herNel futuro prossimo, in The Zero Theorem di Terry Gilliam la tecnologia intrappola una game-society disumanizzata, in Her, scritto e diretto da Spike Jonze, la tecnologia è invece friendly e così rassicurante da farci innamorare. Il protagonista del film di Jonze, ricorda molto quello di “I love you” (1986), del profetico Marco Ferreri: era un uomo realizzato e di successo, ma annoiato e demotivato, e a cambiargli la vita è la voce femminile e sensuale di un portachiavi.

In “Her”, la paura del confronto, delle emozioni, dell’amore che cambia negli anni e che può lasciare soli, induce Theodore (il bravissimo Joaquin Phoenix) a rifugiarsi nelle anonime chat per soddisfare pulsioni immediate, ma rimane insoddisfatto poiché non risolve il suo desiderio di condivisione.

E’ lo stesso Spike Jonze, nell’incontro di lunedì all’Auditorium, dove la pellicola è stata presentata nel corso del Festival Internazionale del Film di Roma, a dichiarare: “Credo che questo bisogno di intimità sia un bisogno di sempre… Il film aveva bisogno di intimità: quando abbiamo preso Scarlett cercavamo di catturare questo senso di intimità”. Così Theodore, il cui lavoro è scrivere lettere con grafia manuale per una clientela che non ha più tempo di farlo, a poco a poco riesce ad instaurare un rapporto sempre più intimo con una voce femminile senza corpo (Scarlett Johansson). Questa è Samantha, ovvero il suo nuovo sistema operativo avanzato, che riesce a elaborare quotidianamente emozioni e conversazioni con l’utente, organizzando così la sua vita, ma soprattutto prendendone parte.

In un mondo occidentale confortevole, supportato dalla migliore tecnologia, che consente più tempo libero per le relazioni, in realtà migliaia di persone vivono ogni giorno pigiate l’una con l’altra, ma sempre più sole: si limitano infatti a dialogare con uno smartphone o con un pc. Diventa facile per il protagonista, dopo un matrimonio fallito, innamorarsi di Samantha, superando così le difficoltà relazionali di un confronto con l’altro all’interno di un rapporto profondo e duraturo. Samantha è l’oggetto ideale di amore, quello classico di sempre, che coincide con una nostra proiezione. Funziona così bene da rendere superflua la corporeità.

Se agli amici sembra naturale che lui condivida le sue giornate e la sua vita sociale con Samantha, l’ex moglie mette invece a nudo la sua incapacità di relazione, di confronto con le esigenze e richieste reali di una donna-compagna. Lo stesso Jonze ha affermato: “Uno degli aspetti più impegnativi in una relazione è la capacità di essere autenticamente sinceri, di mettersi a nudo e di permettere alla persona amata di essere se stessa”. Alla domanda sulla provenienza di Samantha, Jonze ha risposto: “E’ anche lei nuova nel mondo. E’ nuova come un bambino. Ha un’intelligenza e rapidità di pensiero, ma ancora non ha paura e impara la paura.”

L’attesissima attrice presente sul red carpet capitolino, non compare mai nel film e rimane la curiosità di conoscere la voce italiana che sostituirà, nel doppiaggio, quella carezzevole e seduttiva di Scarlett, vera coprotagonista in “Her”.
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manettibrosSong’e Napule, l’ultima e divertente fatica dei fratelli Manetti, è presentato fuori concorso al Festival Internazionale del Film di Roma con un cast tutto italiano: Giampaolo Morelli, Alessandro Roja, Serena Rossi, Paolo Sassanelli, Carlo Buccirosso e Peppe Servillo. I due (Manetti) Bro. sorprendono con una commedia poliziesca ambientata a Napoli. Una storia festosa e noir dove Giampaolo Morelli, l’ex Ispettore Coliandro, interpreta il cantante neomelodico Lollo Love e canta dal vivo le musiche originali scritte da Pivio e Aldo De Scalzi e arrangiate dagli Avion Travel. I due registi Marco e Antonio Manetti debuttano con la regia di video musicali e approdano al cinema con alcune pellicole tra cui Piano 17, il thriller L’Arrivo di Wang e poi l’horror Paura 3D. Con Song’e Napule raccontano il fenomeno napoletano dei cantanti neo melodici, famosi nella loro città ma sconosciuti a livello nazionale. Senza presunzione girano una storia dalla linea comica e romantica, con un taglio che ricorda chi, per primo, ha raccontato la vera Napoli e cioè i registi Nanni Loy ed Ettore Scola.

Paco (Alessandro Roja), un pianista disoccupato, entra da raccomandato in polizia e viene chiamato dal Commissario Cammarota (Paolo Sassanelli) per una missione speciale. Deve infiltrarsi nel gruppo musicale di Lollo Love (Giampaolo Morelli) che suonerà al matrimonio della figlia (Serena Rossi) di un boss della camorra.

 

Intervista a Marco Manetti e Giampaolo Morelli

 

Il film Song’e Napule è stato fortemente voluto dal produttore Luciano Martino recentemente scomparso. Potete raccontarci come nasce l’idea del film?

Marco Manetti: “Nella nostra vita è entrato Luciano Martino, un bambino di 80 anni che ha insistito e ci ha martellato continuamente dicendoci: questo è il film che dovete fare. L’idea è di Giampaolo Morelli ma la sceneggiatura è stata scritta da Michelangelo La Neve con la nostra collaborazione. Siamo orgogliosi di aver girato il suo ultimo film; è più suo che nostro. Amiamo il cinema e ci vengono in mente delle storie. Da fuori sembriamo dei registi che fanno un percorso, un tragitto che vuole toccare diversi generi un po’ alla Soderbergh ma, in realtà, siamo aperti a tutto e pronti a fare qualsiasi film che ci piace.”

Giampaolo Morelli: “Mi piace il genere e poi vengo da un quartiere di Napoli che si chiama Arenella, tra il centro storico e il Vomero, e ho amici di tutte le classi sociali. Mi ha sempre incuriosito l’idea di mettere un napoletano borghese all’interno di un tessuto sociale completamente diverso, quello più popolare e dei cantanti neo-melodici che da Napoli in giù sono conosciutissimi. Un genere fatto anche di video clip assurdi, pieni di cuore, sentimento e arte. In realtà sono cantanti e musicisti molti talentuosi. Volevo raccontare la Napoli dei matrimoni infiniti che sembrano più dei sequestri di persona e volevo realizzare un altro sogno: portare i fratelli Manetti a Napoli. Solo loro potevano raccontare la Napoli come la vedevo io. Ogni angolo e vicolo di Napoli è un set. Loro potevano calarsi nel tessuto sociale e raccontarla così bene, da dentro.

 

Il film tratta il rapporto cantanti e camorra e alla loro presunta affiliazione. Immaginate che potranno esserci delle polemiche?

Marco Manetti: “Il film non vuole essere un’etichetta, ma una dichiarazione d’amore per Napoli e per la cultura popolare. La camorra è una realtà di Napoli così come il crimine è una realtà di tutte le città del mondo con nomi diversi. Il fatto è che i cantanti neo-melodici, per tradizione, vanno a cantare nelle feste di chi si può permettere di pagarli. Spesso, soprattutto in città difficili come Napoli, chi può permetterselo è legato al crimine e questo, nell’immaginario italiano, ha trasformato i cantanti in criminali. Questo è un falso mito, totalmente da sfatare. Sono dei cantanti che cantano nella loro realtà che è fatta anche di quello”.

Giampaolo Morelli: “Un altro motivo per cui volevo fare questo film è per sfatare il luogo comune dei cantanti legati e associati, necessariamente, alla Camorra. Ci sono tanti artisti bravi che vivono della loro arte e ci mettono tutta la passione e il sentimento possibile. Il problema è che può capitare che vadano ad esibirsi a dei matrimoni di persone affiliate con la camorra. A Napoli, fortunatamente, ci sono artisti onesti”.

 

Per quanto riguarda invece il connubio musica trash e genere neomelodico?

Marco Manetti: “E’ vero che ci sono due luoghi comuni sulla musica neo-melodica: l’affiliamento alla camorra e il trash che c’è, ma è una parte. Esiste, soprattutto, una musica napoletana di spessore molto alto con musicisti talentuosi. Spero proprio che il nostro film porti fuori e riveli un Sud che non è legato a nessuna di queste etichette, ma composto da gente che sa fare bella musica”.

Giampaolo Morelli: “Nel genere neomelodico ci sono professionisti seri, talentuosi e qualcuno che sì, è anche un po’ trash, ma comunque non si deve generalizzare”.

 

old film projector with dramatic lightingQualche decennio di esperienza professionale (consulenziale e giornalistica) ci consentono di “leggere” alcune dinamiche con sereno distacco, e forse con un discreto “valore aggiunto” critico, anche rispetto al “dietro le quinte”: come è noto, il 5 novembre scorso, si è tenuta presso il Centro Sperimentale di Cinematografia la “Conferenza Nazionale del Cinema”, fortemente voluta dal ministro Massimo Bray e dal direttore generale Nicola Borrelli (ne abbiamo già scritto con scetticismo su queste colonne); come annunciato, il 9 novembre, i risultati di quella giornata di lavoro sarebbero stati presentati al Ministro, durante un evento ad hoc del Festival del Cinema di Roma.

