Culture21 srl – Gruppo Monti&Taft Ltd
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Qualche decennio di esperienza professionale (consulenziale e giornalistica) ci consentono di “leggere” alcune dinamiche con sereno distacco, e forse con un discreto “valore aggiunto” critico, anche rispetto al “dietro le quinte”: come è noto, il 5 novembre scorso, si è tenuta presso il Centro Sperimentale di Cinematografia la “Conferenza Nazionale del Cinema”, fortemente voluta dal ministro Massimo Bray e dal direttore generale Nicola Borrelli (ne abbiamo già scritto con scetticismo su queste colonne); come annunciato, il 9 novembre, i risultati di quella giornata di lavoro sarebbero stati presentati al Ministro, durante un evento ad hoc del Festival del Cinema di Roma.
Da giornalisti, abbiamo atteso che il 9 novembre l’ufficio stampa del Ministero diramasse un comunicato. Il che curiosamente non è avvenuto, anche se l’ufficio stampa del Mibact è ormai discretamente famoso nell’ambiente giornalistico perché inonda le redazioni di comunicati sulle più variegate questioni riguardanti la ricca agenda del Ministro. Abbiamo osservato, con relativo stupore, domenica mattina, che la rassegna stampa dell’iniziativa è stata ridicola (articoletti soltanto su “Avvenire” e “Il Tempo” e “il Messaggero”), ma d’altronde non brilla oggettivamente per intelligenza (mediologica e politica) organizzare un incontro istituzionale durante un festival, dato che i riflettori giornalistici sono ovviamente concentrati sui film, sulle polemiche cinefile, e sulla scollatura dell’attricetta di turno. Peraltro, chi redige queste noterelle è schierato con coloro (non pochi) che ritengono errata “ab origine” l’idea di un festival romano nato con l’ambizione (presto fallita) di competere con quella che dovrebbe essere l’unica iniziativa festivaliera nazionale di respiro realmente internazionale (il Festival di Venezia), ma… questo è un altro discorso.
Quel che stupisce, e che qui vogliamo segnalare, è che non nella giornata di sabato, ma l’indomani, domenica mattina (forse resisi conto alcuni dei promotori della modestissima rassegna stampa?!), viene diramato un lunghissimo comunicato stampa sulla giornata conclusiva della Conferenza Nazionale del Cinema. Dal Mibact? No, dall’Anica (vedi la riproduzione del testo in calce: interessante esempio di velina da “captatio benevolantie”, con tono che trasuda piaggeria nei confronti delle istituzioni). Ovvero dalla maggiore associazione dei produttori cinematografici italiani, che pure tutti non li rappresenta, e che comunque incarna una soltanto delle anime del cinema (quella mercantile). Si tratta di stessa Anica che tanta parte ha avuto nella strutturazione della “Conferenza Nazionale del Cinema”, se è vero che due dei tre “tavoli di lavoro” del 5 novembre hanno visto come “rapporteur” rispettivamente una qualificata dirigente dell’associazione ed un qualificato consulente dell’Anica stessa. E ricordiamo che, qualche mese fa, furono Mibact ed Anica assieme a presentare un dossier pomposamente denominato “Tutti i numeri del cinema italiano”, che proponeva in verità un set di dati parziale, se non partigiano.
Da cittadini, prima che da ricercatori e giornalisti, ci domandiamo cosa succederebbe se il Ministero della Salute appaltasse ricerche e convegni – e finanche una… “Conferenza Nazionale della Salute” – all’associazione dei proprietari di ospedali privati: qualcuno – saggiamente – obietterebbe almeno sull’opportunità, e forse su una qualche contraddizione interna del rapporto tra “pubblico” e “privato”, e finanche su qualche rischio di conflitto di interessi (anche se viviamo in un Paese nel quale, in materia, sembra tutti o quasi digeriscano anche i sassi).
In Anica, ci sono sicuramente intelligenze interne di alta qualificazione (tra le migliori del Paese, riteniamo), ma forse le strategie cognitive e politiche del Ministero dovrebbero avvalersi anche di intelligenze più plurali, data l’estrema delicatezza della politica culturale in un Paese come l’Italia, e data anche la qualità del suo estremo policentrismo.
E non dimentichiamo che presso il Mibact esiste (sulla carta, ormai) un Osservatorio dello Spettacolo (istituito dalla cosiddetta “legge madre” del 1985, che creò il famigerato Fondo Unico per lo Spettacolo alias Fus), struttura che è stata via via depotenziata (e definanziata) nel corso degli anni, “subappaltando” a soggetti come la confindustriale Anica e la ecclesiale Fondazione Ente dello Spettacolo (per molte centinaia di migliaia di euro l’anno) segmenti di quello che dovrebbe essere un “sistema informativo” centrale del Ministero, e soprattutto l’analisi critica del settore e delle sue potenziali strategie di sviluppo.
Attendiamo di leggere i lavori ed i risultati della Conferenza Nazionale del Cinema, non appena il Ministero li renderà pubblici (il che, ad oggi, non è). Ci auguriamo di non dover andare a cercare gli atti della Conferenza sul sito web dell’Anica…
Per ora, dalla rassegna stampa (e da quel che ci ha raccontato qualcuno dei partecipanti alla kermesse), emerge un gran bel concetto, non riusciamo a comprendere (un nostro limite, certamente) quanto innovativo e rivoluzionario: il Ministro Bray ha sostenuto che l’intervento pubblico dello Stato a favore della cinematografia deve passare da uno stadio soltanto “dativo” ad uno stadio “interattivo”. Potenza degli slogan!
Post scriptum.
Ecco il comunicato stampa diramato dal Mibact a fine mattinata di sabato 9 novembre:
Il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, Massimo Bray, sarà lunedì 11 novembre in Sicilia, a Racalmuto, per la presentazione del progetto “La strada degli scrittori”. Un itinerario turistico – culturale legato a tre grandi autori siciliani: Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. Dopo la presentazione il Ministro percorrerà con un breve tour i luoghi amati dagli scrittori: a partire da Racalmuto per arrivare a Porto Empedocle attraverso la Valle dei Templi di Agrigento, visitando le case natali, le statue, i teatri, paesaggi amati dai maestri della narrativa.
Ecco il testo del comunicato stampa diramato dall’Anica nella prima mattinata di domenica 10 novembre 2013:
Conferenza nazionale del cinema.
Bray: il comparto che si unisce crea positività e insieme si possono superare gli ostacoli
Tozzi: Bray sia il referente istituzionale della nuova GovernanceSi è tenuta il 9 novembre presso il Teatro Studio dell’Auditorium Parco della Musica la seconda fase della Conferenza nazionale del Cinema convocata dal Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo Massimo Bray. Nel corso dell’incontro pubblico sono state esposte le relazioni di sintesi dei tre tavoli di discussione che avevano caratterizzato la prima fase della Conferenza nazionale. Organizzati presso il Centro Sperimentale di Cinematografia, i tre tavoli avevano analizzato temi di rilevanza per il settore quali il mercato nazionale, i modelli di distribuzione e le politiche pubbliche.
Condotta dal Direttore Generale per il Cinema Nicola Borrelli, in un clima di positiva collaborazione tra gli esponenti della politica e quelli della filiera cinematografica presenti, la conferenza ha fornito un quadro lucido della situazione attuale analizzando le criticità che attanagliano il settore e prospettando delle soluzioni ai problemi, da realizzare sotto l’egida di una nuova Governance di settore, ben definita, che tuteli tutte le parti in gioco.
Il Ministro Bray ha espresso consapevolezza per la complessità del settore e per le sue problematicità ma ha dichiarato la volontà di superare gli ostacoli attraverso questi tavoli di lavoro e di confronto (“da non abbandonare mai”), simbolo di un nuovo sistema più ricettivo alle richieste del settore culturale.
L’unione di intenti tra istituzioni e industria ha fatto sì che il Presidente Anica Riccardo Tozzi proponesse pubblicamente il Ministro Bray come riferimento istituzionale di questa Governance e come portavoce di questa collaborazione a tutela dei diritti dei consumatori e di quelli dell’industria.
L’analisi.
Il sistema industriale audiovisivo e gli assetti del mercato in Italia ruotano attorno alle televisioni. La quasi totalità delle risorse però è a vantaggio di un numero ristretto di tv generaliste e di un duopolio editoriale. Il risultato è che tutto il potere assegnato a sole due imprese ha creato uno squilibrio tra produttori di contenuto e distributori, influendo negativamente sul prodotto. La chiusura del mercato distributivo non poteva che omogeneizzare il prodotto, che si è ormai etichettato e customizzato secondo uno schema rigido che prevede produzioni sicure per un target di pubblico di massa. Nessuna serialità con respiro internazionale, una produzione chiusa, un mercato chiuso con pochissime possibilità per la produzione indipendente.
Uno dei primi obiettivi di questa Governance sarebbe di diminuire il numero di tv generaliste, di aumentare e di rinnovare le linee editoriali e, soprattutto, di rendere obbligatori gli investimenti e la programmazione di prodotti provenienti da produzioni indipendenti.
Questa Governance deve essere centrale, statale, ed avere una visione totale della produzione dell’audiovisivo nazionale, ovvero lavorare a contatto con le regioni e con le film Commission, coordinandole e assegnando loro ruoli definiti e precisi ma non delegando gli oneri.
Nel contesto del mercato, il primo tema analizzato è stato quello relativo all’esercizio, con un grido d’allarme per la chiusura di un numero sempre maggiore di monosale cittadine, penalizzate da una pressione fiscale sempre in aumento, dalla impossibilità alla multiprogrammazione e dai costi per la digitalizzazione. In generale, tutto l’esercizio ha lamentato il problema fiscale e, soprattutto, il fenomeno sempre più crescente della pirateria.
A questo proposito è intervenuto Francesco Posteraro dell’Agcom, che ha confermato l’arrivo a breve termine di una regolamentazione precisa e più rigida sulla pirateria digitale, crimine da combattere prima che distrugga la produzione, ovvero un regolamento per la “protezione dei contenuti contro la predazione degli stessi”. L’attività di repressione non sarà quella di un controllo poliziesco della rete ma, su richiesta della parte lesa, si andrà a colpire i siti e i provider coinvolti nella diffusione illecita di materiale protetto da diritto d’autore.
Altro tema fondamentale è stato l’aggiornamento degli strumenti di implementazione delle risorse. Tutti gli strumenti, dal fus al credito d’imposta passando per i contributi agli incassi, al sostegno alle produzioni ritenute di interesse culturale o di autori di opere prime, vanno analizzati e ricalibrati. Inoltre si potrebbero ripristinare alcuni vecchi contributi ormai in disuso, purché aggiornati, e prendere in prestito dall’estero i modelli di contributo più più vincenti come il crowfunding, le lotterie e i gruppi di investitori per pacchetti di film.
Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult
Un’annotazione giornalistica preliminare, che sottoponiamo all’attenzione della comunità dei lettori di “Tafter”. Questa mattina (martedì 5 novembre), si tenevano a Roma in contemporanea 4 eventi, tutti di un qualche interesse per gli appassionati di cultura e gli operatori del settore: il convegno intitolato “Pubblico-privato. Patto per la cultura”, promosso da Civita nella fantastica sede di Piazza Venezia; la “Conferenza Nazionale sul Cinema”, presso il Centro Sperimentale di Cinematografia (e su questo evento, abbiamo manifestato il nostro dissenso metodologico sulle colonne di “Tafter”); l’incontro “Dialogando intorno ai beni, alle attività culturali e il turismo”, promosso dalla Direzione Generale per gli Archivi (retta ad interim da Rossana Rummo), presso il Collegio Romano; e, infine, presso la stessa storica sede del dicastero, la presentazione dei risultati della commissione di studio istituita dal Ministro Bray per la riforma del Ministero.
Seguire tutti gli eventi avrebbe implicato la disponibilità di uno stuolo di inviati, il mitico dono dell’ubiquità o comunque una capacità di teletrasporto di cui il modesto cronista che redige queste noterelle non dispone. Abbiamo quindi deciso di concentrarci sull’incontro che, almeno sulla carta, si annunciava essere l’iniziativa “strategica” più rilevante: la presentazione dei risultati della commissione di studio per la riforma del Ministero. Anche se crediamo che l’agenda odierna debba stimolare una riflessione su ricchezza e dispersioni, tipiche del nostro Paese e sintomatiche di alcune dinamiche: beltà del pluralismo e del policentrismo, oppure spreco di risorse e di intelligenze?!
Anzitutto, un’annotazione su stili di comunicazione del Ministero: il collega Luca Del Frà, eccellente firma de “l’Unità”, ha pubblicato uno “scoop”, e nell’edizione odierna del quotidiano ha anticipato il documento, che è stato illustrato oggi al Collegio Romano, ma che non è stato distribuito ai partecipanti all’incontro né ai giornalisti. La portavoce del Ministro, Caterina Perniconi, ha sostenuto che lei stessa non disponeva del documento, e già questo la dice lunga (sulle capacità di Del Frà, raro caso italico di appassionato giornalista specializzato – come Paolo Conti del “Corriere della Sera” – in politica culturale; sulla vocazione alla trasparenza del Ministero, anche se vogliamo sperare che quanto prima il segreto documento venga pubblicato sul sito web del Mibac)…
Si tratterebbe di una novantina di pagine (ma con molte centinaia di pagine nei suoi 4 “allegati”), frutto di 8 riunioni e di ben 29 audizioni sviluppatesi nel corso dei due mesi. L’elenco dell’eletta schiera degli auditi non è ancora noto, nemmeno questo.
La Commissione, istituita poco prima di Ferragosto (per l’esattezza, il 12 agosto), formata da oltre trenta persone, è stata presieduta da Marco D’Alberti (ordinario di diritto amministrativo presso l’Università di Roma “Sapienza”), che ha illustrato con chiarezza e piacevolmente il complesso lavoro della Commissione. Commissione che conclude la propria missione oggi, sciogliendosi ed affidando le sue proposte al Ministro.
La Commissione – si leggeva nel comunicato relativo alla sua istituzione – ha avuto “il compito di definire le metodologie più appropriate per armonizzare la tutela, la promozione della cultura e lo sviluppo del turismo, identificando le linee di modernizzazione del Ministero e di tutti gli enti vigilati, con riguardo alle competenze, all’articolazione delle strutture centrali e periferiche e alla innovazione delle procedure”.
Alla destra del professor D’Alberti, il Ministro Massimo Bray, alla sua sinistra Tomaso Montanari, storico dell’arte (professore associato dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”) prestato alla politica culturale, e noto anche per le sue polemiche contro Renzi per la chiusura, per una serata, di Ponte Vecchio, affittato alla Ferrari. Alla loro destra, altri tre componenti in rappresentanza della Commissione: Roberto Baratta (Presidente della Fondazione “La Biennale” di Venezia), Lorenzo Casini (professore di diritto amministrativo alla “Sapienza”) e Francesco Scoppola (Direttore regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell’Umbria).
D’Alberti ha anzitutto rivendicato come la scadenza temporale imposta dal Ministro (fine ottobre) sia stata scrupolosamente mantenuta. Ha voluto enfatizzare che la Commissione ha registrato una diffusa buona qualità del personale interno del dicastero (anzi ha parlato di “altissime professionalità”), sia a livello centrale sia a livello periferico, ed ha tenuto a rimarcare che sono stati ascoltati anche i rappresentanti del coordinamento dei precari. Uno degli obiettivi della Commissione è stata l’elaborazione di proposte per rilanciare la “valorizzazione” del patrimonio culturale, intesa “non come mercificazione”, ma come stimolazione di un “patrimonio più conoscibile e fruibile”.
La Commissione ha osservato sovrapposizione di competenze e quindi l’esigenza di una razionalizzazione della struttura del dicastero: in sostanza, si assegnerebbe alle direzioni regionali (da ridurre da 17 a 14, e quindi cambiando la denominazione da “regionali” a “territoriali”) un ruolo prevalente di gestione economico-amministrativa, rilanciando invece le funzioni scientifiche delle soprintendenze, ed assegnando autonomia gestionale ad istituti e musei (“almeno ai più grandi” è stato subito precisato; i musei verrebbero peraltro sganciati dalla direzione del patrimonio del Ministero).
Per quanto riguarda la riduzione delle direzioni generali, si ipotizza anzitutto la creazione di una nuova direzione del Patrimonio e del Paesaggio che assorbirebbe le funzioni svolte dall’attuale direzione per la Valorizzazione, voluta dal governo Berlusconi nel 2009.
Si ipotizza quindi una riorganizzazione strutturale basata su due o forse tre “direzioni centrali” ovvero generali: una direzione per l’innovazione ed i sistemi informativi (con particolare attenzione alla digitalizzazione del patrimonio), una per il personale (con particolare attenzione alla formazione), una per il bilancio (con particolare cura a processi contrattuali centralizzati). Ci sarebbero poi una direzione per il patrimonio culturale (una dg soltanto, rispetto alle due attuali), una per gli istituti culturali (biblioteche, archivi, musei), una per lo spettacolo (accorpando quindi cinema e spettacolo dal vivo), una per il turismo (“forse due”, è stato precisato), ed infine una direzione generale di staff del Ministro (che curerebbe anche la pianificazione). In particolare, per la direzione generale bilancio e contratti, si guarderebbe al modello della Banca d’Italia, che ha esperienza nella gestione centralizzata degli appalti.
Secondo le previsioni della “spending review”, le direzioni generali del Mibac debbono comunque scendere da 29 a 24: quindi si avrebbero 10 direzioni generali e 14 direzioni territoriali.
In dubbio il futuro del Segretariato Generale: la Dg del Segretariato resterebbe o potrebbe, in alternativa, essere sostituita da un comitato composto da tutti i direttori generali (in questo caso le direzioni generali sarebbero 9 e quelle regionali 15). Si ricorda che la legge 135/2012, cosiddetta “spending review”, all’art. 2, prevede nei ministeri nuovi organici di posti dirigenziali ridotti del 20 per cento.
La delicata questione del rapporto tra “pubblico” e “privato” è stata liquidata con alcune pillole di saggezza: al pubblico, la direzione scientifica e tecnica, ed al privato l’organizzazione e la gestione, ma comunque sempre subordinata alla supervisione del pubblico. Così sintetizzato, sembra quasi uno slogan ad effetto, un po’ semplicistico in verità, ma dalla presentazione odierna è emersa una rinnovata vocazione alla primazia (culturale e politica) della mano pubblica, con buona pace dei neo-liberisti. Il concetto è stato ribadito da Montanari (in sintonia con le tesi che espone su “il Fatto Quotidiano” e che ha ben rappresentato nel suo pamphlet “Le pietre e il popolo”, pubblicato da Minimum Fax): il Ministero ed in generale le politiche per la cultura debbono essere interpretate come “destinate alle persone e non alle cose”, come “diritti delle persone e non diritti delle cose”. Esiste un diritto dei cittadini-persone alla miglior fruizione delle cose culturali: lo Stato deve pensare prima alle persone, e poi alle cose (anche se, anche qui, il rischio di ricetta semplicistica c’è: le se le cose vanno in vacca, cioè il patrimonio deperisce per incuria, resta poi poco da dedicare alle persone…).
