varmaVijay Varma è il giovane interprete di Monsoon Shootout, film d’azione indiano diretto da Amir Kumar e proiettato all’ultimo Festival di Cannes. Abbiamo incontrato Vijay nel suo albergo fiorentino in occasione del River to River – Florence Indian Film Festival, durante il quale ha presentato il film e ha parlato della sua esperienza sul grande schermo. Simpatico, disponibile e affascinante, ci ha subito conquistato.

 

Quest’anno Bollywood è stata special guest a Cannes, dove è stato proiettato Monsoon Shootout. Com’è stata la sua esperienza al Festival francese?
È stato il primo festival della mia vita. La ricorderò come una giornata speciale. Un protocollo prevede che gli ospiti abbiano il trattamento migliore. Quando sono arrivato, appena sceso dall’aereo, ho pensato di essere ad una festa della moda o su una passerella. Poi, in realtà, mi sono trovato in una sala piena di gente, a mezzanotte (ora di proiezione del film), che voleva vedere il film. Questo mi ha fatto riflettere e mi ha dato maggiore sicurezza in me stesso e mi sono sentito molto fortunato di aver iniziato la mia carriera con il festival di Cannes.

So che ha fatto teatro, come è approdato al cinema? Ha lasciato il teatro?
Sono nato e cresciuto a Hyderabad, nel sud dell’India, dove c’è una grande industria cinematografica, soprattutto in lingua locale, telugu, ed è stato lì che ho iniziato a fare teatro. Presso una compagnia, Sutradhar (tr. il narratore o voce fuori campo), ho frequentato alcuni workshop e ho iniziato a recitare. In realtà io volevo fare cinema, ma non per questo ho abbandonato il teatro: l’ultima opera a cui ho partecipato risale a un anno fa. Né ho intenzione di lasciare il teatro, perché mi fa crescere.

Come è cambiata la sua vita con il successo? Cosa ha aggiunto o tolto?
La prima cosa, e la più più importante, che il successo ha portato nella mia vita è stata la riappacificazione con mio padre, in quanto per fare l’attore sono scappato di casa. Il mio rapporto con mio padre era piuttosto freddo, non accettava la mia vocazione, non ha mai stimato il lavoro dell’attore e non amava molto il cinema. Avrebbe voluto farmi lavorare nell’azienda di famiglia. Quando però ha visto il mio film e come ha reagito il pubblico allora è cambiata la sua posizione: ha capito che mi stavo impegnando seriamente e quindi ci siamo riappacificati. L’aspetto negativo del successo è la perdita di orientamento, per compensare pratico reiki e meditazione.

Che rapporto ha avuto con Bedabrata Pain, il regista del pluripremiato Chittagong, in cui lei ha recitato? Come è stato lavorare con lui e con Amit Kumar?varma2
I due registi hanno personalità molto diverse ma li accomuna una forte integrità nel loro modo di lavorare, credere nei valori fondamentali, il calore con cui accolgono chi lavora con loro. Bedo (diminutivo di Bedabrata Pain) è un perfezionista, ti fa ripetere una scena 30/40 volte, lasciandoti anche il tempo di sbagliare, finché non sono contenti sia lui che l’attore. Entrambi non ti dicono cosa fare esattamente sulla scena, ti pongono delle domande, sta a te trovare la risposta, lasciandoti esprimere. Bedo è una persona estroversa, ti fa capire subito cosa gli piace oppure no, Amit è sintetico e ti domandi: “ho fatto bene?”.

A quale personaggio si sente più vicino: Adi di Monsoon Shootout o Jhunku Roy (adulto) di Chittagong?
Entrambi i personaggi mi hanno aiutato a capire alcune mie caratteristiche. Jhunku Roy diventa, da testimone, un seguace, un leader della rivolta contro gli inglesi, un ruolo che mi ha appassionato. E’ stato un debutto ideale, un ruolo non da protagonista nel film ma che mi dava la responsabilità di concludere il percorso del personaggio principale. Il ruolo di Adi è incentrato sul come è possibile rimanere se stessi.

C’è qualcosa del cinema italiano che ha apprezzato o che è stata per lei una fonte di ispirazione?
Mi ha colpito il Nuovo cinema Paradiso, il Postino, Ladri di biciclette e Gomorra, Mi piace Monica Bellucci, è molto bella (sorrisi).

Preferisce la partecipazione degli spettatori indiani a quella compassata degli occidentali?
Preferisco l’attenzione al film del pubblico occidentale, non mi piace la gente che ride, scherza o mangia qualcosa al cinema.

Il prossimo film o progetto?
Un film di Bollywood, interpreto una rockstar, canto e ballo, è un ruolo molto divertente.

 

 

TAFTER è mediapartner di River to River – Florence Indian Film Festival

valerioapreaÈ possibile far apprezzare ai bambini (e anche ai grandi) Mozart, Schubert, Rossini, la musica classica e il teatro? L’autore Ennio Speranza e il regista Stefano Cioffi hanno pensato ad uno spettacolo i cui protagonisti saranno proprio la musica, il flauto, la magia e i bambini. Te lo suono io il flauto si terrà l’1 dicembre all’Auditorium Parco della Musica di Roma. La storia di uno degli strumenti più dolci, affascinanti e democratici, il flauto, sarà accompagnata dalla musica dal vivo di duecento flautisti.

La voce narrante di questa suggestiva esibizione sarà quella di Valerio Aprea, giovane e brillante attore di teatro, cinema, televisione, che ha recitato in ruoli drammatici, profondi, leggeri e comici, con artisti e registi d’eccezione. Per l’occasione gli abbiamo chiesto cosa ne pensa della musica, del teatro, dei bambini e dei sogni.

 

Sei la voce di Te lo suono io il flauto, in un reading fantastico sulla storia di questo strumento. Come si mescoleranno, in questo caso, il tuo talento comico, la performance teatrale, la musica e la necessità di coinvolgere i bambini e catturare la loro attenzione?

In realtà non abbiamo ancora stabilito definitivamente ciò che accadrà sul palco nei minimi dettagli. So per il momento che presterò la voce ad un excursus sul flauto e la sua storia, e questo in alternanza con la musica ma anche mescolato ad essa, il tutto cercando anche un modo di interagire con i giovani spettatori, che immagino saranno affascinati dall’insieme di parole e suoni.
Sarà quindi uno spettacolo non tanto di comicità, ma di evocazione e, spero, forte suggestione.

 

Te lo suono io il flauto è uno spettacolo per tutti, ma con un occhio di riguardo particolare per i bambini. Hai lavorato altre volte a stretto contatto con i più piccoli? Com’è collaborare con loro e recitare per loro?

No, veramente non ho mai recitato davanti a loro. Al limite mi è capitato, in un paio di occasioni, di recitare insieme a loro e, come sempre in questi casi, di rimanere impressionato dalla naturale capacità di recitare molto meglio di me.

 

Il flauto è uno strumento particolare, democratico, che, per motivi scolastici, un po’ tutti abbiamo avuto l’opportunità di suonare. Partecipando a questo spettacolo ti sei appassionato anche tu allo strumento? E in generale che ruolo ha la musica nella tua vita?

A dire il vero mi sono appassionato allo strumento molto prima di questo spettacolo, più o meno all’età di 9 anni, quando, come tutti credo, lo studiavo a scuola nell’ora di musica (ma è esattamente, tra l’altro, quello che dirò nello spettacolo). Quanto alla musica in generale, bè, ha un ruolo direi congenito forse perché appartenendo ad una famiglia di musicisti classici ne ho conservato l’inclinazione, pur non avendo proseguito studi musicali, comunque approcciati da adolescente. Credo che se non avessi fatto l’attore, avrei fatto il musicista.

 

Pensi che alcune forme artistiche, considerate di solito elitarie, come la musica classica e il teatro in generale, dovrebbero essere comunicate in modi diversi ai pubblici giovani? Come potrebbero essere attratti nuovi spettatori e ascoltatori?

Temo di sì. Quando fui portato con la scuola al cinema o a teatro a vedere qualcosa, che per fortuna non ricordo più, diciamo ecco che non fu esattamente una folgorazione. E infatti non lo ricordo più. Mentre dovrebbe essere il contrario. È una questione enorme e di difficilissima risoluzione. Diciamo che si dovrebbe essere bravi a selezionare accuratamente ciò che si vuole proporre a dei giovanissimi, pensando davvero che possano essere gli unici colpi a disposizione per andare a segno nella loro sensibilità, nella loro immaginazione e capacità di ricezione. Sprecati quei colpi, si avrà probabilmente una forma di rigetto. Inutile dire che il discorso vale esattamente anche per il pubblico adulto.

 

In Te lo suono io il flauto si parla anche tanto di magia, di storie, di sogni. E tu da bambino eri un sognatore? Cosa pensavi che saresti diventato “da grande”? E cosa consigli ai sognatori di oggi che vorrebbero intraprendere una carriera come la tua?

Diciamo subito che non rientro nella categoria di quelli che sin da piccoli sognavano di fare l’attore ecc. Non ho mai saputo cosa volessi fare, e anche quando ho iniziato a studiare recitazione ci sono voluti anni e anni perché mi decidessi ad ammettere di fare l’attore. Quello che posso suggerire a questi ‘sognatori’ è di capire più in fretta possibile se hanno davvero le qualità per essere quello che vorrebbero essere e poi di quale tipo siano queste qualità. Perché si può poi essere attori o attrici in vari modi. Tutto sta ad individuare qual è quello più congeniale a se stessi.

 

TAFTER è mediapartner dell’evento. Scarica qui la riduzione riservata ai nostri lettori!

Il 25 novembre del 1960 tre sorelle si recavano in carcere per andare a trovare i loro mariti, arrestati per essere parte di un movimento segreto contro il dittatore Trujillo, in quegli anni a capo della Repubblica Dominicana. Quello stesso giorno Patria, Minerva e Maria Teresa Mirabal vennero torturate e brutalmente uccise per essere loro stesse membri attivi e ideatori della ribellione contro uno dei più spietati capi politici della storia.

Dal 1999 l’Assemblea Generale della Nazioni Uniti ha scelto proprio il 25 novembre per celebrare la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Questa storia si può leggere un po’ dappertutto, specie in questi ultimi giorni che preludono al 25 novembre. Quelle che probabilmente non conosciamo, invece, sono le storie di donne comuni che quotidianamente soffrono abusi e violenze psicologiche e fisiche. Veniamo a conoscenza delle loro vicende solo quando, tristemente, finiscono sulle pagine della cronaca nera.

 

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Sentire di donne, di tutte le nazionalità e le età, uccise dai compagni, dai mariti, dai fidanzati, da conoscenti o sconosciuti, ormai è un fatto che ricorre di frequentissimo e il rischio è che il femminicidio diventi una prassi così comune da passare inosservata. L’Onlus Intervita ha concluso da poco l’indagine nazionale “Quanto costa il silenzio sulla violenza contro le donne?”, stimando in 17 miliardi il prezzo che la collettività paga a causa dei maltrattamenti sulle donne non denunciati, di cui 14 miliardi sono i costi dei danni umani, emotivi ed esistenziali, che si ripercuotono su famiglie e figli.

La Giornata mondiale contro la violenza sulle donne diventa allora un momento essenziale per ricordare che anche nei 364 giorni all’anno che gli succedono le donne vanno rispettate e amate.
Moltissimi sono gli eventi organizzati in tutto il mondo da CGIL, aziende, associazioni, Onlus, privati per dire no alla violenza contro le donne. A New York, nella sede del Palazzo di Vetro dell’ONU, sarà la nostra Serena Dandini a rappresentare l’Italia con un reading del suo “Ferite a morte”, i monologhi sul femminicidio di cui è autrice insieme a Maura Misiti che, dopo essere stati rappresentati in tutta Italia, adesso stanno facendo il giro del mondo. Insieme a lei ci saranno altri nomi rappresentativi dell’arte e della cultura al femminile: Valeria Golino, Marina Abramovic, Amanda Palmer, tra le altre.