Da giornalisti, abbiamo atteso che il 9 novembre l’ufficio stampa del Ministero diramasse un comunicato. Il che curiosamente non è avvenuto, anche se l’ufficio stampa del Mibact è ormai discretamente famoso nell’ambiente giornalistico perché inonda le redazioni di comunicati sulle più variegate questioni riguardanti la ricca agenda del Ministro. Abbiamo osservato, con relativo stupore, domenica mattina, che la rassegna stampa dell’iniziativa è stata ridicola (articoletti soltanto su “Avvenire” e “Il Tempo” e “il Messaggero”), ma d’altronde non brilla oggettivamente per intelligenza (mediologica e politica) organizzare un incontro istituzionale durante un festival, dato che i riflettori giornalistici sono ovviamente concentrati sui film, sulle polemiche cinefile, e sulla scollatura dell’attricetta di turno. Peraltro, chi redige queste noterelle è schierato con coloro (non pochi) che ritengono errata “ab origine” l’idea di un festival romano nato con l’ambizione (presto fallita) di competere con quella che dovrebbe essere l’unica iniziativa festivaliera nazionale di respiro realmente internazionale (il Festival di Venezia), ma… questo è un altro discorso.

Quel che stupisce, e che qui vogliamo segnalare, è che non nella giornata di sabato, ma l’indomani, domenica mattina (forse resisi conto alcuni dei promotori della modestissima rassegna stampa?!), viene diramato un lunghissimo comunicato stampa sulla giornata conclusiva della Conferenza Nazionale del Cinema. Dal Mibact? No, dall’Anica (vedi la riproduzione del testo in calce: interessante esempio di velina da “captatio benevolantie”, con tono che trasuda piaggeria nei confronti delle istituzioni). Ovvero dalla maggiore associazione dei produttori cinematografici italiani, che pure tutti non li rappresenta, e che comunque incarna una soltanto delle anime del cinema (quella mercantile). Si tratta di stessa Anica che tanta parte ha avuto nella strutturazione della “Conferenza Nazionale del Cinema”, se è vero che due dei tre “tavoli di lavoro” del 5 novembre hanno visto come “rapporteur” rispettivamente una qualificata dirigente dell’associazione ed un qualificato consulente dell’Anica stessa. E ricordiamo che, qualche mese fa, furono Mibact ed Anica assieme a presentare un dossier pomposamente denominato “Tutti i numeri del cinema italiano”, che proponeva in verità un set di dati parziale, se non partigiano.

Da cittadini, prima che da ricercatori e giornalisti, ci domandiamo cosa succederebbe se il Ministero della Salute appaltasse ricerche e convegni – e finanche una… “Conferenza Nazionale della Salute” – all’associazione dei proprietari di ospedali privati: qualcuno – saggiamente – obietterebbe almeno sull’opportunità, e forse su una qualche contraddizione interna del rapporto tra “pubblico” e “privato”, e finanche su qualche rischio di conflitto di interessi (anche se viviamo in un Paese nel quale, in materia, sembra tutti o quasi digeriscano anche i sassi).

In Anica, ci sono sicuramente intelligenze interne di alta qualificazione (tra le migliori del Paese, riteniamo), ma forse le strategie cognitive e politiche del Ministero dovrebbero avvalersi anche di intelligenze più plurali, data l’estrema delicatezza della politica culturale in un Paese come l’Italia, e data anche la qualità del suo estremo policentrismo.

E non dimentichiamo che presso il Mibact esiste (sulla carta, ormai) un Osservatorio dello Spettacolo (istituito dalla cosiddetta “legge madre” del 1985, che creò il famigerato Fondo Unico per lo Spettacolo alias Fus), struttura che è stata via via depotenziata (e definanziata) nel corso degli anni, “subappaltando” a soggetti come la confindustriale Anica e la ecclesiale Fondazione Ente dello Spettacolo (per molte centinaia di migliaia di euro l’anno) segmenti di quello che dovrebbe essere un “sistema informativo” centrale del Ministero, e soprattutto l’analisi critica del settore e delle sue potenziali strategie di sviluppo.

Attendiamo di leggere i lavori ed i risultati della Conferenza Nazionale del Cinema, non appena il Ministero li renderà pubblici (il che, ad oggi, non è). Ci auguriamo di non dover andare a cercare gli atti della Conferenza sul sito web dell’Anica…

Per ora, dalla rassegna stampa (e da quel che ci ha raccontato qualcuno dei partecipanti alla kermesse), emerge un gran bel concetto, non riusciamo a comprendere (un nostro limite, certamente) quanto innovativo e rivoluzionario: il Ministro Bray ha sostenuto che l’intervento pubblico dello Stato a favore della cinematografia deve passare da uno stadio soltanto “dativo” ad uno stadio “interattivo”. Potenza degli slogan!

Post scriptum.

Ecco il comunicato stampa diramato dal Mibact a fine mattinata di sabato 9 novembre:

Il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, Massimo Bray, sarà lunedì 11 novembre in Sicilia, a Racalmuto, per la presentazione del progetto “La strada degli scrittori”. Un itinerario turistico – culturale legato a tre grandi autori siciliani: Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. Dopo la presentazione il Ministro percorrerà con un breve tour i luoghi amati dagli scrittori: a partire da Racalmuto per arrivare a Porto Empedocle attraverso la Valle dei Templi di Agrigento, visitando le case natali, le statue, i teatri, paesaggi amati dai maestri della narrativa.

 

Ecco il testo del comunicato stampa diramato dall’Anica nella prima mattinata di domenica 10 novembre 2013:

 

Conferenza nazionale del cinema.
Bray: il comparto che si unisce crea positività e insieme si possono superare gli ostacoli
Tozzi: Bray sia il referente istituzionale della nuova Governance

Si è tenuta il 9 novembre presso il Teatro Studio dell’Auditorium Parco della Musica la seconda fase della Conferenza nazionale del Cinema convocata dal Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo Massimo Bray. Nel corso dell’incontro pubblico sono state esposte le relazioni di sintesi dei tre tavoli di discussione che avevano caratterizzato la prima fase della Conferenza nazionale. Organizzati presso il Centro Sperimentale di Cinematografia, i tre tavoli avevano analizzato temi di rilevanza per il settore quali il mercato nazionale, i modelli di distribuzione e le politiche pubbliche.

Condotta dal Direttore Generale per il Cinema Nicola Borrelli, in un clima di positiva collaborazione tra gli esponenti della politica e quelli della filiera cinematografica presenti, la conferenza ha fornito un quadro lucido della situazione attuale analizzando le criticità che attanagliano il settore e prospettando delle soluzioni ai problemi, da realizzare sotto l’egida di una nuova Governance di settore, ben definita, che tuteli tutte le parti in gioco.

Il Ministro Bray ha espresso consapevolezza per la complessità del settore e per le sue problematicità ma ha dichiarato la volontà di superare gli ostacoli attraverso questi tavoli di lavoro e di confronto (“da non abbandonare mai”), simbolo di un nuovo sistema più ricettivo alle richieste del settore culturale.

L’unione di intenti tra istituzioni e industria ha fatto sì che il Presidente Anica Riccardo Tozzi proponesse pubblicamente il Ministro Bray come riferimento istituzionale di questa Governance e come portavoce di questa collaborazione a tutela dei diritti dei consumatori e di quelli dell’industria.

L’analisi.

Il sistema industriale audiovisivo e gli assetti del mercato in Italia ruotano attorno alle televisioni. La quasi totalità delle risorse però è a vantaggio di un numero ristretto di tv generaliste e di un duopolio editoriale. Il risultato è che tutto il potere assegnato a sole due imprese ha creato uno squilibrio tra produttori di contenuto e distributori, influendo negativamente sul prodotto. La chiusura del mercato distributivo non poteva che omogeneizzare il prodotto, che si è ormai etichettato e customizzato secondo uno schema rigido che prevede produzioni sicure per un target di pubblico di massa. Nessuna serialità con respiro internazionale, una produzione chiusa, un mercato chiuso con pochissime possibilità per la produzione indipendente.

Uno dei primi obiettivi di questa Governance sarebbe di diminuire il numero di tv generaliste, di aumentare e di rinnovare le linee editoriali e, soprattutto, di rendere obbligatori gli investimenti e la programmazione di prodotti provenienti da produzioni indipendenti.

Questa Governance deve essere centrale, statale, ed avere una visione totale della produzione dell’audiovisivo nazionale, ovvero lavorare a contatto con le regioni e con le film Commission, coordinandole e assegnando loro ruoli definiti e precisi ma non delegando gli oneri.

Nel contesto del mercato, il primo tema analizzato è stato quello relativo all’esercizio, con un grido d’allarme per la chiusura di un numero sempre maggiore di monosale cittadine, penalizzate da una pressione fiscale sempre in aumento, dalla impossibilità alla multiprogrammazione e dai costi per la digitalizzazione. In generale, tutto l’esercizio ha lamentato il problema fiscale e, soprattutto, il fenomeno sempre più crescente della pirateria.

A questo proposito è intervenuto Francesco Posteraro dell’Agcom, che ha confermato l’arrivo a breve termine di una regolamentazione precisa e più rigida sulla pirateria digitale, crimine da combattere prima che distrugga la produzione, ovvero un regolamento per la “protezione dei contenuti contro la predazione degli stessi”. L’attività di repressione non sarà quella di un controllo poliziesco della rete ma, su richiesta della parte lesa, si andrà a colpire i siti e i provider coinvolti nella diffusione illecita di materiale protetto da diritto d’autore.

Altro tema fondamentale è stato l’aggiornamento degli strumenti di implementazione delle risorse. Tutti gli strumenti, dal fus al credito d’imposta passando per i contributi agli incassi, al sostegno alle produzioni ritenute di interesse culturale o di autori di opere prime, vanno analizzati e ricalibrati. Inoltre si potrebbero ripristinare alcuni vecchi contributi ormai in disuso, purché aggiornati, e prendere in prestito dall’estero i modelli di contributo più più vincenti come il crowfunding, le lotterie e i gruppi di investitori per pacchetti di film.

