Culture21 srl – Gruppo Monti&Taft Ltd
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Il pubblico del museo non è uno solo. Se pensiamo alle diverse tipologie di persone che lo visitano e alle loro caratteristiche e necessità ci rendiamo conto che non sempre tutti hanno i giusti strumenti a disposizione per fruirne pienamente. Molto spesso i musei non riescono a soddisfare quelle fasce di visitatori con particolari esigenze, che si ritrovano così penalizzate. Ma non è questo il caso.
La tecnologia, e qui parliamo di quella futuristica e di avanguardia che fino a qualche anno fa abitava solo le nostre fantasie, viene in soccorso per abbattere gli ostacoli che separano 60mila italiani non udenti da una fruizione completa e soddisfacente dell’esperienza museale.
Il progetto Google Glass4LIS, realizzato da Rokivo Inc., Vidiemme Consulting in stretta collaborazione con l’Ente Nazionale Sordi (ENS) è stato presentato al Museo Egizio di Torino l’11 novembre 2013. Si tratta della prima applicazione completamente italiana sviluppata per i Google Glass (dispositivo indossabile dotato di realtà aumentata) basata sui risultati delle ricerche condotti dal Progetto ATLAS al quale hanno partecipato il Politecnico di Torino, l’Università degli Studi di Torino e contribuito il dottor Carlo Geraci, ricercatore presso l’Institut Jean-Nicod di Parigi.
Ma come funziona questa applicazione?
È molto semplice e al tempo stesso sorprendente. Il visitatore indossa i Google Glass e inquadra un’opera: attraverso l’attivazione vocale o tattile (è presente un sensore sulla stanghetta degli occhiali) compare sullo schermo un avatar che traduce i contenuti correlati nel linguaggio dei segni (la Lingua Italiana dei Segni, o appunto LIS). In pratica è come fornire a ciascun visitatore una guida personalizzata che lo segue durante l’intero percorso nel museo, facendogli avere facilmente accesso a informazioni che arricchiscono la sua esperienza di visita.
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Il connubio tra tecnologia e antico Egitto è indubbiamente curioso, ma non è un caso che la sperimentazione sia partita proprio dal Museo Egizio di Torino. Dal 2011 è in corso, infatti, un’opera di rinnovamento che terminerà nel 2015 e che sta arricchendo l’offerta museale, soprattutto nell’ambito dell’accessibilità e dei servizi a diverse fasce di pubblico. Il progetto Google Glass4LIS si inserisce in questa tendenza, facendo compiere un ulteriore passo avanti verso l’idea di museo aperto a tutti.
Inoltre i Google Glass sono un device in piena sperimentazione e in divenire, un’autentica tela bianca che rappresenta una sfida continua e del quale ancora non si conoscono a fondo le potenzialità. Chissà quali innovazioni ci riserverà il futuro; la speranza è che possano continuare verso la direzione tracciata da questo progetto ambizioso.
Il BTO – Buy Tourism Online è l’evento dedicato al turismo innovativo che si terrà a Firenze il prossimo 3 e 4 dicembre alla Fortezza da Basso. Vero appuntamento da non perdere per i professionisti del settore, propone quest’anno tante interessanti novità. Non mancherà Alberto Peruzzini, dirigente del settore turismo di Toscana Promozione, cui abbiamo avuto modo di rivolgere qualche domanda.
Dottor Peruzzini, sta per aprirsi una nuova edizione del BTO a Firenze in cui si parlerà nuovamente di turismo e delle sue prospettive per il futuro. Cosa è cambiato, ad esempio in Toscana rispetto all’anno scorso in termini turistici?
Continua l’incremento degli stranieri sia dai mercati storici della Toscana che da nuovi mercati. Aumentano i russi che scoprono nuove zone della Toscana, tornano i giapponesi e aumentano i cinesi con un turismo legato alle città d’arte. Il nord Europa conferma l’attenzione per la campagna toscana e cerca nuove idee e motivi di viaggio in Toscana. Muovono i primi passi nuovi paesi emergenti del turismo come India e Corea del sud.
I paesi BRIC si sono avvicinati alla nostra penisola, e soprattutto in Toscana. Come spiega questo fenomeno?
La notorietà delle città d’arte come Firenze, Roma, Venezia è un fenomeno planetario che pone l’Italia tra le mete imperdibili per chi vuole viaggiare in Europa. L’Italian style offre quella marcia in più al nostro Paese per essere méta e motivazione ulteriore di viaggio, soprattutto per chi oltre o in alternativa all’arte sceglie in base ad altri desiderata quali l’enogastronomia, lo shopping, il paesaggio o il fatto di visitare luoghi resi cool grazie a ambientazioni di film, la frequentazione di vip, la presenza di brand famosi.
La Toscana vive un posizionamento particolarmente fortunato grazie a molti di questi fattori tra cui ovviamente la moda e i molti marchi di prodotto top level che esprimono nel loro nome un richiamo al territorio, produzioni cinematografiche e letterarie di grande successo (da Under the Tuscan sun alla saga di Twilight fino a Inferno di Dan Brown), vip che si rifugiano in Toscana.
E una attività promozionale nei Paesi BRIC attenta, in passato, a valorizzare e diffondere questi contenuti, prima ancora che vendere i pacchetti, ha permesso oggi di avere un posizionamento di appeal e diversificato che facilita notevolmente la richiesta da parte della domanda.
Come giudica le attività di promozione turistica delle regioni italiane? Quali sono le principali criticità in questo ambito a suo avviso e come possiamo migliorare?
La strada è quella di targettizzare; sia la domanda che l’offerta. Oggi le motivazioni di viaggio sono molto differenti, soprattutto se si pensa ai Paesi emergenti e alle nuove generazioni. Non solo contenuti però ma anche modalità di informare e di presentare l’offerta. Capire gli interessi del target e saper interpretare le motivazioni di viaggio permetterebbe di dare la giusta chiave di lettura del proprio territorio e reinterpretare la propria offerta. Ciò darà la possibilità di promuovere il giusto pacchetto ad un target mirato.
Pensiamo positivo: quali sono invece le potenzialità esclusive del nostro territorio?
Prima di tutto abbiamo un vantaggio di posizione, ovvero un brand molto forte. Secondo punto un territorio indissolubilmente legato ad alcuni valori di eccellenza (style, cultura, moda, paesaggio e natura, enogastronomia, mare..) tanto ricco da poter soddisfare gran parte delle motivazioni di viaggio. Terzo una offerta così differenziata su un territorio piuttosto raccolto e raggiungibile. Come detto prima il lavoro più importante e declinare tutto questo, uscendo da macro prodotti per proporre un’offerta dalla forte personalità.
Al BTO si parlerà di promozione turistica. Quali sono le nuove frontiere che si aprono grazie al turismo online (sharing economy, community online ecc…)
Si rafforza l’uso del web sul mercato italiano mentre è uno strumento ormai imprescindibile per gli stranieri sia per la raccolta di informazioni turistiche che per la ricerca di eventi, ricettività, etc…
Per sviluppare al meglio il turismo online anche in Italia è necessario chiedere al mondo delle imprese uno sforzo ulteriore nel creare innovazione nelle formule, nelle idee, nelle modalità e nelle proposte di viaggio.
Nel futuro prossimo, in The Zero Theorem di Terry Gilliam la tecnologia intrappola una game-society disumanizzata, in Her, scritto e diretto da Spike Jonze, la tecnologia è invece friendly e così rassicurante da farci innamorare. Il protagonista del film di Jonze, ricorda molto quello di “I love you” (1986), del profetico Marco Ferreri: era un uomo realizzato e di successo, ma annoiato e demotivato, e a cambiargli la vita è la voce femminile e sensuale di un portachiavi.
In “Her”, la paura del confronto, delle emozioni, dell’amore che cambia negli anni e che può lasciare soli, induce Theodore (il bravissimo Joaquin Phoenix) a rifugiarsi nelle anonime chat per soddisfare pulsioni immediate, ma rimane insoddisfatto poiché non risolve il suo desiderio di condivisione.
E’ lo stesso Spike Jonze, nell’incontro di lunedì all’Auditorium, dove la pellicola è stata presentata nel corso del Festival Internazionale del Film di Roma, a dichiarare: “Credo che questo bisogno di intimità sia un bisogno di sempre… Il film aveva bisogno di intimità: quando abbiamo preso Scarlett cercavamo di catturare questo senso di intimità”. Così Theodore, il cui lavoro è scrivere lettere con grafia manuale per una clientela che non ha più tempo di farlo, a poco a poco riesce ad instaurare un rapporto sempre più intimo con una voce femminile senza corpo (Scarlett Johansson). Questa è Samantha, ovvero il suo nuovo sistema operativo avanzato, che riesce a elaborare quotidianamente emozioni e conversazioni con l’utente, organizzando così la sua vita, ma soprattutto prendendone parte.
In un mondo occidentale confortevole, supportato dalla migliore tecnologia, che consente più tempo libero per le relazioni, in realtà migliaia di persone vivono ogni giorno pigiate l’una con l’altra, ma sempre più sole: si limitano infatti a dialogare con uno smartphone o con un pc. Diventa facile per il protagonista, dopo un matrimonio fallito, innamorarsi di Samantha, superando così le difficoltà relazionali di un confronto con l’altro all’interno di un rapporto profondo e duraturo. Samantha è l’oggetto ideale di amore, quello classico di sempre, che coincide con una nostra proiezione. Funziona così bene da rendere superflua la corporeità.
Se agli amici sembra naturale che lui condivida le sue giornate e la sua vita sociale con Samantha, l’ex moglie mette invece a nudo la sua incapacità di relazione, di confronto con le esigenze e richieste reali di una donna-compagna. Lo stesso Jonze ha affermato: “Uno degli aspetti più impegnativi in una relazione è la capacità di essere autenticamente sinceri, di mettersi a nudo e di permettere alla persona amata di essere se stessa”. Alla domanda sulla provenienza di Samantha, Jonze ha risposto: “E’ anche lei nuova nel mondo. E’ nuova come un bambino. Ha un’intelligenza e rapidità di pensiero, ma ancora non ha paura e impara la paura.”
L’attesissima attrice presente sul red carpet capitolino, non compare mai nel film e rimane la curiosità di conoscere la voce italiana che sostituirà, nel doppiaggio, quella carezzevole e seduttiva di Scarlett, vera coprotagonista in “Her”.
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A quanto pare la diceria che dai momenti di crisi si viene fuori più forti, nuovi e positivamente resettati, non è finzione ma realtà. Il collasso economico che ha interessato l’Europa negli ultimi anni sta rivelando sorprese impensabili riguardo alle direzioni che l’economia e la società contemporanee stanno prendendo.
Abbiamo passato una fase di capitalismo sfrenato, di predominanza dell’egoismo e dell’individualismo, di chiusura verso il prossimo. Ancora adesso subiamo gli strascichi di questo stadio, che potrebbero sembrare acuiti dalla crescente predominanza della realtà virtuale sulle vite di ciascuno di noi. In realtà è proprio dal mondo della tecnologia e del virtuale che stanno nascendo i primi germogli di quella che potrebbe essere una vera e propria rivoluzione sociale. Un nuovo cambio di rotta nel modo di vivere i rapporti individuali e comunitari.
Uno startupper bolognese, di origini fiorentine, Federico Bastiani, un bel giorno si è reso conto di ignorare l’identità dei suoi vicini di casa. Se un tempo il quartiere era la comunità per eccellenza, luogo di pettegolezzi e piccoli sgarbi, ma anche di condivisione e comunione, oggi, chiusi nei nostri piccoli o grandi appartamenti, viviamo giornate isolate, costellate da cenni del capo e freddi convenevoli. Bastiani ha pensato di voler modificare questo status di cose, quantomeno nel suo quartiere e, quasi per caso, ha dato il via al primo esempio di social street.
A settembre ha creato un gruppo chiuso su Facebook – strumento tra i più semplici e democratici, anche perché gratuito – per chiamare a raccolta gli abitanti della via Fondazza di Bologna. Ha stampato dei volantini per dare notizia della sua iniziativa e li ha distribuiti nei condomini del quartiere. In più di 300 hanno risposto, creando la prima comunità cittadina che nasce con l’intento precipuo di “scollare” dagli schermi di un pc le stesse persone con le quali condividiamo un pianerottolo e che non abbiamo mai conosciuto, per avviare forme di collaborazione, di sostegno, di aiuto reciproco, di scambio di idee, socialità e quando serve, anche di merci.