Contemporaneamente, a Roma, presso la Camera dei Deputati, “Ferite a morte” sarà interpretato da Lunetta Savino, Ambra Angiolini, Sonia Bergamasco, Angela Finocchiaro, Geppi Cucciari, Malika Ayane, nell’ambito delle celebrazioni istituzionali della Giornata, su invito di Laura Boldrini. Saranno anche altri gli eventi sul tema donne nella capitale. Al Palazzo delle Esposizioni, ad esempio, si terrà ad ingresso gratuito il recital di poesie sull’amore di Mariangela Gualtieri, interpretato dalla stessa scrittrice.
Nel quartiere San Lorenzo, nei giorni scorsi, è stato ultimato un murale che ritrae 107 figure di donne coi loro nomi, quelle uccise dall’inizio del 2012, che devono essere ricordate.

 

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A Milano su iniziativa di Intervita si terrà al Teatro Litta, la quarta edizione della rassegna cinematografica Siamo Pari! La parola alle donne, dal 22 al 24 novembre.

A Bologna, alle ore 21 del 25 novembre, il Teatro Europauditorium ospiterà anch’esso lo spettacolo della Dandini “Ferite a morte”, mentre nei giorni 23 e 24 novembre di terrà l’VIII edizione del Festival La Violenza Illustrata, organizzato dalla Onlus Casa delle donne per non subire violenza.

A Modena proprio il 25 novembre verrà presentata la campagna One Billion Rising. Dalle ore 17.30 in Piazzetta San Giorgio e Piazzale San Francesco le associazioni femminili, maschili e cittadini leggeranno brani di Eve Ensler e storie raccolte dalla Casa delle donne contro la violenza, dalle associazioni Donne e Giustizia e Maschile Plurale. Seguirà alle 18.30 in Piazza Grande, alla presenza  delle associazioni promotrici della rassegna  Ti amo da vivere – Dialoghi tra maschile e femminile, il flash mob danzante Break the chain, inno della campagna.

A Firenze gli eventi previsti non si fermeranno solo al 25 novembre, ma animeranno la città fino al 5 dicembre: oltre a convegni, performance, spettacoli, rassegne cinematografiche, per le strade compariranno dei manifesti che spingono alla riflessione e che ricordano a tutte le donne il numero da chiamare in caso di necessità, l’1522. Alle 15 del 25 novembre, in piazza Santissima Annunziata, è previsto anche un flash-mob, ‘Basta alla violenza contro le donne’, promosso dall’azienda regionale per il diritto allo studio, in collaborazione con Angela Torriani Evangelisti e Duccio Scheggi.

In provincia di Arezzo, domenica 24 novembre, presso l’Auditorium Le Fornaci di Terranuova Bracciolini va in scena ‘Petali di rosa’, originale spettacolo di parole e musica della regista Sandra Guidelli. Lo spettacolo sarà interpretato non solo da attrici professioniste, ma anche da donne del luogo, parte della società civile, che interagiranno sul palco per portare la propria esperienza.

I dipendenti della Regione Abruzzo hanno girato a costo zero uno spot sociale contro la violenza di genere, che sarà trasmesso gratuitamente da tutte le emittenti tv regionali il 25 novembre e nei giorni successivi.

A Napoli, dalle ore 9, presso la Sala dei Baroni del Maschio Angioino si terrà il convegno “Mai più violenza sulle donne”, per affrontare il tema attraverso una giornata di studio e confronto.

“La violenza di genere. Un approccio multidisciplinare” è il tema del seminario organizzato dalla Provincia di Macerata in collaborazione con la Commissione per le Pari opportunità tra uomo e donna. L’evento avrà luogo presso l’Università di Macerata, con inizio alle 15.30.

Diverse sono anche le iniziative promosse da noti brand nazionali e internazionali. La Avon, ad esempio, ha lanciato una campagna di comunicazione, in collaborazione con Cerchi d’Acqua – Cooperativa Sociale, che sarà visibile dal 22 novembre al 16 dicembre nel circuito ATM della metropolitana di Milano. Si intitola “Uomo Contro Donna: fermiamo questo match” e il volto scelto da Avon è quello del giocatore di rugby Mauro Bergamasco.

Le profumerie La Gardenia si sono unite a Save the Children per lanciare la campagna “Vie d’uscita”: acquistando i prodotti La Gardenia si finanzia un progetto sostenuto da Save The Children per salvare le minorenni che vengono sfruttate in tutti i Paesi del mondo.

 

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Da segnalare è anche l’idea di due giornaliste freelance, Barbara Romagnoli e Adriana Terzo e Tiziana Dal Pra, presidente dell’associazione Trama di Terre. La loro proposta per il 25 novembre è uno sciopero generale di tutte le donne “convinte che solo una riflessione forte, dal basso, può indurre il Paese a una riflessione sulle relazioni tra i generi e le dinamiche di sopraffazione” (fonte La Repubblica). Il loro invito non è stato accolto, però, dappertutto con entusiasmo. Un’altra campana nel mondo femminile sostiene che scioperare è un modo per affermare una forma di diversità e subalternità che non fa che dividere ulteriormente uomini e donne. Quella che si deve ottenere non è una contrapposizione tra i generi, ma la loro parità.

Ci sarebbe ancora molto altro da dire, da raccontare, da segnalare. L’augurio è che il 25 novembre diventi un giorno di riflessione profonda su un tema così scottante, dal quale scaturiscano politiche, azioni, decisioni fattive e determinanti per cambiare la situazione. Il 25 novembre, allora, indossiamo tutti qualcosa di arancione o di rosso o facciamo sventolare i colori delle donne dalle nostre case e dai nostri uffici per dire NO alla violenza sulle donne.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

daveriocrisiAll’Auditorium della Gran Guardia di Verona sold out per Philippe Daverio, invitato dalla Camera di Commercio e dal Comitato Promozione Imprenditorialità Femminile mercoledì 20 novembre per raccontare “L’arte di Inventarsi. Riflessioni per nuove strade imprenditoriali”.

Parte da Einstein Daverio, ricordando la nota affermazione che sottolinea come non si possano risolvere i problemi attuali partendo dalla stessa prospettiva in cui sono stati creati e come l’utilizzo della parola crisi sia innanzitutto espressione di un mancato desiderio di superarla.

Affrontando i diversi argomenti proposti, mette più volte in luce la versatilità appartenente al mondo femminile, in un Paese che lo sta ancora scoprendo piuttosto a fatica; creatività, visione d’insieme, capacità di pensare all’altro sono l’anima del commercio e il volano per trovare nuove strategie, anche imprenditoriali. Sottolinea poi la sensibilità storica, quasi genetica, insita in un popolo, quello italiano, evidente nel sapere riconoscere più di ogni altro la bellezza e la qualità a partire dai propri stessi sensi fisici; la sua tradizionale arguzia e spontanea lungimiranza nell’intuire i cambiamenti del mercato e nel saperli cogliere, senza necessariamente doversi ingegnare nello strutturare prassi per analisi e ricerche di settore.

Tutte qualità apparentemente in sintonia con le tipiche nicchie produttive della penisola, nonché con il suo patrimonio storico, artistico, architettonico e culturale in genere, di per sé un “grande negozio” naturale. Affinché “entrino i clienti”, servirebbe però che fosse “ben pulito e presentabile”, mentre resta purtroppo spesso legato a normative superate e non riconsiderate alla luce delle esigenze contemporanee, oppure frutto di scelte che evitano la valorizzazione, se non il buon senso. Diventa preoccupante inoltre considerare come statisticamente solo il 10% degli italiani crei prodotto, un tasso molto basso rispetto ad altri Paesi europei e che rende insostenibile l’economia nazionale.

Sarebbe necessaria una nuova consapevolezza della ricchezza e della bellezza, le quali non necessariamente devono rappresentare due estremi divisi da un divario insormontabile, ma che anzi dovrebbero fungere sincronicamente da concetti ispiratori alla base di azioni responsabili. Ci vuole una disponibilità a fare comunicazione come non si è mai fatta prima, ad andare al di là anche degli strumenti di mercato utilizzati da realtà meno intuitive e molto più strategiche della nostra, perché non bastano più nemmeno quelli e perché le crisi servono ad andare oltre. Compreso l’andare oltre se stessi, partendo dall’identità, dal “Paese che siamo”.

Ma quando l’accento della riflessione si sposta per un momento sul “Paese culturale che siamo”, con un’offerta senza pari, e su come esso abbia tutti i presupposti per divenire il motore protagonista di un’economia produttiva e sostenibile, la risposta per tradurre le parole in fatti è molto difficile da dare.

 

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Il BTO – Buy Tourism Online è l’evento dedicato al turismo innovativo che si terrà a Firenze il prossimo 3 e 4 dicembre alla Fortezza da Basso. Vero appuntamento da non perdere per i professionisti del settore, propone quest’anno tante interessanti novità. Non mancherà Alberto Peruzzini, dirigente del settore turismo di Toscana Promozione, cui abbiamo avuto modo di rivolgere qualche domanda.

 

 

Dottor Peruzzini, sta per aprirsi una nuova edizione del BTO a Firenze in cui si parlerà nuovamente di turismo e delle sue prospettive per il futuro. Cosa è cambiato, ad esempio in Toscana rispetto all’anno scorso in termini turistici?
Continua l’incremento degli stranieri sia dai mercati storici della Toscana che da nuovi mercati. Aumentano i russi che scoprono nuove zone della Toscana, tornano i giapponesi e aumentano i cinesi con un turismo legato alle città d’arte. Il nord Europa conferma l’attenzione per la campagna toscana e cerca nuove idee e motivi di viaggio in Toscana. Muovono i primi passi nuovi paesi emergenti del turismo come India e Corea del sud.

 

I paesi BRIC si sono avvicinati alla nostra penisola, e soprattutto in Toscana. Come spiega questo fenomeno?
La notorietà delle città d’arte come Firenze, Roma, Venezia è un fenomeno planetario che pone l’Italia tra le mete imperdibili per chi vuole viaggiare in Europa. L’Italian style offre quella marcia in più al nostro Paese per essere méta e motivazione ulteriore di viaggio, soprattutto per chi oltre o in alternativa all’arte sceglie in base ad altri desiderata quali l’enogastronomia, lo shopping, il paesaggio o il fatto di visitare luoghi resi cool grazie a ambientazioni di film, la frequentazione di vip, la presenza di brand famosi.
La Toscana vive un posizionamento particolarmente fortunato grazie a molti di questi fattori tra cui ovviamente la moda e i molti marchi di prodotto top level che esprimono nel loro nome un richiamo al territorio, produzioni cinematografiche e letterarie di grande successo (da Under the Tuscan sun alla saga di Twilight fino a Inferno di Dan Brown), vip che si rifugiano in Toscana.
E una attività promozionale nei Paesi BRIC attenta, in passato, a valorizzare e diffondere questi contenuti, prima ancora che vendere i pacchetti, ha permesso oggi di avere un posizionamento di appeal e diversificato che facilita notevolmente la richiesta da parte della domanda.

 

Come giudica le attività di promozione turistica delle regioni italiane? Quali sono le principali criticità in questo ambito a suo avviso e come possiamo migliorare?
La strada è quella di targettizzare; sia la domanda che l’offerta. Oggi le motivazioni di viaggio sono molto differenti, soprattutto se si pensa ai Paesi emergenti e alle nuove generazioni. Non solo contenuti però ma anche modalità di informare e di presentare l’offerta. Capire gli interessi del target e saper interpretare le motivazioni di viaggio permetterebbe di dare la giusta chiave di lettura del proprio territorio e reinterpretare la propria offerta. Ciò darà la possibilità di promuovere il giusto pacchetto ad un target mirato.

 

Pensiamo positivo: quali sono invece le potenzialità esclusive del nostro territorio?
Prima di tutto abbiamo un vantaggio di posizione, ovvero un brand molto forte. Secondo punto un territorio indissolubilmente legato ad alcuni valori di eccellenza (style, cultura, moda, paesaggio e natura, enogastronomia, mare..) tanto ricco da poter soddisfare gran parte delle motivazioni di viaggio. Terzo una offerta così differenziata su un territorio piuttosto raccolto e raggiungibile. Come detto prima il lavoro più importante e declinare tutto questo, uscendo da macro prodotti per proporre un’offerta dalla forte personalità.