Lo spettro della “spending review” è stato evocato più volte, ma si è anche teorizzato di belle riforme “a costo zero”, ovvero a bilancio invariato, così come di interventi che non richiedono modificazioni dell’assetto normativo: per esempio, prevedendo delle corsie preferenziali (nello slang del diritto amministrativo, si chiamano “laboratori protetti”) nell’assegnazione di appalti, a favore di cooperative di giovani, storici dell’arte ed archeologi ed altri ricercatori (Montanari ha posto enfasi sulle cosiddette “cooperative della conoscenza”). La complessificazione e lentezza degli appalti dovrebbe essere risolta attraverso una centralizzazione in una soltanto “stazione appaltante” e centrale d’acquisti, a livello nazionale. Montanari, che è apparso come una neo-star di queste dinamiche (con la benedizione del Ministro evidentemente), una sorta di polemista anti-Sgarbi, ha addirittura scomodato Leon Battista Alberti, sostenendo che la relazione conclusiva della Commissione è, come per “la rappresentazione pittorica”, “una finestra sulla realtà”, ma il risultato finale è assimilabile, per profondità descrittiva, ad un’opera di Caravaggio (crepi la modestia!). Belle citazioni a parte, e retorica d’autocompiacimento a parte (sul web, molti hanno criticato che un cervello indipendente ed eterodosso come il suo si sia lasciato sedurre dall’invito ministeriale ed abbia accettato la cooptazione nella Commissione), Montanari ha anche sostenuto che il sistema italiano delle mostre deve essere affidato all’intelligenza ed alla scienza, e non alle scelte marketing-oriented dei privati: i sovrintendenti debbono essere “ricercatori e non amministratori”, così come i musei debbono essere “laboratori vivi per la ricerca”.
Tra le altre proposte, è stata evidenziata anche la possibile istituzione di una Scuola del Patrimonio, sul modello dell’Ecole du Patrimoine francese. Un’idea, questa, che sembra entusiasmare il ministro, ma che richiederebbe, a differenza delle altre proposte, una legge specifica.
Il Ministro Bray ha manifestato “sentitissimi ringraziamenti” alla Commissione, sostenendo che farà tesoro delle sue proposte. Ha anche lui voluto enfatizzare la qualità del personale del dicastero (questa enfasi può apparire come “captatio benevolentiae”: che si nasconda dietro un qualche perverso disegno, e si tratti di blandizie per imminenti tagli all’organico?! à la Andreotti, a pensar male si commette peccato, ma spesso si finisce per aver ragione…), ed ha sostenuto che lo “straordinario lavoro” delle sovrintendenze “ha salvato il Paese e le sue bellezze”. Sia consentito osservare che molte bellezze non sono state esattamente salvate, nel corso dei decenni. Ha ricordato che il Ministero “non ha nemmeno le risorse per conservare, altro che valorizzare!”. Ha sorriso amaramente – con la grazia che lo caratterizza, nel suo “understatement” molto “british” – nel ricordare che “la cifra che destiniamo alla formazione professionale è di 1 euro l’anno per dipendente”. Penoso e tragico ed intollerabile, ne conveniamo, egregio Ministro, ma non ha aggiunto… “e quindi, per coerenza, mi dimetto”, come avverrebbe in un Paese normale (quale il nostro continua a non essere).
L’intervento di Paolo Baratta è stato lungo e così generico da aver prodotto in noi un quesito che spesso emerge negli italici convegni (ma cosa diavolo avrà voluto dire?!): comunque interessante la sua riflessione sul ritardo con cui l’Italia (non) “ammoderna” il proprio apparato, se è vero che l’ultima riforma della pubblica amministrazione italiana risale a vent’anni fa. Minori anche gli interventi degli altri due rappresentanti della Commissione (Scoppola e Casini), così come quello della Segretaria Generale Antonia Pasqua Recchia, che brilla sempre per la sua pacata vocazione alla più estrema moderazione.
A fine conferenza, l’alacre Del Frà ha posto un quesito assolutamente normale (vedi supra) se vivessimo in Francia o nel Regno Unito: sarà possibile accedere alla documentazione di lavoro della Commissione e leggere la trascrizione delle audizioni?! Un qual certo imbarazzo della Segretaria Generale, e risposta elegante di D’Alberti: “io ho richiesto che tutte le audizioni venissero registrate, ed ho chiesto a tutti gli auditi se v’erano impedimenti in tal senso, e quindi non dovrebbero esservi problemi, ma la decisione spetta al Ministro…”.
Per ora, il Mibac ha diramato uno scarno comunicato stampa, la gentile portavoce ha annunciato la disponibilità di una sintesi ancora non pubblicata, e le ottantotto “misteriose” pagine del rapporto di ricerca restano chiuse ben a chiave nei cassetti ministeriali. Una ragione – evidentemente – ci sarà: il Ministro ed i suoi consulenti temono forse che si scatenino i sindacati, leggendo il rapporto di ricerca?! Appena possibile, torneremo a scriverne su queste colonne, non appena il risultato della Commissione diverrà di pubblico dominio (stima e simpatia a parte, non ci va di chiedere “una cortesia” a Del Frà).
Impressione conclusiva sintetica: molte belle intenzioni, alcune un po’ generiche, altre quasi rivoluzionarie. Vediamo come il Ministro le tradurrà in atti concreti. La riforma del Ministero, di cui la conferenza stampa di oggi appare come un antipasto, dovrebbe essere portata a termine entro fine dicembre 2013, come previsto dalla succitata legge 135 (di “spending review” appunto).
Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult
C’erano una volta un fratello e una sorella, Pellegrino e Margherita, che amavano la creatività e la magia. Pellegrino disegnava, creava, illustrava, Margherita scriveva storie, racconti favolosi per bambini, fiabe avventurose e delicate.
Per fortuna quella dei fratelli Capobianco non è solo una bella storia, ma una realtà esemplare, la storia vera di giovani artisti italiani che, tra alti e bassi, tra delusioni e gratificazioni, alla fine ce la fanno.
Margherita ha esordito come autrice nel 2011 pubblicando “Le avventure di Holly” per Tabula Fati. Nel corso dell’anno successivo è una delle vincitrici del 1° Festival nazionale di scritture per ragazzi “Astolfo sulla Luna” di Manocalzati (AV). Nel settembre del 2013 ha pubblicato per NarrativaePoesia Editore, “Holly e il trofeo dell’estate”, un altro racconto che ha come protagonista il folletto di Tulipandia, sempre illustrato dal fratello Pellegrino. Questi ha esordito nel 2009 come illustratore, collaborando con varie case editrici (Musso, Gruppo Editoriale Tabula Fati, etc.). Pellegrino, conosciuto con lo pseudonimo di Crinos, non è solo illustratore, ma anche artista e pittore a 360 gradi. Il suo stile personalissimo e innovativo gli ha meritato molti riconoscimenti nel campo della pittura.
Con il patrocinio del MiBAC, il romanzo di Margherita Capobianco, “Le avventure di Holly”, sarà presentato il 18 ottobre alle ore 10,00, nell’ambito della rassegna “Note e voci d’autore”, che si tiene presso la Biblioteca Statale di Montevergine ad Avellino, un incontro coinvolgente e interattivo per grandi e piccini.
Il suo nuovo romanzo, “Holly e il trofeo dell’estate”, verrà presentato prossimamente in diverse librerie irpine e romane. Non perdete d’occhio, quindi, il sito di Margherita e Pellegrino.
“…uno scrittore ha solo due vie: inventare storie o raccontarne di vere”. Scrive così Francesco Pellegrino, nelle note a chiusa del suo lavoro, citando l’autore e sceneggiatore francese, Emmanuel Carrère. La strada scelta da Pellegrino è la seconda: la storia da lui raccontata è una vicenda giudiziaria realmente accaduta e che è stata definita “il furto del secolo”. Due ritratti di Van Gogh, Il Giardiniere e L’Arlesiana, e un’opera di Cézanne, Le Cabanon de Jourdan, una sera come le altre del 19 maggio del 1998, sono state rubate dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma in cui erano esposte. Da quel momento inizia una frenetica azione di intervento di carabinieri e polizia insieme, per ritrovare i tre capolavori e riportarli “a casa” sani e salvi, integri.
La vicenda del furto dei tre quadri dalla GNAM – storica nel panorama dei beni culturali italiani – viene presentata dall’autore in maniera fedele, cronachistica. Lo sviluppo delle indagini è accompagnato dal resoconto delle azioni, delle emozioni, degli slanci e delle paure, degli autori del furto, seguiti a vista dagli investigatori, grazie a intercettazioni ambientali e telefoniche.
Il libro non è solo la narrazione di un gioco di guardie e ladri. Protagonisti sono anche le vittime del sequestro, i quadri scomparsi: l’autore dedica spazio ad una spiegazione storica delle tre opere, contestualizzandole nella vicenda biografica dei grandi maestri, Van Gogh e Cézanne.
È molto interessante leggere in maniera così approfondita di un fatto di tale portata, realmente accaduto. Il testo, poi, potrebbe anche essere considerato fonte storica a pieno titolo, specchio singolare di una parentesi storica dell’arte italiana e della storia intera della nazione.
La lettura a tratti risulta appesantita dall’annotazione delle intercettazioni telefoniche, che spesso appaiono confusionarie o in dialetto romano, e quindi poco scorrevoli. Qualche velleità letteraria in più, in alcuni punti, non avrebbe dato fastidio.
Il romanzo è introdotto da una nota di Walter Veltroni, l’allora Ministro dei Beni e delle Attività Culturali, che ha vissuto in primo piano tutta la vicenda, colorando ancora di più di partecipato realismo il racconto di Pellegrino.
Agli amanti del giallo, dell’intrigo, dei rompicapi investigativi, delle vicende giudiziarie eclatanti. Agli appassionati di storia dell’arte, di museologia, di biografie d’artista.
Ore 22, furto in galleria, di Francesco Pellegrino, Natyvi 2013, 12 euro.
La corsa verso il titolo di Capitale europea della Cultura 2019 continua per le candidate italiane, ricca di colpi di scena e di novità. Il quadro di progetti, dossier e proposte, che vanno presentate con scadenza ultima il 20 settembre, è in continua variazione.
Sono 19 per il momento le città che aspirano al prestigioso titolo, ma il numero e l’identità delle concorrenti può variare di ora in ora.
Risale a pochi giorni fa, ad esempio, il ritiro della candidatura da parte di Amalfi. La città, regina della costiera campana, ha ritirato il suo progetto per mancato sostegno delle istituzioni, tra le polemiche del comitato e dello stesso sindaco, Del Pizzo. L’atteso supporto della provincia di Salerno, infatti, è venuto meno e a rimanere in gara per la Regione Campania è rimasta solo Caserta.
C’è ancora incertezza, invece, per Pisa, che deve fare i conti con la rivalità della vicina Siena, la quale appare maggiormente lanciata verso la presentazione del progetto. Pisa, per il momento, non ha visto l’appoggio ufficiale della sua candidatura dalla Regione, tanto che Enrico Rossi, governatore della Regione Toscana, ha invitato Pisa a lasciare perdere la sfida, per lasciare campo libero alla città del Palio.
Anche Brindisi, che qualche tempo fa aveva annunciato la sua candidatura, si è ritirata per appoggiare ufficialmente Lecce. E, infatti, adesso le due città si definiscono “il tacco su cui regge il futuro d’Europa”. Bari, che inizialmente si era lanciata nella competizione europea, si è poi fatta da parte per dare il suo appoggio a Taranto. La Regione Puglia, da parte sua, non si esprime ancora a favore né dell’una, né dell’altra candidata e si riserva di dare il suo appoggio ufficiale solo dopo la scrematura del 20 settembre.
Ci sono perplessità anche per la candidatura di Catanzaro che a quanto pare si sarebbe ritirata di recente. Al suo posto è subentrata Reggio Calabria con il sostegno del Prefetto della Provincia di Reggio Calabria, Vittorio Piscitelli.
Altra new entry in corsa è Cagliari che ha ufficializzato la sua partecipazione solo a fine luglio, grazie alla spinta ricevuta dal Ministero dei Beni Culturali, che le ha proposto di candidarsi, e dal sindaco, Massimo Zedda.
Per conoscere tutte le novità sulle candidature a Capitale europea della Cultura 2019, non perdete di vista Tafter, che continua con le interviste alle città in gara per il titolo.
E’ la “Lettera di un musicista al Ministro alla cultura”, ma pone sul tavolo tante questioni di economia e gestione, più che rivolgere molti interrogativi o rimostranze in ambito artistico.
Una lettera che spontaneamente mette in luce il doppio valore della cultura: un motore della crescita economica, dei redditi e dell’occupazione, e un fattore di miglioramento della qualità sociale. L’obiettivo di uno Stato (e di un Ministro) moderno dovrebbe essere quello di occuparsi della produzione di nuova cultura, e quindi di sostenere le industrie culturali e creative.
Queste, pur contenendo in sé quel “bene prezioso” (con le parole della lettera) che è la cultura, per molti altri aspetti non sono dissimili dalla molteplicità delle organizzazioni economiche che formano il tessuto economico tradizionale su cui si basa lo sviluppo economico.
Ci sono imprese grandi, medie, piccole e piccolissime, for profit e non profit, ci sono liberi professionisti, artigiani, manager o imprenditori, anche nell’ambito culturale. E loro, come tutti, hanno a che fare con tasse e imposte, contributi previdenziali, premessi licenze e concessioni. Qui ora però si sta parlando di un ambito non profit in cui operano imprese piccole o piccolissime o singoli, dove chi fa cultura lo fa in forma non organizzata, rispondendo semplicemente all’esigenza di diffonderla capillarmente tra la gente, secondo formule saltuarie e mutevoli (un concerto o una mostra in un locale privato, un bar, un club, una casa).
Questo è nella sostanza un servizio pubblico che risponde all’universale riconoscimento della cultura come un bene meritorio, ma che sono in grado di fare al meglio i privati, ed è quindi sensato aspettarsi un appoggio ad essi da parte del settore pubblico. Ma di che tipo? Qui viene il difficile. In termini economici, dal lato delle imposte, ci son due piani: far pagare meno imposte a chi fruisce del consumo di beni e attività culturali; far pagare meno imposte a chi guadagna del reddito producendo beni e attività culturali. Serve introdurre misure per entrambi? Sono gli ammontari che ostacolano il funzionamento o è la burocrazia che li circonda? Dal lato dei contributi previdenziali, c’è il problema, tipico in qualunque mercato del lavoro, dell’imprevidenza in età adulta nei confronti della propria età anziana. Come trattarlo nel caso degli artisti?
Sicuramente, per iniziare una seria discussione sulle misure da introdurre per fare della cultura una leva di un nuovo modello di sviluppo economico e sociale, sarebbe utile semplificare il modo in cui le imposte e i contributi si debbano versare quando sono relativi a redditi guadagnati da artisti in circostanze occasionali, comprendendo i diritti Siae in un unico atto da compiere, magari on line attraverso qualche software che funzioni sul telefonino, che sicuramente qualche gruppo di giovani start-upper sarebbe in grado di progettare.
Giovanna Segre è Professoressa di Politica Economica all’Università Iuav di Venezia
Il 19 agosto 2013 “Tafter” ha proposto alla propria comunità un approfondito dossier sul decreto legge “Valore Cultura”, approvato dal Consiglio dei Ministri il 2 agosto.
A distanza di una decina di giorni, proponiamo una qualche integrazione ed alcuni aggiornamenti. Il dossier IsICult / Tafter ha registrato diffusi apprezzamenti, in quanto tentativo finora unico di analisi accurata e complessiva del provvedimento: piace osservare che lo stesso Ministro Bray ha aggiunto ai suoi “preferiti”, poche ore dopo la sua pubblicazione, il Tweet con cui Tafter segnalava il dossier sul decreto legge.
Il Ministro però, ad oggi, non ha ancora ritenuto di rispondere ad alcuni quesiti che gli venivano posti, nell’economia complessiva dei commenti elaborati nel dossier.
Qualche risposta potrebbe emergere dall’iniziativa prevista nell’ambito del Festival di Venezia il 2 settembre prossimo. Non si ha più notizia degli “Stati Generali sul Cinema” che pure erano stati annunciati nell’ambito del Festival di Venezia: in effetti, l’organizzazione dell’iniziativa – secondo alcuni affrettata e soprattutto mal preparata (si segnala il caustico articolo di Stefano Pierpaoli, attivista del cinema indipendente italiano, pubblicato il 3 luglio sul blog “Consequenze Network di cultura partecipata”, dall’eloquente titolo “Il Mi(ni)stero delle Attività Culturali – Partite di giro e riunioni segrete”) – era stata frenata dagli annunci polemici “delle categorie” sul piede di guerra: i cinematografari tutti (dagli autori ai produttori) avrebbero disertato iniziative veneziane con presenza governativa, se non fosse stato prima ripristinato il tax credit.
Il 20 luglio, una ventina di associazioni del settore cinematografico italiano avevano diramato un comunicato di fuoco contro il Governo Letta, dal titolo netto e chiaro: “Il Governo impedisce l’approvazione del rifinanziamento del tax credit”, mentre tutto il Parlamento all’unanimità l’avrebbe approvato. Il presidente Letta ha detto: “Mai più tagli alla cultura, se dovesse avvenire mi dimetterei”. 45 milioni in meno al cinema, la più grande industria culturale del Paese: PRESIDENTE CHE FA?????? È incredibile! Si condanna il cinema italiano alla chiusura. Dopo che al Fus sono venuti a mancare circa 22 milioni di euro, ora si tagliano altri 45 milioni al Tax Credit, rendendo impossibile produrre cinema e audiovisivo in Italia”.
Il tono del comunicato era esasperato (incluso il maiuscolo sulla domanda retorica al premier ed i 6 punti interrogativi 6), ed aveva un sapore un po’ passatista: non sappiamo chi sia stato l’estensore della prima bozza, ma scommettiamo che abbia un passato da sindacalista. Si leggeva che la decisione assunta dal Governo avrebbe impedito “alle produzioni straniere di venire a produrre da noi, con gravissimi danni per esempio a Cinecittà, aprendo di nuovo la strada alla delocalizzazione delle produzioni italiane, mettendo a rischio di chiusura il 40 % delle sale cinematografiche, in prevalenza piccole e medie strutture, che non potranno digitalizzare gli impianti. Eppure il cinema e l’audiovisivo fatturano il doppio del trasporto aereo!!!”.