Non si tratta solo di un esperimento sociale, infatti, ma anche dell’incarnazione di un sistema economico che sta prendendo sempre più piede in diverse forme. Teorizzata qualche anno fa dalla studiosa Loretta Napoleoni, la pop economy sta diventando la risposta più concreta alle magagne della crisi, che fa un baffo alle spesso finte riforme dei politici. È l’economia del popolo, quella basata sullo scambio, sul baratto, sul dare e sul ricevere, gratis o in cambio di qualcos’altro. È l’evoluzione di eBay, che evita lo spreco, incentiva il riciclo e assicura il risparmio. Lo spiegano bene sul sito che è nato dall’esperienza di Bastiani, www.socialstreet.it: “Dovete cambiare il frigorifero? Perché metterlo su ebay, creare un annuncio, pagare una commissione, pagare un trasporto quando magari il vostro vicino di casa ne sta cercando proprio uno come il vostro?”. Lo stesso vale se non si vogliono buttare le uova prima di partire per le vacanze, se serve l’aiuto di una baby sitter, se si cerca un appassionato di cinema con cui condividere il proprio hobby, se si vuole trovare una comitiva di amichetti al proprio bambino, e così via. Dalla rete, da internet, dai social, si passa di nuovo alla realtà, alla strada, al quartiere.
Di esempi di pop economy ce ne sono molti altri: dal bike e car sharing, al cohousing, dal couchsurfing al baratto turistico in cambio di cultura, dalle comunità ormai diffusissime in tutta Italia “Te lo regalo se vieni a prenderlo”, fino agli swap parties nel quale scambiarsi vestiti e altri oggetti.
Di necessità si fa virtù e l’unione fa la forza, l’uomo ha una grande capacità di adattamento e si è stancato di vivere da solo. Non semplici luoghi comuni, ma un ritorno vero e istintivo al branco.
C’è voluta tutta l’estate per metabolizzare il Datagate e tutte le sue conseguenze. Nonostante le rivelazioni di Snowden sembrassero preoccupanti sin dall’inizio, l’effetto iniziale è stato di qualche timida interrogazione da parte di alcuni stati Europei, e il problema si è scaldato solo quando sono fuoriusciti i nomi dei Vip presi di mira dal sistema realizzato dall’Nsa.
Già, perché inizialmente il sempreverde leit motiv del terrorismo sembrava giustificare un programma così vasto e “invadente”, d’altronde perché preoccuparsi di un controllo a tappeto su migliaia di cittadini quando in gioco c’è la sicurezza nazionale? Ma se poi il controllo fuoriesce dalla mischia di quelle entità grigie e poco interessanti che popolano le nostre città, ecco che scatta lo scandalo internazionale.
Lo ha capito subito Obama che prima dell’estate ha ordinato l’interruzione immediata delle attività di monitoraggio sulla Merkel e su altri 34 leader mondiali, perché è facile spiegare il perché su Mario Rossi. Un po’ più complicato se si parla di politici o personaggi di spicco che, in teoria, non dovrebbero avere niente a che fare con terroristi o cospirazioni anti-Stati Uniti.
Quindi, mentre i giornali e il pubblico si confortano sul solito stereotipo del Grande Fratello (ricordate Echelon?), nessuno ci spiega cosa potevano trovare di interessante gli Stati Uniti su quei 35 leader mondiali e su svariate altre personalità chiave, soprattutto se ci continuano a propinare la favola del terrorismo.
Ma la domanda non può rimanere a lungo non risposta, soprattutto perché non è di Mario Rossi che stiamo parlando. Da una parte l’Nsa grida all’emergenza internazionale perché la rivelazione integrale del (costoso) sistema di protezione che è stato realizzato per proteggere l’intero pianeta, è un duro colpo al bene e un vantaggio notevole per i nemici. “Conosci il tuo nemico” diceva Sun Tzu e ora sono i nemici a conoscere meglio gli Stati Uniti.
Dall’altra parte c’è la vecchia Europa, da lungo tempo solidale con l’alleato oltreoceano, che si sente tradita da questa mancanza di fiducia. Certo potremmo discutere a lungo sul come mai un sistema di protezione così complesso abbia potuto essere installato senza che nessuno se ne accorgesse e, forse, arrivare alla conclusione di molti esperti che oggi sghignazzano perché tutto sa di scoperta dell’acqua calda.
E per ultimo arriva in soccorso il vecchio nemico di sempre, che proprio ad ottobre sale alla ribalta per aver regalato chiavette spia durante il G20 tenuto a San Pietroburgo. Un evento piuttosto insolito e rozzo che dovrebbe riportare parità sul male comune, garantendo per tutti un mezzo gaudio.
Cosa accadrà? L’ipotesi più probabile è che tra rassicurazioni e accordi di cui non avremo mai evidenza, alla fine concluderemo lo scandalo tra abbracci e ritrovata fiducia. Ma tutto dipende dalle parole che verranno usate, pesate e, soprattutto, concordate.
Andrea Pompili è un informatico ex coordinatore del “Tiger Team” di Telecom
Caso 1. Primo appuntamento. Stasera verrà a cena il presunto amore della vostra vita. Tutto è pronto, le candele sul tavolo, il servizio buono. Ma… avete dimenticato un piccolo particolare: sapete cucinare solo l’uovo sodo. Caso 2. Il vostro computer è impazzito, nonostante la vostra necessità impellente di inviare la più importante e-mail di lavoro della vostra carriera professionale. Caso 3. Il rubinetto del bagno si è rotto irrimediabilmente e voi non avete idea di come ripararlo prima che casa si allaghi.
Che si tratti di arte e musica, di informatica, di salute, di fitness, di didattica, lingue straniere o make-up, Google ha pensato ha un modo probabilmente innovativo per risolvere i vostri problemi. Helpouts è una piattaforma online che permette di mettervi in contatto video con una persona reale che, anche istantaneamente, vi spieghi come cucinare un manicaretto, come risolvere un problema informatico, come riparare un elettrodomestico e molto altro. È un’evoluzione del classico tutorial che vi assicura aiuto diretto e specifico in real time, con la formula del soddisfatti o rimborsati.
Helpouts è una creazione di Google e per accedervi è necessario avere un account Google +. Entrati sul sito, il motore di ricerca (ovviamente sempre collegato a Google) vi permette di indicare il problema che volete risolvere o il campo sul quale volete consulenza, assistenza, aiuto. Gli “Helpout providers” ai quali potete rivolgervi sono impiegati di grandi o piccole aziende, o privati, che sono stati selezionati appositamente da Google per offrire questo servizio. Possono essere contattati immediatamente, se disponibili, o per appuntamento. È possibile anche inserirsi in una lista d’attesa nel caso non si voglia perdere l’occasione di interagire con un determinato Helpout provider. Il servizio è a pagamento: le tariffe sono indicate dai providers stessi che possono decidere se farsi pagare al minuto, a “lezione”, o se far scegliere all’utente la modalità di pagamento che preferisce. Si può pagare solo tramite Google Wallet e il 20% del prezzo di vendita va a Google. L’incontro avviene via video e il cliente può stabilire se mostrarsi in telecamera o no. Alla fine dell’esperienza è richiesto un feedback perché è importantissimo garantire l’affidabilità del servizio ed evitare, in ogni caso, brutte sorprese. Helpouts garantisce, infatti, anche il servizio soddisfatti o rimborsati. Se non si è contenti della lezione video, si può richiedere un rimborso della quota versata. Il tutorial interattivo può anche essere registrato su Google Drive. Non manca ovviamente la parte social, dato che gli Helpout preferiti possono essere condivisi su Facebook, Twitter, Youtube e Google +.
È molto probabile che nel futuro sarà introdotta una connessione con alcuni dei tutorial reperibili su Youtube, rimandando direttamente da una piattaforma ad un’altra nel caso in cui si volesse un appuntamento privato e personalizzato col tutore prescelto.
I tutorial costituiscono una categoria video seguitissima e la possibilità di entrare in contatto diretto con una persona in carne e ossa con la quale interagire costituisce un evidente vantaggio. Un altro beneficio è anche la possibilità di avere disponibilità immediata di tutoraggio. Il nome Google, poi, aleggia a garante dell’affidabilità dei contenuti.
È quasi tutto a pagamento e i prezzi proposti non sono neanche dei più modici. Il fattore economico potrebbe far pendere l’ago della bilancia a favore dei tradizionali video tutorial, a volte incomprensibili, sì, ma gratuiti.
Helpouts è appena nato ed è al momento rivolto principalmente ad un pubblico anglofono.
Se l’Helpout provider richiesto ritarda più di 5 minuti sull’orario d’appuntamento, o dà la sua disponibilità per una certa ora in un certa data ma non si presenta, la sessione è gratuita. Efficienza è, infatti, la parola d’ordine alla base del servizio offerto. È quanto traspare chiaramente dalle parole del vicepresidente Google, Manber: “credo che la ragione per la quale internet è un mezzo così potente e di successo risiede nel garantire un livello completamente nuovo di efficienza e convenienza”.
I curiosi e coloro che vogliono apprendere sempre qualcosa di nuovo. A chi perde facilmente la pazienza e agli ansiosi. A chi crede che internet abbia la risposta a qualsiasi interrogativo. Ai socievoli e a coloro che preferiscono l’interazione, specialmente durante il processo di apprendimento.
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Una foto. Una storia. Un racconto di come eravamo, di cosa facevamo, delle persone che ci circondavano (canticchiatevi in testa una musica triste – e se non ve ne viene in mente nessuna, eccovela qua…). Parti di noi che compongono la nostra anima e…il nostro QR code.
Ebbene si, cari lettori, oggi vi parliamo di una tecnologia che dire creativa è dire poco.
Si chiama Rest in memory ed è un QR code da apporre su lapide, per una tomba all’ultimo grido e super geek.
Arrivo subito al dunque e vi spiego brevemente come funziona (anche se poi il video sotto sarà molto più esplicativo e divertente): si raccolgono le foto di momenti particolari, che vogliamo ricordare e traghettare con noi fino all’ultimo anelito, si mettono online in un apposito spazio dedicato e poi si aderisce al progetto. 60 euro e ti inviano una mattonella a casa, 130 per l’opzione famiglia.
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Poi si carica tutto dentro la mattonella e si va dritti al cimitero.
Ovviamente il servizio non è da considerarsi riservato solo a se stessi ma anche a terze persone per le quali possiamo raccogliere foto e documenti.
Dunque, io ora ve lo ho spiegato così, che sembrerà anche un po’ blasfemo e riduttivo, però credo davvero sia una trovata geniale.
Sul sito si parla di password, foto, link e documenti da condividere con persone e parenti lontani che possono essi stessi contribuire a riempire quello spazio virtuale di ricordi da far conoscere ai cari del defunto.
Cioè praticamente, è come se il defunto avesse in allegato alla bara di legno anche una sorta di bara dropbox virtuale.
Ti porti nella tomba pure tutto il digitale accumulato in una vita.
Dai, non mi sembra una cattiva idea.
E i ragazzi di Rest in memory,per me, sono stati davvero bravi, anche nella presentazione. Se vi sembra facile esporre un servizio del genere con questa leggerezza, provateci, davvero.
Quindi…visto che io so quando morirò perché lo avevo scoperto con questo articolo, ora non mi rimane che aggiungere gadget super geek alla mia lapide.
E ovviamente, caricherò anche questo articolo nella mattonella.
Se li volete seguire su Facebook, questa la loro pagina
FAIMARATHON nasce come passeggiata non competitiva, una “maratona culturale” a tappe che ha come obiettivo principale quello di far riscoprire agli italiani, attraverso itinerari interessanti e curiosi, quanti sorprendenti tesori si nascondano tra i luoghi della loro vita quotidiana.
