Marrazzo va cercato nell’assenza di programmazione, ovvero di un piano strategico organico e di medio periodo: ha prevalso una pluralità di interventi, che è presto degenerata in policentrismo dispersivo, a partire da una assenza di sintonia tra “anime” della stessa giunta: le politiche culturali erano curate da Giulia Rodano (poi divenuta responsabile cultura nazionale dell’Italia dei Valori, ed ormai allontanatasi dalla politica); le politiche comunicazionali erano gestite da Francesco Gesualdi (segretario generale della Regione, già direttore generale di Cinecittà, fiduciario di Marrazzo).

Con una gestazione complessa, la Giunta Polverini ha comunque approvato una legge regionale sul cinema e sull’audiovisivo, che un qualche segno di innovazione ha provocato, a partire dalla denominazione della norma stessa, che, per la prima volta in Italia, ha “accomunato” il cinema e l’audiovisivo (non cinematografico). Sono stati allocati fondi per 15 milioni di euro l’anno, assegnati sulla base di meccanismi “automatici” (in primis, la sensibilità verso il Lazio, in termini di riprese o utilizzazione di risorse professionali in Regione), senza che vi fossero commissioni di esperti che giudicassero la sceneggiatura o il progetto filmico.

Questa legge è controversa: per alcuni, ha consentito una preziosa boccata di ossigeno, a fronte della riduzione della “quota cinema” del nazionale Fondo Unico per lo Spettacolo (che non arriva ormai a nemmeno 100 milioni di euro l’anno); per altri, ha finito per finanziare anche qualche produzione indipendente e qualche giovane autore (e produttore), ma per lo più ha sostenuto i “soliti noti”, ovvero i più ricchi produttori italiani (esemplificativamente, la Cattleya di Riccardo Tozzi e la Palomar di Carlo Degli Esposti). Va rimarcato che non è stata realizzata alcuna analisi valutativa degli effettivi impatti di questa legge, nella “migliore” tradizione dell’assenza di verifiche sull’intervento della mano pubblica nel settore culturale, che riteniamo essere la più grave patologia del sistema italiano. In verità, né l’assessorato affidato a Rodano né l’assessorato affidato a Santini hanno prodotto un rendiconto analitico accurato: il concetto stesso di “bilancio sociale” è ancora fantapolitica, per il nostro Paese.

Come vengono allocate le risorse… perché a favore di “x” piuttosto che di “y” (e questo problema riguarda enormi macchine “mangiasoldi” come gli enti lirici a livello nazionale, ma anche l’ultima delle piccole associazioni culturali del comune più sperduto)… sono domande che restano senza risposte, come il quesito sull’efficacia, in termini di stimolazione del tessuto culturale (estensione del pluralismo, pluralità dei linguaggi, eccetera), degli interventi pubblici. Il concetto di valutazione di impatto così come quello di verifica dell’efficacia sono sconosciuti alla quasi totalità della italica politica culturale.

Sono intervenuti alla riunione (ad inviti), i rappresentati di Slc Cgil, Anica, Agis Lazio, Anem, Anac, Apt, Agpc, 100autori, Cinema e Territorio, Cinecittà Luce, Doc/it, Fidac, Consequenze Network, Sact… Tutti hanno manifestato le proprie lamentazioni, per una crisi grave e diffusa: è emerso uno scenario critico veramente sconfortante. Che la crisi del cinema italiano sia profonda è confermata dalla notizia (diffusa nella stessa giornata dell’iniziativa della Regione Lazio) della sostanziale sospensione delle attività di distribuzione ed acquisizione della mitica Sacher di Nanni Moretti, che ha diramato questo comunicato stampa: “Ormai la situazione del Paese è tale che una distribuzione come la nostra, da sempre orientata alla diffusione di film art house che la gente va sempre meno a vedere e che le tv non acquistano più, si ritrova a lavorare più per filantropia che altro”.

Dopo oltre due ore di interventi, ha tirato le conclusioni l’Assessore, visibilmente affaticata (ha diligentemente preso appunti, come annunciato), ma ben vivace e stimolante, tracciando alcune linee-guida: ha premesso che non ha mai creduto nella dicotomia tra “cultura” ed “industria”, ed ha definito le industrie dell’immaginario come “industrie particolari che producono oggetti delicati” (aggiungendo: “dobbiamo sempre ricordarci il motto: handle with care”); ha lamentato come il nostro Paese, da molti anni, sia sottoposto ad un bombardamento mediatico (televisivo) che ha impoverito le coscienze (“abbiamo consumato roba balorda per decenni”) ed ha determinato una diffusa “desertificazione culturale”; ha sostenuto la necessità di far affluire “aria fresca” in un sistema polveroso e stantio, attraverso la promozione della sperimentazione, della ricerca, dell’innovazione, dei giovani talenti, stimolando le diversità espressive e linguistiche; ha sostenuto a chiare lettere che gli “automatismi” possono anche essere funzionali, ma che debbono essere integrati (corretti) con l’intervento “umano” (per quanto esso possa essere a rischio di soggettività); ha dichiarato che le procedure di finanziamento dovranno prevedere anticipazioni, perché la produzione audiovisiva è processo complesso e costoso, ed è la fase iniziale a dover essere sostenuta con maggiore attenzione; ha enfatizzato la necessità di guardare al territorio regionale, ben oltre Roma, perché è soprattutto “in provincia” che si soffre dell’assenza di strutture di offerta (cinema, teatri, centri culturali…), ovvero si assiste alla morte degli “avanposti dell’alfabetizzazione”; ha annunciato la costituzione di un comitato di qualificati esperti indipendenti (liberi da conflitti di interessi), che procederà ad apportare correzioni “light” alla legge cinema ed audiovisivo, ed a effettuare valutazioni (soggettive!) su cosa debba essere sostenuto, e cosa no, dalla Regione Lazio (“no ai finanziamenti a pioggia… anche perché si corre il rischio di… far piovere sul bagnato”, ha ironizzato); per quanto riguarda la film commission, ha dichiarato a chiare lettere che considera l’esperienza pugliese (e la stima per Vendola si conferma) un caso di eccellenza, anche per quanto riguarda la Apulia Film Commission, diretta dal giovane Silvio Maselli.

Per noi, che pure siamo studiosi critici di politiche culturali da un quarto di secolo, assidui e pazienti frequentatori di ogni iniziativa convegnistica e di dibattito sulla cultura, si è trattato di un’iniziativa assolutamente lodevole: densa, succosa, stimolante.

Le intenzioni dell’Assessora, intellettuale umanista, sono evidenti, commendevoli, condivisibili: innovare, scardinare il modello pre-esistente, rischiare. Abbiamo anche registrato qualche interessante assonanza tra quanto sostenuto dall’Assessore Ravera e quanto annunciato il 23 maggio dal Ministro Bray nella sua relazione di fronte alle Commissioni Cultura di Camera e Senato per la prima volta riunite assieme. L’intervento del neo-Ministro, per lo specifico audiovisivo, è rivoluzionario (almeno sulla carta), sebbene nessun quotidiano abbia colto la novità: ha fatto riferimento al modello francese come “benchmark”, e ciò basti.

Non resta da augurarci che si passi presto dal libro delle belle intenzioni (comunque apprezzabile, anche soltanto dal punto di vista intellettuale e della elaborazione di “policy” auspicata) alla concreta progettualità ed alle conseguenti azioni: normazioni, regolazioni, allocazioni di budget adeguati, deliberazioni amministrative. La Giunta Zingaretti ha certamente una previsione di vita maggiore del Governo Letta, e ciò conforta.

Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’IsICult – Istituto italiano per l’Industria Culturale