Non entriamo nel merito di queste simpatiche stime nasometriche sulle dimensioni del settore (3 punti esclamativi 3 inclusi), perché più volte abbiamo dimostrato, anche sulle colonne di “Tafter”, che una delle cause della crisi del sistema culturale italiano vada ricercata proprio nella fallacia delle analisi economiche, nel deficit del sistema informativo-statistico, e nella conseguente impossibilità di disegnare prospettive affidabili e efficaci strategie. Stile retrò a parte, il tono del comunicato era oggettivamente minaccioso. Si leggeva ancora: “Ma il Ministro dei Beni Culturali indice una assise a Venezia per parlare di cinema. Le associazioni tutte, ancora una volta unite e compatte, non parteciperanno ad alcun convegno veneziano, ritireranno immediatamente i propri rappresentanti dai tavoli preparatori degli “Stati Generali”, riterranno sgradita la presenza di chiunque del Governo voglia presenziare a manifestazioni veneziane, annunciando fin d’ora di uscire dalle sale di proiezione se questo accadesse, metteranno in campo da oggi le iniziative di lotta e mobilitazione più utili, efficaci, eclatanti, per far capire ai cittadini come l’Italia sarà più povera senza il proprio cinema”.
“Last minute”, dopo i tamburi di guerra, il 2 agosto, il tax credit è stato ripristinato, ma era effettivamente un po’ tardi per riprendere la organizzazione degli… “Stati Generali”. Il Presidente dei produttori dell’Anica Angelo Barbagallo, poco dopo la conferenza stampa di Letta e Bray, aveva espresso apprezzamento “per la svolta impressa dal Governo”, segnalando che “ora si potrà riprendere, a partire da Venezia, quel percorso di confronto e collaborazione con l’Esecutivo, essenziale per definire una politica cinematografica all’altezza dei tempi e inserita in una visione generale del ruolo della cultura nel Paese”. Ma il lavoro dei “tavoli preparatori” degli “Stati Generali del Cinema” era stato sospeso… Si è quindi deciso di procedere con… prudenza.
Il 28 agosto, l’ufficio stampa dell’Anica ha confermato quel che la Direzione Generale per il Cinema – Mibact, aveva annunciato il 22 agosto: “il Mibact, in collaborazione con Istituto Luce-Cinecittà, Anica e La Biennale di Venezia, promuove durante il Festival, per lunedì 2 settembre, un convegno intitolato “Il futuro del cinema: da settore assistito a industria culturale strategica. Dopo la stabilizzazione del tax credit e verso la Conferenza Nazionale”. Tra i relatori, vengono annunciati: Riccardo Tozzi (Presidente Anica), Angelo Barbagallo (Presidente Sezione Produttori Anica), Richard Borg (Presidente Sezione Distributori Anica), mentre l’Apt annuncia che sarà presente con Fabiano Fabiani (Presidente dell’Associazione dei Produttori Televisive)… Sono previste le conclusioni di Massimo Bray.
Il 30 agosto l’ufficio stampa del Mibac ha reso noto il programma completo del convegno: ci sembra si tratti di una semplice riproposizione di una “compagnia di giro” (le cui tesi sono note da anni), e francamente temiamo che il valore aggiunto che verrà prodotto dal convegno sarà quindi inevitabilmente molto modesto, anche per l’assenza di voci “fuori dal coro”. Da segnalare che sono previste, nell’ambito della kermesse veneziana, anche due altre iniziative convegnistiche (che forse risulteranno più vivaci rispetto alla passarella ministeriale), promosse dall’Anac, martedì 3 settembre e per mercoledì 4: la prima è intitolata “Cinema italiano oggi: Una visione strategica per i necessari provvedimenti di rianimazione” (la metafora è forte, ma efficace), e la seconda è intitolata “Rai e rinnovo conessione: Quale itinerario per un servizio pubblico?”. E vanno segnalate anche altre occasioni di dibattito, promosse dalla “triade” Mibac Dg Cinema/Istituto Luce-Cinecittà (che è ormai una sorta di “braccio operativo del Mibac, anzi quasi un ufficio interno del dicastero) / Anica (che è sovvenzionata dalla Dg Cinema del Mibac per queste attività): martedì 3 settembre (dalle 10 alle 12), presso il Mercato del Film-Venice Film Market, la presentazione del “Report attività Dg Cinema 2012”, e di “Focus su film d’interesse culturale e analisi dei sottostanti accordi di produzione”, a cura di Alberto Pasquale e Bruno Zambardino; mercoledì 4 settembre (dalle 10 alle 13), ancora presso il Mercato del Film-Venice Film Market, “Focus” sul consumo di cinema “Sala e salotto 2013: il sequel”, realizzato da Ergo Research, su iniziativa di Anica e Univideo, in collaborazione con Anec-Agis, a cura di Michele Casula; ed “Appeal e potenzialità del cinema italiano in Usa”, indagine Swg per Istituto Luce-Cinecittà, a cura di Rodrigo Cipriani Foresio e Adrio De Carolis; “L’industria dei contenuti alla prova degli Ott e delle Tlc”, a cura di Giandomenico Celata ed Enrico Menduni… Insomma, molti fuochi d’artificio.
Questa mattina è stata presentata un’altra ricerca ancora: “Schermi di Qualità tra crisi economica e rinnovamento”, curata Gianni Celata e a Rossella Gaudio. Lo studio ha messo in evidenza che gli schermi del Progetto “Schermi di Qualità” (fortemente sostenuto dal Mibac, realizzato dall’Agis, d’intesa con le associazioni dell’esercizio cinematografico Anec, Anem, Fice, Acec) concorrono in modo significativo al box office complessivo, registrando nel primo semestre 2013 un 18 % delle presenze ed il 16,5% degli incassi dell’intero mercato. La quota di mercato dei film italiani non è esaltante, rappresentando il 33 % del totale. Si segnala che il 76 % dei biglietti venduti in “SdQ” si realizza nei cinema da 1 a 4 schermi. Dati interessanti, ma, ancora una volta, manca una lettura organica, sistemica, critica: si rinnova il deficit di elaborazione strategica e di “policy” e “governance”. E… in fondo, cosa ne resterà, dopo Venezia, di tutte queste elucubrazioni e dibattimenti?! Si rinnova l’obiezione sul senso di queste iniziative convegnistiche all’interno di una kermesse come il Festival di Venezia: nella economia della macchina mediatica, la scollatura dell’attricetta di turno provoca cento volte più “appeal” del più stimolante dibattito. La domanda resta: che senso strategico ha organizzare iniziative di questo tipo, “a latere” di un festival?! Anche il dibattito più intrigante è destinato ad ottenere due righe sui quotidiani. I riflettori, in queste situazioni, sono puntati altrove.
Dai grandiosi ed ambiziosi “Stati Generali” ad una più prudente e modesta “Conferenza Nazionale”. Ah, ricchezza della lingua italiana! Ma qualcuno – non soltanto Brunetta ed i polemisti de “il Giornale” – obietterà certamente qualcosa, rispetto alla titolazione dell’iniziativa, che propone una netta dichiarazione di superamento dello status di settore “assistito”, per quanto riguarda il cinema… Sarà anche interessante ascoltare l’opinione di Fabiani, ovvero quella di un settore (la lobby debole, l’Apt) che è stato inopinatamente (cioè senza alcun criterio logico e mediologico e di politica culturale) escluso dai benefici del tax credit, avendo Bray innovato privilegiando il settore musicale… Innovazione e contraddizione.
Siamo lieti che il Ministro molto telematico abbia letto ed apprezzato il dossier IsICult, ma ci avrebbe fatto ancor più piacere ricevere un suo feedback.
Segnaliamo – en passant – la precisione comunicazionale di Bray (e della sua addetta stampa, Caterina Perniconi), che il 22 agosto ha diramato un testo come quello che segue, correlato all’ambizioso progetto di pedonalizzazione dei Fori Imperiali avviata dal Sindaco di Roma Ignazio Marino ed alla necessità di registrare il parere dell’opinione pubblica: “Mibac: precisazione in merito alle parole del Ministro Bray. In merito alle dichiarazioni del ministro Massimo Bray sui Fori Imperiali rilasciate a Radio Anch’io, si precisa che il riferimento a una consultazione dei cittadini era da attribuirsi al normale iter di coinvolgimento della popolazione le cui necessità devono essere ascoltate dagli addetti ai lavori in un processo come quello che vorrebbe la creazione del più grande parco archeologico del mondo”.
Che precisione, che accuratezza… E va notato che sempre il 22 agosto Bray ha segnalato sul proprio profilo Twitter che aveva “postato” una lunga risposta del Ministro alla “Lettera di un musicista al Ministro alla Cultura”, firmata da Anna sul suo blog Laflauta (l’anonima Anna si autodefinisce con ironia “veneziana, bionda, flautista, jazzista, maestrina di canto, amazzone, mamma… e blogger”). Bray dichiara tra l’altro che “sarebbe auspicabile un’eventuale defiscalizzazione totale dei contributi che privati o aziende conferiscono per l’organizzazione di eventi artistici”: eccellente, se si passerà dalla bella idea alla concreta norma. Si segnala che anche il Presidente della Siae, Gino Paoli, ha deciso di postare un suo commento sul blog Laflauta, innescando una interessante polemica sul ruolo della Società Italiana Autori Editori.
Abbiamo effettuato un’accurata ricerca su web, ed osserviamo che, complice forse l’agosto vacanziero e torrido, non sono molti – in verità – i commenti in relazione al decreto legge del 2 agosto.
La Confederazione Italiana Archeologi (ebbene sì, esiste anche questa… Cia!), sul proprio sito web, in un commento intitolato “L’urgenza non diventi fretta”, ha espresso “parziale soddisfazione per il decreto Valore Cultura, annunciato dal Governo e dal Ministro Bray, di cui ancora non sono chiari i particolari”, ma si tratta di un commento pubblicato il 7 agosto, prima che il testo venisse reso noto: “Accogliamo con favore il rinnovato interesse per Pompei – ha sostenuto Alessandro Pintucci, Presidente dell’associazione – ma non vorremmo che con l’istituzione di una Direzione Generale ad hoc per il sito si replicasse la situazione di commissariamento e gestione straordinaria, che tanti danni ha arrecato al centro vesuviano negli anni passati. Siamo, invece, preoccupati per le annunciate assunzioni annuali di 500 stagisti: il nostro settore ha bisogno di interventi strutturali, ci sono decine di società che stanno rischiando di chiudere a causa della crisi e centinaia di professionisti, molti più grandi degli under 35 interessati dal Decreto, che stanno pensando seriamente di cambiare lavoro o di trasferirsi in altri Paesi, con una perdita di conoscenze ed esperienze che francamente non ci possiamo più permettere (…). La sensazione è che l’urgenza del provvedimento, che pure condividiamo, sia stata tradotta in un’operazione condotta di fretta. Auspichiamo un ripensamento del Ministro su questi punti, prima del licenziamento definitivo del decreto”. Il Ministro non sembra però averci ripensato, alla luce del testo licenziato, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 9 agosto.
Alla presa di posizione critica – che abbiamo già segnalato nel dossier pubblicato il 19 agosto – da parte dei sindacati Cgil Slc, Cisl Fistel, Uilcom e Fials (resa nota il 7 agosto), ha fatto seguito la critica manifestata da un altro sindacato, Libersind-Confsal (che si autodefinisce Confederazione Generale Sindacati Autonomi Lavoratori) che ha scritto al Ministro l’8 agosto ed ha diramato il 12 agosto un comunicato stampa ripreso dall’agenzia Adnkronos: “Libersind-Confsal chiede a Bray di emendare il decreto “Valore Cultura” per quanto riguarda il collegamento tra accesso agli stanziamenti delle fondazioni lirico-sinfoniche e riduzione dell’organico delle stesse”, perché “non è assolutamente condivisibile l’impostazione per la quale ancora una volta a pagare i danni causati negli anni da amministrazioni “politiche” fallimentari di alcune Fondazioni debbano essere i lavoratori”. Ribadiamo che si prevede un “autunno caldo” per la lirica italiana…
Tra le questioni apparentemente meno importanti, e segnalate quasi da nessuno, va ricordato che il Decreto Legge, all’articolo 4, ha introdotto l’obbligo di prevedere la libera disponibilità online per i risultati delle ricerche finanziate almeno per il 50 % con fondi pubblici. In un intervento pubblicato sul blog Roars (Return On Academic ReSearch), Paola Galimberti si è chiesta come mai questo (apprezzabile) intervento sia stato emanato per iniziativa del Mibac e non di quello competente per l’università e la ricerca.
Gli risponde in modo accurato ed interessante l’esperto di biblioteconomia Giovanni Solimine, in un post del 27 agosto sul suo blog, intitolato “Dl cultura e accesso aperto”: “In effetti non c’è da sorprendersi, per almeno due motivi: in primo luogo, perché finora non sembra che il Miur stia esprimendo una “cultura di governo” capace di andare oltre l’emergenza e i provvedimenti urgenti, e poi perché il Dl Cultura, per quanto parziale e insufficiente, lascia intravedere un respiro piuttosto ampio, che va oltre il puro e semplice ambito dei “beni culturali” e che cerca di affrontare i temi dell’accesso alla cultura e alla conoscenza.
Attendiamo il governo – se, come c’è da augurarsi, durerà – e il parlamento a nuove e più impegnative prove: la prima è proprio la conversione in legge di questo decreto, che qualcuno potrebbe cercare di svuotare proprio per gli aspetti più profondamente innovativi. PS: senza volerci arrogare meriti che non abbiamo, mi permetto di ricordare che l’obbligo dell’accesso aperto per i risultati delle ricerche finanziate con danaro pubblico era presente tra i provvedimenti sollecitati dal Forum del libro in una lettera aperta ai candidati alle ultime elezioni politiche, che aveva trovato in Massimo Bray, poi divenuto titolare del Mibact, uno dei suoi più convinti sostenitori”. Solimine, in altri post del suo blog, manifesta giudizi complessivamente positivi sul decreto legge “Valore Cultura”, ritenendo il “bicchiere pieno al 75 %”.
Su altro fronte (cinema), sull’edizione del “Giornale dello Spettacolo” (il mensile dell’Agis) del 28 agosto, in distribuzione al Festival di Venezia, Enrico Di Mambro, riferendosi al ripristino del tax crediti a favore del cinema, scrive che “testimonia un metodo di lavoro nuovo, segnato da un concreto fattivo confronto tra le parti”. A noi sembra – in verità – l’ennesimo topolino partorito dalla montagna, ovvero dal tira-e-molla tra Governo e lobby varie, senza alcun disegno strategico di ampio respiro: un intervento utile, ma più palliativo di breve termine che cura di lungo periodo. Di Mambro enfatizza che la stabilizzazione permanente del budget di 90 milioni di euro l’anno è resa possibile dal sistema di adeguamento di copertura determinato dagli articoli 14 e 15 del decreto legge, ovvero dalle assise sui combustibili, gli alcool e sul prelievo fiscale sui prodotti da fumo. L’esponente dell’Agis lamenta che l’autorizzazione per i crediti di imposta riguarda l’attività di produzione, mentre è sospesa l’autorizzazione per il credito d’imposta per la digitalizzazione delle sale (e ne siamo lieti, dato che la “battaglia per il digitale” ci sembra benefici già abbastanza di sostegni regionali, grazie ai fondi europei: si legga l’intervento su “Tafter” del 7 agosto: “Sull’utilità della digitalizzazione delle sale cinematografiche”): “la misura, infatti, viene ancora oggi applicata in termini limitativi e penalizzanti mediante l’adozione della clausola ‘de minimis’”. Di Mambro segnala anche una corrigenda opportuna: non è stata riprodotta la norma tecnica in base alla quale eventuali “avanzi” rispetto al plafond dei 90 milioni di euro l’anno vengano destinati ad alimentari lo stanziamento della parte cinema del Fus. Forse si tratta di errori ed errorini determinati da una qual certa fretta.
In effetti, nel dossier realizzato da IsICult per Tafter, avevamo prestato poca attenzione agli articoli 14 e 15 del decreto, liquidandoli come norme tecniche di finanziamento degli interventi normativi, cioè per la cosiddetta “copertura”.
Filippo Cavazzoni, Direttore Editoriale del “think tank” liberista Istituto Bruno Leoni (Ibl), ci ha segnalato: “La maggior parte delle coperture si ottengono con l’inasprimento delle accise: questa volta non sui carburanti, ma sugli oli lubrificanti, la birra, gli aperitivi, i vini liquorosi, le grappe, i prodotti “da fumo”, ecc. Se è davvero così, mi pare davvero criticabile: perché un bevitore di birra deve finanziare il tax credit?”.
Temiamo che sia proprio così. Il quesito è saggio, ma richiederebbe un’analisi approfondita e quindi una revisione radicale del concetto stesso di “dare” ed “avere” nel bilancio dell’italico Stato, ed ovviamente non soltanto in materia di politica ed economia della cultura. Si prendi “a chi”, per dare “a chi”, con quale logica politica ed economica?! Nel caso in ispecie, le “stampelle” per il cinema (tax credit) così come il ripianamento dei debiti degli enti lirici (determinati da cattiva gestione) vengono “socializzati” a carico della fiscalità generale (qualcuno può evocare il cosiddetto “metodo Stammati”, dal nome dell’allora Ministro che, nel lontano 1977, decise che lo Stato doveva intervenire per ripianare i debiti contratti dagli enti locali con il sistema bancario: un meccanismo perverso che ha stimolato una continua espansione della spesa pubblica, le cui conseguenze stiamo ormai pagando). Ha un senso, tecnico e politico, una scelta di copertura di questo tipo?!
Sui quotidiani del 28 agosto, si leggeva che il Governo, per alimentare il fabbisogno derivante dall’abolizione (per il 2013) dell’Imu, avrebbe introdotto novelle tasse sugli alcolici (già fatto per il tax credit, appunto) e sui giochi, per garantire giustappunto adeguata copertura pro Imu. E subito s’ode il grido di allarme di Confindustria, ovvero della sua anima “ludica”: il Presidente di Confindustria Sistema Gioco Italia (che aderisce a Confindustria Servizi Innovativi e Tecnologici), Massimo Passamonti, ha dichiarato “che l’ultimo aumento sugli apparecchi da intrattenimento, effettuato nel 2012 per garantire una copertura di 150 milioni, ha in realtà causato una perdita di 300 milioni di minor gettito erariale” (si ricorda che il settore del gioco produce circa 8 miliardi e mezzo di euro l’anno di entrate erariali, e non ci sembra che lo Stato dedichi minima attenzione alla gravità del fenomeno della ludopatie…). Secondo Passamonti, si tratterebbe di una misura “demagogica” e “controproducente”. Chissà cosa ne pensa il Presidente di Confindustria Cultura, Marco Polillo…
In verità, riteniamo che debba invece proprio esistere un nesso logico (e finanche ideologico, quindi politico) tra le varie voci del bilancio dello Stato: che danari che alimentano il ricco e ozioso settore del gioco (e finanche del tabacco) vadano a sostenere il prezioso e delicato settore della cultura lo troviamo logico, naturale, sano (ed era, non a caso, una delle proposte che furono avanzate nel documento “Appunti e proposte per una Agenda della Cultura” elaborato dalla veltroniana Fondazione Democratica Scuola di Politica, su cui scrivemmo su queste colonne), così come sarebbe logico imporre anche al settore del telecomunicazioni, ai provider ed agli aggregatori di contenuto (Google in primis) una qualche forma di obbligo ad alimentare la filiera delle industrie creative, per stimolare la produzione di contenuti originali di qualità. Ah, modello francese che sempre invochiamo…
Non ripresa da nessuno, riportiamo anche la dichiarazione della ex Ministro Giorgia Meloni, resa nota il 2 agosto stesso (aveva già letto il testo del decreto legge?!), sul suo blog: “Il decreto legge ‘valore cultura’ del governo Letta presenta qualche luce e molte ombre. Se da un lato consideriamo positivo il rifinanziamento del tax credit per il settore cinematografico e l’apertura nei confronti degli operatori culturali privati, dall’altro prendiamo atto che il provvedimento non introduce interventi strutturali e organici per attuare veramente il principio di sussidiarietà previsto dalla Costituzione. Fratelli d’Italia, unica forza politica che ha dedicato ampio spazio alla cultura nel suo programma elettorale, è pronta ad intervenire alla Camera per modificare e migliorare il decreto”. Osserveremo con attenzione, onorevole Meloni.