Nel secondo anno dalla creazione dell’evento la Delegazione FAI di Bologna ha scelto di accompagnare i suoi concittadini in un percorso lungo i portici, riconfermati recentemente nella candidatura a patrimonio dell’umanità presso l’Unesco, per offrire una visione diversa e non scontata di beni che tutti i bolognesi sono forse ormai abituati a godere ma non più ad apprezzare e comprendere.
Claudia Tonelli Rossi, Capo della Delegazione FAI di Bologna tiene in particolar modo a sottolineare il carattere “internazionale” dell’evento di quest’anno: “E’ stata un’esperienza entusiasmante, sia per noi volontari FAI che per tutti coloro che hanno partecipato. Diverse centinaia di “maratoneti” hanno percorso i circa 6 km di portici proposti, unendo al piacere della passeggiata la possibilità di approfondire la conoscenza del bene forse più caratteristico della nostra città.” Ma anche l’esplorazione di un territorio nuovo: questo è stato dimostrato dalla “nutrita partecipazione di cittadini extracomunitari, che hanno effettuato il percorso accompagnati da volontari FAI che hanno illustrato loro le principali caratteristiche dei portici oggetto di visita. Crediamo sinceramente che la conoscenza del territorio in cui si vive e lavora possa accrescere il senso di appartenenza alla comunità”.
La novità del percorso della FAI Marathon di quest’anno è stato l’utilizzo della tecnologia digitale: durante la maratona i partecipanti potevano infatti “leggere” alcune tappe dell’ itinerario fra i portici di Bologna grazie ad un’applicazione per smartphone ed un codice QR (codice a barre bidimensionale, composto da moduli neri disposti all’interno di uno schema di forma quadrata) che applicato fisicamente ad ogni tappa reindirizzava sulla pagina web di “Porticus”, un sito interamente dedicato a tali strutture architettoniche. In questo modo si ricreava l’impressione che i monumenti “parlassero” a chi li visitava, passando loro accanto.
“L’idea di “far parlare i monumenti” ha delle solide radici” ci dice Francesco Ceccarelli, Docente di Storia dell’Architettura dell’Università di Bologna che ha creato il progetto “Porticus”: “basti pensare alla grande tradizione letteraria delle guide che hanno avuto un ruolo fondamentale nel raccontare a generazioni di viaggiatori le città italiane e le loro architetture”.
Oggi l’evoluzione degli strumenti informatici e la diffusione di Internet aprono le porte ad esperienze innovative davvero inimmaginabili fino a pochi anni fa.
“Quando ho cominciato a elaborare il progetto Porticus con i miei studenti, l’idea che ci guidava era quella di provare a mettere in piedi il nucleo sperimentale di un museo della città di nuova concezione, in cui il patrimonio coincide con i monumenti e dove ciò che davvero conta è saperli mettere in rete nel modo più efficace, semplice e interattivo. Alla base di questi ragionamenti c’è la convinzione che il vero museo della città non sia altro che la città stessa e che questa possa raccontarci la sua storia attraverso la sua struttura fisica e architettonica.”
Il progetto è stato lanciato durante l’evento FAI proprio per la specifica caratteristica di strumento in grado di contribuire alla diffusione della conoscenza del patrimonio architettonico storico di una città “la sua forza sta proprio nel perseguire esplicitamente l’obiettivo di diffondere il più possibile i risultati della ricerca a un pubblico molto vasto”; ecco perché il Dipartimento di Architettura dell’Università di Bologna è stato coinvolto dal Comune, assieme alla Fondazione Cineteca e ad altri partners istituzionali in un progetto di ricerca sui portici di Bologna che permetta di elaborare per il prossimo anno un solido dossier su questa peculiarità urbanistica, nell’intento di entrare a far parte della World Heritage list dell’UNESCO.
Ma quanto le nuove tecnologie sono realmente in grado di facilitare la fruizione dei beni artistici e culturali di una città? Il Professor Ceccarelli prevede per il prossimo futuro lo sviluppo di quello che va sotto il nome di “ecosistema digitale”: “una città interattiva, a patto che si riesca a favorire nel migliore dei modi lo sviluppo delle necessarie infrastrutture. Il che significa diffondere il più possibile la rete wi-fi, ma anche favorire l’installazione di strumenti oramai ampiamente usati in diversi contesti urbani e museali come i codici QR che abbiamo impiegato il giorno della FAI Marathon.”
I monumenti ci parlano quindi, basta saperli ascoltare.
Londra è sempre stata all’avanguardia per quel che riguarda nuove tendenze, espressioni artistiche e movimenti culturali.
L’ultima trovata nella City è quella di un museo davvero particolare, la cui inaugurazione è prevista per la primavera del 2015. Si tratta del Music Hall of Fame, uno spazio che aprirà nel quartiere di Camden, nei locali dello Stables Market e che sarà un vero e proprio tempio della musica, dove verranno celebrati i grandi artisti del passato.
L’ideatore, Lee Bennett, ha annunciato che vi saranno esposte memorabilia di icone quali Freddy Mercury, Kurt Cobain, Jimi Hendrix, John Lennon e molti altri, colmando una vasta area, lungo la quale correrà una “walk of fame” di celebrità della musica.
Fin qui il progetto non si discosta effettivamente molto da un comune Hard Rock Café o da un banale Museo delle Cere, se non fosse che i visitatori potranno duettare con queste star, coronando il sogno di cantare a squarcia gola un “We are the champions” con i Queen o fare da coro a Cobain nella sua indimenticabile “Come as you are”. Le riprese dell’esibizione potranno poi essere acquistate in formato dvd per avere un ricordo di una tale incredibile esperienza.
Come immaginabile non si tratta di magia, ma di tecnologia 4D, che si basa sulla tecnica dell’ologramma, supporto fotografico tridimensionale che riproduce visivamente in tutto e per tutto l’oggetto, senza che abbia consistenza corporea.
Il project manager Bennett del Music Hall of Fame ha spiegato di aver preso spunto dall’impressionante performance di Snoop Dogg, Dr. Dre e Eminem che al Coachella Festival del 2012 si esibirono con l’ologramma del rapper Tupac Shakur, scomparso a Las Vegas nel 1996. Il risultato è stato davvero scioccante, perché il pubblico faceva fatica a distinguere l’ologramma dai cantanti in carne ed ossa. A realizzare questa proiezione è stata la Digital Domain Media Group, tra i cui fondatori vanta il regista James Cameron, attualmente impegnata a “riportare in vita” un altro grande del passato, Elvis Presley, attraverso una vera e propria animazione e non una semplice riproduzione di immagini di repertorio.
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Questa tecnica è in realtà meglio conosciuta tra gli esperti del settore come Fantasma di Pepper, dal nome di John Henri Pepper, l’ideatore che la sperimentò per la prima volta nell’Ottocento. L’ologramma si materializza grazie ad un effetto ottico creato attraverso un gioco di specchi non visibili allo spettatore e ha trovato già diversi impieghi nel campo dello spettacolo: pensiamo agli illusionisti, al teatro, al cinema, ma anche diversi musei hanno già esposto attrazioni che impiegano questo effetto speciale. L’avanzamento tecnologico ha contribuito però ad affinare l’immagine in alta definizione, con risultati davvero sorprendenti.
Anche altri artisti della scena musicale hanno fatto ricorso a questo stratagemma: Madonna ha così cantato in compagnia dei Gorillaz ai Grammy Awards 2006 e al Rock The Bell Festival si è potuto invece rivedere sul palco Ol’Dirty Bastard, defunto fondatore del gruppo rap dei Wu-Tang Clan.
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In Giappone però sono andati già oltre: qui la star dell’ologramma è Hatsune Miku, una cantante pop totalmente di fantasia, creata dalla Crypton Future Media. La voce di questa eroina è stata creata attraverso un software per la sintesi vocale che ha preso in prestito le tonalità della cantante Saki Fujita. Ad accompagnarla nei suoi concerti da tutto esaurito c’è una band in carne ed ossa e la diva in 3d non ha davvero nulla da invidiare alle carriere delle sue colleghe, con tanto di fan club, tour in giro per il paese e stuolo di ammiratori.
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Il panorama della app è in continua espansione e aggiornamento, come dimostrano i dati relativi al mercato del settore: si calcola che solo in Europa abbiano creato fino ad ora ben 800 mila nuovi posti di lavoro e le stime ritengono che i numeri vadano in crescendo per gli anni a venire.
Molte di queste ingegnose applicazioni nascono dal lavoro di giovani start up che hanno scommesso sulle proprie idee, volte principalmente a facilitare e rendere più agevoli i piccoli gesti quotidiani di ognuno di noi.
Ecco alcune delle ultime novità emerse in particolare nelle file italiane, perché il nostro Paese non è rimasto a guardare, ma è sceso in campo con app interessanti e innovative che nulla hanno da invidiare ai prodotti delle Silicon Valley.
Loro e molte altre saranno presenti alla prossima edizione di SMAU Milano, dal 23 al 25 ottobre.
Poter contare su consigli utili, interessanti e soprattutto sintetici è diventato al giorno d’oggi un aiuto fondamentale per chi viaggia e necessita informazioni relative ad hotel, ristoranti, shop e punti di interesse. Proprio per questo nasce WeAGoo, un portale d’informazioni turistiche localizzate e descritte in modalità “short information”, volte a fornire indicazioni essenziali ma capaci di cambiare le sorti di un viaggio. Il format utilizzato è standardizzato e i testi sono rielaborati e concentrati in 480 caratteri di lunghezza massima.
Dove? Quando? Cosa? A questi interrogativi risponde Where’s Up?, l’app per chi è alla ricerca di concerti, aperitivi, serate in discoteca ma anche sagre, eventi culturali, enogastronomici, sportivi, spettacoli e molto altro. Questa applicazione georefenziata consente perciò di conoscere nell’immediato quali appuntamenti gravitano attorno a noi, garantendo anche sconti e particolari promozioni.
Assistere ad un’opera lirica è un’esperienza immancabile, ma spesso per il pubblico esordiente o straniero può apparire ostica la comprensione dei testi. Opera Voice arriva a risolvere questo inconveniente: è infatti una piattaforma web a cui si collegano i dispositivi mobili del pubblico, che ricevono così, in perfetta sincronia, i sottotitoli. Opera Voice arricchisce la tradizionale titolazione con due, tre o più lingue che lo spettatore sceglie in autonomia, con un considerevole abbattimento dei costi.
Se poi voleste usufruire delle app precedenti, concedendovi un viaggio o la partecipazione ad un evento, ma non sapete a chi affidare i vostri bambini, ecco che giunge in vostro soccorso Oltre TATA. Si tratta di un motore di ricerca geolocalizzato nato per supportare famiglie in cerca di tate per i propri figli e per dare valore al ruolo dell’educatore. Qui troverete tate, baby sitter, aiuto compiti, animatrici e tagesmutter, suddivise per località e con profili dettagliati, corredati di foto, descrizione, eventuali referenze, costo. Un modo facile, veloce e sicuro per affidare in buone mani i vostri piccoli.
Inbookiconsente invece un’esperienza di lettura innovativa, attraverso gli e-book che diventano così in-book, una nuova forma d’arte, per vivere racconti, libri e guide turistiche in maniera immersiva e coinvolgente. Il lettore è partecipe del racconto, può condizionare le sorti della storia o leggerla da diversi punti di vista. Un’apposita libreria virtuale consentirà inoltre di scegliere tra una variegata lista di titoli che si moltiplicano grazie anche alla creatività dei lettori.
Per chi avesse bisogno di una mano per svolgere qualche lavoro domestico c’è Join Job, un innovativo service networking. Questa piattaforma facilita l’incontro tra domanda e offerta: cuochi, pulizie, consegne, traslochi, dog sitter, personal shopper, elettricisti, idraulici, pittori e altro saranno così a portata di mano. E’ possibile scegliere tra le diverse offerte e pagare in sicurezza, il tutto corredato da feedback finali utili per gli altri utilizzatori.
TechCrunch è l’evento che per due giorni (26 e 27 settembre) al Maxxi di Roma ha reso protagonisti progetti e scommesse per il futuro. Start-up vincitrice della II edizione di questo appuntamento internazionale è GiPStech.