 

Al BTO si parlerà di promozione turistica. Quali sono le nuove frontiere che si aprono grazie al turismo online (sharing economy, community online ecc…)
Si rafforza l’uso del web sul mercato italiano mentre è uno strumento ormai imprescindibile per gli stranieri sia per la raccolta di informazioni turistiche che per la ricerca di eventi, ricettività, etc…
Per sviluppare al meglio il turismo online anche in Italia è necessario chiedere al mondo delle imprese uno sforzo ulteriore nel creare innovazione nelle formule, nelle idee, nelle modalità e nelle proposte di viaggio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

barcamarinoDiscontinuità: è la parola chiave per comprendere l’andamento e l’esito finale delle elezioni per il comune di Roma, nel giugno del 2013. Il risultato ha parlato chiaro. Discontinuità, nei confronti degli anni disastrosi della giunta Alemanno, non votato neanche dagli elettori di centrodestra. Discontinuità, anche verso le ultime esperienze delle giunte di centrosinistra che, pur avendo non avendo fatto male in molti ambiti, sono indissolubilmente legate a una fase storica ormai definitivamente trascorsa.

La candidatura di Ignazio Marino ha rappresentato proprio questo: discontinuità. Un outsider lontano dalle diatribe interne al PD, interno a una cultura di sinistra e disponibile a occuparsi di questioni cruciali della vita cittadina anche schierandosi contro poteri fortemente consolidati.

Sulle politiche culturali, in particolare, il tema della discontinuità ha assunto una rilevanza significativa. Nei fatti, non solo la giunta Alemanno è stata messa duramente sotto accusa, ma lo sono state anche le politiche nazionali dei governi di centrodestra e delle larghe intese che proprio sulla cultura si sono abbattute con una veemenza degna di altre cause.

Roma è stata la città che ha pagato il prezzo più alto di queste scelte. Ma è stata una città che ha reagito, ha tentato di resistere e si è organizzata combattendo questa deriva che tutti sanno poter comportare dei costi altissimi per la partecipazione critica dei cittadini e per la vita democratica.

Oggi vediamo che la stessa forte spinta dal basso che ha portato all’elezione di questa maggioranza al Comune di Roma, si stia tramutando comprensibilmente in una forte pressione in termini di aspettative di cambiamento. A questa pressione se ne aggiungono altre: le difficoltà economiche e finanziarie della crisi attuale; gli attacchi e le polemiche di chi pensava di “contare di più” in una logica vecchia che la giunta attuale non vuole condividere e, naturalmente, le bordate mediatiche di chi è stato abituato a fare sempre il bello e il cattivo tempo nella città. Insomma: c’è di che preoccuparsi e non dormire sonni tranquilli.

La nomina di Flavia Barca alla guida dell’assessorato alla cultura, per molti aspetti ha rappresentato uno degli esiti della spinta alla discontinuità. Sarebbe sbagliato definirla “un tecnico”, nonostante la sua serietà e le sue competenze. Piuttosto si tratta di una “indipendente” saldamente ancorata all’interno di una cultura politica di sinistra con una rete qualificata di contatti nel mondo degli studi e della ricerca, in Italia e all’estero.

Dopo un periodo di assestamento, l’assessore Barca si è impegnata in un’agenda fittissima di incontri con gli operatori del settore. Ora arriva il momento dei segnali concreti anticipati da dichiarazioni di intenti chiari e forti.

Barca vuole cambiare metodi di governo nella cultura a Roma: bandi e concorsi per le nomine e trasparenza nella gestione. Tra non molto sarà la volta della sovrintendenza e la vedremo alla prova.

Vuole valorizzare il patrimonio archeologico e museale. Per questo sembra voglia allargare il campo agli investitori stranieri e privati. Cosa buona solo se la governance pubblica mantiene chiara la definizione di quei beni che sono e devono rimanere comuni e non essere privatizzati. Men che mai svenduti per usi privati, spesso impropri. Servono ai cittadini romani, italiani e di tutto il mondo. Appartengono a loro.

Ha dichiarato di voler implementare le politiche di decentramento coinvolgendo i Municipi e utilizzando il sistema delle biblioteche pubbliche come presidi culturali sui territori. E per questo ha voluto ridisporre dei fondi che Alemanno aveva fatto tagliare.

Si dichiara interessata a valorizzare i talenti sul territorio romano.

Infine, e non in ultima istanza, come ha recente dichiarato a un quotidiano, vuole occuparsi della domanda di cultura devastata in qualità e quantità negli ultimi vent’anni.

Grandi ambizioni. Non certo realizzabili nel ciclo di pochi mesi. Ma non è questo che le si chiede. Le si chiede piuttosto di assumere da subito il ruolo di indirizzo che le compete.

Di non perdersi nel balletto e nelle polemiche in cui sicuramente la costringeranno i media romani che vorranno parlare solo di nomine e di fondi. Insomma le si chiede di decidere.

Nulla potrà essere perfetto. Anche i bandi, in alcuni casi, potrebbero contenere in sé il morbo del disimpegno da parte dell’amministratore pubblico. E i fondi saranno comunque insufficienti. Ma ci sono gli spazi inutilizzati da mettere a disposizione. C’è da dare nuovo ossigeno alla cultura del contemporaneo. C’è da ripensare l’estate romana. C’è da ragionare sulla miriade di piccoli editori e sul circuito delle librerie indipendenti. C’è tanto altro ancora.

A Roma ci sono le risorse umane e intellettuali per costruire un sistema di collaborazioni che valorizzi la città nella direzione del recupero dello spazio pubblico, del bene condiviso secondo una chiara gerarchia di valori. Che sia consapevole che la cultura rappresenti un formidabile volano dell’economia e della vita sociale.

Certamente occorrono idee e progetti e occorre l’Europa. Ma occorre soprattutto costruire un’alleanza con chi in questi anni ha lottato per affermare la centralità delle politiche culturali nella vita della città; con chi opera e ha operato per dare alla gestione dei beni culturali quelle caratteristiche di razionalità, efficienza e trasparenza nella gestione, e quella reputazione necessari per vivere e crescere anche sul piano economico. Insieme sarà possibile farcela.

 

Gioacchino De Chirico è un giornalista culturale ed esperto di comunicazione

 

 

 

falcinelliIl nuovo fenomeno nell’editoria si chiama “graphic novel”: si tratta di romanzi narrati attraverso immagini a fumetti e realizzati grazie al talento di scrittori e illustratori. A parlarci di questa nuova dimensione del racconto è il bravissimo Riccardo Falcinelli, che di grafica e illustrazione ha fatto la sua professione: dal 2000 cura infatti l’immagine grafica di Minimumfax, di Laterza, Carocci e della collana Stile Libero Einaudi, e dal 2002 è professore universitario di grafica e comunicazione visiva.

 

Quale esperto nel campo, ci chiarisci una volta per tutte cosa differenzia un graphic novel da un fumetto o da un romanzo illustrato?
In verità non credo di essere un esperto, ho scritto e disegnato alcuni graphic novel come pezzi di un progetto più ampio di ragionamenti sulla grafica e sulla comunicazione visiva, ovvero i miei libri sono soprattutto degli esperimenti per vedere cosa è possibile fare di una narrazione visiva. Le nomenclature sono – come è noto – convenzionali: fumetto sarebbe quello tradizionale e seriale (strisce o albi con personaggi ricorrenti), graphic novel invece l’opera unica in forma di libro più simile come impianto concettuale alla narrativa tout court, romanzo illustrato poi può essere qualsiasi unione di testi e immagini ma che abbia un “respiro” romanzesco, che si distenda per più pagine con un impianto narrativo largo e non necessariamente concentrato sulla trama. Ma appunto sono convenzioni.

 

Una ricerca dell’AIE attesta che questo genere copre il 10,8% della produzione di fiction. Come spieghi tale grande successo? Lo ritieni un “fuoco di paglia” o un risultato destinato a perdurare e magari crescere nel tempo?
Difficile fare previsioni. Francamente mi pare un numero enorme, in libreria non sembra così massiccia la loro presenza. Però di sicuro i lettori vanno aumentando. Le generazioni più giovani sono più disposte al visivo ma non vuol dire che lo capiscano davvero, anzi alle volte lo danno per scontato, non sono consapevoli dei meccanismi in atto. Quello di cui mi accorgo sempre più spesso è come un grande numero di persone subisca le immagini anziché capirle, ma di questo è anche responsabile la scuola che non allena abbastanza al pensiero critico: si insegna la storia dell’arte (quando lo si fa), si parla di film e di design come elenco di cose belle senza concentrarsi sul ruolo che questi artefatti giocano nella nostra vita quotidiana. Un ruolo che spesso è anche politico, indirizzando gusti e comportamenti.

 

Come prende forma un graphic novel nel tuo studio? Da dove si comincia e dell’aiuto di chi ti avvali?
I libri che ho scritto fino a oggi li ho fatti tutti con Marta Poggi. Mesi e mesi di infinite discussione su come raccontare. Poi a lei il compito delle parole, a me quello delle figure. Come dicevo sono degli esperimenti, nel senso che quello che ci è sempre interessato, oltre la trama, era capire come mettere il relazione testi e immagini in maniera inconsueta. E infatti le nostre storie sono fondamentalmente metalinguistiche: tutte le trame parlano di mass media e di comunicazione globale. Grafogrifo è un rinascimento che funziona come Matrix o come un pamphlet di McLuhan, Cardiaferrania racconta del rapporto tra la nostra identità e quella degli oggetti industriali, cos’è originale e cosa è una copia? L’allegra fattoria è una parodia dell’informazione giornalistica, dei fatti che si pretendono “veri”. Sono tutte storie che parlano della complessità di vivere nella società delle immagini. E poi volevamo fare libri “difficili”, oggi tutto è entertainment, volevamo scrivere libri che chiedono una partecipazione forte del lettori, anche al punto da metterli in difficoltà, di spaesarli, di fargli chiedere dove si stesse andando a parare.

 

“L’Arte delle Felicità” di Alessandro Rak o “La vita di Adele” di Abdellatif Kechiche sono stati graphic novel riprodotti sul grande schermo. Se dovessi trasporre cinematograficamente una delle tue creazioni, quale sceglieresti? Perché?
La risposta è facile: nessuno. Ho sempre voluto scrivere graphic novel che non fosse possibile trasformare in film e per una ragione precisa: trattandosi di lavori concentrati sul codice narrativo volevo trovare un modo di raccontare che non fosse trasferibile facilmente in un altro linguaggio. Quello che trasponi in un film è la trama e niente altro, forse un po’ dell’atmosfera. Ma se la trama è tutt’uno con le strutture visive allora questo diventa difficile. In verità la maggior parte dei graphic novel mi annoia perché sono testi scritti con aggiunte le immagini, i due pezzi sono disgiunti e possono appunto vivere l’uno senza l’altro.

 

Da insegnante di Psicologia della percezione, come leggi questa preponderanza dell’immagine nella comunicazione odierna? Oltre al graphic novel, si è assistito infatti all’exploit delle info grafiche e di social dedicati a foto e immagini. Come mai al giorno d’oggi diamo la precedenza al senso della vista?
Non credo che diamo precedenza alla vista, gli diamo il giusto spazio. La nostra ci sembra una società molto visiva solo perché facciamo il confronto con la cultura ottocentesca che ci ha preceduti e che era maggiormente incentrata sul verbale. Però proprio perché tante immagini ci circondano bisogna stare in guardia, come dicevo non c’è nulla di più pericoloso di quello che diamo per scontato, che ci pare ovvio e innocente. Anzi proprio perché viviamo nella “civiltà delle immagini” dovrebbe essere responsabilità un po’ di tutti saperne di più. Se uno vive in una foresta con animali feroci si munisce di armi adeguate, sarebbe sciocco il contrario. Eppure in tanti vivono circondati dalla comunicazione visiva in ogni momento della loro vita senza nessun tipo di strumento di difesa o di comprensione.

 

Per chi ancora non conoscesse questo genere letterario, quali titoli consiglieresti?
Asterios Polyp di Mazzucchelli e Jimmy Corrigan di Chris Ware. Però bisogna prima aver letto tutto Carl Barks, “Paperino e la scavatrice” è la più grande storia mai disegnata: c’è una finezza psicologica rarissima nei fumetti e c’è quella verità umana di cui sono capaci solo i grandi artisti.