Da segnalare anche un’interessante presa di posizione dell’eterodosso storico dell’arte Tomaso Montanari (autore – tra l’altro – dell’eccellente pamphlet “Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l’arte e la storia delle città italiane”, Minimum Fax), che ha spiegato sulle colonne de “il Fatto Quotidiano”, il 18 agosto, perché ha deciso di accettare di far parte della (pletorica) Commissione ministeriale promossa dal Ministro Bray (ne scrivevamo anche nel dossier IsICult/Tafter) per la riforma del Ministero: “Come sanno i lettori di questo blog, non ero stato certo entusiasta del meccanismo politico che ha portato alla nomina di Bray: ma con la stessa onestà devo ammettere che, a distanza di tre mesi e mezzo, il bilancio è decisamente positivo. Bray sta rimettendo al loro posto i ras del Collegio Romano, sta rimotivando le soprintendenze, sta tenendo testa ai sindaci prepotenti (ha salvato il Maggio Musicale dalla irresponsabile liquidazione che avrebbe voluto Matteo Renzi). Ha imposto al Segretario Generale del Mibac di ritirare la pessima circolare sulla rotazione triennale dei direttori di museo e dei funzionari territoriali firmata da Ornaghi. Ha fatto anche ritirare lo stupidissimo e dannoso provvedimento sul noleggio delle opere nei depositi dei musei. Ha impedito che passasse l’idea (cara a Scelta Civica e alla sua sottosegretaria Ilaria Borletti Buitoni) di affidare Pompei ad una fondazione di diritto privato: e se il Parlamento non la stravolgerà (e soprattutto se il Direttore Generale sarà scelto tra i ranghi del Mibac), la struttura che il Decreto Valore Cultura prevede per Pompei ha tutte le carte in regola per funzionare”.
Ci auguriamo che la sua lettura dei fenomeni in atto non pecchi di ottimismo, ed auspichiamo soprattutto che Montanari mantenga alta la guardia. E, ancora, che la Commissione si dimostri veramente alacre, se deve concludere i propri lavori entro fine ottobre (2013). Anche se a budget zero.
Infine, ribadiamo (dopo attenta ri-verifica) che, curiosamente, il decreto legge (lanciato con il titolo-slogan “Valore Cultura”) si intitola, nella sua versione definitiva pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 9 agosto, “Disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attività culturali e del turismo”, ma in verità non v’è 1 articolo uno dedicato al… turismo! In occasione della conferenza stampa del 2 agosto, Bray aveva effettivamente dedicato pochi secondi all’argomento, dichiarando: “C’è l’impegno a dedicare i prossimi sforzi a mettere insieme un pacchetto di importanti provvedimenti proprio sul turismo”. Ma intanto “il turismo” è rimasto nel titolo del provvedimento. Un refuso?! Una rimozione?! Un pre-annuncio?! Abbiamo già segnalato che sul suo blog la Sottosegretaria Ilaria Borletti Buitoni, il 2 agosto, aveva scritto: “Sono stati presi anche provvedimenti utili per il turismo, in particolare per rilanciare il turismo sostenibile e culturale”. Evidentemente, sono rimasti in “mente dei”, ovvero all’ultimo minuto s’è seccato l’inchiostro della penna ministeriale… Segnaliamo quel che scrive Luciano Arduino sul suo ipercritico “Tutto-sbagliato-tutto-da-rifare”, blog “di critiche costruttive sul turismo e sulla cultura”, nel post del 28 agosto “Il Decreto del Turismo di Massimo Bray, bypasserà ancora una volta il Parlamento?”, che rilancia quanto aveva già polemicamente scritto il 3 agosto “Eilturismo?”.
Ed attendiamo che la Sottosegretaria delegata, Simonetta Giordani, si manifesti.
Anche perché sempre più si diffonde il novello (orribile) acronimo del dicastero: “Mibact”, con quella graziosa “t” finale. Mentre le politiche del turismo italiano continuano ad essere abbandonate a se stesse. Ed Andrea Babbi, Direttore Generale dell’Enit dichiara (intervista al blog “Terra Nostra” di Nicola Dante Basile su “Il Sole 24 Ore”, il 27 agosto) che, su un budget di 18 milioni di euro l’anno di risorse statali, l’ente spende 17 milioni per la gestione (200 dipendenti, 80 italiani e 120 esteri), ed ha quindi a disposizione soltanto 1 milione di euro per promuovere l’Italia nel mondo. E lo stesso Babbi evidenzia la contraddizione interna, tra livello Stato centrale e livello Regioni: l’Apt Emilia Romagna ha un budget di 12 milioni di euro, il Trentino 25 milioni, 28 milioni la Sicilia. Per non dire dei 44 milioni che il governo svizzero affida al proprio ente turistico…
Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult
Scarica qui il testo del decreto legge “Valore Cultura” dell’8 agosto 2013, nella sua versione in formato Pdf pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 9 agosto 2013.
Il Ministro Bray ha tentato di inserire nel decreto legge 91/2013, “Valore Cultura”, una norma per la concessione in via sperimentale di alcune strutture (in particolare monumenti minori) ai privati per far fronte alle emergenze e alle carenze di personale, ma a 20 anni dalla Legge Ronchey – che con la L. 4/1993 ha creato i “servizi aggiuntivi” – la questione del ruolo dei privati rispetto ai beni culturali rimane aperta e spinosa.
C’è chi vuole incentivarne la partecipazione, e chi, come Salvatore Settis, vede nell’apertura ai privati un’abdicazione dello Stato alle proprie responsabilità e competenze.
È palese che si potrebbe spendere meno in armi e di più in cultura e che l’evasione in Italia raggiunge livelli record privandoci di utili risorse. Investiamo solo l’1,1% del Pil in cultura a fronte di una media comunitaria del 2,2% (Eurostat) e perfino la Germania ha tagliato in tantissimi settori, ma non in cultura e istruzione.
Il punto fondamentale della discussione è, però, se e quanto è opportuno coinvolgere i privati, non se sarebbe opportuno e utile avere più soldi da movimentare per la cultura.
La paura forte è che il valore costituzionale e culturale del nostro patrimonio possa andare perso a favore di un suo utilizzo da “giacimento culturale”, abbandonando le funzioni socialmente utili a favore di scelte economicamente produttive.
Tomaso Montanari nel suo “Le Pietre e il popolo” critica in modo esemplificativo l’utilizzo di attrattori solo per racimolare un po’ di denaro con grandi eventi. Mentre il modello cui rimanda Settis è Ercolano, con la Hewlett-Packard che investe milioni in cambio solo di un “pubblico riconoscimento”. Tale modello sembra ricalcare in realtà la stessa logica dell’erogazione pubblica. C’è chi dubita che molti attrattori o beni potranno mai sostenersi autonomamente e c’è chi non vede di buon occhio il ruolo di una cultura che si (s)vende per generare denaro.
E’ probabile che molti musei o biblioteche non potranno mai essere del tutto auto-sufficienti, ma esistono infinite gradazioni di grigio. La questione diventa solo apparentemente semantica, volendo parlare non di “produzione di ricchezza”, ma di “generazione di valore”.
Si pensi a Ponte Vecchio a Firenze che è stato affittato per la sera del 29 giugno 2013 alla Ferrari Cavalcade (per 6 ore) ad un prezzo di ben 120.000 euro.
Il concetto di patrimonio e di beni culturali non può rimanere statico, ma deve svilupparsi. Si va dai “contenitori culturali” del 1993, all’idea di “attività culturali” affermatisi con il DL 368 e al Codice Urbani del 2004 che ha puntato sul “patrimonio culturale”.
Montanari fa notare la necessità di ricreare occupazione di qualità nel settore ed elenca archeologi, storici dell’arte e architetti. Si tratta di figure essenziali, ma non andrebbero trascurati manager della cultura ed economisti, perché se la filiera culturale merita professionisti di livello, questo è vero non solo per i contenuti, ma anche per la gestione e il posizionamento degli stessi.
Il sottosegretario ai Beni Culturali, Ilaria Borletti Buitoni, invita alla “predisposizione di regole chiare”. Spesso è il quadro normativo a essere difettoso, sovrabbondante e impreciso.
Esiste inoltre un problema radicale di accountability e affidabilità rispetto alla cultura. Servono indicatori che traccino con definizione le linee essenziali di ciò che avviene, chiarendone gli snodi funzionali, come i colli di bottiglia. Serve il coraggio di misurare ciò che (non) viene fatto, così da valutare in base a risultati analizzati nel dettaglio e in modo puntuale.
La sensazione forte che la cultura vada ripensata diversamente, sia come approccio che come modelli economici, è diffuso anche in “terre felici” fatte di stanziamenti statali più cospicui. Vengono, infatti, dalla Germania, da alcuni studiosi (D. Haselbach, A. Klein, P. Knusel, S. Opitz) le accuse di burocratizzazione del proprio paese, la richiesta di cancellare praticamente ogni finanziamento pubblico alla cultura e di ripartire dalla situazione post-infarto che questa scelte causerebbe (Kulturinfarkt). In Italia siamo pre-infartuati ormai da 20 anni.
Settembre alle porte segna la ripresa delle quotidiane attività, anche nel settore dei beni culturali: si prospetta un autunno caldo per Bray e il suo staff.
Dal Ministero giungono infatti notizie di scadenze serrate dopo l’approvazione del Decreto legge “Valore Cultura”, che dovrà essere convertito in legge entro e non oltre l’8 ottobre.
In primis ci sono le tante attese nomine.
A cominciare dal Soprintendente Speciale per Pompei e dall’incaricato a rivestire il ruolo di Direttore Generale di Progetto, per proseguire con il Comitato di Pilotaggio e il Comitato di Gestione. Questo per quel che riguarda il solo sito archeologico partenopeo, dove nel frattempo sono in corso i primi interventi di restauro.
Per quel che attiene la Reggia di Caserta, sempre secondo il sopra citato decreto legge, il sito andrebbe a confluire nel Polo Museale di Napoli, generando una Soprintendenza Speciale del Polo Museale di Napoli e Caserta: anche in tal caso è necessaria la nomina di colei o colui che vi sarà posto alla guida.
In Calabria invece si attende entro gennaio, come promesso, l’apertura del Museo volto ad ospitare il simbolo della Regione: i Bronzi di Riace.
Nel settore dello spettacolo, dopo l’erogazione anticipata dei fondi fus, rimane ancora da risolvere la faccenda delle fondazioni lirico-sinfoniche in perdita, mente il cinema si chiede se potrà effettivamente tirare un sospiro di sollievo con il ripristino dei 90 milioni di tax credit, così come sostenuto nel decreto “Valore cultura”.
Il Collegio Romano è del resto chiamato a dar seguito a molte delle promesse fatte negli scorsi mesi: si aspettano intanto i risultati delle due Commissioni neonate, quali quella per la revisione del Codice dei beni culturali e del Paesaggio e quella per il rilancio dei beni culturali ed il turismo e per la riforma del Ministero in base alla disciplina sulla revisione della spesa.
Non ultimo l’annuncio dell’assunzione di oltre 150 dipendenti da inserire nell’organico del dicastero.
Si avvicinano inoltre altre due importanti ricorrenze che coinvolgeranno il Ministero dei beni e delle attività culturali: si tratta della scadenza della prima fase per le città italiane candidate a divenire Capitale della Cultura europea 2019 (il 20 settembre) e della rincorsa ai preparativi per l’Expo 2015.
Nell’arco di pochi mesi di lavoro il Ministro Massimo Bray ha dato prova di impegno e buona volontà. La cosa risulta con tutta evidenza non solo se paragonata al disinteresse o alla inadeguatezza dei ministri della cultura che lo hanno preceduto, ma anche perché l’approccio ai problemi è stato diretto e non elusivo. Bray ha subito sbloccato i fondi POIN del 2012 per la Reggia di Caserta, il Real Bosco di Capodimonte, il polo museale di Sibari e il Palazzo Reale di Napoli. Ha riproposto per Pompei la sovrintendenza autonoma. Ha avviato progetti di riorganizzazione delle fondazioni lirico-sinfoniche. Ha indicato nello strumento della cosiddetta “fiscalità di vantaggio” una delle soluzioni possibili per favorire un rapporto sano tra pubblico e privato in ambito di Beni Culturali. Ed è andato oltre, impegnandosi in direzione del tax-credit per cinema e musica, e perché il MiBAC recuperi le risorse che provengono dalla vendita dei biglietti dei vari siti museali. Il tutto organizzato all’interno di un provvedimento più ampio che ha preso la forma del decreto legge “Valore Cultura”, approvato di recente e salutato da più parti con interesse e reazioni positive.
Insomma, Bray sta cercando di mettere ordine in un sistema ormai da anni disarticolato e abbandonato a se stesso. E nel far questo ha sempre avuto chiara la necessità di dover “partire dalla cultura per ricostruire un paese in cui tutti si riconoscano”, come da lui stesso dichiarato.
Bray lavora alacremente e con una certa velocità. Fa bene, perché non c’è tempo da perdere. Ma è anche necessario ponderare bene le scelte perché altrimenti si rischia di peggiorare una situazione già al limite. Insomma bisogna uscire per quanto possibile dalla logica dell’emergenza e costruire prospettive condivise di una qualche durata. Sicuramente è anche per questo motivo che il ministro ha voluto istituire la “Commissione per il rilancio dei beni culturali ed il turismo e per la riforma del Ministero in base alla disciplina sulla revisione della spesa”.
Presieduta dal professor Marco D’Alberti, Ordinario di Diritto amministrativo presso l’Università di Roma “la Sapienza”, la commissione ha il compito di “definire le metodologie più appropriate per armonizzare la tutela, la promozione della cultura e lo sviluppo del turismo, identificando le linee di modernizzazione del Ministero e di tutti gli enti vigilati, con riguardo alle competenze, all’articolazione delle strutture centrali e periferiche e alla innovazione delle procedure”.
Insomma: si tratta di riformare il MiBAC. Ridargli nuova linfa vitale e riuscire a orientarlo verso una direzione che valorizzi il patrimonio culturale nel nostro paese e – aggiunge chi scrive – eviti di pensare che i problemi si risolvano semplicemente svendendo ai privati quello che invece deve rimanere una risorsa di tutti e per tutti. A proposito di quest’ultima considerazione, bisogna dare atto al ministro che già in diverse occasioni ha mostrato una sensibilità molto vicina a questa impostazione.
La commissione deve concludere i suoi lavori entro il 31 ottobre (!) ed è composta da venti persone, la maggior parte delle quali scelte tra illustri accademici e dirigenti di istituzioni culturali, diversi per esperienza e sensibilità. Sono gli ingredienti di una ricetta che tutti ci auguriamo efficace e che, opportunamente, prevede un ragionamento sull’uso delle nuove tecnologie e si muove tenendo conto dei due poli spesso in contrasto tra loro della conservazione e della valorizzazione dei Beni Culturali.
Nessuno dei componenti la commissione percepirà compensi. E questo non rappresenta una novità nello stile recente dell’impegno istituzionale. Può essere il segno di una sensibilità civile che assomiglia allo slancio di migliaia di giovani che intervennero per salvare i beni culturali fiorentini dopo l’alluvione del novembre del 1966. Oppure può essere semplicemente la prosecuzione logica di un modo di lavorare che si è affermato negli ultimi anni in ambito culturale tra precariato sottopagato e volontariato.
Contiamo molto sul fatto che si tratti della prima ipotesi. Ve ne sono le premesse nella condizione di reddito e nella sensibilità dei membri della commissione nonché nel contesto in cui siamo precipitati.
Per il secondo aspetto, aspettiamo con ansia proposte e provvedimenti.
Gioacchino De Chirico è un giornalista culturale ed esperto di comunicazione
Il decreto legge “Valore Cultura” ha provocato reazioni interessanti nel Paese, non entusiaste ma complessivamente positive.
Su “Tafter”, sia Michele Trimarchi sia Bruno Zambardino, da diversi punti di vista, si esprimono positivamente, pur nutrendo perplessità. Tra gli articoli più critici va segnalato quello tagliente di una penna acuta del centro-destra, qual è Davide Giacalone, che ha intitolato un suo commento su “Terza Repubblica”, quotidiano online di Società Aperta, “La cultura che tuteliamo è sempre quella burocratica” (articolo apparso anche su “Libero” del 6 agosto).
Crediamo che i dubbi emergenti siano veramente tanti.
Ne avevamo già scritto su “Tafter” (“Decreto Valore Cultura. Cosa c’è dietro?”): le perplessità sono cresciute dopo aver finalmente letto, anzi studiato, il testo definitivo dell’annunciato provvedimento.
Il decreto legge mostra, nella stessa titolazione, una qual certa vocazione propagandistica, ma questo è certamente uno degli effetti meno deleteri della “politica spettacolo” cui siamo ormai abituati, anche nella versione più aggiornata dei “social network”.
Intanto, un’annotazione “di metodo”, che rappresenta un epifenomeno di una patologia tipica del nostro Paese e dei suoi spesso maldestri legislatori: prima di redigere quest’articolo, abbiamo consultato il sito dell’italico Parlamento. Esiste la scheda del decreto legge approvato dal Consiglio dei Ministri il 2 agosto scorso, ma il sito web del Parlamento recita inequivocabilmente “non ci sono testi disponibili”.
Approfondiamo quindi lo status dell’iter: il disegno di legge n. 1532 (“Conversione in legge del decreto-legge 8 agosto 2013, n. 91, recante disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attività culturali e del turismo”) risulta presentato il 9 agosto e “restituito al Governo per essere ripresentato all’altro ramo il 12 agosto 2013”.
Ad oggi, 15 agosto 2013, a due settimane dall’approvazione da parte del Cdm, il testo non è di pubblico dominio sui siti web del Parlamento.