 

 

Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult

 

 

In principio era “Life in a day”. Un progetto monumentale, portato avanti da Youtube, prodotto da Ridley Scott e girato da Kevin Macdonald, premio Oscar per il miglior documentario nel 2010. Nell’arco di 24 ore, dalle 00:11 alle 23.59 del 24 luglio 2010, tutto il mondo è stato chiamato a filmare una porzione della propria vita. Le indicazioni date agli utenti dal regista erano semplici. Chiedeva di dare una sorta di uniformità al progetto cercando di filmare dei momenti che rispondessero principalmente a tre domande: qual è la vostra paura più grande di oggi? Che cosa amate? Che cosa vi fa ridere?

life_in_a_day

Il risultato sono stati 4500 ore di riprese, provenienti da 180 nazioni, che la bravura del regista è riuscito a condensare in un lungometraggio di circa 95 minuti, tuttora visibile sul canale Youtube del progetto, e la vittoria di alcuni premi cinematografici internazionali quali il Sundance Film Festival, il Krakow Film Festival e il Cinematic Vision Award di Discovery Channel, oltre che la presentazione al Festival Internazionale del Cinema di Berlino.

 

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sacgrA poche settimane dalla chiusura della 70ma edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, mentre c’è chi ancora discute sulla novità, divenuta un vero e proprio casus nazionale, della vittoria di un documentario, emerge con una certa chiarezza un nuovo orientamento del cinema verso la marginalità del tessuto urbano.
Sembra infatti che il cinema, indipendentemente dalla sua geografia e dai suoi territori di provenienza, si stia orientando verso una rappresentazione delle periferie e del conflitto, non condotto da una classe sociale specifica, ma da singoli individui e a partire da questioni personali.

È quello che appare in film come Locke (Inghilterra), Stray Dogs (Cina) o Tom à la ferme (Canada). Ed è tanto più interessante se, a dimostrarlo, sono anche due dei film italiani in concorso. Di là dal diverso genere, Sacro GRA di Gianfranco Rosi (un documentario) e L’Intrepido di Gianni Amelio (una commedia amara) offrono uno sguardo finalmente lontano dal cliché della città-panorama, con una visione più realistica di Milano e Roma, non a caso le città italiane più grandi e quelle con una periferia più estesa.

La Milano di Amelio, attraversata da un’umanità precaria, vede il protagonista del film Antonio Pane (interpretato da Antonio Albanese) vivere il buio lavorativo e umano della crisi economica. La grande città non è più un luogo di sogni e di speranze, come già d’altro canto il cinema militante degli anni ’70 aveva lasciato intuire, ma un insieme di spazi aperti e conflittuali, in cui non c’è più posto per rincorrere i miti consumistici del guadagno e del successo perseguiti dalla mitologia della Milano da bere degli anni ’80.
L’intrepido trova la propria collocazione specifica nella città dei cantieri della zona Garibaldi e nelle zone nord della Ghisolfa e della Bovisa, non a caso i luoghi dove Testori e Bianciardi avevano ambientato le vicende dei protagonisti dei loro romanzi. Quelli attraversati da Amelio sono spazi di spaesamento che, mimeticamente, fanno da eco alla dimensione di vuoto esistenziale e di ricerca della sussistenza da parte dei personaggi.
La vicenda è quella di un onesto lavoratore dai mille mestieri, ingaggiato da un’organizzazione paracriminale allo scopo di fare “rimpiazzi”, di sostituire cioè quei lavoratori salariati che prendono un congedo per un giorno o addirittura solo per alcune ore. In questo eccesso di zelo per il lavoro, divenuto un vero e proprio miraggio per il quale si è pronti a tutto, non c’è più spazio né per l’immaginario del centro storico, tanto caro all’urbis italiana, né per i luoghi dello shopping o del consumo tardo-capitalista.

Gli spazi colonizzati dall’umanità che popola il film di Amelio, come anche quella protagonista del documentario di Gianfranco Rosi, sono cantieri, cavalcavia, svincoli a ridosso di arterie stradali, luoghi di percorrenza trafficati e rumorosissimi. Ed è proprio il rumore a martellare la trama sonora di Sacro GRA, il film sul grande raccordo anulare e discusso vincitore del Leone d’Oro.
Come un anello di Saturno, recitano i titoli di testa, il GRA circonda Roma e segna una frattura geografica tra i colli e la città, tra la periferia e la campagna o, più idealmente, tra il mito della fondazione dell’Urbe e la sua permanenza nella memoria contemporanea. Il GRA, Sacro come il Graal in un gioco di parole voluto, è una minaccia e una dannazione per chi ne fruisce: fagocitante e ostile, viene connotato sin dalle prime inquadrature, in cui un’ambulanza soccorre la vittima di un incidente, come luogo di pericoli e di solitudine e diventa in questo senso la metafora del cittadino metropolitano, unito artificialmente agli altri in una rotta comune segnata dall’attraversamento dello stesso non-luogo, ma isolato nel suo dirigersi verso destinazioni tutte diverse, incurante del percorso degli altri. Ai suoi bordi sopravvive un’umanità residuale, gregaria.
Un uomo cura le palme dal punteruolo rosso, due transessuali vivono su una roulotte, un pescatore intesse le reti per praticare il suo antico mestiere nei canali del Tevere, due ragazze fanno le ballerine in un locale notturno per il piacere dei giovani di periferia, alcune prostitute si accalcano davanti ad un camioncino ambulante per consumare un panino nella notte.
Sono i piccoli eroi a cui il film vuole dare dignità. I loro luoghi sono case cadenti, edifici percossi senza sosta dal rumore, vecchie dimore romane ridotte a isole in mezzo al traffico e al cui interno i nobili proprietari ripropongono a se stessi l’autocelebrazione delle proprie ricchezze.
Quella descritta è dunque un’umanità desolata, eppure attaccata al proprio microcosmo e, proprio per questo, emblematica nella sua resistenza. In una casa popolare spiata dalla macchina da presa attraverso le finestre aperte, l’occhio di Rosi fa intravedere spiragli di una quotidianità povera, eppure costellata da piccoli eventi formidabili come osservare il panorama dalla finestra, o affettare una melanzana marcia per recuperarne i pezzi intatti con lo stupore di chi assiste a un miracolo. Ed è proprio la dimensione miracolistica, vicina al realismo magico di Miracolo a Milano, ad essere recuperata da questo nuovo cinema urbano, al cui centro c’è un’umanità che resiste nella sua umiltà e che cerca di guadagnare la propria sopravvivenza, come le palme contro le aggressioni del punteruolo rosso.

I centri, di Roma come anche di Milano, invece, rimangono ai margini dell’inquadratura, lontani e inarrivabili. In questa disgregazione dell’unità urbana come concetto e come spazio, la collocazione della macchina da presa extra moenia, in quei luoghi altri e ritenuti poco interessanti dal cinema postmoderno, segna un ritorno dello sguardo cinematografico al realismo. Là dove il sogno della città è stato tradito e i suoi frammenti non sono più ricomponibili in un quadro organico, le periferie sembrano essere quei luoghi di resistenza dove si fa spazio la ricerca di un’identità e di un significato nuovi.

 

stillifeStill life – E’ ancora vita

John May è un piccolo impiegato comunale che si occupa di dare una degna sepoltura alle persone morte in solitudine.
Si tratta di casi irrisolti che spesso si concludono con cerimonie funebri alle quali il protagonista del film è l’unico spettatore, non essendo riuscito a trovare i parenti dei defunti. Nell’impegno tenace e devoto di dare dignità alla morte, John diviene così il custode dell’ultimo saluto alle persone scomparse.
I tagli alla spesa pubblica decisi dal Comune, chiedono tuttavia una maggiore efficienza e rapidità nel trattamento dei casi e John perde il posto di lavoro. La sua ultima volontà sarà però di seguire il caso Stoke, la vicenda di un anziano ubriaco, un suo sconosciuto vicino di casa, ritrovato a più di un mese dalla morte e rimasto, apparentemente, senza cari.
Still life, di Umberto Pasolini, affronta il tema della morte non a partire dal mondo dei vivi, quanto da quello dei defunti, bisognosi di essere perdonati per i loro errori e di essere salvati dalla dimenticanza eterna. Come un angelo custode delle loro memorie, John raccoglie in un album di fotografie, un piccolo cimitero domestico di memorie familiari, le immagini di queste persone scomparse. Alter ego nella propria solitudine dei suoi stessi “clienti”, John costruisce il catalogo dei propri affetti, dedicando a ciascun caso l’umanità e l’attenzione che ai defunti sono mancate in vita e in morte.
Still life, mai troppo serio e mai troppo grave, pur nella profondità del tema trattato, custodisce con equilibrio il messaggio universale della solitudine e vi pone rimedio con un messaggio toccante, ma non semplice, senza cadere nel patetismo. Il film invita a riflettere sulla morte, soprattutto in una società come la nostra che, temendola e relegandola ai margini del suo discorso, finisce per condannare alla dimenticanza chi scompare.