GiPStech, selezionata tra 200 candidature, è una tecnologia per la geolocalizzazione indoor, utilizzabile in assenza di copertura del segnale GPS, non usa Wi-fi, ma il campo magnetico terrestre. Utilizzabile negli spazi interni, come per esempio i musei, è stata scelta come l’idea imprenditoriale digitale più interessante tra 8 finaliste. I suoi fondatori: Matteo Faggin, Gaetano D’Aquila e Giuseppe Fedele, si aggiudicano 2 biglietti per il prossimo Disrupt SF e il premio, offerto da Populis, consistente in un finanziamento da 10.000 euro più un pacchetto di visibilità da 40.000 euro sulle media properties di Populis, fondata da Luca Ascani e Salvatore Esposito.
Tra i progetti interessanti Fluentify, una delle finaliste, piattaforma attraverso cui entrare in contatto con docenti di madrelingua, a scelta, con cui conversare online. Il progetto non è una novità in assoluto, ma sicuramente utile nel campo dell’apprendimento linguistico. Molte start-up presenti non erano orientate ai consumatori, ma all’offerta di servizi alle aziende, come per es. BeMyEye (servizio che consente di vedere cosa accade nei negozi di un’azienda) o Vivocha (offerta di assistenza da parte delle aziende ai propri clienti, che spesso abbandonano un acquisto online proprio per la mancanza di supporto).
Techcrunch, in collaborazione con Populis, ha dimostrato anche quest’anno di essere il palcoscenico dell’imprenditoria digitale, attenta alle innovazioni in campo informatico e impegnata a dare visibilità alle start-up digitali italiane. Il bilancio dell’edizione 2013: un migliaio di partecipanti, oltre cento giornalisti, decine di relatori affermati nel campo, presentati e intervistati da Marco Montemagno, come l’investitore israeliano Yossi Vardi, Francesco Caio (Responsabile di Agenda digitale), Renato Soru (Co Founder di Tiscali), Lucas Carné (co founder e CEO di Privalia), John Underkoffler (founder di Oblong e ideatore dell’interfaccia del film Minority Report), Steffi Czerny (founder delle conferenze tech DLD e DLD Women) e molti altri.
Tra gli interventi più significativi quello della giovane Amelia Showalter (Former Director of Digital Analytics della campagna per la rielezione a presidente di Obama) che ha dimostrato come una squadra di 18 giovanissimi scrittori di email si sia occupata, con successo, della raccolta fondi per la campagna volta alla rielezione di Obama. Questi diversi stili di email venivano testati continuamente per capire quale funzionava, dovevano essere il più possibile diversi e a volte quello esteticamente migliore non otteneva i risultati sperati. Era necessario inventare, osare, perché il pubblico è diverso, per appartenenza sociale, cultura etc. Questa squadra di giovanissimi, su cui Obama ha puntato, è stata vincente e la fiducia nei giovani è stato forse il messaggio più utile che Amelia poteva darci.
John Underkoffler ha illustrato come la tecnologia ‘touch’ sia superata: quella del film Minority Report non era un effetto speciale, ma è ciò che già esiste; ad oggi è infatti possibile con dei gesti davanti ad uno schermo, senza toccarlo come nel film, far eseguire funzioni ad un pc o spostare contenuti da un dispositivo all’altro.
L’investitore francese Fabrice Grinda, oltre ad organizzare numerosi incontri, ha rappresentato l’utilità sociale dei nuovi prodotti informatici che ci consentiranno in breve tempo di abbattere i costi dell’energia solare, della purificazione dell’acqua, di eliminare gli incidenti stradali grazie al self-driving, di computerizzare il controllo sulla nostra salute. Forse non tutti sanno che in Estonia il 24% della popolazione ha votato online nel 2011, il 93% paga online tasse, spese scolastiche e sanità, ma che soprattutto l’Africa è economicamente in crescita. Se gli scenari di guerra o depressivi fanno più notizia queste prospettive rincuorano non poco.
Ed è forse proprio una prospettiva sociale ed ecologica, investimenti nel welfare, che ci sarebbe piaciuto vedere di più in questo convegno. A parte l’esempio di Charity Stars che convoglia donazioni di personaggi famosi, a favore di associazioni quali Emergency o Medici senza Frontiere. Speriamo che in Italia venga superata la difficoltà per le giovani start-up di trovare capitali per finanziare progetti innovativi e che sempre più giovani abbiano il coraggio e la creatività di presentare progetti tesi a migliorare la società, la qualità della vita o l’ambiente, e non soltanto i profitti.
La Stanford University è una delle università più ricche e prestigiose del mondo. A farne un punto di riferimento internazionale, fra le altre cose, è la sua solidissima partnership con la Silicon Valley, il cluster tecnologico che ospita alcune fra le imprese più importanti del mondo, di cui l’università è stata più volte definita la “queen mother”. Fra i colossi tecnologici del Paese non ce n’è uno che non abbia legami profondi con l’ateneo, che ha sapientemente fatto della vocazione all’imprenditorialità il suo biglietto da visita.
Stanford investe nelle idee di business dei suoi studenti, al punto da innescare timori e discussioni sugli incentivi e il potere coercitivo che i suoi docenti sono in grado di esercitare. Si, perché sempre più spesso sono proprio loro, i docenti, i primi investitori delle start-up dei giovani talenti che si formano nelle aule. Tralasciando per un istante le potenziali implicazioni etiche chiamate in causa da alcuni opinionisti, la fiducia e la propensione al rischio che traspaiono dalle dinamiche dell’ateneo devono farci pensare, soprattutto guardando alla realtà universitaria italiana.
Di recente Stanford ha inoltre deciso si investire in StartX, un incubatore fondato nel 2009 da un team di studenti, facendone una diramazione ufficiale, un canale per finanziare le migliori start up universitarie ottenendo come contropartita parte del capitale delle neonate società. Ed è proprio il modello equity oriented a costituire il tratto distintivo dell’operazione, che scegliendo l’entrata in quota – invece di focalizzarsi sullo sfruttamento dei brevetti – fa proprie dinamiche vicine al mondo dei venture capitalist.
Negli ultimi dieci anni anche in Italia gli incubatori e i facilitatori d’impresa hanno iniziato a proliferare e ad oggi possiamo vantare i primi casi di eccellenza anche in ambito universitario. Stiamo parlando di I3P, l’incubatore del Politecnico di Torino, classificato undicesimo fra i migliori business incubator universitari nella graduatoria internazionale dell’UBI, e dell’AlmaCube di Bologna, controllato a metà dall’università e a metà da Unindustria Bologna, un’associazione di imprese.
Se è vero che queste strutture giocano un ruolo cruciale nel settore della S&I – Scienza & Imprenditorialità, costruendo un ponte fra la ricerca scientifica universitaria e la valorizzazione imprenditoriale della conoscenza, non si può non auspicare che presto sperimentazioni di questo tipo inizino ad interessare anche il settore culturale e creativo. Le materie umanistiche colonizzano i curricula di moltissimi atenei italiani, pubblici e privati, e i tempi sono maturi per la sperimentazione di modalità di placement innovative, che rendano più fluidi i confini fra università e impresa.
Dalla creazione di semplici spazi di confronto e fertilizzazione incrociata all’offerta di servizi di incubazione e facilitazione, l’università italiana ha bisogno di cambiare atteggiamento nei confronti dei propri studenti, smettendo di considerarli semplicemente degli iscritti paganti e iniziando a pensare loro come i potenziali partner di domani, interlocutori con cui costruire nuova impresa – cosa di cui il nostro Paese ha tremendamente bisogno, settore culturale in testa.
Abituare gli studenti delle discipline umanistiche e dell’economia della cultura a confrontarsi fin dagli ultimi anni dell’università con progetti ed iniziative imprenditoriali, svolgendo attività di ricerca, ideazione e analisi economica per le imprese attive nel settore può rappresentare un’esperienza chiave per la formazione, la scelta del proprio percorso futuro e l’ingresso nel mondo del lavoro. Università e impresa devono essere protagoniste di un dialogo sempre più stretto e serrato, sperimentare nuove modalità d’incontro e nuove possibili sinergie se vogliamo credere nella ripresa della nostra economia.
I migliori atenei del mondo stanno investendo tempo e risorse nella creazione di business incubator universitari perché nell’economia della conoscenza, le attività tangibili e intangibili svolte da questi soggetti ricoprono un ruolo chiave nel supportare l’imprenditorialità, fornendo alle startup strumenti e conoscenze per affrontare la concorrenza e un fitto network di relazioni, indispensabile per affermarsi con forza sui mercati di oggi. Senza dimenticare che, come insegna il caso di Stanford, il successo delle idee di business degli studenti è il successo dell’ateneo stesso, quando non addirittura una possibile fonte di ricchezza.
Ad oggi in Italia i nuovi imprenditori costituiscono solo il 2,3% della popolazione, contro il 4,2% della popolazione tedesca e il 7,8% di quella americana. Per veder cambiare lo scenario è sicuramente necessario agire su più fronti, ma la trasformazione non può non varcare la soglia dei nostri atenei, ridisegnando le dinamiche di placement e generando una nuova cultura condivisa, che unisca formazione, impresa e ricerca in una sinergia reale e vincente.
Facebook si sta preparando a una nuova battaglia per la gestione dei dati personali dei suoi utenti con le sei principali organizzazioni americane che difendono la privacy. I legali delle associazioni hanno infatti inviato una lettera alla Federal Trade Commission (Ftc), l’ente governativo per la protezione dei consumatori, e ai politici degli Stati Uniti sostenendo che i recenti cambiamenti fatti dal colosso dei social network violano i termini di un accordo del 2012 siglato da Facebook con la stessa Ftc.
In pratica Facebook, nel nuovo accordo che fa firmare ai suoi utenti, sostiene di avere il diritto di usare le informazioni dei profili e le immagini dei suoi iscritti per fare campagne pubblicitarie agli amici senza chiedere alcun consenso e senza dare alcun compenso agli interessati. Secondo le associazioni invece l’accordo stipulato con la Ftc un anno fa prevede che Facebook non possa condividere informazioni dei suoi utenti senza chiedere ogni volta il permesso in modo esplicito e senza pagare per l’uso dei dati. Presupposti che, nelle nuove regole che entreranno in vigore nei prossimi giorni, sono del tutto assenti.
Le associazioni hanno espresso indignazione anche per un cambiamento apportato alle politiche sulla privacy per i minori di 18 anni. Dando il loro consenso alle nuove regole, infatti, i giovani user dichiarano che anche i loro genitori sono concordi con quanto firmato.
La nuova polemica che si è innescata sull’utilizzo dei dati personali e sulle privacy policies di Facebook (soggette a cambiamenti e integrazioni con cadenza ormai frequentissima) costituiscono l’occasione per una riflessione – che possiamo definire “filosofica” – riassunta dalla domanda: quale è oggi il senso ultimo delle rivendicazioni circa la tutela della privacy nel mondo digitale iperconesso, globalizzato e tecnologizzato?
Ha in parte affrontato la questione – partendo dal caso Snowden e dal ruolo della NSA americana – Evgeny Morozov nel suo interessante articolo “Addio privacy” (pubblicato su “Internazionale” del 6 settembre 2013). In questa sede appare significativo – della vicenda Facebook – che le sei associazioni USA a tutela della privacy abbiano contestato il mancato pagamento degli utenti per l’uso dei dati che il social network intende fare inviando alla rete di loro amici messaggi promozionali e commerciali. Emerge cioè nel dibattito un aspetto spesso sottaciuto nelle “crociate” a tutela della riservatezza: quello del valore commerciale dei dati personali come merce primaria nel mercato globalizzato.