È noto che queste gestazioni normative sono complesse, ma è altresì legittimo che il cittadino si domandi perché tutta questa nebbia agostana rispetto ad un testo che è stato annunciato con grancassa, ma di cui sono state presentate soltanto delle linee-guida: forse si tratta di lentezza procedurale determinata dal caldo torrido e dalla pausa dei lavori parlamentari… Comunque, sulle “slide” elaborate dal Ministero e su estratti sintetici del testo, s’è ingenerato il dibattito, non particolarmente vivace considerato la pausa agostana. Il Ministro, che è un attivista di Twitter, ha segnalato l’8 agosto che sul suo sito era stata “aggiornata un’infografica” che sintetizza efficacemente il provvedimento: complimenti al consulente grafico, bella operazione di marketing comunicazionale. Ancora sintesi, appunto. Graficamente gradevole, ma sintesi.
In ogni caso, stanchi delle bozze pervenuteci per via amichevole, abbiamo finalmente reperito il testo del Decreto Legge “Valore Cultura” sulla Gazzetta Ufficiale (edizione di venerdì 9 agosto), e lo presentiamo – in anteprima assoluta, da quanto ci è dato sapere – ai lettori di “Tafter”. Non ci risulta ad oggi pubblicato, su quotidiani, periodi, portali e siti web un commento complessivo come quello che IsICult propone in esclusiva alla comunità dei lettori di Tafter: una sorta di vero e proprio primo “dossier”.
È interessante osservare come i 16 articoli siano suddivisi in modo quasi eguale tra 3 “capi”, la cui titolazione è già in sé interessante:
Capo 1: “Disposizioni urgenti per la tutela, il restauro e la valorizzazione del patrimonio culturale italiano”
Capo 2: “Disposizioni urgenti per il rilancio del cinema, delle attività musicali e dello spettacolo dal vivo”
Capo 3: “Disposizioni urgenti per assicurare efficienti risorse al sistema dei beni, delle attività culturali”.
Il testo del decreto legge consta di circa 10.500 parole, oltre 1.200 righe, oltre 75mila battute. Notoriamente, una cartella giornalistica conta di 1.800 battute (60 battute per riga, 30 righe per cartella), e quindi siamo di fronte ad un testo di circa 42 pagine: non proprio snello, e non esattamente una lettura da ombrellone.
In termini di legistica, il testo appare chiaro in alcune parti, meno chiaro – e ridondante – in altre. Si ha ragione di temere che la redazione sia avvenuta in tempi abbastanza rapidi e con ritmi concitati e con apporti di saperi diversi, e se ne comprende la ragione: come abbiamo già avuto occasione di scrivere su queste colonne, il Governo Letta aveva necessità di non perdere del tutto la faccia, a fronte delle belle dichiarazioni a favore della cultura contraddette soprattutto della vicenda controversa della riduzione dei fondi a favore del tax credit cinematografico.
L’incipit è interessante: “ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di emanare disposizioni urgenti” (!!!). A parte qualche deficit lessicale (urgenza, urgente…), la formula si ripete un paio di volte, per giustificare l’utilizzazione dello strumento speciale del “decreto legge”. Transeat.
L’articolo 1 del decreto legge riguarda Pompei e prevede che il Presidente del Consiglio nomini “un responsabile unico della realizzazione del Grande Progetto e del programma straordinario”, denominato “Direttore Generale di Progetto”. Si tratta del “Grande Progetto” Pompei approvato dalla Commissione Europea nel marzo del 2012 (ah, l’urgenza…). Il decreto prevede poi la “costituzione di una apposita struttura di supporto al Direttore Generale di Progetto” (25 persone, 20 funzionari e 5 esperti). Nelle more dell’effettiva operatività di quanto previsto dal dl, si precisa che il “Comitato di Pilotaggio del Grande Progetto Pompei” (di cui al decreto interministeriale del dicembre 2012: ah, l’urgenza…) e il Soprintendente per i Beni Archeologici di Pompei assicurano, “in continuità con l’azione finora svolta, il proseguimento, senza interruzioni e in coerenza con le decisioni di accelerazione già assunte” (sarebbe interessante conoscere quali siano state queste decisioni, ma non divaghiamo…). Viene prevista la costituzione della… “Unità Grande Pompei” (la Sottosegretaria Borletti Buitoni, sul suo blog, scriveva il 2 agosto invece di una “Agenzia Speciale per Pompei”), che “è dotata di autonomia amministrativa e contabile”, e dipende dal Direttore Generale. In parallelo, si istituisce un “Comitato di Gestione” (che svolge anche le funzioni di “Conferenza di Servizi permanente), che deve approvare – entro un anno – un “Piano Strategico”. Il comma 6 dell’articolo 1 spiega in dettaglio in cosa consista questo “Piano Strategico”: appare discretamente ambizioso, trattandosi di “analisi di fattibilità istituzionale, finanziaria ed economica del piano nel suo complesso; crono-programma; valutazione delle condizioni di fattibilità con riferimento al loro avanzamento; adempimenti di ciascun soggetto partecipante; fonti di finanziamento attivabili per la loro realizzazione. Il piano prevede, in particolare, “gli interventi infrastrutturali urgenti necessari a migliorare le vie di accesso e le interconnessioni ai siti archeologici e per il recupero ambientale dei paesaggi degradati e compromessi, prioritariamente mediante il recupero e il riuso di aree industriali dismesse, e interventi di riqualificazione e di rigenerazione urbana”.
Il costo di queste iniziative (attività del Direttore Generale di Progetto e dell’Unità Grande Pompei) viene quantificato in soltanto 200.000 euro per il 2013 ed in 800.000 euro per gli esercizi dal 2014 al 2016. Il comma 13 dello stesso articolo prevede un altro… “Piano Strategico”, questo circoscritto allo “sviluppo del percorso turistico-culturale integrato delle residenze borboniche”. Da segnalare anche che il decreto legge prevede che la Reggia di Caserta confluisca nel Polo Museale di Napoli: nasce quindi una Soprintendenza speciale, denominata “Polo museale di Napoli e Caserta”, che comprenderà, oltre alla Reggia Vanvitelliana, alcuni importanti musei napoletani come Capodimonte. Si ricorda che per Pompei sono disponibili, e non da oggi, 105 milioni di euro, di cui 45 milioni provenienti dall’Unione Europea, ma le pastoie burocratiche hanno finora impedito di utilizzarli e gli appetiti malavitosi permangono peraltro dietro l’angolo. Tra i dissidenti, riportiamo il brutale parere (potrebbe essere altrimenti?!) di Gianmarco Centinaio, Capogruppo in Commissione Cultura per la Lega Nord a Palazzo Madama, secondo il quale il decreto legge Bray, rispetto a Pompei, “ha tutta l’aria di essere l’ennesima occasione per sistemare i soliti compiacenti amici degli amici. Non servono i tarocchi per capire che, anche a seguito di questa inutile nomina, la situazione non cambierà di una virgola se non nelle già vuote tasche di un Paese alla canna del gas. Più che un direttore generale servirebbe l’esercito”. Tranchant.
L’articolo 2 del dl intende avviare un “programma straordinario finalizzato alla prosecuzione ed allo sviluppo delle attività di inventariazione, catalogazione e digitalizzazione del patrimonio culturale, anche al fine di incrementare e facilitare l’accesso e la fruizione da parte del pubblico”, e prevede la selezione di 500 “under 35” “da formare per la durata di dodici mesi”, allocando risorse per 2,5 milioni, ma a partire dall’anno 2014. Interessante osservare che il dl prevede la possibilità di una convenzione con la mitica – nata ma già malata – Agenzia per l’Italia Digitale, cui mai è stata assegnata alcuna sensibilità rispetto alla cultura ed al turismo.
L’articolo 3 del dl prevede che i proventi acquisiti dal sistema museale nazionale vengono “riassegnati a decorrere dall’anno 2014” allo stato di previsione della spesa del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. Si restituisce quindi ai musei (ovvero al dicastero) quel che loro stessi producono. I proventi dei biglietti e del merchandising, con l’ultimo governo di centrodestra, erano stato dirottati verso il Ministero dell’Economia (restava soltanto il 10-15 % al Mibac). È una misura dal valore forse più simbolico che reale, ma comunque di buon senso e valida. Si ricorda che nel 2012 – per quanto riguarda gli incassi – si è trattato di 113,3 milioni di euro (a fronte dei 110,7 dell’anno 2011): tutte le biglietterie statali italiane messe insieme hanno fatto introiti corrispondenti al 25 per cento in meno del solo Louvre. Il decreto prevede un “onere derivante” da questo articolo nell’ordine di 19,2 milioni di euro a decorrere dal 2014.
L’articolo 4 del dl prevede che non siano considerate “pubbliche”: “l’esecuzione, la rappresentazione o la recitazione dell’opera effettuate, senza scopo di lucro, entro la cerchia ordinaria della famiglia, del convitto, della scuola o dell’istituto di ricovero, così come all’interno delle biblioteche, a fini esclusivi di promozione culturale e di valorizzazione delle opere stesse”. Ci si domanda quale severo tutore del diritto d’autore, per quanto estremista, abbia mai potuto pensare che non fossero… “private” le iniziative promosse nell’ambito della famiglia (il legislatore, poi, preciserà certamente cosa intende per… “cerchia ordinaria”!). Si prevede inoltre – sempre in una sana prospettiva di accessibilità ai saperi – che ogni ricerca finanziata per una quota pari ad almeno il 50 per cento con fondi pubblici debba essere depositata “in archivi elettronici istituzionali” o “di settore”, entro sei mesi dalla sua disponibilità. Si prevede che Mibact e Miur adottino “strategie coordinate per la piena integrazione, interoperabilità e non duplicazione delle banche dati rispettivamente gestite, quali quelle riguardanti l’anagrafe nazionale della ricerca, il deposito legale dei documenti digitali e la documentazione bibliografica”. Il testo precisa che queste disposizioni non producono maggiori oneri per la finanza pubblica.
L’articolo 5 del dl prevede una distribuzione di risorse: 8 milioni di euro (1 milione nel 2013 e 7 nel 2014) per la prosecuzione dei lavori volti alla realizzazione del progetto “Nuovi Uffizi”; 4 milioni (1 nel 2013 e 3 nel 2014) per il “Museo nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah” di Ferrara istituito con la legge n. 91 del 13 aprile 2013; 2 milioni (1 milione nel 2013 ed 1 milione nel 2014) per “interventi indifferibili e urgenti di tutela di beni culturali che presentano gravi rischi di deterioramento”. Quest’ultima allocazione di pubblici danari provoca un sorriso di incredibilità in qualsiasi persona di buon senso, per l’entità del budget (ridicolo) a fronte delle dimensioni (enormi) del patrimonio culturale italiano, e del suo (diffuso) deterioramento, tra crolli e furti! No comment. Ah, in questo caso, gli interventi non sono soltanto “urgenti”, ma “indifferibili”.
L’articolo 6 del dl recita nel titolo: “Disposizioni urgenti per la realizzazione di centri di produzione di arte contemporanea”. Bray ha precisato che il modello di riferimento è il francese “59 Rivoli” di Parigi. Il dl prevede che l’Agenzia del Demanio (anche sulla base di segnalazione dei soggetti interessati) individui a cadenza annuale immobili di proprietà dello Stato che siano “destinati ad ospitare studi di giovani artisti contemporanei italiani e stranieri”. Questi immobili dovrebbero essere “locati o concessi al canone di mercato abbattuto del 10 per cento” (non è intervento molto generoso, considerando anche che la manutenzione ordinaria e straordinaria è a carico del locatario), “in favore di cooperative di artisti e associazioni tra artisti, di età compresa tra 18 e 35 anni, italiani e stranieri”, mediante asta pubblica. Il testo prevede anche che “Le Regioni, le Province (ma queste non sono state abolite da altro provvedimento emergenziale del Governo Letta?! n.d.r.), i Comuni possono dare in locazione, per le finalità e con le modalità di cui al presente articolo, i beni di loro proprietà”. Quel passaggio “possano dare” è lievemente inquietante.
Il Capo 2 del decreto legge riguarda – come abbiamo segnalato – il “rilancio” del cinema, della musica e dello spettacolo dal vivo.
L’articolo 7 introduce anzitutto un inedito credito di imposta, nel limite di spesa di 4,5 milioni di euro annui, alle “imprese produttrici di fonogrammi e di videogrammi musicali”. Credito “nella misura del 30 per cento dei costi sostenuti per attività di sviluppo, produzione, digitalizzazione e promozione di registrazioni fonografiche o videografiche musicali, fino all’importo massimo di 200.000 euro nei tre anni d’imposta”. Le imprese debbono spendere un importo corrispondente all’80 per cento del beneficio concesso “nel territorio nazionale, privilegiando la formazione e l’apprendistato in tutti i settori tecnici coinvolti”. Il dl prevede che deve trattarsi di imprese “non devono essere sottoposte a controllo, diretto o indiretto, da parte di un editore di servizi media audiovisivi”: una previsione che intende privilegiare le imprese indipendenti, anche se la formulazione appare giuridicamente incerta, e ripropone questione delicata che riguarda anche il cinema e la fiction tv, sulla quale Agcom latita (chi è “produttore indipendente” in Italia???).
Abbiamo già posto, su queste colonne di “Tafter”, il quesito: con quale logica strategica il Governo decide che il credito di imposta è funzionale al settore cinematografico, ed ora a quello musicale, e non alla fiction televisiva o altri settori delle industrie culturali?! Non è dato sapere. Anche qui – si teme – capitale relazionale e potere delle lobby. Ricordiamo che qualche tempo fa, l’associazione italiana dei distributori di videogame, l’Aesvi, ha sostenuto una battaglia per introdurre credito d’imposta e detassazione degli utili a favore delle “imprese video ludiche”, battaglia di cui si è fatto alfiere il parlamentare del Pdl Antonio Palmieri…. Palmieri è il primo firmatario della proposta di legge n. 5093, presentata il 28 marzo 2012 alla Camera, “Disposizioni per la realizzazione dell’agenda digitale nazionale”, che, all’articolo 23, prevedeva “misure di sostegno fiscale alle aziende video ludiche italiane” (credito d’imposta e detrazione degli utili reinvestiti)…
Comunque, l’innovazione di Bray (estensione del tax credit dal cinema soltanto, come finora, ad altri settori dell’industria culturale) ha dei precedenti: si ricorda anche che il 17 dicembre 2012 è stato convertito il decreto legge n. 179 del 2012 (il cosiddetto “Decreto Sviluppo”, ovvero “Misure urgenti – ovviamente, n.d.r. – per lo sviluppo del Paese”), divenuto la legge n. 221 del dicembre 2012, che ha introdotto – nel silenzio dei più – un “credito d’imposta del 25 per cento dei costi sostenuti, nel rispetto dei limiti della regola de minimis (…), alle imprese che sviluppano nel territorio italiano piattaforme telematiche per la distribuzione, la vendita e il noleggio di opere dell’ingegno digitali”. La disposizione, stabilita dall’articolo 11 bis del decreto, ha l’obiettivo di migliorare l’offerta legale di opere dell’ingegno mediante le reti di comunicazione elettronica”. L’agevolazione dovrebbe essere applicata negli anni 2013, 2014 e 2015, “nel limite di spesa di 5 milioni di euro annui e fino a esaurimento delle risorse disponibili”, e dovrebbe essere coperta da un aumento del prelievo erariale sui concessionari dei giochi pubblici (le famigerate “slot machine”) e una diminuzione del loro compenso. Il condizione è d’obbligo (anche se la legge è vigente), perché i decreti attuativi sono ancora in gestazione ed il 5 luglio 2013 il succitato Palmieri ha presentato un’interrogazione parlamentare per stimolarne l’attuazione. Da ricordare che il “tax credit” è stato invocato – come misura antirecessiva – dall’associazione degli inserzionisti pubblicitari, l’Upa (Utenti Pubblicitari Associati): in occasione dell’assemblea annuale del 3 luglio, il Presidente Lorenzo Sassoli de Bianchi ha richiesto un credito di imposta per gli investimenti pubblicitari incrementali per il 2013 e nei tre anni successivi, fino a un tetto del 10 %, in modo da poter recuperare almeno gli investimenti perduti in questo ultimo biennio. Il Vice Ministro Antonio Catricalà ha sostenuto: “con convinzione, mi sono subito adoperato con il Ministero dell’Economia e la Ragioneria generale dello Stato per il suo accoglimento”. Non se ha ancora traccia, ma forse un’altra (piccola) manna è in arrivo. Come dire?! Ci sono figli di dèi minori, nell’industria culturale italiana?! la fiction televisiva, l’editoria libraria, il teatro, la danza… No, semplicemente, non esiste una strategia organica e lungimirante di sviluppo sinergico della cultura italiana tout-court!
L’articolo 8 è il più breve del decreto legge, ma forse il più impegnativo, almeno per le finanze pubbliche. Il tax credit a favore del settore cinematografico viene reso “permanente”, e si allocano 45 milioni di euro per il 2014, e 90 milioni di euro “a decorrere dal 2015”. Bene, anche se ci sembra di ricordare che il tax credit fosse stato già classificato come misura definitiva e permanente da precedente leggina, poi superata da successiva leggina…
L’articolo 9 ha un titolo interessante: “Disposizioni urgenti per assicurare la trasparenza, la semplificazione e l’efficacia del sistema di contribuzione pubblica allo spettacolo dal vivo e al cinema”. Prevede una revisione radicale dei criteri per il sovvenzionamento dello spettacolo dal vivo, che dovrebbero finalmente “tenere conto” dei seguenti criteri: “della importanza culturale della produzione svolta” (ma chi la certifica?!), “dei livelli quantitativi, degli indici di affluenza del pubblico nonché della regolarità gestionale degli organismi” (ben venga!). Si plaude all’introduzione di una valutazione del rapporto tra offerta e domanda, dopo decenni di sovvenzionamenti basati sulla… conservazione dell’esistente (anno dopo anno, si tendeva a conservare il livello di contributo accordato). Il decreto legge, al comma 2 di quest’articolo 9, prevede l’introduzione di grande trasparenza nell’assegnazione di incarichi dirigenziali, amministrativi ed artistici, consulenziali e collaborativi, richiedendo la pubblicazione dei dati essenziali, compensi e curricula. Eccellente iniziativa: è ora di fare un po’ di trasparenza in questo settore.
L’articolo 10 del dl intende introdurre una deroga ad alcune contestate norme introdotte dalla legge di stabilità del 2010 (legge n. 122 del 30 luglio 2010), che prevedeva la riduzione dei costi degli apparati amministrativi e la “razionalizzazione della spesa delle amministrazioni pubbliche”, attraverso alcune disposizioni draconiane (la partecipazione onorifica ai cda, un gettone di presenza di 30 euro a seduta, riduzione delle spese in consulenza, ecc.): non vengono ora sottoposti a questa scure, gli “enti e organismi che operano nel settore dei beni e delle attività culturali, vigilati o comunque sovvenzionati dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, ivi inclusi i teatri stabili di iniziativa pubblica e i relativi circuiti e associazioni”. Tra l’altro, non dovranno più effettuare i “tagli orizzontali” sulle spese relative a pubblicità e tournée. L’onere è calcolato in 4 milioni di euro dall’anno 2014.