 

herNel futuro prossimo, in The Zero Theorem di Terry Gilliam la tecnologia intrappola una game-society disumanizzata, in Her, scritto e diretto da Spike Jonze, la tecnologia è invece friendly e così rassicurante da farci innamorare. Il protagonista del film di Jonze, ricorda molto quello di “I love you” (1986), del profetico Marco Ferreri: era un uomo realizzato e di successo, ma annoiato e demotivato, e a cambiargli la vita è la voce femminile e sensuale di un portachiavi.

In “Her”, la paura del confronto, delle emozioni, dell’amore che cambia negli anni e che può lasciare soli, induce Theodore (il bravissimo Joaquin Phoenix) a rifugiarsi nelle anonime chat per soddisfare pulsioni immediate, ma rimane insoddisfatto poiché non risolve il suo desiderio di condivisione.

E’ lo stesso Spike Jonze, nell’incontro di lunedì all’Auditorium, dove la pellicola è stata presentata nel corso del Festival Internazionale del Film di Roma, a dichiarare: “Credo che questo bisogno di intimità sia un bisogno di sempre… Il film aveva bisogno di intimità: quando abbiamo preso Scarlett cercavamo di catturare questo senso di intimità”. Così Theodore, il cui lavoro è scrivere lettere con grafia manuale per una clientela che non ha più tempo di farlo, a poco a poco riesce ad instaurare un rapporto sempre più intimo con una voce femminile senza corpo (Scarlett Johansson). Questa è Samantha, ovvero il suo nuovo sistema operativo avanzato, che riesce a elaborare quotidianamente emozioni e conversazioni con l’utente, organizzando così la sua vita, ma soprattutto prendendone parte.

In un mondo occidentale confortevole, supportato dalla migliore tecnologia, che consente più tempo libero per le relazioni, in realtà migliaia di persone vivono ogni giorno pigiate l’una con l’altra, ma sempre più sole: si limitano infatti a dialogare con uno smartphone o con un pc. Diventa facile per il protagonista, dopo un matrimonio fallito, innamorarsi di Samantha, superando così le difficoltà relazionali di un confronto con l’altro all’interno di un rapporto profondo e duraturo. Samantha è l’oggetto ideale di amore, quello classico di sempre, che coincide con una nostra proiezione. Funziona così bene da rendere superflua la corporeità.

Se agli amici sembra naturale che lui condivida le sue giornate e la sua vita sociale con Samantha, l’ex moglie mette invece a nudo la sua incapacità di relazione, di confronto con le esigenze e richieste reali di una donna-compagna. Lo stesso Jonze ha affermato: “Uno degli aspetti più impegnativi in una relazione è la capacità di essere autenticamente sinceri, di mettersi a nudo e di permettere alla persona amata di essere se stessa”. Alla domanda sulla provenienza di Samantha, Jonze ha risposto: “E’ anche lei nuova nel mondo. E’ nuova come un bambino. Ha un’intelligenza e rapidità di pensiero, ma ancora non ha paura e impara la paura.”

L’attesissima attrice presente sul red carpet capitolino, non compare mai nel film e rimane la curiosità di conoscere la voce italiana che sostituirà, nel doppiaggio, quella carezzevole e seduttiva di Scarlett, vera coprotagonista in “Her”.
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improveverywhereIl marketing è un’attività svolta dalle aziende principalmente per piazzarsi sul mercato, per ottenere maggiore visibilità e quindi maggiore profitto, per rendere più appetibili e commerciali i propri prodotti. C’è anche un marketing diverso, però, più scanzonato e giocherellone, virale, che si basa sull’originalità e sulla creatività, sul coinvolgimento e l’interazione, sullo stupore e anche il divertimento.

Charlie Todd ne ha fatto il cuore del suo business, spingendosi ancora oltre però: il viral diventa puro divertimento e semplice momento per suscitare gioia e sorrisi. Poi lo si può associare ad un’azienda, ad un festival, ad un evento pubblico o privato. Ma questo è un discorso secondario.

Il business di Charlie Todd si chiama Improv Everywhere ed è nato nel 2001: una sera in un bar con un amico, Todd si è finto un attore famoso, firmando autografi, scattando foto con i fan ed elargendo amichevoli pacche sulle spalle a tutti gli ignari avventori del locale. La finzione è riuscita talmente bene che Todd ha lasciato il bar senza svelare la sua vera identità e ha pensato di organizzare scherzi giocosi per mestiere, coinvolgendo anche altre persone. Da allora sono passati 12 anni e Improv Everywhere è decollato, portando le sue originali iniziative nelle piazze, ma anche in prestigiosi festival o persino durante le conferenze di Ted.

Mr. Todd ci tiene a precisare che i suoi non sono flash mob. “Flash mob” è un termine abusato che ormai non ha più una vera identità. Gli eventi da lui organizzati possono durare anche ore, non sempre sono “flash” e non sempre vedono la partecipazione di migliaia di persone, possono anche essere opera di piccoli gruppi. Meglio, allora, il termine “performance”, o ancora meglio “prank”, un misto tra una recita mezza a soggetto e un episodio da candid camera. Altra caratteristiche del progetto è che le iniziative di Improv Everywhere non sono improvvisate. Ci si può iscrivere ad una newsletter che informa sui prossimi eventi che si terranno a New York, scenario principale delle “Improvate”, o nel resto del mondo.

Ci sono, poi, alcuni eventi che si tengono ogni anno, in un determinato mese. Uno è The No Pants Subway Ride che si tiene a gennaio a New York: gli Improviani, vecchi, giovani, bambini, si danno appuntamento nella metro della Grande Mela, si spargono per i vagoni e le stazioni e si sfilano con nonchalance i pantaloni, rimanendo bellamente in mutande. Ed ecco che scatta il fattore “Improv”, ovvero l’improvvisa reazione di divertimento e stupore che cattura la folla allibita di fronte alla scena a cui sta assistendo.

 

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L’altro evento annuale è Black Tie Beach che si tiene, invece, ad agosto. In questo caso i partecipanti devono vestirsi di tutto punto, in abiti eleganti e sfarzosi, e buttarsi allegramente a mare a fare un bel bagno. L’effetto scenografico e coreografico è davvero affascinante.
Di impatto è anche The Mp3 Experiment, anche questo un evento annuale. I partecipanti scaricano un mp3, si radunano in un luogo pubblico, e contemporaneamente lo ascoltano. L’mp3 dà delle istruzioni e i passanti, i turisti, i curiosi che si trovano lì per caso, assistono a delle scene quantomeno singolari.

 

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Una delle iniziative più divertenti è, forse,Movies in Real Life: spezzoni di film celebri riprodotti tra la gente comune. Ecco, allora, la reazione dei normali frequentatori di un bar, quando, ad un tratto, innumerevoli donne nella sala cominciano a ripetere la famosissima scena di Harry ti presento Sally, in cui Meg Ryan simula un orgasmo. Qualcosa di simile è stato fatto, tra gli altri, con Jurassic Park, Matrix, Ritorno al futuro.

 

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Improv Everywhere è un vero e proprio business. Vi si può partecipare come semplici individui interessati a vivere un’esperienza esilarante, oppure si possono assumere i creativi che stanno dietro l’iniziativa. Si può avere da loro consiglio e supporto per organizzare eventi simili o si può chiedere direttamente la loro presenza per rendere indimenticabilmente eccentrico un momento della propria vita privata o un episodio importante nell’attività della propria azienda.

comeilvento“Come il vento” di Marco Simon Puccioni, presentato fuori concorso al Festival Internazionale del Film di Roma, è ispirato alla vita straordinaria di Armida Miserere, la prima donna a dirigere un carcere. Valeria Golino la interpreta con sguardo vivo e intenso. Nel cast anche Filippo Timi, Francesco Scianna e Chiara Caselli.
Specializzata in criminologia, Armida diventa direttrice, dalla metà degli anni ottanta (nel momento peggiore della storia italiana, quello della lotta alla mafia e al terrorismo) di alcuni dei più importanti carceri italiani l’Ucciardone a Palermo, Lodi, San Vittore a Milano fino ad essere mandata, in prima linea, a Pianosa, nel supercarcere riaperto per sorvegliare i mafiosi. Nonostante riceva critiche e intimidazioni, non demorde e non cede di un passo. Una vita dedicata al lavoro, con un forte senso dello Stato, incorruttibile e soprannominata “fimmina bestia” dai detenuti dell’Ucciardone, “magra o sovrappeso, comunque tesa e nervosa. Armida è intelligente, ironica, amichevole e scherzosa, ma anche inflessibile, moralista, giustizialista”, così la descrive Valeria Golino. Armida cerca di conservare la sua sensibilità e fragilità mentre applica la legge portandosi dietro una tragedia personale. L’uccisione del compagno, l’educatore del carcere Umberto Mormile interpretato da Filippo Timi. Muore suicida a soli 46 anni. Il film uscirà nelle sale italiane il 28 novembre.

 

Come ti sei avvicinata a questo personaggio e cosa conoscevi della storia di Armida?
Non conoscevo Armida prima che Marco, il regista, me ne parlasse. L’ho scoperta attraverso il suo punto di vista. Armida è una persona così complessa e contradditoria e, per quanto possiamo raccontarla, ci saranno sempre delle zone d’ombra e dei lati del suo carattere che non conosceremo mai. E’ stata una delle prime direttrici di carcere di massima sicurezza. E’ una donna che ha avuto una vita tragica, molto determinata e severa con se stessa, appassionata del suo lavoro. Ho imparato chi fosse attraverso documenti, lettere e diari, fotografie e, poi, l’ho conosciuta personalmente a Sulmona, circa un anno prima che morisse. La Dott.ssa Miserere aveva organizzato, con altri collaboratori, un piccolo festival di cinema per i detenuti e io ero stata invitata con il regista Crialese per presentare “Respiro”. E’ stato molto commovente far vedere il film in quel luogo e lei mi ha salutata, accolta e accompagnata in quella visita e abbiamo fatto una foto insieme. Era molto cortese ma anche austera, dura. Quando, successivamente, ho rivisto quella foto, ciò che mi ha più stupita e commossa è il mio abbraccio sulle sue spalle. Un gesto di protezione verso di lei che è girata e mi guarda con una tale vulnerabilità.

 

La tua prova nel film dimostra un forte coinvolgimento. Ti sei sentita particolarmente ispirata?
E’ chiaro che un attore non può sentirsi sempre particolarmente ispirato e avere la possibilità di interpretare un grande personaggio così contraddittorio e complesso. La differenza è nel modo in cui il regista guarda il suo attore e la sua attrice, dove sta mentre tu fai quella cosa o non la fai, come ti monterà, che luce hai sul viso. L’interpretazione di un attore al cinema dipende da se stesso e moltissimo da tutti gli altri. Un bel ruolo e un regista che sa guardarti sono le occasioni, per noi interpreti, di sembrare più bravi e di fare onore ad un personaggio.

 

Perché all’inizio non volevi interpretare il personaggio di Armida?
Perché avrei dovuto penare e in qualche modo dare l’anima. Non era un ruolo in cui potevo passare e fare bella figura così, ma dovevo esserci. Quando mi è stato chiesto stavo preparando il mio primo film da regista, un’esperienza completamente nuova per me, difficile e misteriosa. Pensavo alla fatica e alla battaglia che avremmo dovuto affrontare per riuscire a girare una storia così difficile, in Italia, che non fosse solo puro intrattenimento, terminarla e distribuirla. Avevo paura di finire nel dimenticatoio. Poi però il desiderio del regista, quel desiderio su di te, mi ha messo voglia di farlo e quindi eccoci qua.

 

Cosa pensi della situazione delle carceri in Italia e quello che sta scatenando?
Vanno presi dei provvedimento al più presto. È chiaro che un paese civile, che ha rispetto di se stesso, non può non preoccuparsi del sistema carcerario che è un luogo e non un’astrazione ai margini della società. È la nostra vita non è qualcosa di lontano, è la nostra coscienza. Ne va della nostra dignità. È un argomento che ci riguarda troppo da vicino per non prendere dei provvedimenti. Bisogna muoversi per fare delle leggi giuste, non di marginalizzazione, ma di comprensione.