Non si è contestato a Facebook (solamente) l’utilizzo senza consenso dei dati: si è contestata la violazione (commerciale) di un uso gratuito delle informazioni. Non si è contestata la violazione della riservatezza come indebita invasione in una sfera privata e intima (concetto novecentesco e ante Terza Rivoluzione Industriale di Internet), ma si è contestato il fatto che gli utenti di Facebook (e i loro amici) perdono il potere di libera e autonoma auto-determinazione (anche di tipo economico-commerciale) sui propri dati. E’ esattamente questo il senso ultimo – diremmo quasi la ontologia – della privacy nell’attuale Società della Informazione Globale: il senso del diritto alla riservatezza non è più quello – come qualcuno ha detto – di “farsi Robinson Crusoe nel mondo iperconesso”, ma è il potere di controllo (mediante corrette e preventive informative) che ciascuno deve avere sulle informazioni che lo riguardano. E solo da questo potere di controllo – che sia però effettivo e concreto – può nascere la libera e consapevole autodeterminazione circa l’autorizzazione a terzi (mediante i meccanismi di consenso) a fare uso dei nostri dati personali. E’ solo con la certezza di poter controllare i nostri dati (decidendo anche di farne oggetto di transazioni commerciali, di vera e propria vendita) che ci rendiamo disponibili a diffondere, condividere, trasmettere, comunicare nel mare magnum della Rete una massa enorme di informazioni, nell’ambito di un fenomeno (quello dei social network) che appare caratterizzato dalla volontà degli stessi utenti di cancellare la propria privacy, rendendo partecipi i terzi (sia pure “amici”) di ogni minuto della nostra vita (digitale e reale).
Ogni privacy policy che ci sottragga il controllo (anche economico) sulle nostre informazioni, non potrà che scatenare polemiche: ma non perché viene violato “the right to bel et alone” di ottocentesca memoria (prima teorizzazione del right to privacy nel 1896), ma perché ci viene tolta appunto la condivisione su scelte primarie e su beni economici primari quali sono i dati nella società del XXI secolo.
Alessandro del Ninno è avvocato presso la Tonucci &Partners e professore universitario
Alla fine, chi l’avrebbe mai detto, ci sono riusciti: hanno raggiunto l’obiettivo di 10 mila sterline e ora sono pronti ad avviare il loro innovativo progetto.
Non stiamo parlando dell’ultima startup presentata al Techrunch, né di opere d’arte all’asta. Oggi andiamo oltre e vi raccontiamo la storia di quattro ragazzi che ora cominceranno un nuovo business. Costruire code per le persone.
Vi sembrerà paradossale ma uno dei più grandi desideri di questo team era proprio quello di vedersi crescere una coda. Andrew Shoben, Neil Gavin, Fabio Lattanzi Antinori e Daniel Clarkson sono un gruppo di artisti, scultori, tecnici informatici e creativi che hanno dato vita, 15 anni fa, a Greyworld, società che si occupa principalmente di installazioni urbane sul territorio. Qualche anno fa hanno realizzato un prototipo di coda, scolpito e sono rimasti sorpresi dal numero di richieste di vendita che hanno ricevuto dalle persone.
Quindi, l’idea. Cercavano qualcosa di originale che unisse il loro lato geek alla loro vena creativa. Che doveva essere allo stesso modo qualcosa di mai provato prima, di inconsueto e paradossale. E così il 13 agosto parte, in sordina, la raccolta fondi su Kickstarter, piattaforma internazionale di crowdfunding.
La stravaganza del progetto fa sì che le persone lo condividano, i più curiosi chiedano maggiori informazioni, e che le donazioni comincino ad arrivare. La stampa comincia a parlarne e a seguirne l’andamento fino al 12 settembre, ieri, giorno che segna la fine della loro raccolta.
12 mila sterline il ricavato (di 10 mila sterline era il goal per avviare il progetto) con il quale cominceranno a costruire i primi prototipi di coda.
“La coda permette di esprimere il nostro lato bizzarro e ingenuo. Dà voce alle nostre emozioni anche quando non parliamo e restiamo immobili con il corpo – afferma con serietà il team- Riteniamo diventerà la moda del momento, perché ci farà divertire e sarà bellissima”.
Per capire come funziona la coda, personalizzabile in lunghezza, pelo e tipologia (più da cane, da gatto, da dinosauro o da drago), ecco un divertente video esplicativo.
[vimeo 24466707 w=400 h=300]
Dietro quello che potrebbe sembrare un progetto troppo eccentrico per poter andare avanti, c’è comunque un grande lavoro di ricerca tecnologica che i quattro ragazzi sono riusciti a sviluppare dopo anni di studi e solo grazie alle ultime innovazioni di stampa in 3D.
Lo scheletro della coda, infatti, è realizzato in plastica ABS e contiene elementi di giuntura studiati al millimetro affinché tutte le parti riescano a muoversi con naturalezza senza far rumore.
La coda si inserisce nella cintura ed è dotata di un contenitore per le pile. Colui che la indossa azionerà poi un piccolo controller per selezionare i movimenti da fargli compiere. 4 i pulsanti a disposizione: Slow Moves (tremolio, scodinzolio, rotazione lenta), Fast Moves (rotazione veloce, sbattimento a terra, scodinzolio veloce) Super Mix (un mix di tutti i movimenti random) e Dancing (premi il pulsante a ritmo di musica e balla!).
Ora, arrivati a questo punto e soprattutto dopo aver visto il video, vi verrà da sorridere (anzi forse sarete proprio piegati dalle risate) e forse questa è l’unica reazione possibile vista l’assurdità della cosa. Fatto sta che 12 mila sterline sono state raccolte e che circa 80 persone hanno ordinato una coda da indossare.
Se le vedete in giro, sapete da dove provengono e, nel caso sentiste anche voi l’esigenza di dialogare tramite una coda, questo il link dove è possibile acquistarle.
All’inizio solo in Giappone erano in grado di fare cose simili: ora il mercato si è spostato anche in Europa.
Ed ecco quindi arrivare anche in Germania, ad Amburgo per la precisione, questo innovativo e creativo servizio che permette di creare delle miniature di se stessi in 3D. Potete poi esporle in casa, in ufficio, giocarci o farci giocare i vostri figli.
“Crediamo che le riproduzioni di se stessi in 3D siano una valida alternativa ai vetusti ritratti – dichiara la fondatrice del sito Twinkind Kristina Neurohr – anche perchè grazie alle nostre macchine siamo in grado di riprodurre anche i più piccoli particolari come le espressioni del viso, le texture dell’abbigliamento o dei capelli”
Il tutto è possibile grazie ad un software, ovviamente, ad uno scanner e ad una stampante in 3D.
Si prenota sul sito, si manda la foto e in lasso di tempo che va dalle 2 alle 5 settimane si vedrà arrivare a casa una mini copia di sè.
Fantastico vero? Come tute le cose, però c’è un lato negativo. Il prezzo: per il momento, infatti, una statuetta di circa 20 cm parte da un costo di 225 euro.
Il 7 agosto 2013 è stata diramata dall’Agis del Lazio la notizia dello stanziamento, da parte della Regione di altri 650mila euro per la digitalizzazione dei cinema. Un intervento che prevede un contributo a schermo pari al 60 % dell’investimento, fino a un massimale di 30mila euro.
Si tratta quindi di un secondo bando regionale a sostegno della digitalizzazione dei cinema non inseriti nel precedente intervento annunciato il 20 giugno (che prevede risorse per 3 milioni di euro), ossia sale parrocchiali e arene.
Secondo l’Anec (l’associazione degli esercenti cinematografici, l’anima più importante all’interno della potente lobby Agis), si tratta di un intervento “particolarmente importante, perché permette di aumentare il numero dei soggetti beneficiari, che, senza la digitalizzazione, avrebbero rischiato di chiudere, con gravi riflessi anche occupazionali”. Da segnalare che, per la prima volta, potranno usufruire dei contributi stanziati dalla Regione Lazio per l’acquisto di impianti (ovvero sistemi e apparecchiature per la proiezione cinematografica digitale) anche le associazioni senza scopo di lucro, le fondazioni (?!), nonché i soggetti non assimilabili al sistema delle piccole-medie imprese (pmi) che gestiscono le “sale della comunità”, le arene e i cinema ambulanti.
Nello specifico, si tratterebbe di 25 arene, 13 sale della comunità, 10 cinema gestiti da associazioni culturali e 5 cine-mobili. Chi scrive quest’articolo è un appassionato cinefilo, ma francamente non ha mai avuto chance di fruire dei… “cine-mobili”, che peraltro – evidentemente – esistono (si pensava fossero un ricordo del passato, ovvero del cinema delle origini, ed invece si scopre con nostalgica lietezza che così non è!). Il giovane Presidente dell’Anec Lazio, Giorgio Ferrero (titolare dell’omonimo Circuito Ferrero, 31 schermi), esulta, ed enfatizza che il bando rappresenta un “unicum” a livello nazionale, perché la Regione Lazio interviene così “organicamente” a sostegno della digitalizzazione su “tutto il sistema dell’offerta”.
Fin qui, l’entusiasmo dei beneficiari, e ben venga. È peraltro ben comprensibile, in questo periodo di vacche magre.
Non entriamo in merito di letture contrastanti delle dinamiche in atto, ma non possiamo non ricordare che il 23 giugno, le lavoratrici e i lavoratori delle 8 sale di Circuito Cinema di Roma (King, Eden, Fiamma, Maestoso, Quattro Fontane, Giulio Cesare, Eurcine, Nuovo Olimpia) hanno scioperato per tutta la giornata contro l’annunciato licenziamento di 23 lavoratori su un totale di 61 occupati nel Circuito. I lavoratori lamentavano che la Regione avesse concesso importanti finanziamenti pubblici, senza confrontarsi anche con le parti sociali, ovvero con i dipendenti, e senza richiedere agli imprenditori alcuna “contropartita occupazionale”. Nello specifico “theatrical”, la modernizzazione del digitale determina effetti paradossali, come la riduzione della forza-lavoro (“è il capitalismo, baby…”?!).
Soffermiamoci piuttosto, ancora una volta, su un discorso “alto”, ovvero sul “senso” strategico di questi interventi (e tralasciamo quell’… “organicamente” ottimista di Ferrero), in chiave critica di politica culturale: domandiamo, ancora una volta, se si tratta di iniziative che sono maturate a seguito di un’analisi attenta dei fabbisogni complessivi del sistema culturale.
Il cinema (inteso come “cinema cinema”, cioè la fruizione “theatrical”) è in crisi, profonda, radicale. A livello nazionale ed ancor più a livello regionale.
Nel 2012, a livello nazionale, sono state 91,3 milioni le presenze in sala, rispetto ai 101,3 milioni del 2011: in un anno soltanto, si sono persi ben 10 milioni di ingressi (si tratta di stime Cinetel, dato che la Siae non ha ancora rivelato i dati definitivi). Basti ricordare che l’Italia ha meno della metà degli spettatori cinematografici della Francia, che ha superato anche nel 2012 la soglia dei 200 milioni di biglietti venduti.
Ci limitiamo a segnalare che, secondo dati elaborati dall’Agis Lazio presentati in occasione di una conferenza stampa del 6 giugno a Roma, tra il 2010-2011 ed il 2011-2012 (“stagione”, concetto peraltro non meglio identificato), il cinema nel Lazio avrebbe registrato questi preoccupanti indicatori negativi: – 15 % di ingressi al botteghino, ovvero – 12 % in volume d’affari. In sostanza, avrebbe perso 1 spettatore su 6 da un anno all’altro. Inquietante.
Il 20 giugno, il Presidente della Regione Nicola Zingaretti e due suoi assessori Lidia Ravera (Cultura) e Guido Fabiani (Sviluppo Economico), avevano già annunciato – con convinto entusiasmo – uno stanziamento da 3,4 milioni di euro per la digitalizzazione. Questa la provenienza annunciata dei fondi pubblici: 3 milioni da fondi Por Fesr Lazio 2007-2013 (ah, benedetta Unione Europea!), e 400mila attraverso il (ora tanto vituperato) Fondo Regionale per il Cinema e l’Audiovisivo (esercizio 2011, quindi evidentemente residui dei famosi “15 milioni l’anno” tanto voluti da Polverini e Santini). Si annunciava che i 400mila erano destinati alle sale di comunità, arene, e cinema minori. Evidentemente – in itinere – sono state reperite risorse per 650mila, a fronte dei 400mila annunciati un mese e mezzo fa. Bene.
I 3 milioni annunciati erano destinati a contributi a fondo perduto, pari al 70 % e con un limite massimo di 200mila euro (non comulabile con il “tax credit” digitale). Fondi erogabili tramite “sportello telematico”, e “fino ad esaurimento risorse”, con la possibilità di anticipo fino al 50 % del contributo. La determinazione n. B02722 è in data 1° luglio, ed è stata pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione il 4 luglio. Il bando è aperto dal 5 luglio fino al 31 dicembre 2013. Sviluppo Lazio (“house provider” regionale) gestisce, nella veste di “organismo intermedio”, la procedura amministrativa.