L’articolo 11 del dl è finalizzato al “risanamento” delle fondazioni lirico-sinfoniche ed al “rilancio” del sistema nazionale musicale di eccellenza. Segnaliamo che nelle slide presentate dal Ministro il 2 agosto si spiegava: “Cambia la governance: si stabilirà l’obbligo del pareggio di bilancio e l’applicazione delle norme del codice dei contratti pubblici”. E si annunciava sinteticamente il diktat: “presentare entro 90 giorni un piano industriale di risanamento ridurre fino al 50 % del personale tecnico amministrativo; interrompere i contratti integrativi”. Leggendo il testo del dl, si comprende la profondità di una vera e propria rivoluzione (annunciata).
Entro tre mesi dall’entrata in vigore della legge, gli enti in situazione critica economico-finanziaria debbono presentare un “piano di risanamento”, che preveda “soluzioni idonee a riportare la fondazione, entro i tre esercizi finanziari successivi, nelle condizioni di attivo patrimoniale e almeno di equilibrio del conto economico”. Tra le “condizioni inderogabili” del piano anche “la riduzione della dotazione organica del personale tecnico e amministrativo fino al cinquanta per cento di quella in essere al 31 dicembre 2012”.
Il personale “in eccedenza” verrà trasferito ad Ales spa, ma “nell’ambito delle vacanze di organico e nei limiti delle facoltà assunzionali di tale società” (?!). Non entriamo nel merito lessicale, ma segnaliamo che il Dizionario dell’Enciclopedia Treccani (che Bray ben conosce, essendone stato Direttore Editoriale) non censisce la parola “assunzionale”, che pure circola nello slang dei lavoristi e sindacalisti ed il legislatore eleva alla dignità di vocabolario normativo. Battute a parte, qui – sia consentito – si apre un altro capitolo grigio della politica culturale italiana: qualcuno può spiegarci il senso di questo braccio operativo – società “in house” – del Mibac?! Qualcuno ne ha studiato mai l’efficienza e l’efficacia?! Sul sito della società non appare ancora, all’agosto 2013, il bilancio dell’esercizio 2012. Nel 2011, il totale ricavi è stato di 14 milioni di euro; 579 dipendenti, di cui 310 a tempo indeterminato. E risulta che la Procura della Corte dei Conti stia studiando le carte societarie, e non è una bella premessa. Il decreto legge prevede anche che dovranno altresì essere interrotti i “contratti integrativi”. Non abbiamo ancora sentito tuonare i sindacati, ma si prevede un autunno caldo, almeno… liricamente inteso!
Comunque, il 7 agosto un primo segnale dai sindacati è pervenuto, con una “lettera unitaria” al Ministro, firmata da Slc (Cgil), Fistel (Cisl), Uilcom (Uil) e Fials (Cisal): un segnale curioso, perché il giorno prima gli stessi avevano manifestato apprezzamento rispetto al decreto legge, pur precisando “ovviamente, stanti le buone premesse, siamo in attesa della scrittura definitiva del testo per un giudizio più mirato del decreto” (6 agosto). Il testo, però, non avevano evidentemente ancora letto. Scrivono il 7 agosto: “ad una attenta lettura del testo, non definitivo, in tema di Fondazioni Lirico?Sinfoniche, non possono esimersi dal manifestare forti perplessità, preoccupazione e, in alcuni casi, non condivisione per come vengono affrontati questi argomenti che interessano la vita dei lavoratori, il futuro occupazionale degli stessi, prospettando, inoltre, interventi impropri sulla contrattazione nazionale e di secondo livello”.
Certo, si tratta di un “testo non definitivo”, ma dall’8 agosto ha forza di legge… Tutto questo processo di riforma emergenziale deve essere curato da un “Commissario Straordinario del Governo”, che diviene una sorta di potentissimo tecnico al servizio dell’Esecutivo: un Superman della Lirica! Il dl precisa che le risorse umane e strumentali necessarie non determineranno “nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”: Superman lavorerà quindi gratis?! Immaginiamo l’impegno che potrà profondere, con tutti i cattivi del pianeta che deve tenere a bada.
Viene introdotto un “fondo di rotazione” di 75 milioni di euro per finanziamenti di breve periodo (3 anni). Una parte di questo budget, 25 milioni di euro, può essere anticipata dal Mibac nel corso del 2013, su indicazione del Commissario Straordinario, “sulle disponibilità giacenti”. Si ricorda – en passant – che il debito complessivo delle fondazioni lirico-sinfoniche italiane veleggia intorno ai 350 milioni di euro… Viene riformata radicalmente anche la “governance”: permane il Presidente nella persona del Sindaco del Comune ove ha sede la fondazione; viene introdotto un “Consiglio di Indirizzo” formato da Presidente, dai rappresentanti degli fondatori pubblici e dai soci privati che versino almeno il 5 per cento del contributo dello Stato; il Sovrintendente (organo unico di gestione), nominato dal Mibact ma su proposta del Consiglio di Indirizzo; viene previsto un “organo monocratico di monitoraggio degli atti” adottati dal Sovrintendente, che invia una relazione al Mibact, ogni due mesi (tempo reale!); il Collegio dei Revisori, formato da 3 membri, di cui il Presidente designato dal Presidente della Corte dei Conti. Il “Consiglio di Indirizzo” ha l’obbligo di “assicurare il pareggio di bilancio”, e, in caso di violazione dell’obbligo, è prevista finanche la “responsabilità personale” (che paura!). Si stabilisce che le fondazioni sono sottoposte agli obblighi della legge n. 163 del 2006 ovvero al Testo Unico sugli Appalti: ciò è bene per la trasparenza della “res pubblica”, ma non è bene per le esigenze spesso atipiche che caratterizzano la produzione culturale. Si prevede anche una “conferenza” nazionale dei Sovrintendenti, finalizzata a garantire “la maggiore diffusione in ogni ambito territoriale degli spettacoli, nonché la maggiore offerta al pubblico giovanile, l’innovazione, la promozione di settore con ogni idoneo mezzo di comunicazione, il contenimento e la riduzione del costo dei fattori produttivi, anche mediante lo scambio di spettacoli o la realizzazione di coproduzioni, di singoli corpi artistici e di materiale scenico, e la promozione dell’acquisto o la condivisione di beni e servizi comuni al settore, anche con riferimento alla nuova produzione musicale”. Ottime intenzioni, attendiamo di vedere i fatti, come scrive Trimarchi. Il decreto legge prevede che la quota del Fus venga assegnata, tra le varie fondazioni, sulla base di queste quote percentuali: 50 per cento, “costi di produzione”, ma anche sulla base di “indicatori di rilevazione della produzione”; 25 per cento sulla base del “miglioramento dei risultati della gestione attraverso la capacità di reperire risorse”; 25 per cento sulla base della “qualità artistica dei programmi”. Si introduce il principio tipico della politica culturale “anglosassone” (Uk ed Usa, alcuni Paesi del Nord Europa): lo Stato ti sostiene, ma se tu sei in grado di reperire sul mercato altre risorse…
Il Capo 3 è intitolato “Disposizioni urgenti per assicurare efficienti risorse al sistema dei beni, delle attività culturali”.
L’articolo 12 introduce la chance di “donazioni di modico valore”, ovvero fino a 5.000 euro, attraverso modalità estremamente semplificate. Si ricorda che le donazioni sono oneri deducibili dal reddito (per le imprese) o detraibili dall’imposta sul reddito (per persone fisiche) e che in Italia queste dinamiche sono ostacolate da procedure burocratiche complesse e demotivanti. Il tetto della somma in questione appare veramente molto molto modesto, e segnaliamo che in occasione della conferenza stampa il Ministro Bray ha evocato le esperienze di “crowdfunding”. Il comma 2 prevede che “entro il 31 ottobre 2013” (dando per scontata l’approvazione del decreto legge?!), il Ministero “individua forme di coinvolgimento dei privati nella valorizzazione e gestione dei beni culturali, con riferimento a beni individuati con decreto del medesimo Ministro”, facendo proprie le indicazioni della “commissione di studio già costituita presso il Ministero”. Non c’è riferimento a decreto ministeriale di sorta, e quindi il riferimento è oscuro. Come è noto il 9 agosto, il Ministro ha istituito una “Commissione per la Revisione del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio” (presieduta da Salvatore Settis) ed il 12 agosto un’altra non meno ambiziosa “Commissione per il Rilancio dei Beni Culturali ed il Turismo e per la Riforma del Ministero in base alla disciplina sulla revisione della spesa” (presieduta da Marco D’Alberti), ma si tratta di organismi consulenziali evidentemente altri. Si riferisce forse al “Comitato Tecnico-Scientifico per l’Economia della Cultura”, formato da professionisti di livello (già presieduto dal compianto Walter Santagata; attuale Presidente Giuseppe Pennisi, componenti Paolo Baratta, Paolo Iannelli, Andrea Moretti), che campeggia sul sito del Mibac, ma le cui attività non sono di pubblico dominio?! In occasione dell’audizione del 24 maggio, Bray aveva annunciato: “Per queste finalità, sarà presto costituito un gruppo di studio, cui sarà demandato il compito di approfondire le forme e le modalità più efficaci per l’esplicarsi del rapporto tra soggetti pubblici e privati nella gestione delle attività di valorizzazione, in modo da individuare soluzioni che consentano di coniugare le esigenze della migliore fruizione pubblica degli istituti e dei luoghi della cultura con la sostenibilità economica delle gestioni e la valorizzazione della progettualità degli operatori economici”. Non si ha pubblica evidenza di questo “gruppo di studio” o “commissione” che sia, e si attendono chiarimenti.
L’articolo 13 appare pleonastico, dato che precisa (cui prodest?!) che il Ministro è “autorizzato ad avvalersi, senza nuovi o maggiori oneri per le finanze dello Stato, del Consiglio Superiore per i Beni Culturali e Paesaggistici (beh, sarebbe surreale se il Ministro non se ne avvalesse, no?! n.d.r.), nonché di altri Comitati Tecnico-Scientifici e organismi consultivi istituiti e nominati con decreto del medesimo Ministro in numero non superiore a 7”. E si precisa che “gli organismi di cui al comma 1 operano senza oneri a carico della finanza pubblica”. Osserviamo – en passant – che la Commissione per la Revisione del Testo Unico (nominata il 9 agosto) è formata da 5 componenti, mentre quella per il Rilancio (nominata il 12 agosto) da 20 membri. Tutti lavoreranno alacremente… gratis!
L’articolo 14 è intitolato “Oli lubrificanti e accisa su alcol” ed è evidentemente fuori contesto, così come l’articolo 15, “Norme finanziarie”, che si caratterizza per un testo così criptico (rimandando di legge in legge) da rendere inutile un tentativo di decrittazione. Quel che sembra di comprendere è che l’accise sulla benzina continuerà ad alimentare il tax credit cinematografico: con gran gioia degli automobilisti che magari al cinema non vanno nemmeno una volta l’anno, e nemmeno sanno di questo loro bel contributo al sistema culturale nazionale.
Fin qui, l’analisi del testo.
Come ha scritto Trimarchi, “carta è e carta rimane finché non se ne comincia l’attuazione”. Crediamo che però che la carta scritta da Bray e dal suo staff consulenziale meriti un’analisi accurata, sia per la legistica (debole assai) sia per la strategia (valida anche se deficitaria). A proposito di consulenti, si segnala che il 2 agosto il Responsabile nazionale Cultura della epifaniana segreteria Pd, Antonio Funiciello, ha rivendicato che “il Pd ha svolto la sua parte nell’ideazione e nel sostegno all’iniziativa”. E si ricorda un convegno nazionale del Pd del 2005 intitolato proprio “Valore Cultura – Progetti e politiche di sviluppo per la cultura e per l’economia nella società postindustriale”.
In sostanza, lo spirito complessivo che anima il provvedimento appare condivisibile (razionalizzazione e modernizzazione), e rappresenta certamente un segnale di inversione di tendenza, ma è purtroppo un timido segnale. Appare evidente che il Ministro guardi all’eccellente modello francese (come ha peraltro pubblicamente riconosciuto) ed è cosa buona e giusta.
Appare altrettanto evidente che il decreto legge ripropone patologie storiche del nostro Paese: frammentarietà ed occasionalità.
Interviene su alcuni nodi delicati, ma non ha il coraggio di prendere il toro per le corna.
Dettagli tecnici a parte, scrittura normativa incerta a parte, operazioni comunicazionali mirate a parte… ci si domanda: esiste una “intelligenza” (e finanche “strategica”) alla base di questi interventi “urgenti” su questioni “emergenziali”?! La risposta è negativa. Ci sembra un tentativo normativo basato su buone intuizioni, così come su belle intenzioni. Ma il risultato è frammentario, fragile, timido. Pannicelli caldi, insomma.
Ribadiamo: mai è stata realizzata una analisi di impatto, per esempio, sul tax credit cinematografico, e quindi nessuno può dimostrare se si tratta di cura efficace o di effimero palliativo, rispetto allo sviluppo sano (plurale e innovativo) del sistema cinematografico italiano. E poi… perché il “cinema” sì e la “fiction” no?! Non è dato sapere: assenza di “policy making” lungimirante, mercanteggiamenti tra lobby più (Anica) o meno (Apt) potenti, interventi emergenziali ed urgenti (appunto). Così va il mondo… cioè l’Italia.
Altra annotazione: nel decreto “Valore Italia”, non 1 parola 1 sul turismo. Eppure, la Sottosegretaria Ilaria Borletti Buitoni, nel post del 2 agosto sul suo blog, aveva scritto: “Sono stati presi anche provvedimenti utili per il turismo, in particolare per rilanciare il turismo sostenibile e culturale”. Scomparsi in itinere, Sottosegretario?! In verità, in occasione della conferenza stampa del 2 agosto (qui il video, per gli appassionati del genere), Bray ha annunciato che provvedimenti in materia di turismo sono ancora in gestazione… Affidati alle cure della Sottosegretaria finalmente con delega, Simonetta Giordani.
Il decreto legge resterà in vita per 60 giorni ed avrà “forza di legge”, ma gli effetti prodotti sono provvisori, perché i decreti-legge perdono efficacia sin dall’inizio, se il Parlamento non li converte in legge entro 60 giorni dalla loro pubblicazione.
Dal 9 agosto all’8 ottobre 2013, appunto. La Camera riapre i lavori il 6 settembre. In 1 mese 1, si riuscirà ad approvare una legge di conversione, nei due rami del Parlamento?!
Riusciranno “i nostri eroi” a far approvare il decreto legge in tempo utile?!
Scarica qui il testo integrale del Decreto Legge
Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult
C’è del buono e del nuovo, e forse stavolta non per forza il buono non è nuovo e il nuovo non è buono. Il decreto “Valore cultura” contiene molte misure (come le definisce il gergo burocratico ormai privo d’aria) che spaziano da Pompei alle donazioni individuali, dal tax credit al piano industriale (sic) delle fondazioni liriche, dai giovani artisti che finalmente si possono esprimere in alcuni spazi demaniali ad alcune forme di elusione della spending review.
Giudicare il decreto sulla carta è un esercizio che lasciamo volentieri ai non pochi polemisti per vocazione. Carta è e carta rimane finché non se ne comincia l’attuazione, e anche se analoghe esperienze del passato remoto e recente giustificano qualche sospetto il Ministro è appena insediato e già il fatto che prenda per le corna il toro multiforme e capriccioso del sistema culturale italiano va preso come un segno incoraggiante.
Quello che possiamo, anzi che vogliamo, mettere in evidenza è che un intervento del genere, per quanto complesso e variegato, rischia il naufragio nella solita palude dell’emergenza permanente che piace così tanto all’establishment culturale italiano se non viene seguito in modo sistematico e deciso da un ridisegno del sistema stesso, che sopravvive con difficoltà a causa di una normativa obsoleta, ideologica, priva di incentivi e orientata alla conservazione dello status quo.
Inutile dire che mentre lo status quo di alcuni decenni fa è rimasto più o meno invariato (era questo lo scopo del gioco) la società e la cultura che ne rappresenta la più profonda identità si sono evolute, hanno attraversato fasi di dubbio e di desiderio, hanno aperto le loro finestre su un mondo sempre più dinamico e laico. Qui ancora ci si balocca con il dualismo tra pubblico e privato (che anche nei manuali è tema da bar dello sport), con le ubbìe moralistiche di chi si compiace di un assedio di fatto inesistente, con il terrore della barbarie che tenta goffamente di respingere ogni principio di responsabilità e di trasparenza.
Ce n’è abbastanza per aspettarsi finalmente la presa d’atto che l’Ottocento è finito, che i musei non possono essere tuttora uffici periferici del Ministero; che i teatri non perseguono alcun obiettivo strategico; che le relazioni internazionali si limitano ad alcune tournées confidando di fare cassa e di sedurre qualche imprenditore gonzo; che la formazione, l’accesso e lo svolgimento delle professioni culturali è soggetto a regole bizantine e a criteri da corte imperiale; che del pubblico e della società non si occupa praticamente nessuno.
Il progetto Pompei potrà generare risultati interessanti, ma sarebbe il caso di esplicitare le relazioni con la Soprintendenza speciale, che è il frutto del precedente tentativo di rendere decente un sito la cui specialità diluisce pericolosamente nell’opacità. Già la lirica è attraversata da un po’ di anni da onde di commissariamenti. La recente esperienza di Mario Resca, messo lì ad aprire mercati ma del tutto privo di orientamenti e di indirizzi, la dice lunga: il manager non può essere utile se il vertice strategico del Ministero non gli pone le domande giuste. L’attesa del Deus ex Machina potrebbe essere l’ennesimo palliativo che non riesce a frenare il cupio dissolvi della cultura italiana, così convinta di essere unica da non riuscire a diventare normale.
Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro
Il neoeletto sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha deciso di chiudere al traffico delle auto private via dei Fori Imperiali, dal Colosseo a Piazza Venezia. Con concretezza, l’operazione si sta realizzando in tempi brevi e sembra avere le caratteristiche per proporsi come biglietto da visita della nuova giunta. Intorno a questa scelta stanno crescendo aspettative che tendono a farla diventare un punto di riferimento di riflessioni, proposte e interrogativi di chi ha cuore il rapporto con la cultura nel nostro paese.
E’ realistico pensare che questa attenzione vada attribuita a una felice coincidenza che pone il provvedimento del sindaco Marino nel punto di snodo di diverse problematiche che riguardano la vita nelle nostre città.
La chiusura infatti nasce dalla preoccupazione per la tutela del Colosseo e dell’area circostante messe a dura prova dal traffico, dallo smog e dai lavori della Metro C. A questo vanno aggiunte le proteste di cittadini e operatori per il rischio di degrado di un’area che sembra essere stata abbandonata al turismo di massa tra venditori di paccottiglia, giganteschi torpedoni e pochi servizi. Nei quartieri limitrofi a via dei Fori Imperiali non sono pochi gli abitanti che preferiscono usare le proprie case per i bed and breakfast piuttosto che abitarci. E il problema riguarda da tempo tutto il centro storico romano abitato solo da una esigua minoranza di cittadini.