 

Costa stai facendo ora?
Ora sto girando un film con Gabriele Salvatores che si chiama “Il ragazzo invisibile” e mi sto molto divertendo. E’ un film fantasy, inedito in Italia, e poi ho fatto una piccola parte nell’ultimo film di Paolo Virzì che si chiama “Il capitale umano” e credo che inizierò a girare ad aprile “Il nome del figlio” di Francesca Archibugi.

 

 

 

benitez pompeiRafael Benitez, allenatore di calcio, spagnolo ma con lunghe frequentazioni britanniche (avendo allenato in Inghilterra per molti anni), tanto da produrre contaminazione culturale, sembra che in questo momento sia il miglior “testimonial” della cultura e dei beni culturali di Napoli e della Campania.

Rafael, detto Rafa, divenuto dopo poche ore dal suo arrivo a Napoli Rafè (trasformato ormai in Don Rafè), ha infatti già fatto visita ad alcune delle più grandi miniere d’oro e cultura campane, come il Teatro San Carlo, gli Scavi di Pompei, il Palazzo Reale di Napoli, la Reggia di Caserta e la Cappella Sansevero, sottolineando al termine di ogni visita lo stupore per la bellezza riscontrata in luoghi, d’arte e storia, unici al mondo.

Il Gran Tour di Benitez, come è stato definito, è scaturito dalle segnalazioni arrivate dai tifosi del Napoli (e non) attraverso il suo sito ufficiale, sollecitati dallo stesso allenatore, poco dopo la firma sul contratto che lo avrebbe legato alla squadra ed alla città, a proporre un elenco dei posti più belli da visitare di Napoli e della Campania.

L’appello che è stato accolto immediatamente con gran piacere, ha trasformato i tifosi in “esperti culturali” che hanno sollecitato il loro beniamino a visitare i più bei luoghi d’arte campani. Sono piovute le raccomandazioni per mister Rafa: dalla Cappella di Sansevero agli Scavi di Pompei ed Ercolano, da Spaccanapoli al Teatro San Carlo, dalla Reggia di Caserta a Marechiaro.

E così Don Rafè non ha potuto sottrarsi alla voglia di conosce a fondo il territorio straordinario che lo ospita e, sorprendentemente, non si è limitato a visitarli “quei luoghi” e ad apprezzarne la magnificenza, ma si è trasformato in “portavoce” e “promotore” della bellezza di Napoli e della Campania e lungimirante “manager della cultura” con puntualizzazioni sulle strategie di valorizzazione.

Dopo le prime visite ecco, infatti, che una sua affermazione arriva subito in testa ai giornali ed alle discussioni sui social: “La Campania è bellissima, ma il marketing non è all’altezza. […] Luoghi come Palazzo Reale, il Cristo Velato in un altro paese, con un altro tipo di marketing sarebbero sicuramente venduti di più. Penso a Pompei, che è un luogo bellissimo ma si può vendere meglio e questo porterebbe anche lavoro e soldi al territorio”. Il risalto è stato tale da coinvolgere anche l’assessore alla cultura ed al turismo della Regione Campania, Pasquale Sommese, che cita Benitez come un ottimo “ambasciatore” e lo ringrazia per il suggerimento.

Ogni nuovo apporto di pensiero, ogni nuovo stimolo e ogni nuova opportunità per contribuire al rilancio e alla promozione del grande patrimonio culturale italiano – e campano – ben vengano!

Rafa Benitez, che ad ogni occasione utile cita la cultura e la passione per Napoli, intesa oltre la squadra di calcio, ha conquistato tante simpatie ed ha prodotto una ampia e positiva attenzione per i problemi legati alla valorizzazione dei luoghi d’arte, coinvolgendo, attirandone l’attenzione, Istituzioni, addetti ai lavori e cittadini (e tifosi!) che vivono tutti i giorni la città di Napoli ed i luoghi che la circondano, non accorgendosi – molto spesso – di tutta la bellezza che c’è intorno.

Un signore distinto e sorridente che arriva dalla Spagna (terra a cui la Campania è da sempre e storicamente particolarmente legata), che di mestiere fa l’allenatore di calcio, ha “aperto gli occhi” a molte persone provocando un grande richiamo con le sue visite, le foto e le affermazioni sui più straordinari siti d’arte della Campania. Aspettando le prossime visite, grazie a Don Rafè!

 

New York ha scelto il suo nuovo sindaco: si tratta di Bill de Blasio, democratico italoamericano, classe ’61, che ha sbaragliato l’avversario repubblicano Joseph J. Lotha con il 73% delle preferenze. I sondaggi già lo davano vincente, nonostante un democratico non avesse ricoperto il ruolo di primo cittadino da ben 20 anni.
De Blasio succede a Michael Bloomberg, da 12 anni a capo della Grande Mela e già braccio destro di Rudolph Giuliani, il sindaco dell’attentato alle Torri Gemelle.

Il successo di questo 52enne si deve in gran parte alla sua campagna politica, incentrata su una forte comunicazione della propria identità familiare. Tutti i newyorkesi sanno infatti che de Blasio è sposato con Chirlane McCray, scrittrice attivista contro il razzismo e sostenitrice dei diritti delle donne omosessuali. Dalla loro unione, avvenuta nel 1994, sono nati due figli: Chiara e Dante. Tutti i membri della famiglia de Blasio hanno partecipato e sostenuto pubblicamente la corsa di Bill a sindaco della città, comparendo in video, talk show e in comizi per promuovere le proposte del candidato.

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Bill de Blasio ha dunque giocato la carta dell’emozionalità, mostrando al pubblico votante quanto fosse progressista anche nella sua quotidianità, con una famiglia moderna e mista, come molte ormai a New York:  l’impegno nell’affermazione dei diritti civili della moglie e la sua italianità, esaltata dalla scelta di mantenere il cognome materno e di chiamare Dante e Chiara i figli, hanno poi giocato un ruolo preponderante per aggiudicarsi le preferenze della comunità LGBT e delle minoranze ormai decisive nelle elezioni.

La sua sensibilità nei confronti dei cosiddetti “latini” è ad esempio dimostrata dal fatto che il suo sito ufficiale è tradotto in inglese e spagnolo, senza contare poi l’utilizzo vasto dei social network per diffondere le sue proposte e per chiedere ai sostenitori di votarlo, senza mancare mai di pubblicare foto dall’album di famiglia. Una sorta di Obama ancor più diretto e genuino.

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Altro elemento da non sottovalutare nella comunicazione messa in atto dal suo staff è anche la forte appartenenza al quartiere di Brooklyn, dove è nato. Qui, a pochi passi dalla sua abitazione, c’è infatti il cuore strategico del suo entourage e proprio al Park Slope Armory, l’ex caserma della Guardia Nazionale, convertita ora ad ostello giovanile, sta festeggiando insieme ai suoi sostenitori e vecchi amici, molti dei quali hanno contribuito finanziariamente alla sua corsa a sindaco: Bill ha potuto infatti contare su corpose donazioni.
Molti poi i giovani volontari che hanno collaborato per la campagna elettorale, con entusiasmo e fiducia, guardando a de Blasio come alla svolta politica e sociale che da tempo i newyorkesi attendevano. Del resto, anche nel video di lancio della candidatura, Bill de Blasio è presentato come il “cambiamento” necessario per ritrovare l’unità tra i cittadini e, soprattutto, l’uguaglianza.

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L’arte contemporanea è sempre più Pop. Non si tratta, però, della “popular art” di Andy Warhol, Keith Haring o Jeff Koons, piuttosto della commistione tra creazione artistica e personaggi della scena musicale pop odierna che ultimamente fa molto discutere. L’apripista è stata la celebre artista di Belgrado, Marina Abramovic, che ha collaborato con Lady Gaga e Jay Z. Le due icone del pop hanno affiancato la regina delle performance per aiutarla a raggiungere i 600.000 dollari necessari a dare vita a New York al suo MAI, il Marina Abramovic Institute, un centro artistico che rivoluzionerà il modo del pubblico di approcciarsi all’arte.

Lady Gaga ha posato nuda per l’artista serba e ha messo in pratica per tre giorni il famoso metodo Abramovic, il personalissimo sistema di meditazione ideato dall’artista. Jay Z ha duettato con Marina per sei ore in una sala della Pace Gallery di Manhattan, ripetendo il brano “Picasso Baby” e cimentandosi in una sorta di coreografia con scambio costante di sguardi che ha persino suscitato la commozione degli astanti. Lo scopo della Abramovic è stato raggiunto, la sua raccolta fondi su Kickstarter ha totalizzato e superato il budget previsto e il nugolo di commenti è esploso. I critici e il pubblico comune si è diviso, infatti, tra entusiasti e detrattori, anche perché i risultati di queste collaborazioni, oltre a non essere ortodossi, spesso rasentano il limite del buon gusto.

 

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Ne è ulteriore esempio l’ultima produzione di Damien Hirst che col buon gusto non è andato mai troppo d’accordo. Lo troviamo stavolta in veste di direttore artistico di un progetto fotografico davvero particolare, portato a compimento da Mariano Vivanco: Rihanna, la dea della musica pop, è stata trasformata in una Medusa mitologica, erotica e a tratti spaventosa. I capelli sono serpenti, i denti zanne velenose, il corpo mozzafiato ricorda nelle forme le sinuosità dei rettili più ammalianti. Le immagini scattate sicuramente fanno scalpore, catturano l’attenzione, centrando l’obiettivo del magazine GQ che le ha commissionate per la sua ultima copertina. Il magazine britannico compie, infatti, 25 anni il 31 ottobre e allora quale migliore occasione per far parlare di sé che associarsi ad uno degli artisti più chiacchierati della scena contemporanea e a una delle cantanti più sexy del momento?

 

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I paragoni celebri sono subito venuti a galla. Il più azzardato è quello che associa l’immagine serpentesca di Rihanna, alla celebre Gorgone di Caravaggio. Poi ci sono i tableau vivant di Cindy Sherman, Adad Hanna o del maestro Luigi Ontani, che animano i quadri tradizionali con le tre dimensioni di veri corpi umani. Infine ci sono le modelle “zuccherose” dell’americano Will Cotton, anche loro ispirate a icone pop e al mondo della pubblicità.

 

adadhanna

 

Purtroppo per Damien Hirst, però, il suo progetto fotografico sembra animato da qualcosa di diverso rispetto a una ricerca creativa autentica. Sembra piuttosto emergere la necessità, effettivamente tipica della società contemporanea, di apparire, fare scalpore, e soprattutto farsi un bel po’ di fruttuosa pubblicità.

alinoviSeguo l’indicazione “Sala Conferenze”, scendo e vedo dietro la porta dalla vetrofania MAMbo una signora di mezza età che, completamente nuda, accarezza una sedia solitaria, in mezzo alla stanza come lei, facendo passetti di danza sbrinati; di fronte, pochi esseri umani, il pubblico, che se ne stanno vestiti di nero, stretti stretti come uccellini su un ramo quando fa freddo. Il silenzio. Solo, i miei tacchi che mi portano via.
Nella stessa giornata in cui Cattelan manda il duo I Soliti Idioti a ritirare un premio accademico assegnatogli per la sua carriera artistica, creando scontenti e malumori nell’ambito cattedrato, il concetto di arte mi ricorda quanto difficilmente sia riconducibile a un’ottica scientifica, a una evidenza.

Ci sediamo, con Gino Gianuizzi, a un caffè non distante dal museo, ma abbastanza distante perché ci riporti a un vissuto fatto di quotidianeità banale, un po’ così, che nulla ha a che vedere con l’arte. Ho chiesto a Gino di fare una chiacchierata con me sulla giornata di approfondimento degli studi di Francesca Alinovi, che si inaugurerà domani a Bologna, in occasione del 30ennale della scomparsa della ricercatrice del DAMS. E lui, che ai tempi di Neon>Campobase è stato il mio capo, con la sua costante gentilezza e disponibilità ha accettato.