 

Moebius – Troppo rumore per nulla

moebius

Una famiglia contrastata dalla gelosia, un marito che tradisce la moglie, un figlio vittima delle frustrazioni della madre. Al centro, il sesso come metafora dell’esistenza e come moneta di scambio per guadagnarsi un’identità sociale.
L’ultimo lavoro di Kim Ki Duk, presentato fuori concorso dopo il trionfo del Leone d’Oro l’anno scorso con Pieta, presenta i temi, anzi, le ossessioni care al regista, spingendole questa volta oltre ogni confine del rappresentabile.
Moebius è conturbante, psicotico, oscuro, governato da una violenza istintuale e senza parole. Muto, come muti sono i suoi personaggi, il film rinuncia ai dialoghi per i 90 minuti della sua durata. E porta sull’asse dell’incomunicabilità i rapporti umani, senza alcuna possibilità di redenzione.
Se la dimensione domestica e familiare del film ricorda i precedenti lavori del regista, con un repertorio di citazioni soprattutto a Ferro 3 – La casa vuota, questa volta, però, non c’è più spazio per i sentimenti, che invece avevano configurato una possibilità di riscatto per i personaggi delle pellicole precedenti.
Moebius è, al contrario, uno shock visivo violentissimo, non privo di momenti fortemente perturbanti, ai limiti dell’osceno. La censura in Corea lo lasciava presagire.
La visione in sala, sradica ogni dubbio. L’incesto, il senso del tragico, la castrazione: Moebius è un accumulo eccessivo di paradigmi teorici e filosofici che sembra portare ad uno sfinimento senza tregua.
La domanda che ci si pone, alla fine sembra slittare sulla liceità e sulla sincerità delle domande che alimentano la trama del film. E ci si chiede se la ricerca di Kim Ki Duk sull’irrappresentabile reso possibile dalla violenza delle immagini non sia, questa volta, solo un compiacimento fine a sé stesso e un facile gancio per una produzione che lasci parlare di sé. Quello che rimane non è nemmeno l’intento catartico, in un certo senso ricercato, come nella tradizione della tragedia greca con una sorta di invocazione agli dei ad inizio e a fine film. Di sicuro, prevale lo sconcerto.

 

0teThe zero theorem – Terry Gilliam alla prova contro Terry Gilliam

In un futuro non ben precisato, che potrebbe collocarsi cinematograficamente più in un “ieri” fantascientifico che in un vero e proprio domani, un eccentrico e solitario genio del computer (un Christoph Waltz che supera per l’ennesima volta in modo eccellente la prova del personaggio) lavora come cervellone informatico per una multinazionale che produce dati allo scopo di provare l’insensatezza della natura umana e del cosmo.
The Zero Theorem è un film propriamente di Terry Gilliam, nei temi, nelle ambientazioni, nella tessitura fantascientifica. In una prima istanza, addirittura ripetitivo e citazionista. Per certi versi, infatti il film ricorda sia Brazil (1984), sia, in modo più generale, le produzioni di fantascienza anni ’90, con una rappresentazione del futuro governata da una trama cromatica, da costumi e tecnologie estremamente pop, quasi kitsch. Il modello viene però presto superato e il film che sembrava fuori tempo massimo, quasi vintage, parla più che mai degli interrogativi del contemporaneo. Partendo, quasi come un manuale, da un postmodernismo à la Jameson, fatto di citazioni, rielaborazioni e svuotamenti di senso, il film supera le premesse di base e porta il discorso dalle riflessioni sulla virtualità, sulla logica capitalista e sulla vita come gioco, ad una riflessione sull’esistenza umana e sul nulla.
In un eccesso di segni e di indizi, in un gioco a perdersi, The Zero Theorem, come l’impresa impossibile del suo protagonista, cerca di perforare e trovare una soluzione al senso di spaesamento e di caos dell’uomo contemporaneo. Dietro la superficie delle icone pop e degli ammiccamenti orgiastici che attraversano la trama del film, su tutte il crocifisso acefalo sormontato da una telecamera, la sostanza contro cui Gilliam si scontra è una grande domanda cosmologica.
Questa volta, però, senza più i giochi né la complicità con lo spettatore, senza più sconfinamenti e contaminazioni tra territori cinematografici propri del cinema precedente. Se l’edificio postmoderno era il tempio delle memorie passate svuotate di senso, ma ricostruite su una superficie luccicante, in The Zero Theorem questo edificio è crollato, e si è tramutato nella chiesa sconsacrata e cadente in cui vive il protagonista. Oltre la sua patina pop, governata da una nostalgia per gli splendori del passato, si estende il buco nero della galassia. Una favola, o meglio, un gioco macabro con un finale per nulla pacificante.

 

La moglie del poliziotto (Philip Groing, 2013), Miss Violence (Alexandros Avranas, Grecia, 2013), Medeas (Andrea Palladoro, USA, 2013).
Più che tre film, un trittico, senza saperlo. In comune, gli stessi temi: la famiglia, il sesso, la violenza.

mogliepoliLa Mostra del Cinema di Venezia dà spazio a produzioni europee indipendenti, che sembrano riflettere in sintonia, pur nella diversità delle geografie nazionali e delle geopolitiche.
Tutti e tre i film, uno tedesco, uno greco, l’altro di un italiano ormai trasferito negli Stati Uniti, affrontano le dinamiche distorte della relazione violenta tra mariti e mogli e delle ritorsioni sui figli, squadernando un quadro psicologico perturbante.
La moglie del poliziotto, del tedesco Groning, mette in scena attraverso sessanta episodi, la quotidianità di una famiglia apparentemente comune, dove il padre è un poliziotto e la madre si occupa della bambina.  Apparentemente comuni sono anche le vicende della famiglia greca di Angeliki, in Miss Violence, la ragazza che si suicida gettandosi al balcone il giorno del suo undicesimo compleanno, non lasciando alcuna traccia di sconcerto tra i familiari; e quella della famiglia di Ennis, l’allevatore di mucche protagonista di Medeas, che vive con la moglie sordomuta e i figli in una zona rurale dell’America profonda.

missviolence

Anche se attraverso tre stili diversi, ciascun film interpreta la relazione psicologica dei personaggi e il loro rapporto con l’ambiente.

La moglie del poliziotto e Miss Violence, in particolar modo, trovano una collocazione specifica negli interni domestici, soprattutto il secondo film, dove la dimensione esterna è quasi esclusa dalla pellicola. In entrambe i film, vicini per un’escalation di violenze che man mano si rendono sempre più evidenti, i personaggi, in particolar modo quelli femminili, sono relegati in una prigione fisica e psicologica, costituita, appunto, dalle pareti domestiche.
Al contrario, Medeas fa del paesaggio rurale la possibilità di una fuga dalle dinamiche frustranti della famiglia, ma non consente un riscatto: perdersi nel paesaggio è, per i personaggi del film, una parentesi mai definitiva, che riporta sempre all’ovile domestico.

Altro elemento comune è, nella rappresentazione del nucleo familiare, il ricorso alla foto ricordo. In tutti e tre i film, infatti, il quadretto domestico, con tutti i componenti pronti ad essere immortalati, denuncia la finzione e l’artificiosità della posa e, per antitesi, smaschera i rapporti problematici.

medeas

I primi due film, in particolare, intessono un discorso sulla violenza operata sul femminile. In entrambi, le famiglie protagoniste presentano una dominante numerica femminile, schiacciata però dall’esercizio del potere maschile. nelle famiglie. Così, quando la famiglia del poliziotto, di fronte alla macchina da presa, compone un trittico felice ed emblematico e canta una canzoncina, mette in atto una finzione scenica. Allo stesso modo il pater familias che abbraccia le figlie o la moglie, nelle foto ricordo degli altri due film, è di per sé l’esibizione di una felicità non vera e di un trauma celato.
La presenza perturbante del non detto, poco a poco svelata in un crescendo di tensione in tutti e tre i film, si maschera infatti dietro questi edifici simbolici. È la macchina da presa, al contrario, a puntare lo sguardo su dettagli che rivelano una trama di indizi sempre più sconcertanti.

Medeas è invece diverso: il regista Andrea Pallaoro sembra aver assorbito una visione meno freudiana e rinuncia all’esibizione della violenza lasciando alla fuga nel paesaggio la possibilità di costituire un riscatto, anche se temporaneo.
Gli europei Groning e Avranas, invece, prediligono una rappresentazione traumatica, per l’appunto come se fosse in debito con la psicanalisi, in cui allo spettatore non è data alcuna possibilità di censura, se non quella di distogliere lo sguardo.

Legati con un fil rouge per nulla scontato alla cronaca nera che con cadenza ormai quotidiana ci presenta casi di femminicidi o di violenze domestiche, i tre film costringono il pubblico ad una riflessione forzata e doverosa e lasciano sperare in un ritorno del cinema ad un realismo del quotidiano e dei suoi lati più occulti.
Venezia 70, in un quadro di coerenza e di continuità tra i film in programma, sembra seguire questa tendenza.

filmfundCome è noto, Nicola Zingaretti è stato eletto nel febbraio del 2013 Presidente della Regione Lazio con 1 milione 330mila voti (41 %). Il 12 marzo è stato proclamato Presidente, ed il 22 marzo ha presentato alla stampa la nuova Giunta. Lidia Ravera ha accettato l’incarico di Assessore alla Cultura ed allo Sport e, ad inizio giugno, ha convocato una riunione in Regione, per ascoltare le tante voci del cinema e dell’audiovisivo (ne abbiamo scritto con dovizia di dettagli su queste colonne). Sono trascorsi 4 mesi dall’insediamento, è ora per alcuni primi provvisori bilanci. In materia di cinema e audiovisivo, cosa bollisse realmente in pentola non era di pubblico dominio, almeno fino a qualche giorno fa.
Lunedì scorso, 15 luglio, arriva un segnale ufficiale: in occasione di un incontro promosso dal Pd nell’ambito della Festa nazionale de l’Unità, intitolato “Cinema e audiovisivo. La forza del Made in Italy”, Ravera si disvela ed annuncia a chiare lettere che intende scardinare la legge sul cinema promossa da Polverini e Santini, e che non intende avviare le procedure per la costituzione del Centro Regionale per il Cinema e l’Audiovisivo, da lei definita “struttura burocratica inutile che sarebbe costata due milioni di euro l’anno”.