Ecco allora che sulla questione della chiusura di via dei Fori Imperiali confluiscono le attenzioni di diverse sensibilità: la necessità di un ambiente non inquinato; la speranza di liberare Roma dal traffico delle auto in favore di un migliorato trasporto pubblico; la possibilità di avviare politiche di turismo sostenibile in contrasto con il turismo di massa, “mordi e fuggi” che molto toglie alla città senza restituirle nulla; e finalmente il recupero della centralità della cultura.
Il quadro generale per avviare questo lungo e virtuoso cammino è fornito dalla necessità di ricostruire quella “città pubblica” il cui tramonto è descritto con cura e attenzione nel recente libro di Francesco Erbani. Un campo semantico che vede al suo centro la cultura restituita ai cittadini perché elemento di costruzione del senso civico e della dimensione sociale, fattore di inclusione e cittadinanza, formidabile motore di democrazia e partecipazione.
Se questo venisse realizzato verrebbero sciolti i dubbi intorno al ruolo di Della Valle per il restauro del Colosseo. Capiremmo meglio quale indirizzo dare alle politiche culturali e come migliorare il problema del rapporto tra centro e periferia.
Infine, potremmo riflettere più serenamente sulla scelta di affidare alle sorelle Fendi e al magnate francese del lusso Bernard Arnault l’uso del Palazzo della Civiltà del Lavoro all’Eur. E liberarci della gabbia strettissima dell’ideologia dominante che vede nell’affido ai privati l’unica strada per risolvere il problema dei beni culturali nel nostro paese. Riusciremmo così a intravvedere soluzioni più civili e responsabili per la gestione del nostro patrimonio.
In questo quadro, due iniziative apparentemente di valore secondario, potrebbero far sperare in una diversa concezione delle politiche pubbliche: la somministrazione ai cittadini di un questionario e l’invito a partecipare alla festa di inaugurazione. Sono solo un’operazione di marketing? Prevedono autentica partecipazione? E in che modo?
La festa sarebbe interessante se rappresentasse il primo passo di una restituzione del patrimonio culturale ai cittadini. Il questionario è benvenuto se fosse l’inizio di una pratica di partecipazione.
Fruizione e produzione culturale hanno bisogno di modalità precise per essere attivate. E queste modalità riguardano la sostenibilità della vita nei nostri quartieri, al centro come in periferia, per i residenti come per i turisti.
Le isole pedonali non bastano: possono anzi diventare un boomerang. Una brutta ferita come quella che vede il centro di Roma, da Fontana di Trevi al Pantheon, attraversato da masse di turisti ignari della città che percorrono un solco che ha mutato profondamente la fisionomia di quelle strade oggi occupate solamente da negozi di souvenir, pizzerie a taglio, bar e ristoranti. Si deve fare meglio, molto meglio. E di più.
Gioacchino De Chirico è un giornalista culturale ed esperto di comunicazione
Quando si affronta il tema dei beni culturali, di norma la discussione si polarizza su due estremi.
Da una parte si collocano quelli che ci spiegano l’importanza, il ruolo, quasi sempre assegnando ai beni culturali, e in generale alla cultura, tutti i compiti possibili e immaginabili (dalla formazione della coscienza civile alla promozione del made in italy e così via). Di norma costoro, dopo aver richiamato l’art. 9 della Carta Costituzionale, concludono denunciando il grave degrado in cui versa il patrimonio culturale, l’ingiustificato taglio delle risorse e infine l’insufficienza dell’organico ministeriale.
Dall’altra c’è una minoranza più riflessiva che non rinuncia a molto di quanto vanno sostenendo i primi, ma aggiunge qualche elemento di valutazione un po’ più raffinato e, spesso, arriva a invocare riforme radicali. Ciò che quasi sempre resta nell’ombra è una analisi delle ragioni per cui siamo arrivati al punto in cui siamo. Sicché la soluzione di tutto sembra essere o finanziamenti e più assunzioni, o abolizione del finanziamento pubblico.
Nessuno ci spiega per fare che cosa, con quali strutture, con quali mezzi e con quali strumenti e, soprattutto, per quali obiettivi. In un tale contesto rimane sullo sfondo un nodo essenziale del problema: l’analisi e la valutazione della macchina amministrativa e organizzativa che presiede al governo del patrimonio (da estendere a tutto il settore culturale).
I limiti sono evidenti da anni e il sovrapporsi di “riforme” non ha certo aiutato. Un esempio su tutti: quando c’erano più risorse, c’erano anche consistenti residui passivi (soldi che non si riusciva a spendere) e anche adesso, con meno risorse, i problemi non sono cambiati.
C’è quindi un problema che riguarda la carenza di professionalità adeguate a gestire processi amministrativi complessi, scarso senso di responsabilità (da cui si rifugge per timori di ricorsi e denunce) e, soprattutto, un meccanismo normativo che allunga i tempi a dismisura e favorisce l’illegalità.
Ledo Prato è Segretario Generale di CIDAC, Associazione Città d’Arte e Cultura
Lunedì 1 luglio è stato presentato a Roma il Rapporto Annuale di Federculture 2013: “Una strategia per la cultura. Una strategia per il Paese”, da molti atteso come il documento capace di fare il punto sullo stato del sistema culturale italiano. Presenti il sindaco della capitale Ignazio Marino, Lidia Ravera assessore alla cultura della Regione e i ministri Bray e Giovannini.
Come di consueto i dati che descrivono il comparto, fra i quali possiamo citare quelli riguardanti la fruizione culturale, il contributo pubblico al settore, l’apporto dei privati e la spesa per la cultura sostenuta dalle famiglie, non hanno dipinto una situazione positiva. Molte delle cifre e dei rapporti illustrati costituiscono, di fatto, utili strumenti per fare delle riflessioni sulla situazione culturale italiana, delle basi da cui partire per costruire ragionamenti razionali sul settore ed elaborare una strategia di ripresa per il Paese.
Per costruire una progettazione mirata è fondamentale, innanzitutto, prendere atto della realtà complessiva del sistema Paese e non dimenticare che la scarsità di risorse è oramai un dato di fatto, la condizione di base dalla quale dobbiamo partire per pianificare il futuro. Guardare ai dati è importante, ma lo è ancor di più riuscire ad assumere una visione quanto più comprensiva delle dinamiche del settore e dell’economia italiana nel suo complesso.
Oggi più che mai è importante prendere in considerazione anche tutti quei dati che, in genere, tendono a passare inosservati nei contesti in cui si dibattono i tagli alla cultura. Si pensi, per citare un esempio fra tutti, agli oltre 20.000 dipendenti Mibac, una squadra imponente, che ha indubbiamente dei costi ma della quale si denuncia a gran voce la perenne insufficienza.
Il capitale umano è sicuramente una delle armi fondamentali quando si vuole intervenire in un settore come la cultura, che richiede una preparazione approfondita ed eterogenea per progettare interventi forti in termini di rilancio della produttività e di potenziamento degli incentivi diretti e indiretti. E’ un settore che pone la maggioranza dei suoi operatori privati innanzi a situazioni contrattuali critiche, retribuzioni minime e scarsissime possibilità di carriera. E’ un settore che più di altri dovrebbe costruire le sue basi sulla meritocrazia – concetto non astratto, ma costituito da regole in Italia purtroppo sconosciute – la produttività e l’ottimizzazione delle risorse. Forse solo sposando con onestà e decisione questi tre principini la cultura avrà la possibilità di risollevarsi dalla crisi.
Chiedere al pubblico un aumento delle risorse umane comporta una presa di responsabilità. Non sarebbe forse più auspicabile la crescita delle organizzazioni private? Sono del resto destinate ad assumere un ruolo sempre più centrale nel settore e, per questo, dovrebbero essere le principali destinatarie di attenzioni e di agevolazioni fiscali. A loro i finanziamenti interessano anche meno, poiché credono nel mercato.
Stefano Monti è direttore editoriale di Tafter
“Si dice che la cultura non è “di destra” o “di sinistra”?! Ebbene, io non ci credo granché”: così il Ministro Massimo Bray (con l’accento sulla “y”, alla salentina), a conclusione del suo intervento all’incontro “E/leggiamo”, tenutosi mercoledì 26 giugno nella Capitale, organizzato dall’Associazione Forum del Libro a Fandango Incontri (uno spazio policulturale allocato all’interno del Palazzo Incontro della Provincia di Roma), in via dei Prefetti. Affermazione forte e netta (finanche discutibile da un punto di vista “liberal” o destrorso), comunque in qualche modo in contrasto col tono pacato con la quale è stata pronunciata. Il Ministro è peraltro ormai noto per i suoi toni morbidi, à la Letta (Gianni, il… camerlengo).
Nella fattispecie, si è trattato di una risposta al Presidente dell’Associazione Italiana Editori (nonché di Confindustria Cultura) Marco Polillo, ma… procediamo con ordine.
Nello scorso febbraio, il Forum del Libro presentò ai candidati parlamentari una lettera aperta dal titolo “Un voto per promuovere la lettura”, con la quale si chiedeva più attenzione da parte della classe politica “al libro, alla lettura e ai loro luoghi, dalle biblioteche alle librerie, dalla scuola all’università e agli enti di ricerca”: in particolare, i più di 6mila firmatari (ad oggi) propongono 5 “punti” programmatici, definiti “semplici ma importanti, che non hanno carattere di parte ma interessano tutti gli italiani”, da usare come ossatura per una legge organica ed efficace, volta a contrastare il drammatico effetto dei tagli alla cultura, scuola e ricerca messi in atto dai governi recenti (e nemmeno tanto recenti).
Sintetizziamo allora questi cinque punti:
– Scuola: istituzione e riconoscimento come parte qualificante della formazione le biblioteche scolastiche, con l’introduzione in organico di un bibliotecario professionista; realizzazione annuale, da parte del Miur, di un “piano nazionale per la lettura”, valorizzando le migliori pratiche sul territorio e stimolando l’introduzione di attività di lettura nell’offerta formativa;
– Biblioteche: abrogazione dell’art. 19 del decreto n. 95 del 2012 cosiddetto “spending review 2” (ovvero: mantenere nelle cosiddette “funzioni fondamentali dei comuni” le attività e i servizi culturali); modifica dell’art. 15 della legge sul diritto d’autore, per rendere gratuite le letture pubbliche nelle biblioteche (si ricordi che il testo recita che “non è considerata pubblica la esecuzione, rappresentazione o recitazione dell’opera” esclusivamente “entro la cerchia ordinaria della famiglia, del convitto, della scuola o dell’istituto di ricovero, purché non effettuata a scopo di lucro”: da non crederci, ma così è e d’altronde abbiamo ancora a che fare, in Italia, con una legge sul diritto d’autore la cui radice risale al 1941);
– Librerie: riconoscimento delle librerie “di qualità”, con agevolazioni fiscali e per la locazione delle sedi;
– Digitale: concedere ai libri elettronici il pieno riconoscimento nel novero dei “prodotti culturali”, con le agevolazioni fiscali conseguenti; si ricordi che in Italia l’Iva è ancora al 21 %, mentre è agevolata al 4 % per i libri stampati, un vero paradosso! (l’ebook è considerato un “servizio” piuttosto che un “prodotto”); da segnalare che, nelle stesse ore, Giovanni Legnini, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, in audizione di fronte alla Commissione Cultura della Camera, ribadiva l’intendimento del Governo per l’equiparazione; garanzia di libera disponibilità in formato digitale dei prodotti della ricerca finanziata per oltre il 60 % da denaro pubblico; avviamento di un progetto nazionale di digitalizzazione dei prodotti fuori commercio o liberi da diritti;
– Coordinamento delle politiche pubbliche, statali, regionali e locali, in un “Piano Nazionale della Lettura”, da aggiornare annualmente; evoluzione del Centro del Libro e della Lettura, da dotare di maggiore autonomia e di strumenti normativi e finanziari adeguati, anche nell’ottica di un’adeguata formazione degli operatori.
Dopo l’introduzione di Giovanni Solimine (Presidente del debole Centro per il Libro e la Lettura, istituito nel 2005 e mai realmente decollato), il Ministro Bray ha fatto il punto della situazione secondo la propria prospettiva: dalle sue parole, si evince che al Ministero dell’Università e della Ricerca sembrerebbero molto sensibili alla questione delle biblioteche scolastiche, e che discussioni sul tema si concretizzino addirittura anche in Consiglio dei Ministri.
Fin qui, tutti d’accordo. I problemi emergono quando invece si valutano l’introduzione delle lavagne elettroniche («quando ormai le generazioni native digitali sono abituate a lavorare sui tablet: siamo cronicamente in ritardo all’appuntamento con la tecnologia…»), o l’editoria scolastica («ormai quasi totalmente in mano a soggetti stranieri…»).
E’ sul quinto punto, però, che il Ministro concentra l’attenzione più critica, tanto pungente quanto calma: «l’innovazione e una totale riforma dell’Amministrazione sono urgenti al Mibac. Ad esempio, non si possono gestire più di 750 siti internet-vetrina, con un’interattività pari a zero, senza rimandi e collegamenti (…) Sulla questione finanziaria, siamo in una situazione paradossale e nota a tutti: non siamo in grado non solo di effettuare, ma nemmeno di programmare gli interventi necessari.
Che poi non ci si venga a lamentare da me, se cade un pezzo di un muro a Pompei…». Carenza di fondi e nell’organicità delle amministrazioni che li devono gestire: un ritratto che conosciamo bene, noi italiani, soprattutto se si parla di cultura. Ci sia consentito, però, egregio Ministro: ma con chi dovrebbe lamentarsi, il cittadino o l’operatore, se non con il Ministro competente, che immaginiamo se ne faccia interprete nell’economia del Consiglio dei Ministri?! Se… Enrico Letta predica bene e razzola male, Lei è pur libero di dimettersi, per coerenza.
Sia chiaro: ben vengano iniziative come quella promossa dal Forum; ma va detto che non riteniamo così “automatica” l’attribuzione della colpa dei dati preoccupanti sulla lettura nel nostro Paese (nel 2012, solo un misero 18,4 % di italiani ha dichiarato di aver letto almeno un libro ogni tre mesi) a questi pur gravi ed innegabili deficit strutturali e di offerta; così come ci sembra di dover forse proporre una inversione del rapporto causale “lettura” / “qualità e tenore di vita” cui si fa riferimento nell’incipit dell’appello dell’Associazione Forum del Libro: piuttosto che un “chi legge, sta meglio”, un più realista (e cinico) “chi sta meglio, legge (e va al museo o a teatro)”!
Parlando di “sistema cultura”, di sinergie pubblico-società civile, Bray ha preso spunto dal dibattito sull’eccezione culturale: «In Francia – ha sostenuto – “Le Monde” ha pubblicato un dossier di 16 pagine sulla questione, e non limitandola al solo settore dell’audiovisivo: il nostro Paese deve costruire il proprio futuro sui contenuti, e questa direzione dev’essere chiara all’opinione pubblica». Viene da commentare che l’interesse dei media francesi per queste tematiche è direttamente proporzionale agli impegni governativi…
Dopo il Ministro, con un “intervento lampo”, la neo-parlamentare Flavia Nardelli (Commissione Cultura, Pd, già Segretaria Generale della Fondazione Sturzo) ha suggerito la possibilità dell’inserimento di alcune prime misure attraversi emendamenti mirati durante l’iter del “Decreto Fare”, ed è poi subito scappata alla votazione parlamentare sull’acquisto degli F-35, da cui la battuta di Bray: «Con un carrello di uno dei jet militari, si otterrebbero i 500 milioni di euro per concretizzare questi buoni propositi».
Lidia Ravera, Assessore alla Cultura della Regione Lazio, ha invece portato la sua esperienza pre-elettorale in “tour” nelle biblioteche laziali, osservando «precariato o lavoro gratuito associati a grande passione, dedizione ed entusiasmo».
Il Presidente dell’Aie Marco Polillo ha colto al balzo l’opportunità di parlare anche dei lavoratori in campo librario, editoriale e bibliotecario: «Non va bene che si “sfrutti” la passione, per ignorare le necessità dei lavoratori: le persone che lavorano nella cultura non hanno potere contrattuale, perché vanno avanti anche se le istituzioni e la politica se ne disinteressano». Sul “fare sistema”, locuzione tanto inflazionata nella teoria quanto ignorata nella pratica, ha sostenuto che «noi privati già lo facciamo, e le innumerevoli iniziative spontanee (vedi “Letti di Notte” o “Piccoli Maestri”, i cui padrini e madrine hanno partecipato all’incontro, ndr) lo dimostrano. Lo sforzo, insomma, deve essere reciproco e coinvolgere anche la politica…».
Ed ecco le parole che hanno provocato la reazione del Ministro, che aprono quest’articolo: «Non c’è una parte politica che si schiera dalla parte delle biblioteche ed un’altra che le vuole bruciare: c’è comunione d’intenti, ma non c’è costruzione di piani». La tesi di Polillo ha provocato diffusi borbottii della platea: è vero che la cultura, in sé, non è di destra o di sinistra, ed è forse anche vero che, in teoria, sia “a destra” sia “a sinistra” si auspica comunque una migliore diffusione della cultura nel tessuto sociale nazionale.
Ma dalle dichiarazioni di intenti alle azioni conseguenti, la distanza può essere abissale. Per rilanciare, anche a destra si auspica “la democrazia”, ma il concetto di “democrazia” non è evidentemente lo stesso a destra o a sinistra (o al centro). Nello specifico delle politiche culturali, a destra c’è chi auspica che “il mercato governi” (dagli estremisti brutali alla Brunetta ai “think tank” raffinati come la Fondazione Istituto Bruno Leoni), a sinistra permane il convincimento dell’esigenza dell’intervento della “mano pubblica” per sanare i fallimenti (ed i deficit) del mercato, e per proporre comunque un intervento che introduca sul mercato quel che il mercato stesso, da solo, non è in grado di garantire (estensione del pluralismo espressivo, provocazione di una domanda non necessariamente rispondente soltanto all’offerta…).
Tornando allo “specifico” librario, aleggiava nel dibattito la proposta di legge promossa recentemente da Andrea Martella, Vice Presidente del Gruppo Pd alla Camera, a sostegno delle piccole librerie e di quelle storiche (si tratta dell’Atto Camera n. 859 “Disposizioni per la diffusione della lettura e il sostegno del sistema delle piccole librerie”, presentato il 30 aprile 2013). La proposta prevede agevolazioni fiscali ai proprietari di immobili per contratti d’affitto stipulati a favore delle piccole librerie, sgravi contributivo del 100 % della contribuzione dovuta per i periodi contributivi maturati nei primi 5 anni di contratto e agevolazioni fiscali, per un importo non superiore a 1.000 euro, sostenute per l’acquisto di libri. Martella spiega: “ogni volta che una libreria storica chiude, un pezzo della storia e della memoria condivisa delle nostre città viene cancellato di netto.