In quell’occasione, fu segnalato che nel Lazio sono attivi 123 cinematografi, per un totale di 437 schermi.
Di questi, solo 245 sono digitalizzati, ovvero il 56 % del totale. Più esattamente, a Roma, sono 82 i cinematografi, con 333 schermi attivi (208 digitalizzati, ovvero il 62 % del totale), a Frosinone 8 cinema con 24 schermi (8 digitalizzati, 33 % del totale), a Latina 14 con 46 schermi (12 digitalizzati, 26 %) mentre a Viterbo 18 con 29 schermi (12 digitalizzati, 41 %).
Molti temono che dal 1° gennaio 2014 le sale sprovviste di impianto digitale vengano escluse dalla distribuzione, ma – come abbiamo già segnalato su queste colonne – si tratta di uno spauracchio agitato soprattutto dalle “major” americane, e questa dinamica dovrebbe provocare una riflessione seria, anche nel “policy maker”. Almeno per due anni ancora (2014 e 2015), i film nella sacrosanta tradizionale pellicola continueranno ad essere distribuiti, anche perché la digitalizzazione della distribuzione cinematografica è processo complesso e planetario, e procede a macchia di leopardo nelle varie aree del globo. Non risponde a verità, quindi, che, senza questa digitalizzazione, le sale “saranno costrette” a chiudere. Il processo è meno semplice e lineare di quel che alcuni intendo rappresentare.
A fronte di questi numeri preoccupanti, (ci) domandiamo: la Regione Lazio ha effettuato un censimento dell’offerta cinematografica, in funzione delle aree di gravitazione commerciale, cioè secondo le regole essenziali del marketing?
Ed al di là dell’approccio economicista, la Regione Lazio si è posta la questione essenziale dei luoghi di offerta culturale, della loro funzione di strumenti di stimolazione sociale e di aggregazione civile?
Non ci risulta esista una mappatura minimamente accurata ed aggiornata degli spazi culturali nel territorio laziale, con dati essenziali su offerta e domanda ed analisi critica dell’interazione.
Esiste un’anagrafe delle sale cinematografiche che, nel corso degli ultimi anni, sono state chiuse, a Roma ed in tutto il resto del territorio laziale? No.
Quanti sono i Comuni del Lazio che sono cinematograficamente (e teatralmente) desertificati? Non è dato sapere, nemmeno all’Assessore Ravera o al Presidente Zingaretti.
Se siamo di fronte ad una emergenza (e siamo di fronte ad una emergenza, qual è la fruizione dello spettacolo in sala), non sarebbe opportuno destinare risorse anzitutto per avviare la ricostruzione di un tessuto culturale di offerta che mostra deficit inquietanti?! Qual è la gerarchizzazione delle priorità, nella “spending review”?!
Si dirà: “prima la sopravvivenza, ovvero evitare che chiudano altri cinema”. In parte, è giusto. In parte, no. La distribuzione delle sale sul territorio (nel Lazio come ovunque) non risponde necessariamente ad ottimale allocazione dell’offerta in termini di marketing, e quindi, in chiave di lettura squisitamente economica (economicista), è forse abbastanza naturale che “il mercato” (con tutti i suoi deficit) possa determinare alcuni “fallimenti” e quindi – udite udite – anche la chiusura di cinematografi.
La “mano pubblica” deve agire con un approccio altro (ed alto): identificare laddove lo Stato deve intervenire per superare i “fallimenti del mercato”, ma anche per preservare luoghi che hanno caratterizzato e caratterizzano l’identità storico-simbolica di quartieri metropolitani, di paesi e paesini finanche. Preservare quel che potremmo definire il “paesaggio culturale” di metropoli e paesi e finanche borghi: librerie e biblioteche, cinema e teatri, luoghi di spettacolo e cultura di ogni tipo e natura (incluse le botteghe artigianali, che cultura viva ed arte materiale rappresentano).
Intervenire peraltro soltanto sui luoghi dell’offerta (la sala), senza vincolare in qualche modo l’intervento della mano pubblica ad una stimolazione della domanda, è un errore grave: esemplificativamente, basterebbe che, nei bandi, la Regione Lazio richiedesse, tra i pre-requisiti per accedere ai finanziamenti pubblici, l’impegno dei beneficiari a proiettare una qual certa quantità di film italiani ed europei indipendenti e “di qualità” (a proposito di “qualità”, basti pensare – per evitare querelle semantiche – ai titoli di film rientranti nel progetto nazionale, finanziato dal Ministero, “Schermi di qualità”). In questo modo, si andrebbe sostenere (intelligentemente) l’offerta e si stimolerebbe (culturalmente) la domanda, non limitandosi a soltanto consentire ai multiplex dominanti e finanche alle sopravvissute sale parrocchiali di proiettare “digitalmente” (uào!) i film commerciali soprattutto delle “major” americane…
Queste iniziative debbono stimolare una opportuna riflessione sul rischio di paradossi di azioni e finanziamenti che si millantano toccasana, ma poi, a ben vedere, tanto “miracolosi” finiscono per non essere.
Riteniamo che la mano pubblica debba sostenere l’offerta… altra, non quella… dominante: le piccole botteghe artigianali (e non i mega centri commerciali) e le opere “off” (e non quelle “mainstream”). “Indie” ed “off” dovrebbero essere parole-chiavi del linguaggio del “policy maker” illuminato in materia di politica culturale. Vorremmo anche in Italia, e non soltanto in Francia.
Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult
Quello dell’Agenda Digitale è, ormai, un argomento ben noto che ultimamente richiama sempre più attenzione da parte dell’opinione pubblica. Non solo per l’importanza che l’Agenda riveste all’interno della Programmazione Europea per il 2020, ma anche per le dinamiche (per dirla alla “Boris”) un po’ troppo italiane, con le quali tale “iniziativa faro” viene portata avanti nel nostro Paese. Come recita un vecchio adagio: “tra dire e il fare c’è di mezzo il mare”. E per quanto sotto l’aspetto comunicativo il recente decreto legge n. 69 del 21 giugno 2013, abbia voluto sorvolare su questo scarto differenziale, la riprova che la saggezza popolare ha sempre un fondo di verità non ha tardato a manifestarsi.
A ricordarci che non bastano i buoni propositi (come ognuno di noi dovrebbe aver imparato di capodanno in capodanno) è stavolta il Garante per la Protezione dei Dati Personali, che in una serie di documenti (lettere e comunicati stampa) ha ribadito all’attuale governo forti perplessità che si sente in dovere di rendere note. Ma quali sono queste perplessità e quali disposizioni impattano nello specifico? Stando al testo integrale del decreto legge pubblicato in Gazzetta Ufficiale, le norme che riguardano l’implementazione di innovazioni e semplificazioni inerenti lo sviluppo degli strumenti digitali in Italia sono contenute all’interno del Titolo I: Misure per la crescita economica. In questo titolo vengono trattate numerose tematiche di interesse nazionale, dall’ambiente ai beni culturali (sebbene sulla validità di questi interventi ci sia ancora da riflettere) fino ai temi dell’Expo.
Le norme che interessano l’ammodernamento del sistema digitale sono contenute nel Capo II: Misure per il potenziamento dell’agenda digitale italiana, fatta eccezione di una disposizione inserita nell’art. 10 del Capo I: Misure per il sostegno alle imprese.
Per quanto questa possa sembrare un’inezia da filo-giuristi, la differenza di collocazione è di fondamentale importanza: essa va a confermare che le disposizioni contenute nell’articolo 10 hanno lo specifico obiettivo di agevolare il mondo imprenditoriale. Fa dunque sorridere (ma neanche troppo) che proprio tali prescrizioni siano state indicate dal Garante come troppo onerose, ma il sorriso (se mai c’è stato) diventa un riso amaro quando si apprende dalle stesse parole del Garante che tali predisposizioni erano già state inserite e depennate in passato; come recita il testo della lettera al Presidente della Commissione Bilancio: “E’ appena il caso di ricordare, poi, che taluni obblighi di monitoraggio e registrazione di dati, erano stati stabiliti dal decreto-legge n. 144 del 2005 (c.d. decreto Pisanu) per categorie di “gestori” diversi da coloro che offrono accesso a Internet con tecnologia wi-fi, e sono stati successivamente soppressi anche in ragione delle difficoltà e degli oneri legati alla loro applicazione (decreto-legge n. 225 del 2010).”
Per gettare un po’ di luce sulla questione, è forse utile ricordare cosa prescrive il decreto legge all’art. 10 che disciplina, come indica il titolo, la “Liberalizzazione dell’allacciamento dei terminali di comunicazione alle interfacce della rete pubblica”. Al punto primo dell’articolo si legge: “L’offerta di accesso ad internet al pubblico è libera e non richiede la identificazione personale degli utilizzatori. Resta fermo l’obbligo del gestore di garantire la tracciabilità del collegamento (MAC address).” Il che vuol dire che chi offre un servizio wi-fi ai propri clienti, non è più tenuto alla registrazione dell’identità di coloro che usufruiscono del servizio. In realtà se da un lato viene liberato da quest’onere viene poi gravato di ulteriori responsabilità: il gestore, stando a quanto prescritto dal decreto legge non solo deve “registrare un indirizzo MAC” (indirizzo tra l’altro agevolmente modificabile) ma deve anche garantire la tracciabilità di tutti i collegamenti ad esso correlati.
Ma c’è di più: il punto secondo del medesimo articolo recita: “La registrazione della traccia delle sessioni, ove non associata all’identità dell’utilizzatore, non costituisce trattamento di dati personali e non richiede adempimenti giuridici.” E anche su questo punto il Garante ha qualcosa da ridire, affermando che: “ciò che più preme a questa Autorità è sottolineare come le disposizioni in commento, nell’escludere che un trattamento di dati costituisca un trattamento di dati personali, rischiano di impattare sulla tutela dei diritti fondamentali e di confliggere con la definizione stessa di dato personale contenuta, oltre che nel Codice in materia di protezione dei dati personali (d.lg. 30 giugno 2003, n. 196), nella stessa direttiva europea sulla tutela della vita privata.”
E con questo la questione appare risolta: le predisposizioni che avevano lo scopo di rendere più facile la vita di coloro che offrono, dietro una sempre più forte richiesta da parte degli utenti, un servizio di wi-fi, non solo non la rendono affatto più semplice, ma rischiano di eludere i diritti fondamentali della vita privata.
La stessa obiezione emerge in merito ad un’altra disposizione del decreto, e nello specifico, quella relativa all’articolo 17: Misure per favorire la realizzazione del Fascicolo Sanitario Elettronico. Quest’articolo si occupa di apportare delle modifiche ad un precedente articolo inserito nel decreto-legge n. 179 del 18 Ottobre 2012, vale a dire il cosiddetto Decreto Sviluppo. La questione diventa quindi un po’ più complicata, dovendo giocare di rimando tra un decreto e l’altro. Per capire appieno cosa sia stato modificato, e cosa abbia preoccupato, ancora una volta, il Garante, è forse utile inserire qualche riferimento del decreto originario. L’art. 12 del decreto legge 179, che porta il titolo Fascicolo Sanitario Elettronico e sistemi di sorveglianza nel settore Sanitario, specifica al punto primo la natura di tale fascicolo, e vale a dire: l’insieme di dati e documenti sanitari di tipo sanitario e sociosanitario generati da eventi clinici presenti e trascorsi, riguardanti l’assistito.
La registrazione e la catalogazione di tali dati hanno specifici obiettivi che sono invece enucleati al punto secondo del medesimo articolo: “Il FSE è istituito dalle regioni e province autonome nel rispetto della normativa vigente in materia di protezione dei dati personali, a fini di:
a) Prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione;
b) Studio e ricerca scientifica in campo medico, biomedico ed epidemiologico;
c) Programmazione sanitaria, verifica delle qualità delle cure e valutazione dell’assistenza sanitaria.”
Questo dunque è l’articolo che istituisce il Fascicolo Sanitario e che ne determina le finalità e gli obiettivi.