La legge sul cinema e l’audiovisivo cui si riferisce l’Assessora, promossa dalla sua predecessora Fabiana Santini (Giunta Polverini), è stata frutto di una lunghissima gestazione, nella quale, nel bene e nel male, sono state coinvolte tutte o quasi le associazioni rappresentative del settore: dai produttori potenti dell’Anica agli autori effervescenti dei 100autori. Insomma, grandi e piccoli, “majors” ed “indies”.
Si è trattato di una legge che ha visto il plauso di apprezzati produttori come Riccardo Tozzi e Angelo Barbagallo (certamente non sospettabili di simpatie destrorse). La legge è stata approvata il 14 marzo del 2012, con 36 voti favorevoli, 5 contrari e 3 astenuti. In occasione del voto finale, l’ex Assessora (Giunta Marrazzo) ed esponente dell’Italia dei Valori Giulia Rodano (leader dell’opposizione in Consiglio Regionale durante la Giunta Polverini) dichiarò: “Questa legge quadro, annunciata da mesi in pompa magna dalla Giunta, non avrà alcun capitolo di spesa corrente nel bilancio regionale: siamo di fronte ad un assurdo politico e giuridico.

I 45 milioni di euro di cui parla la Giunta sono stati stanziati solo in conto capitale: non sono spendibili per contributi”. Si osservi come la Rodano ponesse l’accento sul rischio di finanziamenti annunciati e non concreti, e non manifestasse critiche di fuoco sull’architettura complessiva della norma.
A quanto ci è dato sapere, i primi 15 milioni di euro previsti sono peraltro stati effettivamente peraltro assegnati, e sono entrati nelle case di decine e decine di imprese cinematografiche e audiovisive italiane, grandi e piccine (forse troppi soldini alle grandi e pochi soldini alle piccole, ma questo è un altro discorso).

Molti avranno peraltro notato che buona parte dei film cinematografici italiani e delle opere di fiction audiovisiva italiana che sono state proiettati nelle sale e trasmesse in televisione nell’ultimo anno recano, in bella mostra nei titoli di testa e di coda, il “marchio” ovvero il logotipo della Regione Lazio.
Gli strumenti principali della legge “Interventi regionali per lo sviluppo del cinema e dell’audiovisivo” (legge n. 2/2012, ex proposta di legge n. 135 del 13 gennaio 2011) erano giustappunto il Centro Regionale per il Cinema e l’Audiovisivo ed il Fondo Regionale, nati proprio con l’obiettivo di superare la famigerata polverizzazione policentrica degli interventi, la cui responsabilità va senza dubbio attribuita alla Giunta Marrazzo..
Il Fondo Regionale per il Cinema e l’Audiovisivo, dotato di uno stanziamento complessivo pari a 45 milioni di euro per il triennio 2011-2013, si poneva peraltro come primo vero Film Fund di taglio europeo di cui una Regione italiana si fosse mai dotata: 15 milioni di euro l’anno sono (erano) un budget veramente importante, di grande significatività nell’economia complessiva del sistema audiovisivo italiano.
Certo, alcuni automatismi previsti dalla legge potevano essere criticabili: ad esempio, a chiunque avesse realizzato nel Lazio una certa “percentuale” della propria opera cinematografica o audiovisiva qualificata come “prodotto culturale” da uno specifico test, sarebbe stato assegnato (troppo) meccanicamente un contributo
Va rimarcato che non esistono studi valutativi indipendenti sull’efficienza ed efficacia della legge, né in termini di rafforzamento del tessuto industriale del settore, né in termini di estensione del pluralismo espressivo: è però un dato di fatto che 15 milioni di euro rappresentino (abbiano rappresentato) comunque un’ossigenazione forte di un sistema stremato e boccheggiante (a livello nazionale e quindi regionale).
Cosa avrebbe potuto fare la neo Assessora, in questi sui primi quattro mesi di governo?! Studiare al meglio magari, attraverso una valutazione di impatto, gli effetti del Fondo e della nuova legge, e magari correggere le storture del nuovo impianto. Perché quindi cassare tutto, col solito rischio – tipicamente italiano – di buttare, insieme all’acqua sporca, anche il bambino?!
Tra l’altro, è bene ricordare che nell’agosto del 2012 la (ora) contestata legge Polverini-Santini ha ottenuto anche la benedizione della Commissione Europea, che l’ha giudicata compatibile con le delicate normative in materia di aiuti di Stato.

NO al Centro Regionale per il Cinema e l’Audiovisivo quindi, SI al rientro della Regione Lazio nella Roma & Lazio Film Commission, dalla quale la Regione era uscita, perché la Polverini avrebbe voluto che la Film Commission venisse assorbita dal nuovo Centro Regionale per il Cinema e l’Audiovisivo.
Eppure, durante il dibattito alla Festa de l’Unità, alla domanda di Francesco Siciliano (Vice Responsabile Cultura del Pd nazionale sotto la segreteria Bersani) “ma quante risorse pensate di destinare al cinema ed all’audiovisivo?” la Ravera, simpaticamente elusiva, non risponde.
A distanza di qualche giorno, il 18 luglio, il Presidente Zingaretti conferma le anticipazioni di Ravera, e comunica che, per le attività della Roma & Lazio Film Commission, la Giunta regionale ha approvato uno stanziamento di 100mila euro per il 2013, 300mila euro per il 2014 e 300mila euro per il 2015. Si tratta di dotazioni – sia consentito osservare – veramente modeste. E per quanto riguarda il resto degli interventi a favore del cinema ed audiovisivo?!
Il quesito che la collettività degli operatori del cinema e dell’audiovisivo laziale pone è quindi: “prendiamo atto dell’inversione ad u, ma cortesemente ci informate dell’entità del budget complessivo che la Regione Lazio intende allocare concretamente, nel 2013 e nel 2014, a favore dell’audiovisivo?!”.

La domanda è semplice, e ci auguriamo che la risposta sia chiara. Poi, magari ci andrete a spiegare anche i criteri selettivi, sicuramente basati sulla massima trasparenza, tecnocrazia, meritocrazia.
Siamo tutti interessati alla migliore promozione della cultura, e specificamente del cinema (e che sia il più indipendente, libero, plurale, innovativo, coraggioso e finanche trasgressivo…), ma vogliamo anche avere cognizione delle risorse che la Regione Lazio intende concretamente allocare. Non basta teorizzare e proclamare un… “cambio di paradigma”.

Peraltro, il 1° luglio, la Regione Lazio ha stanziato 3 milioni di euro, sui fondi Por Fesr 2007-2013, a sostegno degli investimenti per le piccole e medie imprese, per accelerare la digitalizzazione del parco-sale cinematografiche, da realizzarsi entro il 1° gennaio 2014. Una buona notizia, non c’è che dire, ma ci domandiamo se questo finanziamento rappresentasse davvero una priorità per il “sistema” cinema e audiovisivo, dato che la “deadline” del 1° gennaio 2014 è molto teorica, considerando che molte sale cinematografiche d’Italia, d’Europa e del mondo intero continueranno ad essere alimentate da film su pellicola, perché uno “switch-off” radicale è oggettivamente impraticabile, nonostante le major planetarie lo teorizzino.

A livello mondiale, la digitalizzazione ha raggiunto il 75 % degli schermi (circa 90mila sale), spiegava Bruno Zambardino (Iem-Istituto di Economia dei Media della Fondazione Rosselli), durante un convegno tenutosi ad inizio luglio a Riccione: l’Italia è al di sotto del 60 % di schermi digitali. In Italia, sono stati digitalizzati 2.035 schermi in 651 strutture. Le sale che mancano all’appello sono ancora 1.750 su un totale di 3.864 schermi del “campione” Cinetel. Nutriamo seri dubbi che dal 1° gennaio 2014 vadano proprio a chiudere, questi schermi minori. La “morte della pellicola” riguarderà forse il mercato Usa nel 2014, ma non il pianeta intero.

E segnaliamo una dichiarazione del 2 luglio 2013 della Kodak: “Kodak smentisce quanti affermano che a fine anno terminerà la produzione di pellicola 35mm per la distribuzione nei cinema. Fino a quando il mercato lo richiederà, Kodak fornirà pellicola”. Siamo proprio sicuri che la digitalizzazione delle sale cinematografiche rappresenti il “driver” per riportare il pubblico in sala, e comunque proprio il primo elemento emergenziale su cui intervenire?!
Non si vive soltanto di coraggiose e novelle progettualità, ma anche di risorse adeguate, affinché le nuove idee non restino belle intenzioni e vacui proclami. Sono necessarie strategie di sistema e non interventi sporadici. E risorse risorse risorse. È indispensabile una programmazione pluriennale ed una conseguente gerarchizzazione degli interventi.
E va rimarcato che la cultura andrebbe sostenuta non soltanto perché c’è anche un fondamento economico nella sua funzione, ma soprattutto perché è uno strumento di coscienza civile e coesione sociale.

Ne scrivevamo su “Tafter”, nel maggio del 2012, in occasione della presentazione della “agenda della cultura” promossa dalla Fondazione Democratica di Walter Veltroni e continuiamo a scriverlo oggi.
Come dire? Attendiamo una nuova “politica culturale” che passi dalla teoria alla pratica: un “new deal” autentico di teorie nuove e nuove pratiche.

Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult.

pellicGiovedì mattina 18 luglio, s’è tenuta a Roma, presso l’Auditorium di Via Veneto, la conferenza stampa di presentazione del progetto “Cinema italiano e Made in Italy”, promosso dal Ministero dello Sviluppo Economico (Mise).