Accade a Venezia, dove negli ultimi anni hanno già chiuso numerose librerie, ma anche a Roma, Firenze, Napoli, Palermo dove librerie indipendenti sono in grandi difficoltà e rischiano la sopravvivenza. Con questa proposta vogliamo affrontare l’emergenza culturale rappresentata dalla chiusura delle librerie indipendenti soprattutto nei centri storici delle città meta di turisti e visitatori dove l’offerta è quindi più diretta ai turisti che ai residenti stessi e dove il problema dei costi (affitti, personale, contributi, imposte) è estremamente oneroso. L’obiettivo di fondo è incentivare lo sviluppo delle piccole librerie e delle librerie di qualità come componenti del patrimonio culturale italiano e strumento della diffusione delle conoscenze. Ed inoltre promuovere una politica di sostegno a favore dei piccoli imprenditori che hanno a cuore la tutela del patrimonio librario e che sviluppano iniziative di promozione culturale sul territorio in cooperazione con enti, scuole, e associazioni culturali”. Eccellente iniziativa, ma si noti che, a distanza di due mesi, l’iter non è stato ancora avviato: come nelle dichiarazioni di intenti del Governo, si comincia a temere una qualche “contraddizione interna” tra “il dire” ed “il fare”!
Nell’affollata sala dello spazio Fandango, da registrare infine interventi e presenze di operatori del settore come il Direttore Generale della Direzione Biblioteche, Istituti Culturali e Diritto d’Autore del Mibac Rossana Rummo, il Presidente Associazione dei Bibliotecari Stefano Parise, il Vicepresidente dell’associazione nazionale dei librai Ali Paolo Ambrosini, Silvia Calandrelli di Rai Educational, il direttore di Rai3 Andrea Vianello, ed intellettuali del calibro di Tullio Gregory e Tullio De Mauro.
Auguriamoci che anche questa “mobilitazione” non resti… sulla carta!
L’articolo è stato redatto da Filippo Oriani, ricercatore e Angelo Zaccone Teodosi, presidente dell’Istituto italiano per l’Industria culturale IsICult
301.277 kmq la superficie dell’Italia. Una spina dorsale rocciosa adornata da una fascia costiera della lunghezza complessiva di 8.300 km. Un paesaggio naturalistico senza pari della cui tutela e valorizzazione è competente il “Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare”. Un titolo lungo e altisonante per un dicastero al quale, a ben vedere, poche sono le risorse umane e finanziarie destinate, pari circa a 1/3 di quelle destinate al Ministero per i Beni e le Attività Culturali, che pure a presidio del territorio opera (504.402.890 mln di euro a fronte di 1.673.088.469 mln di euro le cifre rispettivamente messe a disposizione per il bilancio di previsione per l’anno finanziario 2013).
Dobbiamo, dunque, ritenere che l’ambiente e il territorio siano meno importanti dei beni culturali che su di esso insistono? Un confronto tra le strutture e le cifre messe a disposizione dei due ministeri sembrano confermare tale impressione.
A fronte di una struttura, quella del Mibac, che annovera 8 Direzioni Generali e 2 organi di vertice, e un radicamento nel territorio periferico che sconta in non pochi casi di sovrapposizioni e giustifica lo stipendio esoso di una vasta schiera di dirigenti, la struttura del Ministero dell’ambiete si articola in 5 Direzioni Generali, coordinate dal Segretario generale, e nell’Ispettorato generale per la difesa del suolo; 3 organismi di supporto – il Comando Carabinieri per la Tutela dell’Ambiente, il Reparto Ambientale Marino (RAM) del Corpo delle Capitanerie di Porto e il Corpo Forestale dello Stato – e una serie di Commissioni e Comitati scientifici.
Una fascia dirigenziale più contenuta, dunque, quella del Ministero dell’Ambiente e una spesa di “funzionamento” ben diversa. Se, in effetti, si deve rilevare che le cifre di retribuzione annua lorda della dirigenza siano grosso modo in linea con quelle afferenti la dirigenza di prima e seconda fascia del Mibac, attestandosi su una media di 69.000,00 mln di euro per quelli di seconda fascia e sui 180.000,00 per quelli di grado più elevato, le risorse economiche a disposizione sono state così utilizzate.
A fronte di una liquidità via via decrescente nel corso degli ultimi anni, sul sito del Minambiente possiamo leggere, in riferimento al bilancio del 2011, che le risorse complessivamente messe a disposizioni sono state pari a 554.181.895, di cui 323.003.212 mln di euro destinati alle spese correnti e 231.178.683 alle spese in conto capitale. Tra le spese correnti, la cifra destinata al “funzionamento” dell’apparato ministeriale è si è attestata sui 78.903.460 mln di euro.
All’incirca 1/3 della spesa andando ad includere gli oneri comuni di parte corrente (pari a poco più di 24 mln di euro), laddove per il Ministero per i Beni Culturali nel bilancio di previsione per l’esercizio finanziario 2012 ha destinato metà del proprio budget complessivo di spesa corrente (1.371.409.968 mln di euro) al “funzionamento” (869.043.350 mln di euro).
Perché, dunque, al Mibac ci si lamenta di una carenza di risorse quando il Ministero dell’Ambiente, che pure si occupa della valorizzazione di un bene altrettanto importante, il nostro territorio, ha a disposizione risorse nettamente inferiori? Piuttosto che lamentarsi non sarebbe invece più opportuno che si andasse a verificare come queste risorse vengono spese? Siamo davvero sicuri che la valorizzazione e la tutela dei beni culturali necessitino di un organico dirigenziale tanto folto e lautamente stipendiato o forse si è ecceduto con troppe assunzioni?
Quanto si spende effettivamente in Italia per la cultura? I dati statistici recentemente forniti dalle istituzioni europee ci dicono che la spesa media nazionale, 1,1%, è ben sotto alla media europea che si attesta al 2,2%.
Un dato preoccupante se si considera l’immenso patrimonio di beni culturali diffusi in ogni dove del nostro paese e le annesse opportunità che un’adeguata gestione degli stessi potrebbe comportare in termini occupazionali ed economici.
Ecco il punto. Un’adeguata gestione.
Possiamo definire adeguato un apparato ministeriale che nulla ha da invidiare all’amministrazione prefettizia napoleonica e che assorbe abbondante parte delle risorse finanziarie destinate alla valorizzazione dei beni culturali?
Vediamo, dunque, alcune delle cifre aggiornate al 2012 del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e dallo stesso MIBAC messe a disposizione.
Una struttura radicata nel territorio sì, ma che arriva a contare
10 Centri di responsabilità amministrativa;
17 Direzioni regionali;
34 Servizi dirigenziali centrali;
22 tra Istituti centrali, nazionali e Istituti dotati di speciale autonomia;
124 Uffici dirigenziali di II fascia periferici tra Soprintendenze, Biblioteche, Archivi di Stato e Sovrintendenze archivistiche;
100 Uffici periferici quali unità organizzative non dirigenziali per una dotazione organica totale che si articola come segue:
29 dirigenti I fascia,
194 dirigenti di II fascia;
21.232 unità di personale non dirigenziale.
Ragionando sul totale annuo lordo percepito dalle fasce dirigenziali, possiamo osservare che i dirigenti appartenenti alla prima fascia percepiscono una cifra pari a circa 167,000, 00 euro, con lo stipendio del Segretario Generale che ammonta a 194.453,21 euro, laddove lo stipendio dei dirigenti di seconda fascia si attesta sui 78,968,51 euro con alcuni picchi che raggiungono i 115.199,09 euro annui.
Cifre importanti, che dovrebbero essere giustificate da curricola più che eccellenti e da indiscusse capacità manageriali soprattutto in un periodo di carestia come quello in corso. Cifre che dovrebbero limitare il frequente e spesso oneroso ricorso a esperti e consulenti esterni.
Veniamo, infine, al bilancio.
Le risorse finanziarie assegnate al Ministero con bilancio di previsione per l’anno finanziario 2012 sono pari a euro 1.687.429.482, di cui
1.371.409.968 euro destinati alle spese correnti,
306.316.576 alle spese in conto capitale
9.702,938 quale rimborso del debito pubblico.
Analizzando nel dettaglio le spese correnti scopriamo che le spese da destinare al funzionamento delle strutture, tra le quali rientrano, come specificato dallo stesso Ministero, “stipendi e oneri accessori al personale, luce, acqua, gas, riscaldamento, climatizzazione, servizi igienico-sanitari, pulizie, cancelleria, strumentazione, ecc.”, sono pari a 869.043.350 euro.
Grosso modo il 50%, al quale vanno aggiunti gli oneri comuni di parte corrente pari a 105.327.351: il resto da destinare agli interventi.
Quanto rimane, dunque, in Italia per la valorizzazione dei beni e delle attività culturali?
La decisione è certamente giusta: la Convenzione sui diritti del fanciullo (chissà come si dice “fanciullo” in inglese, l’originale dice semplicemente “child”, cioè bambino) chiede un trattamento uniforme per tutti i piccoli. Limitare l’accesso gratuito nei musei ai bimbi europei (oops, comunitari) contrasta con i princìpi sanciti dalle Nazioni Unite. Il Ministro Massimo Bray coglie un aspetto delicato e importante, e segna un punto a proprio vantaggio.
La decisione, però, è soprattutto intelligente. Limitare l’accesso ai musei sulla base di requisiti formali (e di qualsiasi altro argomento) è autolesionistico, e mantiene la cultura del nostro Paese arroccata su torri che sembrano d’avorio e invece si rivelano di cartone. Accogliere i bimbi significa condividere un patrimonio di intuizioni creative e di tecniche narrative davvero unico. Ne traggono vantaggio la curiosità e lo spirito contemplativo, il senso critico e l’attitudine al dialogo, la percezione che l’identità non è un tesoro da proteggere ma una visione da condividere e costruire insieme.
Sarebbe necessario andarli a cercare, i bambini, magari insieme alle loro famiglie e ai loro amici; andarli a cercare per invitarli a considerare l’arte e la cultura ecosistemi familiari e carichi di stimoli emotivi, percettivi e cognitivi. I numeri ci dicono che sette italiani su dieci non hanno mai frequentato un luogo della cultura. Fare in modo che ci si possano ritrovare insieme ad altri italiani, più recenti ma non meno appassionati e sensibili, potrebbe finalmente aprire la porta a una società nuova, più fertile e dinamica, animata dallo scambio e dall’ibridazione che rendono il nostro ceppo culturale più solido e versatile.
E il paradosso virtuoso di questo allargamento della domanda di cultura è che, alla fine della giornata, ci saranno più persone disposte a tornare, portare gli amici, spargere la voce, pagare il biglietto, donare, partecipare come volontari. La cultura senza fruitori è come un terreno che nessuno semina. Ci si può anche camminare, ma non se ne coglie alcun frutto. Avanti tutta, Ministro, è tempo di far uscire la cultura italiana dal limbo in cui giace compiaciuta.
Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro
Qualche settimana fa, La Stampa titolava uno stimolante articolo di Mattia Feltri (che intervistava tra l’altro Giuseppe Roma, direttore generale del Censis): “Snobbati gli intellettuali. “Appelli ingenui e antiquati”. Roma (Censis): “Mittenti e destinatari parlano lingue diverse” (vedi “La Stampa” del 12 marzo 2013): parafrasando un famoso Moretti, Roma esordiva con un… “no, l’appello no!”.
L’articolo si riferiva ad un appello pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”, a firma di Remo Bodei, Roberta De Monticelli, Tomaso Montanari, Antonio Padoa-Schioppa, Salvatore Settis, Barbara Spinelli, rivolto a Beppe Grillo ed al suo Movimento 5 Stelle (“dire no a un governo che facesse propri alcuni punti fondamentali della vostra battaglia sarebbe a nostro avviso una forma di suicidio: gli orizzonti che avete aperto si chiuderebbero, non sappiamo per quanto tempo”), ma, più in generale proponeva una lettura critica dello strumento, della “forma-appello”.
Qui ci soffermiamo su una sub-specie della forma-appello: gli appelli degli operatori del sistema culturale alle italiche “istituzioni”, per sensibilizzarle (…) rispetto ad un auspicabile “buon governo” (gli infiniti deficit di strategia, organicità, programmazione, efficienza, trasparenza, ecc.), ma soprattutto rispetto alla riduzione del budget dedicato alla cultura. È quest’ultima dinamica (i “tagli”) quella che comprensibilmente preoccupa di più, in tempi di crisi nera e di fame diffusa. Nelle more e subito dopo l’entrata in carica del Governo Letta, una pluralità di soggetti associativi del sistema culturale hanno ritenuto opportuno manifestare le proprie esigenze anzitutto al Ministro Massimo Bray.
Abbiamo cercato di ricostruire la sequenza temporale (in ordine cronologico decrescente):
– 3 maggio 2013: la “lettera aperta” ai ministri Bray (Mibac) e Zanonato (Mise) e a tutte le istituzioni da parte delle associazioni dell’audiovisivo: Anica, Apt, Anec, 100Autori, Ifc, Afic, Agpci, Ape, Fice, Acec, Doc.it, Sncci, Sngci, Apil, Anac, Art, Asifa; titolo “Più audiovisivo, più innovazione, più cultura: noi faremo la nostra parte”;
– 29 aprile 2013: gli auguri al neo Ministro da parte dell’Agis; titolo “Buon lavoro al Ministro Bray. Cultura torni ad essere strategica”;
– 29 aprile 2013: la “petizione online” rivolta al Ministro dei Beni e Attività Culturali da Indicinema:
– 24 aprile 2013: l’“appello urgente” promosso da Afic, Anac, 100Autori, Anec, Anica, Slc Cgil, Fistel Cisl, Uilcom Uil; Sncci, Sngci; titolo “Cinema: appello urgente al nuovo Ministro”
– 23 aprile 2013: l’“Appello per il patrimonio culturale rivolto alle Istituzioni e in particolare al Presidente della Repubblica, al Presidente del Consiglio e al Ministro dei Beni Culturali di prossima nomina”, da Ana, Anac, Anart, Apti, Arci, Art. 9, Articolo 21, Asc, AssTeatro, Assotecnici, Rete Cinema & Territorio, Cia, Consequenze Network, Federazione Cemat, Fed.It.Arts, Fidac, Iacs, Indicinema, La ragione del restauro, MoveM09, Nuova Consonanza, Pmi, Ritmo, Sai, Sncci, Tam Tam, Ufficio Sindacale Troupes Slc-Cgil…
Non siamo nemmeno sicuri che questa ricostruzione di “appelli” sia completa ed esaustiva. Abbiamo raccolto il testo dei vari appelli in questo documento: pubbliche perorazioni che, sommate a quelle degli ultimi anni, potrebbero andare a comporre un triste pamphlet, meritevole di una collazione tombale, nel cimitero della politica culturale nazionale.
Qui ci soffermiamo su uno degli appelli che ha provocato una qualche eco, quello del 3 maggio, intitolato “Più audiovisivo, più innovazione, più cultura: noi faremo la nostra parte”, firmato, tra gli altri, dalla maggiore associazione imprenditoriale del cinema italiano (l’Anica) e dalla maggiore associazione autoriale (100autori).
L’appello è articolato in 8 punti:
(1.) rinnovare il tax credit ed estenderlo a tutte le opere audiovisive;
(2.) ripristinare il Fus ai livelli pre-crisi;
(3.) introdurre un prelievo di scopo integrale sulla filiera degli utilizzatori successivi alla sala che coinvolga anche gli operatori della rete (siti e provider, over-the-top e telecom);
(4.) varare una severa disciplina antitrust, verticale e orizzontale, per impedire ogni posizione dominante, anche sui territori;
(5.) varare una legge di riordino complessivo del sistema audiovisivo italiano che superi gli steccati tra cinema e tv, riconosca e disciplini le film commission, preveda una Dg audiovisivo;
(6.) favorire l’attrazione di produzioni internazionali e l’ingresso d’investitori privati; così come l’export e l’internazionalizzazione delle nostre imprese;
(7.) sostenere l’esercizio, combattendo con decisione la pirateria, salvaguardando e ampliando l’offerta delle sale di città;
(8.) inserire e articolare lo studio del cinema e del linguaggio audiovisivo nei programmi didattici delle scuole italiane a partire dalle prime classi della scuola dell’obbligo”.
L’appello si conclude con alcune teorizzazioni di sistema: “Le imprese dell’audiovisivo, gli autori, le film commission, i festival, le sale cinematografiche sono produttori di reddito e di ricchezza culturale; contribuiscono a diffondere la nostra diversità culturale nel mondo e attraggono investimenti esteri in Italia. Un Paese competitivo non può rinunciare alla sua industria più avanzata in termini d’innovazione e creatività”.
Crediamo che una simile dichiarazione di intenti sia condivisibile da qualsiasi cervello dotato di buon senso. In Francia, un simile appello susciterebbe reazioni ridicole, perché la totalità delle azioni richieste dagli italiani sono già in atto, in quel bel Paese, e da decenni.
Sulla carta, la sensibilità culturale del Ministro Bray è indiscutibile: ma l’intellettuale ed organizzatore culturale, nella novella veste di Ministro della Repubblica, saprà confermarla con comportamenti conseguenti?! Tutti ce lo auguriamo. Si spera che non si ammali di sordità istituzionale, patologia diffusa da molti anni nelle stanze del Collegio Romano.
Apprezzabile, in particolare, negli 8 “punti” dell’appello del 3 maggio, l’auspicio di superare gli “steccati” tra cinema e televisione, che, storicamente, in Italia, per troppi decenni, sono stati mondi “a parte”, con il cinema che guardava alla tv con snobismo estetico. E si osservino, in particolare, i firmatari: da un lato, Anica ed Apt; dall’altro, Anac e 100autori. Quasi una svolta epocale, verrebbe da commentare!
Quel che stupisce è che i promotori abbiano ignorato completamente un elemento fondamentale di criticità: la promozione. Se il cinema televisivo arranca (così quasi tutti gli altri segmenti del sistema culturale, dalla danza ai videogame) è anche a causa dell’assenza di un “sistema informativo” adeguato. È sintomatico che il monopolio pluridecennale del vetusto Gigi Marzullo su Rai 1, che si vanta ancora di curare “l’unica trasmissione della tv italiana dedicata al cinema” (sic), sia stato infranto soltanto ad inizio 2012 da Antonello Sarno, che ha lanciato il rotocalco “Supercinema” su Canale 5 (ben curato nonostante il low budget): in entrambi i casi (ignobile il primo, dignitoso il secondo) si tratta di iniziative insufficienti ed inadeguate.
Se, in generale, l’offerta culturale italiana non incontra la domanda (che pure latente c’è), è anzitutto a causa della inadeguatezza della promozione, della comunicazione, del marketing, e soprattutto sul medium che resta, nel bene e nel male, dominante: la televisione.
Sul banco degli imputati, in primis il Ministero (le campagne per la promozione della lettura sono indegne di un Paese evoluto, per linguaggio, budget e piano-media) e la Rai (che sembra aver abdicato ad un ruolo di traino – almeno promozionale – della cultura nazionale).
Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult (www.isicult.it)