Esordisco dicendo: “L’idea che avevo Gino, è di fare una chiacchierata di tipo informale su questa cosa. So che eri molto amico di Francesca Alinovi e vorrei incentrare il discorso su te e su come stai vivendo questo anniversario. ”

Al bar ci sediamo a un tavolino “intimo” nero con due sole sedie. Il bar è chiassoso, luminosissimo, vetrate a parete aprono scorci di strada, che gli fanno da quinta, mentre mi allontano per ordinare i nostri caffè. Dovrebbe ‘risvegliarci’ dal sogno dell’arte, e invece, per gente come noi, è solo un buon motivo per avvicinare le sedie e ripiombarci più convinti di prima.

 

G: Sono sempre un po’ imbarazzato nei bar, perché non so mai che cosa ordinare.

A: A cosa stavi lavorando prima che ti interrompessi?

G: Stavamo disponendo questi oggetti nelle teche… e beh…

A: Che effetto ti ha fatto mettere nelle teche i tuoi stessi oggetti?

G: Eh, ecco, vedi, io non sono mai stato tanto attento alla conservazione. Ho dovuto cercarli, letteralmente, a casa mia e nell’archivio di Neon.

A : Il mitico archivio…

G: Eh appunto… e mi ha fatto un certo effetto vederli mettere in una teca. Ma vedi lei, (Francesca Alinovi) aveva fatto in tempo a beccare questa meteora che era l’Enfatismo… e il materiale nelle teche parla di questo.

A: E’ stata tua l’idea di fare questa giornata di convegni?

G: Si, in occasione dell’anniversario, o meglio dei 30 anni, sono andato al MAMbo prima e poi all’Università. E hanno accettato tutti.

A:  La concomitanza con il premio Alinovi_Daolio?

G: No, li c’è stata l’influenza di Cattelan che ha dato a Barilli la dispoibilità per ritirare il premio solo in ottobre.

A: A proposito che cosa ne pensi di quello ha fatto Cattelan?

G: Mah, vedi, è stato un evento tristo, secondo me. Io non conoscevo i due comici, ma mi sono sembrati di bassa qualità. E sembrava si comportassero secondo un canovaccio prestabilito, per cui non c’è stato neppure un reale dialogo con chi era presente. Sapevano che Barilli si sarebbe infuriato e lui lo ha fatto.

A: Forse, la scelta è caduta sui due li, perché c’era l’intento di abbassare, per cosi dire, il livello pomposo del premio dato da una Università…

G: Non possiamo saperlo, può essere anche cosi, resta però da ricordare come “l’abbassamento” può essere fatto anche in chiave colta, e qui non è successo. Bassa qualità, che il riferimento alla ‘Nona Ora’ non alza.

A: Cosa ne avrebbe pensato Francesca Alinovi?

G: Mah è difficile dirlo, sono passati 30 anni, e per fortuna queste cose le sono state risparmiate…

A: Quando vi siete conosciuti?

G: Ci siamo conosciuti all’inaugurazione di Neon, era il luglio del 1981. Lei scrisse in proposito “non andavo cercando opere, ma ho trovato un clima”. Ecco, lei era percepita esattamente come noi, un’ artista tra artisti, non una critica (o una curatrice, che all’epoca non esisteva), per noi non c’era alcuna differenza tra noi e lei. Attorno alla sua figura si era creato questo clima di persone, che lei chiamò “Enfatismo”.

A: Da?

G: Enfatismo viene dagli Enfaticalisti, in Cenerentola a Parigi, di Audrey Hepburn. La protagonista parte per Parigi per “vivere” il clima che ruota intorno a questi artisti chiamati Enfaticalisti. Ecco quello il motivo, per Francesca tutto ruotava intorno all’”enfasi dell’essere”. Nelle teche vi è in mostra anno per anno il percorso della sua critica, dal 1976 al 1983, la sua tesi su C. Corsi, quella di dottorato su Manzoni, le varie collaborazioni. Ma ciò che stupisce è come, dopo aver cominciato i suoi viaggi a NYC, ci sia una grande apertura, verso la musica, ad esempio. Ecco, per lei non c’era una forma d’arte più nobile dell’altra, valutava tutto con un ampio spettro. E poi, ci sono materiali che abbiamo trovato ma che non hanno trovato spazio nelle teche. Sono i suoi studi … e questo è straordinario… perché è raro trovare quello che si nasconde sotto il mescolamento di un cervello, e invece in lei lo abbiamo ritrovato tutto: c’è Sartor Resartus per dirne uno… ritrovi tutto nei loro scritti. Aveva studiato molto, e questo la rendeva ancora più problematica.

A: Tu dici? Perché problematica?

G: Problematica da accettare nel 1980. Considera che all’epoca l’Università era ancora un ambiente chiuso, studi seri riservati a gente seria, non a gente con i capelli sparati in aria come lei. Invece lei era seria. Lavorava con serietà anche con noi che eravamo dei ragazzi, non ci trattava meno bene di come trattava gli artisti, né abbiamo mai avuto l’impressione che ci volesse vendere come una sua scoperta. Non io almeno. La sua era una partecipazione totale, un clima, come lo chiamava.

A: Aveva ritrovato in voi qualcosa di simile alla New York degli anni ’80?

G: Si. Lei si era accorta che stava succedendo qualcosa di simile qui, ma quegli anni erano diversi da oggi. E’ diverso da oggi, oggi che alla ricerca è prediletta la citazione. O la ricerca della citazione. New York era assolutamente un altro mondo, non era possibile sapere cosa succedeva. Era un viaggio poco accessibile. Ognuno di noi lavorava alla propria ricerca, metteva fuori il risultato e poi lo confrontava con gli altri. Era questo clima che ci faceva assomigliare a New York, oltre a, chiaramente, l’uso di alcuni materiali o tematiche che sembravano comparire anche in altri lavori americani. Ricordo che lei fece una recensione su Flash Art del luglio dello stesso anno, in cui parlava proprio di questa energia nuova della galleria, con le sue luci al neon sparate e il suo aperitivo…

A: Doveva essere ben l’immagine di una galleria d’arte allora…

G: Esatto era totalmente un’altra cosa. Noi eravamo li, quello che veniva fuori emergeva spontaneamente, non citavamo nessuno, era la nostra ricerca, e veniva fuori dallo stare insieme, a casa di qualcuno, o uscendo in gruppo.

A: E come hai trovato il clima oggi?

G: Come ti dicevo, Francesca beccò questa veloce meteora dell’Enfatismo, e questa si chiuse con la sua morte. Ne seguì una diaspora, ho avuto contatti con alcuni degli artisti, ma con altri niente.

A: E come vivi questo momento?

G: E’ strano. Nel senso che ritrovarci dopo 30 anni a mettere i nostri ricordi in fila… ma io sono contrario al clima del “Ti ricordi…..???” . Più che altro, volevo spezzare questa rimozione che da trent’anni avvolge la sua figura, di Francesca Alinovi infatti si parla solo per il fatto di cronaca, lei è il “Delitto del D.A.M.S.” e nulla si sa delle sue ricerche come critica d’arte.

A: Come sono stati scelti i relatori?

G:  Volevo fare una giornata studio di tipo scientifico. Quindi cercando di evitare tutte le forme di intervento non tali. Ho invitato persone che l’avevano conosciuta, per cui non è escluso del tutto il fattore affettivo. Per esempio ci sarà anche sua sorella, che per trent’anni ha allontanato tutti. E questo per me è molto bello.

A: Adesso poi che Ciancabilla sta tornando a frequentare, sembra, stabilmente l’ Italia… Leggevo dei suoi tentativi di fare un’ esposizione, ma che puntualmente sono abortiti, c’è chi parla di un’eminenza grigia… E’ per questo o perché i suoi lavori non convincono?

G: Ecco, Francesco (Ciancabilla) è un po’ “Ti ricordi come eravamo???”, non si è mosso da li. Voglio dire: se io prendessi un mio lavoro di trent’anni fa e lo mettessi fuori adesso…. Non avrebbe senso. Lui sembra voglia cavalcare il momento…

A: Posso scriverlo?

G: Si certo, infondo è questo quello cui va incontro. Anche se il serbatoio di una ricerca è sempre quello, questa fa strada e si evolve. Per esempio, tornando alle teche e al materiale, è questo il sentimento che ha fatto emergere in noi “Ci lavoriamo ancora!”, perché quel materiale ha riaperto tutte le nostre curiosità, e potrebbe interessare qualcun altro… almeno lo spero, spero che non sia un gioco fatto solo per noi perché ci piaceva.

Cosi, questa chiacchierata m’è parsa giungesse a una chiave di volta. E m’è parso che tutto ci potesse rientrare dentro come in un abbraccio. Come l’abbraccio che ci scambiamo ogni volta che ci vediamo con Gino, e come l’abbraccio quasi sulle strisce pedonali che ci siamo scambiati poco dopo. Lui tornando verso il MAMbo ed io qui a scrivere questa conversazione.

 

cabriniNella complessa geografia dell’arte, non mancano traiettorie che uniscono culture ed esperienze differenti, creando occasioni per realizzare, nella sua massima espressione, un dialogo realmente interculturale. Una di queste occasioni è il progetto che vede la collaborazione del Lucca Center of Contemporary Art e il Korean Artist Project di Soeul. Dopo la residenza degli artisti coreani Kim Jongku e Kim Seung Young presso il Lu.C.C.A, il dialogo continua con la residenza d’artista degli italiani Christian Balzano e Sandro Cabrini, il cui risultato è la mostra “Ask the Water” a cura di Maurizio Vanni e Jimin Lee, presso lo Youngeum Museum of Contemporary Art. L’occasione è stata propizia per un confronto con Sandro Cabrini, artista dallo stile fortemente evocativo.

 

A volte guardando le sue opere si può avere l’impressione che ricerchino lo status di stilemi, (non a caso una delle Sue personali recitava Archetipi dei sogni) intesi come elementi primari di un determinato linguaggio, attraverso il quale comunicare . Quanto è importante il concetto di comunicazione nell’arte secondo lei?
Il comunicare è essere. Voglio essere anche più preciso: l’arte, la pittura, la scultura, la videoarte, la musica e la poesia stessa esistono solo nel momento in cui comunicano. Solo allora svolgono la loro funzione di esistere. Il bello di questa situazione è che la comunicazione dell’opera è comunque condizionata da chi guarda o ascolta in modo decisivo, cioè condizionato dalla cultura della persona, dal suo stato d’animo, dal tempo. La stessa persona può guardare o ascoltare la stessa cosa più volte e sentirla sempre in modi differenti.

 

Sono stato colpito da alcuni titoli delle sue opere: la maggior parte delle opere che ho avuto modo di vedere della sua produzione si riferisce ad una delle possibili interpretazioni che le stesse suggeriscono (il caso di Danza o Parliamo); discorso differente è invece quello che si riferisce ad alcune delle sue installazioni esterne, mi riferisco alle diverse “Opera Monumentale” quasi si riferissero al significante più che al significato. Questa differenza è il frutto di una scelta premeditata?
Mi fanno sorridere spiegazioni complicate sull’origine di un’opera. Mi spiego meglio, un artista non può stare a fianco della sua opera e spiegarla a tutti quelli che guardano. L’opera una volta conclusa è abbandonata e allora si capirà se comunica, se dà emozioni e solo allora ha compiuto la sua missione. Io uso tantissimo i simboli sia nelle figure sia nei titoli che accompagnano la lettura, titoli che spesso sono banali se guardati con superficialità ma che diventano importanti in quanto fanno parte integrante dell’opera perché ne suggeriscono la semplicità: “non nascondo nulla”, “mi affido alle tue emozioni”, “sono una cosa semplice”. Un oggetto misterioso, un libro, una lettera, una casa, il mare, le nuvole, sono cose quotidiane spesso piene di emozioni e ricordi che non sempre ci fermiamo a considerare.

 

Nella sua opera assume particolare rilevanza l’aspetto cromatico: nelle sue più recenti produzioni il bianco è sempre più presente. Che significato assume per lei?
Anche i colori sono strumenti. Il bianco è uno spazio da riempire; è la purezza è luce, è la somma di tutti i colori. E’ in grado, secondo me, di dare spazio a chi guarda, di liberare la sua anima e le sue emozioni. Ben diverso è l’uso di cui faccio dei colori primari dove il gioco viene avanti in primo piano, dove il villaggio felice trova il suo essere gioia e dove tutti vivono condividendo colori e movimenti.