L’attuale decreto fare, apporta alcune modifiche a tale riferimento legislativo, e nella fattispecie sono due gli interventi più interessanti: da un lato l’apposizione di una precisa scadenza per l’istituzione del fascicolo, e vale a dire “Entro il 31 Dicembre 2014”, dall’altra una modifica che ha invece come focus precipuo la natura dei dati che possono essere registrati e catalogati. Nell’articolo originale si leggeva che in base a quanto stabilito in ordine alle finalità del FSE previste ai punti b) e c) (qui, interamente riportati), tali fini venivano perseguiti dagli organi competenti “nei limiti delle rispettive competenze attribuite dalla legge, senza l’utilizzo dei dati identificativi degli assistiti e dei documenti clinici presenti nel FSE (corsivo nostro). L’attuale decreto-fare invece riduce le limitazioni previste ai soli dati identificativi, lasciando invece libero l’utilizzo dei documenti clinici presenti nel Fascicolo. È a questo titolo che si esprime dunque il Garante, sollevando la questione di una potenziale incompatibilità tra le finalità del fascicolo e la qualità dei dati raccolti.
Ciò che si è venuto a creare a seguito della pubblicazione in gazzetta ufficiale del decreto legge, sembra essere una dinamica piuttosto frequente quando si parla di progresso digitale: da un lato una spinta verso l’utilizzo sempre più intensivo di dati, al fine di migliorare i servizi, anche a fronte di ciò che viene richiesto in ambito comunitario; dall’altro il diritto degli individui ad una vita privata, con la certezza che i propri dati sensibili vengano utilizzati solo ed esclusivamente nei limiti imposti dai principi imposti in sede di tutela. Trovare un equilibrio tra queste forze non è mai stato semplice, e la traiettoria che segue la realizzazione dell’Agenda Digitale Europea (prima ancora che Italiana) è forse quella caratterizzata dalla balistica più complessa, oscillante com’è tra utopie di democrazia diretta (vedi Parlamento Elettronico) e distopie orwelliane sempre più riconoscibili (si pensi allo scandalo datagate relativo al progetto della NSA statunitense). Non è facile decidere in quale corrente di pensiero posizionarsi, e soprattutto, l’argomento non ammette una posizione univoca, propendendo in alcuni casi verso un maggior controllo, in altri verso una maggiore libertà d’azione. Quel che è sicuro, tuttavia, è che nonostante il decreto legge trovasse la propria ragion d’essere proprio in virtù dell’urgenza delle disposizioni in esso contenute, era possibile evitare sprechi di tempo, costi ed energia, interpellando in precedenza il garante della privacy su questioni che certamente avrebbero interessato l’area di competenza. E forse, evitare grotteschi remake di errori già commessi in passato.
Nel frattempo il Governo ha modificato “parzialmente” il decreto accogliendo alcune delle obiezioni mosse.
La modifica apportata al decreto-legge riguarda nello specifico l’articolo 10 che viene ad essere così modificato: “L’offerta di accesso alla rete internet al pubblico tramite rete WIFI non richiede l’identificazione personale degli utilizzatori. Quando l’offerta di accesso non costituisce l’attività commerciale prevalente del gestore del servizio, non trovano applicazione l’articolo 25 del codice delle comunicazioni elettroniche di cui al decreto legislativo 1° gennaio 2003, n.259 e successive modificazioni, e l’articolo 7 del decreto-legge 27 luglio2005, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155, e successive modificazioni”.
Rimangono tuttavia ancora molti dubbi.
YouTube sposa il sociale. Finalmente anche le organizzazioni non profit si possono avvalere del supporto online con un chiaro fine, quello di promuoversi.
Una delle carte vincenti delle associazioni che si occupano di sociale è quella del raccontarsi, aprirsi al grande pubblico, far arrivare la voce del più debole anche all’orecchio più discreto, più sordo. Comunicare per le ONG, in altre parole organizzazioni non governative, è la priorità più assoluta. “YouTube for Good” è un progetto innovativo esclusivo per le organizzazioni non profit, che grazie al sistema video, possono valorizzare la loro presenza online sfruttando il basso costo della rete. L’obiettivo è di riuscire ad ampliare il pubblico attraverso il contenuto multimediale e trasformare le visualizzazioni in beneficenza, donazioni, volontariato, comunità, cambiamenti nella legislazione, e così via.
E’ molto semplice e intuitivo, basta scaricare il Playbook for Good (disponibile al sito ufficiale) una guida per sfruttare al meglio il canale e promuovere la causa, raccontare una storia avvincente e lanciare una campagna efficace su YouTube.
Il Playbook, diviso in quattro parti, illustra il programma e supporta le associazioni sul come poter usufruire al meglio del video per attrarre e coinvolgere un pubblico di potenziali sostenitori, volontari e attivisti alla causa. Si parla di:
• Una breve panoramica di cos’è YouTube for Good;
• Activate your cause: Attivate la vostra causa partendo dalle tre domande principali del come, del quando e del perché, ma ricordandosi sempre che il “contenuto è il re”;
• Storytelling for causes: l’obiettivo non dovrebbe essere quello di creare un video virale una tantum che crei effetto buzz di breve durata, ma costruire un canale sostenibile con grandi contenuti;
• Una campagna su un Shoestring: significa condividere e far partecipare gli utenti collaborando essi stessi alla causa, vuoi con una donazione, vuoi con un supporto alla costruzione della causa.
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=YpKAtk5C0lM?feature=player_embedded]
Una volta scaricato il manuale e iscritti al gruppo Google del programma non profit YouTube si verrà aggiornati sulle novità grazie alla newsletter mensile.
Un’altra caratteristica che le ONG possono utilizzare è il pulsante “donate”. Una volta inscritta l’organizzazione non profit come associazione senza scopo di lucro, avrà la facoltà di immettere il vostro ID e il codice commerciale (un riconoscitivo per evitare false iscrizioni) , e scegliere l’ammontare della donazione. Il pulsante sarà visualizzato sia sul canale YouTube e sia nella pagina Google.
Altri vantaggi sono inclusi all’interno del programma, come ad esempio: Overlay di invito all’azione; Forum della community; Live streaming ed infine le Annotazioni video.
Nato nel 2011 negli Stati Uniti, più di 17.000 organizzazioni hanno aderito al programma non profit di YouTube e hanno prodotto più di quattro miliardi di visualizzazioni. Ciò significa che i video sono stati visualizzati in media uno ogni due persone sul pianeta!
Oggi si è diffuso nei seguenti Paesi: Australia, Canada, Germania, Irlanda, Regno Unito e finalmente anche qui in Italia.
Nell’ottobre del 2011, il Gruppo Mediaset (d’intesa con la Act, l’associazione europea dei broadcaster commerciali) ha presentato un progetto di ricerca, intitolato “Italia: a Media Creative Nation”, affidato ad IsICult, finalizzato ad enfatizzare la centralità dei produttori di contenuto nell’economia del sistema culturale e la necessità di preservare i contenuti di qualità dai rischi di parassitismo di internet e dalla pirateria (la presentazione della nuova edizione dello studio avverrà in autunno).
Come è noto, né la “Telecom”, né i cosiddetti “aggregatori” né in generale gli “OTT” (ovvero “over the top”) investono un euro nella produzione di nuovi contenuti, e secondo alcuni analisti si assiste ad una progressiva deriva di pauperizzazione delle industrie culturali: sul banco degli “imputati”, senza dubbio in primis Google, gigante mondiale e soggetto dominante anche in Italia (come certificato ormai sia dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni sia dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, senza dimenticare i recenti interventi del Garante della Privacy).
A distanza di un anno e mezzo, Google Italia risponde alla sfida di Mediaset-Act: ha presentato ieri, 4 luglio a Roma una ricerca, intitolata “Capire il surplus. Il mondo connesso. I consumatori europei scelgono i media online”, versione italiana di un progetto mondiale – di ricerca e lobbying – affidato alla multinazionale della consulenza The Boston Consulting Group (Bcc), che è partner di Google da anni.
L’iniziativa Google “Big Tent”, una grande metaforica accogliente “tenda”, organizzata in gran stile (a partire dall’elegante sede dell’Aranciera di San Sisto a Caracalla, location per matrimoni di classe; unica pecca, una acustica pessima), si è posta come “primo evento organizzato da Google in Italia con l’obiettivo di stimolare il dialogo sul ruolo del digitale nella cultura e nei contenuti”.
In verità, l’iniziativa ha consentito di riascoltare tesi già note: la giovane Giorgia Abeltino, Senior Policy Counsel di Google Italia (di fatto, è la rappresentante istituzionale del gruppo), come sempre elegante ed appassionata, ha introdotto la giornata di lavori, intitolata “Quale è il ruolo del digitale per la cultura e per l’industria dei contenuti?”. La tesi di fondo è nota: Google è un grande estensore di accesso, un eccezionale moltiplicatore di democrazia, una grande autostrada che consente a tutti (vetture grandi e piccole, ovvero “major” ed “indie”) di andare in ogni dove, in nome di una libertà assoluta e santa.
Quel che Google minimizza – in buona fede o strumentalmente, al lettore la valutazione… – è che incontrovertibilmente le statistiche sulle industrie culturali dimostrano come in tutto il mondo la radicale crisi dei tradizionali modelli di business (nell’editoria, nella fonografia, nell’audiovisivo…) stia producendo riduzione dei fatturati e disoccupazione, e che i segnali di inversione di tendenza sono ancora eccezioni alla regola. Peraltro, i ricavi che derivano dalla rete sono ancora insufficienti a compensare la perdita di ricavi dai business model classici.
Le capacità di democratizzazione dell’accesso alla cultura provocate da internet e da “player” come Google non sono oggetto di critiche: sono dati di fatto oggettivi, e questa funzione preziosa è indiscutibile (si può discutere della qualità metodologica di Wikipedia, per esempio, ma è questione altra: la cultura “Wiki” è senza dubbio uno strumento che ha esteso lo spettro della conoscenza…).
La mattinata è stata aperta da una lunga relazione del Ministro per i Beni e le Attività Culturali Massimo Bray, che ha narrato, forse un po’ troppo autoreferenzialmente, l’esperienza della Enciclopedia Treccani, ed ha auspicato una “democratizzazione culturale”, sostenendo tra l’altro che Creative Commons è un sistema adeguato alla modernizzazione delle logiche del diritto d’autore.
Non 1 parola 1, da parte del Ministro, rispetto all’esigenza di una riforma dell’intervento pubblico che possa stimolare la produzione di nuovi contenuti di qualità.
Non 1 parola 1, da parte del Ministro, sul de-finanziamento del tax credit per il cinema.
Non 1 parola 1, da parte del Ministro, su un dicastero che non destina 1 euro 1 alla musica pop-rock ed alla multimedialità ovvero alla sperimentazione dei linguaggi…
Come abbiamo già sostenuto su queste colonne, è piacevole ascoltare un Ministro che è anche un intellettuale umanista, dall’eloquio dolce e suadente, ma vorremmo anche un Ministro che si esprima in modo netto e deciso rispetto alle sue idee per risollevare le sorti delle industrie culturali nazionali, che sono tutte stremate da una crisi complessiva e pervasiva, frutto dell’assenza di una politica culturale nazionale (e di budget adeguati) e delle conseguenze di un internet sregolato (si attende da anni un regolamento Agcom).
Sono poi intervenuti Rodrigo Cipriani Foresio, Presidente di Istituto Luce Cinecittà, che si è fatto vanto dell’iscrizione dell’Archivio Luce nel Registro “Memory of the World” dell’Unesco, il programma finalizzato alla valorizzazione dei più importanti fondi archivistici mondiali.
Marco Polillo, Presidente di Confindustria Cultura Italia (Cci), ha rappresentato le tesi dei produttori e distributori di contenuto, ma con una delicatezza forse eccessiva, a fronte di quell’entusiasmo pro web che ha caratterizzato tutta la giornata.
Il Direttore della prestigiosa testata “La Civiltà Cattolica”, padre Antonio Spadaro, ha raccontato la sua esperienza con il web, sostenendo come internet sia un moltiplicatore e diffusore di conoscenza, anche dal punto di vista del Vaticano. Alcune tesi sono eccentriche: “Anche la cultura degli hacker si può ricondurre alla teologia (…) Dio aveva previsto l’incontro tra il web e la Chiesa” (sic).