“I fatti separati dalle opinioni”, recita un motto che viene ancora oggi insegnato nelle scuole di giornalismo, ma qui vogliamo invece partire dalle opinioni ed il lettore ci perdonerà: chi scrive queste note è per alcuni aspetti… “prevenuto”, perché da anni studia il marketing del cinema e dell’audiovisivo italiano (e più in generale delle italiche industrie culturali), ed osserva con sconforto la totale assenza di strategie di internazionalizzazione, così come l’isolamento dello specifico culturale dall’insieme delle strategie di promozione del “made in Italy”, di cui pure la cultura è (dovrebbe essere) invece asse portante.

Veniamo ai “fatti”. Recita il comunicato stampa diramato dopo la conferenza: “Per la prima volta, il Ministero dello Sviluppo Economico prevede una linea dedicata all’audiovisivo nel progetto speciale di promozione del «Made in Italy», che sarà attuata da Ice-Agenzia, Anica e Istituto Luce-Cinecittà, in collaborazione con Doc/it. Per due anni, fino alla fine del 2014, film e documentari d’autore, location cinematografiche e progetti di coproduzione faranno il giro del mondo promossi come l’Italia già fa per la moda o il food”.

Già l’incipit preoccupa: “per la prima volta” ?!

E partiamo da qui. Da decenni, cioè da sempre (se non vogliamo risalire al MinCulPop fascista), l’Italia è deficitaria di una politica organica di promozione della propria cultura: manca una agenzia specifica (come la potente Unifrance per il cinema francese), manca una politica intersettoriale (è necessario promuovere l’audiovisivo collegandolo all’editoria alla musica, allo spettacolo dal vivo…), mancano le risorse (lo Stato italiano dedica all’export della cultura italiana budget che sono semplicemente ridicoli), mancano i collegamenti istituzionali (tra il Mibac ed il Mise, in primis, e l’iniziativa odierna temiamo sia destinata alla metaforica rondine che non fa primavera)…

E che dire dello scollegamento tra la promozione “culturale” della cultura (ci si consenta il gioco di parole), affidata alla sgangherata rete degli Istituti Italiani di Cultura all’estero (di competenza del Ministero degli Affari Esteri), e quella che dovrebbe essere la promozione “commerciale” della cultura stessa (che dovrebbe essere affidata ad un’agenzia specializzata “ad hoc”, quale certamente l’Ice non è)?! E che dire del confuso ruolo e della deriva cui è stata costretta Cinecittà?! Eccetera eccetera eccetera.

Senza dimenticare una qualche criticità che potrebbe emergere anche sul senso stesso dell’Ice (le risorse assegnate sono sufficienti? la sua struttura è adeguata alle sfide della globalizzazione?), e sui deficit complessivi della politica commerciale internazionale del nostro Paese, ma questo sarebbe un discorso che va oltre i nostri obiettivi “culturologici”.

Per quanto riguarda lo specifico che qui interessa, non nascondiamoci dietro un dito: la situazione della promozione internazionale della cultura italiana è semplicemente disastrosa.

È indispensabile un ragionamento alto, un ripensamento profondo, rispetto all’intervento dello Stato su una questione così delicata, fondamentale, strategica, che riguarda non soltanto la bilancia commerciale, ma l’immagine stessa del nostro Paese sullo scenario mondiale.

Non ci sembra che il Governo Letta abbia identificato questo problema tra le priorità dell’esecutivo.

Quando si ha a che fare con la cultura, in Italia prevale il cosiddetto “altrismo”: i problemi veri sarebbero… altri, le priorità autentiche sarebbero… altrove. La cultura viene sempre… dopo. E la sensibilità rispetto alla cultura permane bella dichiarazione d’intenti, cui non seguono quasi mai azioni conseguenti (elaborazione di strategie, allocazione di risorse).

Ciò premesso, iniziative come quella odierna non possono che essere accolte con favore, pur nello scetticismo determinato dall’essere inevitabilmente tasselli: piccoli tasselli di un grande puzzle tutto ancora da disegnare.

Eppure basterebbe guardare alla Francia, e semplicemente emulare (o finanche copiare!), in termini di intelligenza strategica e di sensibilità budgetaria.

Il progetto “Cinema italiano e Made in Italy” è stato presentato da Pietro Celi (Direttore Generale per l’Internazionalizzazione e la Promozione degli Scambi del Mise), Nicola Borrelli (Direttore Generale Cinema del Mibac), Riccardo Monti (Presidente di Ice-Agenzia), Riccardo Tozzi (Presidente di Anica), Roberto Cicutto (Amministratore Delegato di Istituto Luce-Cinecittà), Gerardo Panichi (Presidente di Doc/it), Marco Polillo (Presidente dell’Aie).

Il progetto prevede un primo investimento di 800mila euro, che si vanno ad aggiungere ai 300mila euro che Ice già investe ogni anno in questo settore. Briciole.

“I film italiani sono penalizzati dalla mancata distribuzione all’estero a causa dell’assenza di promozione – ha sostenuto Celi (Mise) – si importa più di quanto si esporta. I dati dell’interscambio commerciale, Italia-estero, rielaborati dal Mise, parlano di un bilancio in passivo, che vale meno dello 0,1 % del volume totale degli scambi internazionali dell’Italia. Di fronte ad una situazione così critica, abbiamo provato a fare sistema”. Celi ha proposto alcune cifre: nell’anno 2012, le importazioni di audiovisivo sarebbero state di 212 milioni, a fronte di esportazioni per 66 milioni. Non è stata svelata la fonte, ma ci limitiamo ad osservare che queste cifre non corrispondono alle stime elaborate dalla stessa Anica sull’export del cinema italiano (i livelli sono molto più bassi).

E qui si riapre un’altra dolente questione: il marketing della cultura italiano non dispone di un “sistema informativo”, di un dataset statistico che sia minimamente accurato ed affidabile.
E come si può – di grazia – elaborare una strategia, in assenza di informazioni essenziali?!

Sia consentito ricordare che nel 2009 la Regione Lazio, attraverso la Fondazione Roberto Rossellini per l’Audiovisivo, aveva promosso un inedito “Osservatorio Internazionale sull’Audiovisivo ed i Nuovi Media” (Oiam), affidato in convenzione all’IsICult (Istituto italiano per l’Industria Culturale) ed alla Luiss (Luiss Business School). Il progetto era sì finanziato anzitutto da una Regione, ma si poneva come investimento per un’iniziativa di respiro nazionale ed internazionale, al servizio della comunità degli operatori tutti. Il budget per questa iniziativa di ricerca (attività preliminare a qualsiasi non avventata decisione di marketing) era adeguato: 150mila euro l’anno, per il primo triennio. Dimessosi l’allora Presidente della Regione Piero Marrazzo, è addivenuta alla presidenza della Regione Renata Polverini, che, non dedicando nemmeno un minuto all’iniziativa, l’ha cancellata nervosamente con un tratto di penna dal bilancio regionale: Fondazione Rossellini liquidata, Osservatorio killerato. Semplicemente perché era stata promossa dai “rossi”. Tipica vicenda italiana: un articolo su “Prima Comunicazione” (marzo 2011) fu non a caso intitolato ironicamente “dalla padella rossa alla brace nera”…

Il Direttore Generale del Cinema del Mibac, Nicola Borrelli, ha sostenuto che si tratta di un progetto “inevitabile”, perché cresce la coscienza di come la promozione internazionale del cinema italiano determini effetti benefici, sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista dell’immagine del nostro Paese. Borrelli ha lamentato che il Mise avrebbe dovuto sostenere con maggiore convinzione la difesa dell’“eccezione culturale” nelle recenti trattative “Tipp” ovvero Trade and Investment Partnership.

“Per rilanciare il mercato del cinema italiano all’estero – ha sostenuto Tozzi (Anica) – dobbiamo investire su promozione e integrazione. Questo vuol dire sostegno economico ai distributori esteri ed individuazione di aree di “sfondamento” dove promuovere il cinema made in Italy”. Cresce la voglia di lavorare assieme, e non soltanto perché un ministero ha messo a disposizione risorse concrete. L’industria del cinema e della fiction italiane sono cresciute in modo significativo, rispetto a quindici o vent’anni fa. Le quote di mercato sono molto alte: l’Italia è tra i 3 o 4 Paesi al mondo con maggiore quota di cinematografia nazionale al box office. Il cinema italiano conquista posizioni eccellenti nei festival internazionali, ma ciò non si traduce in risultati commerciali in termini di export”. Secondo il Presidente dell’Anica, ciò è dovuto al deficit di “immagine” internazionale del cinema italiano: “si esporta un’immagine del cinema nazionale, non soltanto uno specifico film italiano”. E qui – secondo Tozzi – deve intervenire “la politica”, cioè la mano pubblica. Si deve ragionare di “promozione e integrazione”. “Promozione”: in primo luogo, coordinamento, promuovere l’immagine della cinematografia è promuovere l’immagine del Paese. “Integrazione”: collegamento organico con altre industrie culturali. Tozzi ha ricordato che l’Italia è vissuta all’estero come Paese “incarnazione dello stile” e dell’eleganza: “siamo visti così dal mondo. Il nostro Paese non è marchiato da una storia imperialistica, e può dare risposta culturale alle esigenze dei.. Paesi di sfondamento”.

Monti (Ice) ha sostenuto che “l’audiovisivo è importante perché è una grande industria nazionale con 10 miliardi di fatturato, che dà lavoro a 200mila persone. È un’industria che produce contenuti da esportare e un volano per promuovere e raccontare l’Italia e lo stile di vita italiano. Con i fondi del Made in Italy, stiamo rifinanziando iniziative che nel passato recente non erano state supportate”.