 

Lei è attualmente impegnato in una esposizione al museo di Youngeun Museum of Contemporary Art di Gwang-ju, in un progetto di scambio culturale italo-coreano. Può parlarci di quest’esperienza?
Da un anno sto seguendo ed esplorando il mondo orientale, e oltre alla lunga residenza in Corea ho già fatto diversi viaggi a Shanghai, Hong Kong e a Taipei dove sto portando avanti diversi progetti e spero di fare delle mostre nel 2014.
Un mondo quello orientale che fino a qualche anno fa mi faceva un po’ paura ora mi piace, mi ritrovo, ho stretto molte amicizie con artisti, curatori e gallerie vediamo cosa ne nasce.

 

Mi può elencare quali sono a suo parere un pregio ed un difetto dell’attuale sistema dell’arte internazionale? E per quanto riguarda il Sistema Paese Italia riferito al mondo dell’arte?
Il Sistema Arte in Italia e nel mondo è quello che è, non si può starne fuori anche se non sempre si condividono scelte o atteggiamenti. Il gallerista rimane a mio avviso, il garante dell’investimento che il collezionista o l’appassionato fanno in un’opera.
In quest’ultimo periodo però i galleristi tendono ad investire poco e lo fanno sempre sui soliti nomi, non rischiano cose nuove. Non parliamo poi di tutta una fascia di collezionisti che continuano ad investire cifre enormi su nomi buoni ma non eccezionali con il risultato di gonfiare quotazioni che prima o poi scoppieranno.

Londra è sempre stata all’avanguardia per quel che riguarda nuove tendenze, espressioni artistiche e movimenti culturali.
L’ultima trovata nella City è quella di un museo davvero particolare, la cui inaugurazione è prevista per la primavera del 2015. Si tratta del Music Hall of Fame, uno spazio che aprirà nel quartiere di Camden, nei locali dello Stables Market e che sarà un vero e proprio tempio della musica, dove verranno celebrati i grandi artisti del passato.
L’ideatore, Lee Bennett, ha annunciato che vi saranno esposte memorabilia di icone quali Freddy Mercury, Kurt Cobain, Jimi Hendrix, John Lennon e molti altri, colmando una vasta area, lungo la quale correrà una “walk of fame” di celebrità della musica.

Fin qui il progetto non si discosta effettivamente molto da un comune Hard Rock Café o da un banale Museo delle Cere, se non fosse che i visitatori potranno duettare con queste star, coronando il sogno di cantare a squarcia gola un “We are the champions” con i Queen o fare da coro a Cobain nella sua indimenticabile “Come as you are”. Le riprese dell’esibizione potranno poi essere acquistate in formato dvd per avere un ricordo di una tale incredibile esperienza.
Come immaginabile non si tratta di magia, ma di tecnologia 4D, che si basa sulla tecnica dell’ologramma, supporto fotografico tridimensionale che riproduce visivamente in tutto e per tutto l’oggetto, senza che abbia consistenza corporea.

Il project manager Bennett del Music Hall of Fame ha spiegato di aver preso spunto dall’impressionante performance di Snoop Dogg, Dr. Dre e Eminem che al Coachella Festival del 2012 si esibirono con l’ologramma del rapper Tupac Shakur, scomparso a Las Vegas nel 1996. Il risultato è stato davvero scioccante, perché il pubblico faceva fatica a distinguere l’ologramma dai cantanti in carne ed ossa. A realizzare questa proiezione è stata la Digital Domain Media Group, tra i cui fondatori vanta il regista James Cameron, attualmente impegnata a “riportare in vita” un altro grande del passato, Elvis Presley, attraverso una vera e propria animazione e non una semplice riproduzione di immagini di repertorio.

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Questa tecnica è in realtà meglio conosciuta tra gli esperti del settore come Fantasma di Pepper, dal nome di John Henri Pepper, l’ideatore che la sperimentò per la prima volta nell’Ottocento. L’ologramma si materializza grazie ad un effetto ottico creato attraverso un gioco di specchi non visibili allo spettatore e ha trovato già diversi impieghi nel campo dello spettacolo: pensiamo agli illusionisti, al teatro, al cinema, ma anche diversi musei hanno già esposto attrazioni che impiegano questo effetto speciale. L’avanzamento tecnologico ha contribuito però ad affinare l’immagine in alta definizione, con risultati davvero sorprendenti.

Anche altri artisti della scena musicale hanno fatto ricorso a questo stratagemma: Madonna ha così cantato in compagnia dei  Gorillaz ai Grammy Awards 2006 e al Rock The Bell Festival si è potuto invece rivedere sul palco Ol’Dirty Bastard, defunto fondatore del gruppo rap dei Wu-Tang Clan. 

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In Giappone però sono andati già oltre: qui la star dell’ologramma è Hatsune Miku, una cantante pop totalmente di fantasia, creata dalla Crypton Future Media. La voce di questa eroina è stata creata attraverso un software per la sintesi vocale che ha preso in prestito le tonalità della cantante Saki Fujita. Ad accompagnarla nei suoi concerti da tutto esaurito c’è una band in carne ed ossa e la diva in 3d non ha davvero nulla da invidiare alle carriere delle sue colleghe, con tanto di fan club, tour in giro per il paese e stuolo di ammiratori.

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omidyarÈ tutto un susseguirsi di “pare che” e “sembrerebbe”. La notizia della nascita di un nuovo portale di informazione basato sul giornalismo investigativo è ancora fumosa e avvolta nel mistero.
È solo di ieri, d’altra parte, la conferma ufficiale che due personaggi molto in vista del mondo del business e dell’informazione statunitense hanno deciso di unirsi per dare vita ad uno strumento potenzialmente pericoloso, di sicuro molto intrigante, che potrebbe costituire una svolta epocale nel modo di fare giornalismo. Eppure, qualche “soffiata” di approfondimento in materia è possibile riuscire a reperirla per saziare i primi morsi della curiosità, o alimentarli con interrogativi che si spera abbiano presto risposta. Vediamo insieme chi sono i protagonisti di questa avventura giornalistica e cosa hanno in mente di fare:

PIERRE OMIDYAR: imprenditore e filantropo americano di origini iraniano-francesi, è meglio conosciuto come il fondatore di eBay, grazie al quale è diventato milionario all’età di trent’anni. Di recente, si è dedicato al giornalismo investigativo e alla comunicazione fondando il giornale hawaiano, Honolulu Civil Beat. Quest’estate ha provato ad acquistare il Washington Post, ma poi ha lasciato l’onore e l’onere a Jeff Bezos, il creatore di Amazon. L’esperienza lo ha, però, stimolato e un’idea è balenata alla sua mente di benefattore milionario: investire in un canale di informazione totalmente nuovo, rivoluzionario, famoso prima ancora di nascere.

GLENN GREENWALD: giornalista, blogger, avvocato è – anzi era – una delle penne più chiacchierate del The Guardian. Il suo nome è stato illuminato dalle luci della ribalta nel momento in cui è scoppiato lo scottante Datagate. Si tratta di uno degli scandali più spinosi che hanno riguardato la NSA statunitense, opera di Edward Snowden. Questo giovane informatico, impiegato della CIA, nel maggio del 2013 ha rilasciato alla stampa britannica materiale top secret riguardante i programmi di sorveglianza di massa dei governi europei e americani. Snowden ha dichiarato di aver compiuto questo gesto perché non vuole vivere in un mondo in cui la privacy e la libertà dei cittadini sono seriamente compromesse e violate da quegli stessi governi che dovrebbero proteggerle. Le rivelazioni di Snowden sono passate attraverso gli articoli di Greenwald, che possiede ancora materiale inedito a riguardo.
Greenwald ha dichiarato ufficialmente di lasciare The Guardian per abbracciare il progetto di Omidyar. D’altra parte egli stesso, insieme alla collega documentarista Laura Poitras e all’esperto di sicurezza nazionale del The Nation, Jeremy Scahill, aveva maturato l’intenzione di creare uno spazio online dedicato al giornalismo indipendente.

IL NUOVO CANALE DI INFORMAZIONE: da quanto trapelato dalle prime informazioni, si tratterà di un canale interamente online che unirà i più dotati giornalisti indipendenti. Non avrà una linea politica, ma il suo scopo sarà far trapelare la verità. Una parola difficile e spesso spaventosa che, però, Gleenwald e Omidyar non hanno paura di associare al loro progetto. Il fondatore di eBay investirà inizialmente un budget di 250 milioni di dollari (l’offerta che aveva avanzato per acquistare il Washington Post). Per scrivere per il nuovo potente colosso investigativo è necessario essere giornalisti indipendenti, dalle forti opinioni, esperti nel proprio campo e con un buon seguito di lettori. Il punto di forza che sbaraglierà la concorrenza starà nel combinare il giornalismo tradizionale con le nuove frontiere del blogging e con le potenzialità infinite del mondo digitale. Tre ingredienti ne faranno uno strumento potente: validi editori e “investigatori”, il supporto tecnologico, un ottimo ufficio legale. Sebbene, infatti, il nuovo portale si occuperà di tutto – sport, economia, intrattenimento, nuove tecnologie – il suo “core business” sarà il giornalismo investigativo e non si esclude che il resto delle informazioni concesse da Snowden non possa costituire il primo tassello di questo nuovo canale di informazione. Tutto ciò non lo renderà uno strumento di nicchia, anzi, il proposito dei suoi ideatori è proprio quello di iniziare un tipo di giornalismo personalizzato, ispirato alle aziende della Silicon Valley che puntano e investono sullo studio dei gusti e delle esigenze dei consumatori e soprattutto sul loro engagement.

I dettagli sul progetto si interrompono più o meno qui, nello stesso punto in cui comincia la sfilza di interrogativi sul suo senso ultimo. I contorni per definire i “buoni” e i “cattivi” sono ancora troppo sfumati e non ci resta che stare a vedere.

“Tutte le opere realizzate all’interno, in studio, non saranno mai tanto belle quanto quelle realizzate all’esterno”. Con questa frase di Paul Cézanne si presenta il progetto Better Out Than In dell’ormai celeberrimo Banksy. Questo misterioso street artist di cui non si conosce l’identità sta invadendo per un mese la città di New York, trasformandola ogni giorno in una sorta di parco giochi artistico, di scatola delle sorprese, di scenario per una caccia al tesoro gigantesca alla scoperta della sua ultima trovata geniale.

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Inutile speculare sulla sua identità. Banksy potrebbe essere un uomo, una donna, un gruppo di artisti, un clochard, un ricco sfondato, un comune borghese, un’entità mistica e ineffabile. Di sicuro è l’eroe mascherato dell’arte contemporanea che prende in giro i potenti e il sistema comune, punisce i prepotenti, difende i deboli e gli emarginati, ruba ai ricchi per dare ai poveri. Il segno che lascia a firma inconfondibile del suo passaggio non è un taglio a forma di Z, né un paio di ali da pipistrello. Ma un’immagine, in genere uno stencil bicromo dal soggetto caustico, sovversivo, ironico, assolutamente accattivante. C’è il ragazzo che lancia fiori come fossero fumogeni, Topolino che cammina a braccetto con l’omino della Mac Donald e un bambino smagrito del Terzo Mondo, un ratto impegnato nelle attività più svariate. Sono queste alcune delle sue creazioni più famose e apprezzate.

 

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A New York, però, Banksy si sta davvero sbizzarrendo. Non solo stencil, ma anche performance, strane installazioni, apparizioni originali, corredate da altrettanto strambe audio guide, reperibili sul sito ufficiale il giorno dopo, o attraverso codici per gli smartphone incisi sui muri accanto. E così è comparso un camion pieno di animali di pezza urlanti, che si aggira per le strade dove hanno sede i mattatoi della città, come forma di protesta contro l’industria della carne.