C’è stato poi un breve siparietto durante il quale sono state presentate alcune “start-up” (in verità non proprio afferenti alla cultura), e quindi l’atteso intervento di Vinton (detto Vint) Gray Cerf, considerato uno dei “padri di internet”, il cui incarico la dice lunga: “Chief Internet Evangelist” di Google. Nonostante i settant’anni suonati, Cerf ha mostrato una carica energetica e passionale impressionanti, ed ha “ovviamente” descritto internet come strumento meraviglioso di crescita, democrazia, libertà, finanche ecologia (tra qualche anno, la domotica consentirà di ridurre i consumi degli elettrodomestici, facendoli gestire dal computer). Ha stupito molti dei presenti (per l’assenza di diplomazia) la sua visione del mercato italiano: “In Italia, non abbiamo un numero sufficiente di persone online con una connessione ad internet accettabile… e la responsabilità è certamente di Telecom Italia e degli altri gestori”.
Divertente (e deprimente) la battuta “qui a Roma alloggio in un bellissimo albergo, ma la connettività è disastrosa”. Da segnalare che “la Repubblica” di oggi pubblica un’intervista a Cerf, a piena pagina, a firma di Riccardo Luna (fondatore di “Wired Italia”), che ha peraltro moderato il dibattito a “Big Tent”.
Secondo Cerf, si dovrebbe lavorare sulla qualità della connessione, prima di puntare alla fruizione dei contenuti. “Contraddizioni interne del capitalismo”, verrebbe da scrivere, nella contrapposizione tra “tlc” e “ott”. Cerf, stimolata da Anna Masera de “La Stampa”, ha anche risposto in relazione al caso “datagate”: “’Potete fidarvi di Google: se fosse vero che violiamo la privacy dei nostri utenti, saremmo degli stupidi, perché nessuno ci affiderebbe più i propri dati e la nostra economia aziendale ne soffrirebbe”. Ovvio, ma l’evangelizzatore Cerf non ci ha proprio convinto, anche perché è evidente che il gigante di Mountain View predica la bontà del proprio operato e… manifesta conseguente verbo.
Unica voce lievemente fuori dal coro – rispetto allo splendido scenario rappresentato – quella di Enzo Mazza, Presidente della Federazione dell’Industria Musicale Italiana (Fimi), che ha ricordato come la rete non sia salvifica in sé, e che il diritto d’autore (finanche nel suo approccio classico) non ha impedito la nascita e lo sviluppo di decine di società che propongono un’eccellente offerta legale di musica: Mazza ha evidenziato come, per la prima volta dopo decenni, nel 2012, il fatturato mondiale dell’industria musicale mostri una lievissima crescita, anche se l’incremento del business immateriale (digitale e rete) non compensa ancora il decremento del business della vendita dei prodotti materiali (cd e dvd).
Una domanda netta, e seria, l’ha posta il cantautore Daniele Silvestri: bella la rete, fantastica la digitalizzazione, “ma io, da artista, vorrei poterci vivere”. Il che non avviene. E se non avviene per un artista affermato come lui, possiamo immaginare per milioni e milioni di autori, artisti, creativi in tutto il mondo…
La giornata s’è poi sviluppata attraverso due panel nei quali si sono confrontati operatori dell’industria editoriale (Rcs, Corriere della Sera, L’Espresso, Warner, Sony…).
Il Sottosegretario all’Editoria, Giovanni Legnini (Pd), ha sostenuto: “Lancio qui una sfida agli amici di Google: trovare una via originale in Italia per l’accordo tra editori e motori di ricerca, una sorta di accordo made in Italy… Una soluzione solida è a portata di mano, se si evitano le rigidità di partenza”. Belle intenzioni, ma, concretamente, cosa propone il Governo?!
Infine, non vogliamo entrare nel merito della ricerca Bcc, che contiene dati la cui metodologia di elaborazione non è esattamente chiara, e propone ardite concettualizzazioni e quindi scivolose quantificazioni. La domanda era: “quanto vale la cultura online?”.
Secondo gli aruspici di Boston, il “surplus del consumatore fornisce un’utile misurazione del valore economico attribuito ad un prodotto da parte dei suoi utilizzatori”: in sostanza, è la differenza tra il costo pagato (effettivamente) ed il valore attribuito al prodotto o servizio acquistato (ovvero il costo che sarebbe disponibile a sostenere per acquistare). Concetto ambiguo e dato stimabile evidentemente soltanto attraverso ricerche demoscopiche (e la strutturazione del campione non viene nemmeno indicata!).
In Italia il “peso economico del consumatore”, cioè la differenza (il “surplus”) fra il valore che questi attribuisce a ciò che legge, vede, ascolta, gioca e di cui ha esperienza “online”, ed il prezzo pagato per farlo sarebbe di 1.050 euro all’anno. Il “surplus” sarebbe invece di 711 euro per quanto riguarda i prodotti culturali tradizionali, quelli “offline”… Uno dei capitoli del report si intitola (senza alcuna autocensura alla retorica): “Le infinite opportunità a disposizione del settore”.
Le opportunità saranno anche virtualmente infinite, ma le industrie culturali per ora sbattono il grugno contro il muro: fatturati in calo, imprese che falliscono o comunque licenziano. Tra il dire e il fare, c’è di mezzo il mare, anzi… la rete!
Da segnalare che la kermesse Big Tent s’è curiosamente tenuta esattamente lo stesso giorno in cui il quotidiano confindustriale “Il Sole 24 Ore” ha pubblicato una intervista a Carlo D’Asaro Biondo, Vice President South East Europe, Middle East e Africa di Google, il quale cerca di difendersi dalle accuse di “parassitismo” che sempre più vengono mosse nei confronti del suo gruppo. “Siamo disposti al dialogo con tutti – sostenuto D’Asaro – ma non siamo parassiti. Anzi, portiamo visibilità e ricchezza (…) Il diritto d’autore va protetto (…) I contenuti hanno un grande valore, sia economico che sociale. E i motori di ricerca possono essere degli alleati per combattere la pirateria”.
Complessivamente, una iniziativa comunque interessante, per quanto prevedibile operazione di lobbying. Non è stata però un’occasione di dibattito profondo, perché sarebbe stato necessario coinvolgere anche chi ha nei confronti del web un atteggiamento meno deferente e soprattutto non fideistico.
Nessun rappresentante della Società Italiana Autori Editori (la Siae è stata peraltro rappresentata come fortino della conservazione oscurantista, e non c’è stato contraddittorio). Nessun rappresentante dei produttori veramente indipendenti (anche l’intervento del Presidente Anica Riccardo Tozzi è apparso veramente molto poco rivendicativo) è stato coinvolto nella kermesse: curioso.
Nessun rappresentante dei broadcaster tv, che pure sono produttori di contenuti più o meno di qualità (Rai, Mediaset, Sky Italia, La7…), è stato coinvolto: curioso.
Nessun rappresentante degli autori, degli artisti, dei creativi (ci si consenta, Silvestri non sufficit) è stato coinvolto: curioso. O forse no.
Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult
Una delle grandi sfide di oggi, per la cultura, è attrarre nuovo pubblico presso i suoi spazi. E’ una missione che coinvolge musei, teatri e fondazioni. La cultura si trova oggi a combattere con l’immagine elitaria che per troppi anni, in diversi contesti, l’ha caratterizzata e con gli stereotipi che la descrivono come astrusa, slegata dal presente, forse un po’ noiosa.
Mai come oggi è fondamentale per i centri culturali impegnarsi nell’ampliamento della fruizione e promuovere nuove modalità di relazione e confronto con il proprio pubblico. Un settore che, oltreoceano, sembra aver fatto propri questi obbiettivi è quello delle performing arts, con riferimento particolare all’opera e al teatro.
Dalla fine del 2011, infatti, gli Stati Uniti hanno visto sorgere ed affermarsi un nuovo trend nel panorama delle live performance, che vede l’ingresso trionfale dei social network nelle sale teatrali. I mobile devices, il cui utilizzo durante lo spettacolo ha sempre costituito un tabù, vengono oggi reinterpretati quali strumenti per rendere la cultura interattiva, coinvolgere il pubblico in recensioni in tempo reale e sperimentare il passaparola digitale quale nuovo strumento di marketing.
Primo fra tutti Twitter, che con i suoi 140 caratteri e le sue dinamiche virali ben si presta ad essere impiegato per le recensioni spot. Dal Providence Performing Art Center all’Huffington Theater di Boston, dal Public Theater di New York al Kravis Center for the Performing Arts di Palm Beach in Florida, l’applicazione dei social network al mondo dello spettacolo e della fruizione si è ampiamente diffusa, dando vita ad una serie di esperienze interessanti.
Il Kravis Center di Palm Beach ha completato quest’anno la sua seconda stagione di Tweet Seats, un’iniziativa che ha visto come ospite speciale alle prove generali degli spettacoli un gruppo selezionato di utenti molto attivi sul noto social network. Approfittando della possibilità di fruire gratuitamente della prova, gli utenti hanno animato vere e proprie tweet session, diffondendo sulla rete le loro impressioni e i loro commenti sullo spettacolo.
Il centro ha dato la possibilità di twittare prima e dopo la prova e nel corso degli intervalli ha organizzato le Tweet Suite, delle situazioni in cui al pubblico era permesso di accedere ad un’area appositamente pensata, nella quale godere di un rinfresco e mettere in carica, in caso di necessità, il proprio cellulare.
Sempre il Kravis Center, verso la fine del 2012 ha deciso di testare le potenzialità di un altro strumento social, ospitando un Insta-meetup: nel contesto dello spettacolo The Nutcracker alcuni partecipanti sono stati invitati dietro le quinte per scattare una serie di foto con i propri mobile device e postarle poi su Instagram.
Il Providence Performing Art Center ha visto invece gli stessi membri del cast impegnarsi nel live tweeting e contrapporsi al pubblico in sala in uno scambio di botta e risposta sugli spettacoli. Boston, dal canto suo, presso l’Huffington Theater ha proposto le Twitter mission, nel contesto delle quali gli operatori culturali del teatro erano a disposizione per rispondere a sessioni di domande e risposte, proiettate su grandi schermi collocati nella lobby del teatro.
Sul versante italiano spicca l’iniziativa della Scala di Milano, che a partire dal 7 dicembre 2011, in occasione della prima che vedeva rappresentato il Don Giovanni di Mozart, ha istituito le dirette Twitter e Youtube, che ad oggi ha piacere di considerare una vera e propria “tradizione digitale”. La sperimentazione con il mondo social si è progressivamente evoluta fino a comprendere un team di “twittatori aggiunti”, composto da blogger e giornalisti, che da apposite sedute si aggiungono al canale ufficiale nel corso delle principali rappresentazioni, e veri e propri contest su argomento musicale, con in palio posti gratuiti alle prove generali.
Con il 2013 si prepara a scendere in campo anche l’Arena di Verona, che per il centenario del suo Festival Lirico ha deciso di proporre i Tweet Seats: una serie di posti selezionati, con un’ottima visuale, saranno resi disponibili per gli attivissimi del social network al modico prezzo di dieci euro. In questo modo, prenotando i biglietti speciali attraverso il web, il pubblico interessato potrà recensire in diretta gli spettacoli, comunicando impressioni ed emozioni in 140 caratteri.
L’obbiettivo dichiarato è quello di attrarre i target più giovani, digitali ed iperconnessi, coinvolgendoli in nuove modalità di fruizione, interattive e coinvolgenti. Una bella innovazione per queste istituzioni storiche, che a quanto pare hanno deciso di non restare indifferenti all’evolvere delle forme di comunicazione. La Scala ad oggi può vantare degli ottimi risultati, il suo profilo twitter conta più di 50.000 follower e quello Facebook più di 112.000. Quale accoglienza riserverà il pubblico dell’arena a questa nuova modalità di fruizione? Ma soprattutto, che effetto avranno le decisione dei due teatri sugli altri attori dell’universo lirico italiano? Saranno da stimolo per la sperimentazione di nuove proposte? E’ presto per dirlo, ma staremo a vedere.