“Nella lunga e proficua collaborazione fra Ice ed Istituto Luce Cinecittà per promuovere l’industria cinematografica – ha spiegato Cicutto (Luce Cinecittà) – si è sempre privilegiata l’attività di networking fra i nostri produttori e distributori e i buyer stranieri. La filosofia, cui queste attività si sono sempre ispirate, sta nel considerare il cinema come prodotto del Made in Italy, e non solo come veicolo di promozione dei nostri prodotti di eccellenza”. Evitiamo di “scoprire l’acqua calda”, ha sostenuto ironicamente Cicutto: semplicemente “il cinema stesso è il made in Italy”. Ha ricordato che un qualche precedente interessante c’è stato (un protocollo d’intesa tra Mibac e Mise, a suo tempo siglato da Ornaghi e Passera), ma poi non si è concretizzato. Positiva la delega al turismo assegnata al Mibac, perché potrebbe contribuire ad una visione strategica “integrata” (cultura / made in Italy / turismo).

Panichi (Doc.it) ha confermato che la sensibilità del Mise e dell’Ice nei confronti del settore dei documentaristi italiani è maturata da anni, e già in passato sono state sostenute iniziative per la promozione internazionale. Panichi non ha però ricordato che il problema dell’industria del documentario italiano è – in verità – il mercato interno, dato che né Rai né Mediaset né Sky mostrano la minima sensibilità verso questo settore fondamentale del sistema audiovisivo.

Il Presidente dell’Associazione Italiana Editori (Aie), Marco Polillo (che è anche Presidente di Confindustria Cultura), ha ricordato che si stima che un quinto dei film che arrivano sullo schermo sono tratti da libri. Si tratta di un “progetto innovativo – ha sostenuto – perché mette insieme settori industria culturale contigui ma diversi”. Polillo ha ricordato l’esperienza positiva dell’iniziativa “Words on Screen. New Italian Literature into Film”, finalizzata alla promozione del cinema e dell’editoria nazionale, nell’ambito del progetto del Governo italiano “2013 Anno della Cultura Italiana negli Stati Uniti”: l’Anica, in collaborazione con l’Aie e la Fondazione Cinema per Roma, attraverso New Cinema Network, e con il sostegno del Mise, organizza incontri tra produttori, scrittori ed editori italiani e internazionali.

L’incontro s’è concluso con alcune domande: Franco Montini (Presidente del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici – Sncci, ma intervenuto come giornalista de “la Repubblica”) ha chiesto alcuni chiarimenti sulle risorse complessive, e su quali risorse potranno essere utilizzate per ogni singolo film. La direttrice dell’Ufficio Studi Sviluppo e Relazioni Associative dell’Anica, Francesca Medolago Albani (che ha moderato con eleganza l’incontro), ha precisato che il budget disponibile per l’anno in corso è di 180mila euro, e che verrà presto pubblicato un “bando Anica”, dato che sarà l’Anica a curare il sostegno dell’export dei film italiani. Le risorse sono destinate soprattutto alla promozione della distribuzione in sala di lungometraggi di finzione e di documentari.
I target primari sono il “Far East” inteso convenzionalmente come Giappone, Corea, Cina. Sarà sempre l’Anica ad occuparsi di un “road show” del “made in Italy” in Russia, Cina e America Latina. Si cercherà di intensificare gli scambi “business-to-business”, tra operatori del settore in tre aree geografiche considerate ad alto interesse per lo sviluppo del cinema italiano, come giustappunto la Russia, la Cina e l’America Latina. Verrà favorita la presentazione di progetti di coproduzione, e promossi tra gli operatori stranieri quei benefici che l’Italia può offrire ai produttori internazionali in termini di “tax credit” (nonostante i cruenti tagli apportati dal Governo Letta), fondi regionali per il cinema e “location” di pregio.
Le tappe previste per il “road show” sono: settembre 2013, Italia, “Mostra internazionale del Cinema di Venezia”, delegazione governativa cinese; Brasile, per il “Festival do Rio”; ottobre 2013, Russia, per il “Red Square Screenings”, il mercato internazionale del film di Mosca; novembre 2013, Italia, “Festival Internazionale del Film di Roma”, The Business Street e New Cinema Network, incontri b-2-b con produttori e istituzioni cinesi; dicembre 2013, Argentina per il “Ventana Sur” di Buenos Aires (3-6 dicembre); aprile 2014, Cina per il “Beijing International Film Festival” (23-28 aprile).
Il direttore della testata specializzata “Cinema&Video”, Paolo Di Maira, ha segnalato ironicamente come nel video promozionale dell’iniziativa fossero stati proposte più immagini di film stranieri girati in Italia che di film italiani da esportare all’estero.

Nessuno ha osservato come l’iniziativa presentata non preveda alcun collegamento con altri settori importanti dell’industria culturale italiana: la fiction televisiva, la musica, lo spettacolo dal vivo… Da non crederci. Ancora una volta, interventi occasionali, sporadici, effimeri. Nessuna autentica strategia di medio-lungo periodo. E… briciole.

Conclusivamente, comunque, un’iniziativa commendevole (“meglio poco che niente”, à la Catalano), ma – ribadiamo – la classica goccia nell’oceano.

Di ben altro (strategie e risorse: semplicemente di una politica culturale!) ha necessità il sistema culturale italiano, se si vuole ragionare seriamente di marketing internazionale delle industrie nazionali dell’immaginario.

Temiamo che interventi minimi e sporadici come questi possano paradossalmente liberare la coscienza governativa dal peso delle responsabilità che deve assumersi, nell’abbandonare il sistema culturale italiano a se stesso. Si sente l’eco della canzoncina che spesso siamo costretti ad evocare: “tutto va ben Madama la Marchesa”

 

Articolo redatto da Angelo Zaccone Teodosi ed Elena D’Alessandri
rispettivamente 
Presidente e Responsabile di Ricerca dell’IsICult – Istituto italiano per l’Industria Culturale (www.isicult.it)

 

driftDrift – Cavalca l’onda (2013)

Regia: Ben Nott,Morgan O’Neill | Cast: Miles Pollard; Xavier Samuel; Sam Worthington; Ann Brandt; Robyn Malcolm | Sceneggiatura: Morgan O’Neill | Fotografia: Geoffrey Hall | Montaggio: Marcus D’Arcy

Due fratelli accomunati dalla passione per il surf nell’Australia dei primi anni ’70, in piena rivoluzione culturale, ne faranno, oltre che uno stile di vita, un buisness. Non mancheranno però difficoltà e momenti bui.

Drift – Cavalca L’onda, dovendo gioco-forza essere etichettato come film “sul surf”, potrebbe aver necessità di essere fortemente contestualizzato. Invece non ne ha bisogno e può essere fruito anche da noi che di surf non ne abbiamo mai masticato, essendo tra l’altro privo di tecnicismi. Surf come stile di vita, passione, gioia e dolore, sempre al centro dell’attenzione, ma i registi Morgan O’Neill e Ben Nott non perdono occasione per raccontare anche una società in trasformazione, le convenzioni di una parte di essa ormai vecchia e stantia, la crescita e la maturazione di due fratelli, ciascuno fortemente caratterizzato. Qua e là s’inceppa, soprattutto nella parte finale, dove accelera per giustificare, avanzando poi veloce verso l’epilogo. Ma, pur con qualche banalità, forse più nei personaggi che nelle situazioni, resta, nella sua semplicità, una godibile pellicola, con un’anima forte in uno scenario visivo delizioso.

Voto: ** ½ (su un massimo di 5 *)

 

 

 

 

point-break---punto-di-rottura-2009-4612Point Break – Punto di rottura (1991)

Regia: Kathryn Bigelow | Cast: Patrick Swayze; Keanu Reeves; Gary Busey; Lori Petty; John C.McGinley; James LeGros | Sceneggiatura: W. Peter Illiff | Fotografia: Donald Peterman | Montaggio: Howard E.Smith

Il neo-agente dell’FBI Johnny Utah (Keanu Reeves) si infiltra in una banda di surfisti sospettati di essere rapinatori seriali di banche, roba da 90 secondi a rapina, prendi il malloppo e scappa. Mai nessun morto, mai nessuno li ha beccati.

La Bigelow ha qui creato una sorta di cult con scene e sequenze che resteranno indelebili nella storia del cinema, come le rapine condotte con delle maschere di ex-presidenti degli Stati Uniti (ripresi da Aldo, Giovanni e Giacomo in Tre Uomini e una Gamba). In Point Break c’è molta azione e il surf si fa sfondo dell’intera vicenda, non tanto perché è l’hobby preferito dai rapinatori, ma perché è metafora della loro libertà, arma per non cedere al Sistema, mezzo per viaggiare liberi tra le onde e non sulle autostrade. Il furto di banche è dunque “giustificato” per condurre al meglio tale passione, incarnata a puntino da Bodhi (Patrick Swayze), il “capo” dei surfisti, e a questa logica sembra poi aggrapparsi anche l’agente Utah, ovvero il governo, ovvero gli Stati Uniti d’America. Difficile scandire il bene dal male, o meglio verificarne il confine. Bellissima la sequenza dell’inseguimento tra Utah e Bodhi.

Voto: *** (su un massimo di 5 *)

 

 

 

Il punto d’incontro: Il surf. O meglio, il surf come ragione e stile di vita. Ma nel film australiano la passione per la tavola ruota sempre intorno a se stessa ed è legata si a logiche di mercato, ma giustificata dall’amore per l’oggetto, comunque primario. Il desiderio di crescere, anche monetariamente, passa di continuo per quella passione. Il film della Bigelow, ben più dinamico, oltre ad essere un pretesto per un discorso più grande e fungere da mezzo per arrivare a provocare il Sistema americano, capovolge l’assunto, ammettendo anche il furto nei protagonisti della vicenda, che poi sarà utile per esercitare la loro voglia di libertà.