 

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C’è un palloncino a forma di cuore, ricoperto da cerotti che, come spiega una voce deformata dall’elio, è la rappresentazione dell’animo umano che lotta tra ferite e raffiche di vento. Non mancano, poi, le scritte dal profondo substrato filosofico, ad esempio: “Ho una teoria secondo cui puoi far sembrare profonda qualsiasi frase semplicemente scrivendo il nome di un filosofo morto alla fine. Platone”. È stato avvistato anche un camion che dall’esterno sembra stia per esalare l’ultimo rombo soffocato di motore, ma che all’interno nasconde un giardino mobile da sogno.

 

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Una delle sue ultime invenzioni, però, quella che risale a sabato 12 ottobre, è stata davvero madornale. Un giorno come un altro, in quel di Central Park, un signore attempato, dall’aria comune e banale, si è messo a vendere stampe delle opere di Banksy a 60 dollari, contrattabili. Il suo incasso della giornata è stato di circa 420 dollari. Solo tre persone hanno acquistato: un giovane uomo che ha comprato 4 pezzi per arredare casa a 240 dollari, una donna neozelandese che ne ha voluti due, e una signora che ha optato per due quadretti di piccole dimensioni per i figli, alla metà del prezzo di vendita. Fin qui nulla da stupirsi, niente di strano o scioccante. Se non che, ieri, sul sito ufficiale del progetto newyorchese, Banksy ha dichiarato che le opere vendute erano originali, con tanto di firma e autentica. Tre milionari, quindi, contro le centinaia di persone che sono passate ieri davanti alla innocua bancarella allestita per 4 ore. State fermi sulle sedie, però, niente precipitosi acquisti di voli per New York nella speranza di diventare milionari al prezzo di 60 dollari (più spese). Banksy ha precisato, anche, che la fortunata svendita è stata solo per un giorno e non si ripeterà più… Forse.

 

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rushmovieSe non è il miglior film dell’anno, poco ci manca. È difficile non rimanere incantati ed emozionati di fronte all’ultima fatica cinematografica di Ron Howard, Rush, basato sulla leggendaria sfida tra i piloti di Formula 1 Niki Lauda (interpretato da Daniel Bruehl) e James Hunt (Chris Hemsworth). Gli incassi parlano da soli: 48 milioni di dollari guadagnati in tutto il mondo e 4 milioni di euro nella sola Italia. E il merito non è solo dei tantissimi appassionati di Formula 1 che hanno atteso con ansia per mesi l’uscita di Rush… Perché se è vero che il film ha avuto un grande successo in Paesi come Italia e Regno Unito, dove la tradizione dello sport a motori è molto forte, è anche vero che senza il tocco di Hollywood, questo lavoro sarebbe stato distribuito solo in poche decine di sale in diversi Paesi.

Per quanto gli americani abbiano il “brutto vizio” di romanzare ogni cosa, va riconosciuto al regista americano di essersi attenuto quanto più possibile alle cronache del tempo: la somiglianza degli attori con i personaggi originali è impressionante, la ricostruzione delle vetture usate dai piloti è fedelissima, così come la sequenza di eventi che ha caratterizzato il duello tra Lauda e Hunt, dalle prime scaramucce in Formula 3 (categoria minore degli sport motoristici a quattro ruote) fino alla famosa stagione 1976, massimo emblema della rivalità tra i due nemici – amici.

Rush è un film che ha la capacità di parlare a tutti, sia a chi non ha mai seguito una gara di Formula 1, sia a coloro che sono disposti ad alzarsi anche alle 4 di notte pur di seguire in diretta la gara in Australia. Nessun linguaggio complesso, nessun nome o episodio dato per scontato: la narrazione prosegue in modo lineare e chiaro, coinvolgendo al massimo lo spettatore e riportandolo indietro nel tempo. Ma occhio a definirlo semplice documentario… Perché, oltre ai momenti salienti della sfida Lauda – Hunt, l’attenzione viene posta anche sulle vite private estremamente diverse dei due protagonisti: da un lato abbiamo un Hunt che ama sfruttare la sua bellezza da dongiovanni per conquistare il cuore delle donne e che si abbandona spesso al fumo e all’alcool; dall’altro lato abbiamo un Lauda che è, invece, schivo, riflessivo, per niente amante della socialità e mondanità.

Un dualismo che si traduce, poi, anche sulla pista: all’Hunt aggressivo che provava a infilarsi in ogni spazio e desiderava correre anche in condizioni difficilissime, si contrappone un Lauda più “calcolatore”, scrupoloso, attento a ogni dettaglio, uno che pensava sempre alle conseguenze delle sue azioni prima di compierle e non aveva peli sulla lingua, anche a costo di sembrare antipatico agli altri. Gli opposti si attraggono e infatti tra i due piloti nacque una bellissima e sincera amicizia, come sottolineato soprattutto nelle battute finali del film, probabilmente la parte più bella e commovente.

Realtà e finzione si fondono in un tutt’uno, fino a diventare quasi indistinguibili. Per non parlare dei tanti piccoli indizi che Ron Howard ha disseminato nel corso del film per soddisfare l’entusiasmo degli appassionati più incalliti. Giusto un paio di esempi: l’inquadratura che si sofferma sul nome di Tom Pryce, pilota morto nel 1977 all’età di 27 anni nel corso del Gran Premio del Sud Africa, vittima di un incidente tanto orribile quanto sfortunato. O la dura critica di Lauda nei confronti del suo Team, la Ferrari, per averlo rimpiazzato con un altro pilota (Carlos Reutemann) subito dopo il terribile incidente che lo ha portato a un passo dalla morte nel Gran Premio di Germania del 1976, del quale lo stesso Lauda porta i segni ancora oggi.

Come evidenziato da molti, Rush fa emergere anche il ricordo di un’epoca, quella degli anni ’70 e ’80, che ha visto probabilmente i più grandi duelli di sempre nella storia della Formula 1. Non solo Lauda contro Hunt, ma anche Gilles Villeneuve contro Arnoux, Senna contro Prost. Ma anche in tempi più recenti, la Formula 1 ha saputo regalare delle sfide memorabili, come quelle tra Michael Schumacher e Mika Hakkinen. Stiamo parlando di grandissimi Campioni del passato, Uomini (volutamente con la “U” maiuscola) ancora prima che piloti. Persone che hanno sfidato la morte pur di seguire una passione personale molto forte. Piloti che si prendevano a sportellate, senza guardare in faccia a nessuno, pur di raggiungere il gradino più alto del podio.

Oggi, purtroppo, non ci resta granchè di questo spirito sportivo… Gli attuali piloti di Formula 1 corrono con tanta elettronica a bordo (cosa che, invece, mancava nelle auto dei Campioni del passato) e seguendo sempre la traiettoria ideale, quasi come se fossero su un binario. Basta uscire un po’ fuori da questa traiettoria e si rovina tutto. Gli azzardi sono pochi: paradossalmente, i piloti erano più spericolati 20 o 30 anni fa, quando le auto di Formula 1 erano pericolosissime e gli incidenti mortali erano tristemente numerosi, che non adesso. Soprattutto dopo la morte di Senna a Imola è iniziato un processo di rafforzamento delle misure di sicurezza che ha portato le auto di Formula 1 attuali a essere dei veri bunker ultra-sicuri. Ma questo pare non aver incoraggiato al massimo lo spirito agonistico della maggior parte dei piloti che corrono adesso.

Ecco, quindi, che Rush assume un nuovo significato, ovvero quello di aiutarci a ricordare le sfide del passato non tanto in chiave nostalgica, quanto per offrire un paragone genuino tra quelli che vengono considerati Campioni oggi e quelli che lo erano in passato. Una bellissima lezione di stile, valori sinceri (come il coraggio e l’amicizia) e umiltà che ci viene regalata da uno che, fino a non molto tempo fa, a stento sapeva cosa fosse la Formula 1. Non sorprende, quindi, che inizino già a circolare voci su un futuro film dedicato alla rivalità tra Senna e Prost. Di sicuro sarebbe un altro grandissimo successo!

 

Ai più di ottant’anni (l’età di una signora non si specifica mai) e sono le 4 del mattino. A quell’età due sono le possibilità: o sei già sveglio perché l’insonnia è ormai parte di te, o dormi profondamente come un bambino. Se stai ronfando come tutte le notti, lo squillare del telefono difficilmente riuscirà a svegliarti. Anche se a chiamare è nientepopodimenoche l’Accademia di Svezia. E anche se quello che vuole annunciarti è che… hai vinto il Premio Nobel per la Letteratura (insieme a circa 900mila euro)! È successo proprio questo, poche ore fa, alla scrittrice canadese Alice Munro, Nobel per la Letteratura 2013. Scopriamo insieme chi si cela dietro il sorriso aperto di questa donna dai capelli argentei.

VITA (e qualche spettegolezzo): Alice Munro si chiamava Alice Laidlaw prima di sposare James Munro, compagno di Università alla Western Ontario, lavorava in biblioteca e per arrotondare serviva ai tavoli come cameriera e raccoglieva tabacco. Eppure la passione per la letteratura fermentava in lei, tanto che il primo racconto, “The Dimensions of a Shadow”, lo scrisse a 19 anni. James non fu l’unico uomo della sua vita, però, e un altro compagno dei tempi dell’università fece breccia nel suo cuore, Gerald Fremlin, che condivise con lei gioie e dolori fino alla sua scomparsa, in una casa in Ontario che pare sia deliziosa quanto le villette degli Hobbit nella Terra di Mezzo di tolkeniana invenzione.

 

Alice-Munro-005

 

OPERE: dopo quel primo racconto, “The Dimensions of a Shadow”, la vena letteraria della Munro produsse senza sosta opere entrate nella storia della letteratura anglofona. A partire da La danza delle ombre felici (Dance of the Happy Shades) del 1968, per continuare con Chi ti credi di essere? (Who Do You Think You Are?) del 1995, passando per Nemico, amico, amante… (Hateship, Friendship, Courtship, Loveship, Marriage) del 2001, fino ad arrivare a La vista da Castle Rock (The View from Castle Rock) del 2006, la Munro ha suscitato il favore del pubblico e della critica, ottenendo premi prestigiosi e riconoscimenti internazionali. La chiave del suo successo sta nella semplicità complessa, nella capacità di raccontare con profonda intensità le vicende di uomini e donne comuni dell’Ontario, senza cadere mai nello stucchevole o nel banale. I suoi sono personaggi nei quali tutti possono rispecchiarsi e magari trovare quel senso di ambiguità, incertezza, instabilità che costella la vita di ciascuno di noi.

 

View from Castle Rock_1

LATI OSCURI: l’unica ombra nella carriera della Munro potrebbe essere il rimpianto di non aver mai scritto un vero e proprio romanzo. Il suo editore, Doug Gibson, ha raccontato che durante i loro primi incontri la scrittrice si sentiva terribilmente sottopressione proprio perché desiderava “diventare seria” e scrivere un romanzo. Fu lo stesso Gibson, però, a riconciliarla con la sua natura creativa: il suo punto di forza era proprio quello di essere una velocista e non una maratoneta. Da parte nostra possiamo dire che Gibson ci aveva visto benissimo, considerate le innumerevoli soddisfazioni che la scrittura di racconti ha riservato alla Munro nel corso degli anni, fino all’ambitissimo Nobel.

LA CITAZIONE: Il racconto non è una strada da seguire, è più una casa. Ci entri e ci rimani per un po’, andando avanti e indietro e sistemandoti dove ti pare, scoprendo come le camere e i corridoi sono in relazione tra loro, e come il mondo esterno viene alterato se lo si guarda da queste finestre. E tu, il visitatore, il lettore, sei cambiato, allo stesso modo, dal fatto di trovarti in questo spazio chiuso, che può essere ampio e semplice da percorrere, o pieno di svolte improvvise, scarno o sontuosamente decorato. Puoi tornarci tutte le volte che vuoi, ma la casa, la storia, conterrà sempre qualcosa in più di quello che ci hai trovato l’ultima volta.

 

Alice Munro ha risposto con deliziata sorpresa all’annuncio della vittoria del Nobel per la Letteratura, onore che ha definito “quite wonderful” e si augura che questo suo successo possa ridare meritato lustro all’intera letteratura canadese. Noi non passiamo che farle i più sentiti auguri e… tutto il resto è storia.
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