 

 

 

 

 

 

TITOLODoppiami! L’altra voce degli attoriDoppiami

 

 

COSEQuando, per la prima volta, sono stati doppiati in italiano film stranieri? Sapevate che per rendere il suono della voce del doppiatore attutito, come se provenisse da un’altra stanza, si pone un cartoncino davanti alla bocca? Come si arriva alla scelta della voce più adatta per un determinato volto, attore, ruolo? Cos’è il doppiaggese? Questi sono solo alcuni degli interrogativi a cui si può trovare risposta leggendo Doppiami!, un saggio sul mondo del doppiaggio, sulla sua storia e sul suo ruolo attuale all’interno del cinema, specialmente italiano. Il doppiaggio è, infatti, una pratica ancora fondamentale nel panorama della distribuzione cinematografica, assolutamente tecnica, precisa e affascinante (se congegnata con metodo e talento). Questo testo aiuta a scoprirne le tecniche, i segreti, le curiosità.

 

 

COMEUna prima parte introduttiva è riservata ad una breve storia sulla nascita del cinema, del sonoro e, quindi, del doppiaggio. Seguono una serie di capitoli molto interessanti sui ruoli coinvolti nella pratica del doppiaggio, tutti ugualmente necessari e indispensabili (contrariamente a quanto si pensi la riuscita del doppiaggio è un gioco di squadra): dal traduttore al direttore, dall’adattatore alla segretaria di doppiaggio, dal fonico al sincronizzatore. L’Appendice, molto piacevole e istruttiva, contiene gli ipse dixit sul doppiaggio, positivi e negativi, pronunciati da famosi registi, attori e doppiatori. La sezione Contenuti speciali riporta, infine, un’intervista illuminante, a cura di Milena Djokovic, con Alessandro Serafini, direttore e fondatore di Studio Enterprise – scuola toscana di recitazione, doppiaggio, teatro – sulle gioie e i dolori di un mestiere difficilissimo.

 

 

proScritto da uno dei registi e direttori di doppiaggio più esperti del panorama italiano, Giuseppe Ferrara, Doppiami! è un volume snello ma completo, che tratta con fluidità, verve e onestà tutti gli aspetti del mondo del doppiaggio, incluse contraddizioni e critiche.

 

 

CONTROL’unico contro è molto generico e riguarda ogni manuale su attività pratiche che si rispetti: per una totale e completa comprensione di ogni parte del testo, si dovrebbe prevedere una parte di messa in atto o di visione in presa diretta di quello che si è potuto solo leggere.

 

 

SEGNI PARTICOLARIPer ovviare, in parte, al problema di cui sopra, il volume riporta alcune pagine di un vero e proprio copione di doppiaggio e di un piano di lavoro di una segretaria di doppiaggio. Nella sezione Come diventare doppiatori offre dei consigli pratici e realistici a chi voglia intraprendere questa carriera.

 

 

CONSIGLIATO AGli appassionati di cinema e di doppiaggio; tutti quelli che si sono sempre chiesti come funzioni il doppiaggio, i curiosi in generale.

 

 

Doppiami! L’altra voce dINFO UTILIegli attori di Giuseppe Ferrara, effequ Editore 2013, 12 Euro.

 

 

Leggi anche l’intervista a Riccardo Rossi, doppiatore di Johnny Depp, Tom Cruise, Adam Sandler, Matt Damon e molti altri, che Tafter ha realizzato.

emilioTra gli appuntamenti più attesi dei festival di cinema c’è sicuramente l’Ischia Film Festival, unico nel suo genere, in quanto prevede un concorso, a livello internazionale, dedicato alle location cine-turistiche, unendo quindi i temi cinematografici con la cura e la valorizzazione dei territori.

Tante le sezioni, dal “Primo piano”, dedicato alle pellicole che hanno dato spazio alle location come elemento primario, a “Location negata”, una sezione speciale per chi dedica il racconto a territori violati da civiltà e diritti, da “Location sociale”, in cui la focalizzazione delle location mette in risalto le problematiche economiche e sociali, a “Scenari”, con corti e documentari provenienti dalle terre più lontane.

Ad aprire il Festival, nella stessa serata del 29 giugno, due illustri ospiti.
Benoit Jacquot ha presenta il suo ultimo lungometraggio “Les adieux à la reine”, con Diane Kruger nelle vesti della Regina Maria Antonietta, ambientato in uno dei luoghi di cultura più belli del mondo, la Reggia di Versailles.
Angelo Cretella, dopo il successo dello scorso anno, in cui fu protagonista con “Corti”, ambientato nel centro storico – patrimonio UNESCO – di Sant’Agata dei Goti, ha portato invece per l’edizione 201 3 del festival “Emilio”, cortometraggio ambientato nel Salento, in una location tanto difficile, quanto suggestiva. “Emilio” è nato dal basso, con un crowdfounding sostenuto da più di cento persone che hanno collaborato donando una quota di partecipazione.

Di “Emilio”, della produzione dal basso, ma soprattutto della splendida location in cui è stato girato ne abbiamo parlato con Angelo Cretella, protagonista di una intervista inedita, una tweet-intervista, con domande e risposte in 140 caratteri.

 

@svoltarock: Ciao Angelo, innanzitutto come stai?
@cretange: appena rientrato dall’@IschiaFilmFest quindi, a parte un po’ di nostalgia, direi benissimo.

@s: Secondo anno consecutivo all’IFF, più felice perché partecipi ad un grande festival o perché trascorri qualche giorno ad Ischia?
@c: sono felice che le due cose stiano insieme.

@s: Chi è (o meglio chi rappresenta) #Emilio?
@c: #Emilio è la purezza, l’incontaminato che per molti diventa il sinonimo del “fesso” da vessare e di cui approfittare.

@s: (da buono a “fesso”, il salto spesso è breve..) Perché #Emilio in Salento?
@c: il Salento, terra meravigliosa, preserva ancora degli aspetti primordiali come le forze contrastanti che volevamo rappresentare.

@s: Quali sono i luoghi del Salento dove avete girato che ricordi con maggiore affetto?
@c: la cava di bauxite di #Otranto è difficile da dimenticare così come le strade dritte e desolate e le masserie abbandonate.

@s: A proposito di Puglia, a Otranto, com’è stata l’accoglienza? cc @RegionePuglia @pugliaevents
@c: c’è stata una grande partecipazione delle persone. Questo anche grazie al grande lavoro della @RegionePuglia e @ApuliaFilmComm

@s: Ho trovato un @nandupopusss (leader dei Sud Sound System, band storica pugliese, ndr) versione-attore di ottimo livello. Come lo descriveresti in 140 caratteri.
@c: @nandupopusss ho scoperto, oltre all’artista che conoscevo, un uomo generoso che lotta per la sua terra. E’ decisamente bello!!!

@s: Differenze evidenti tra “condurre” attori non professionisti o grandi esperti come Leo Gullotta in “Corti”.
@c: dirigere Gullotta è stato come fare un’alta scuola di formazione e c’era poco da “dire”. Un’esperienza messa in campo con Emilio

@s: Rispetto al crowdfounding per Emilio,maggiore soddisfazione o ansia nel sapere che più di cento persone hanno investito su di voi?
@c: avere 120 piccoli produttori ha aumentato la mia ansia. E’ stata un’esperienza di condivisione fantastica. Grazie a @betapdb

@s: Già in mente la location del prossimo lavoro? Nel Sud Italia (dopo Sant’Agata dei Goti ed il Salento) c’è imbarazzo della scelta.
@c: il Sud è una miniera di bellezza nonostante le continue violenze subite. Mi piacerebbe un’isola. Colpa dell’@IschiaFilmFest

@s: Fare cultura, associando cinema, territorio, turismo, è così tanto difficile qui in Campania?
@c: è la cosa più semplice ma la politica è distratta e incapace. Qui anche le “macerie” attrattive rischiano di polverizzarsi.

@s: abbiamo finito! Chiudiamo con un pensiero positivo! Ce la facciamo a portare “in alto” la cultura, sotto tutte le varie forme?
@c: non ne sono sicuro ma è un dovere provarci fino alla fine per allenarci alla bellezza e “restare umani”

@s: perfetto, alleniamoci tutti i giorni alla bellezza e “restiamo umani”! Grazie Angelo, alla prossima, magari a mare da @nandupopusss!
@c: Si al mare con @nandupopusss e delle belle dreher gelate. Grazie a te @svoltarock.

 

mostra fotografica location 1
Il fascino del cinema, degli interpreti e delle attrici, nella cornice incantevole di un’isola del Golfo di Napoli. Il focus sui direttori della fotografia, gli scenografi e i registi, che hanno reso indimenticabili, attraverso le loro scelte artistiche, alcune location nazionali e internazionali, valorizzandone l’indentità e l’immagine.

L’Ischia Film Festival, festival cinematografico internazionale, è questo e molto di più. I nostri inviati speciali, Fabrizio Barbato e Carla Di Martino, hanno raccolto per noi degli scatti direttamente da Ischia, per documentare questo imperdibile evento.

Le foto sono di Carla Di Martino e Fabrizio Barbato

Il 3 maggio 1913 il film muto “Raja Harishchandra”, prodotto e diretto dal ‘padre del cinema indiano’, Dada Saheb Phalke, fu proiettato per la prima volta al Coronation Theatre dell’allora Bombay. Il film, narrazione epica tratta dal Mahabharata, uno dei più importanti poemi della letteratura indiana, è stato presentato il 9 dicembre a Firenze, nell’ambito del XII Indian Film Festival, River to river. Al cinema bollywoodiano è stata dedicata quest’anno, dalla Fondazione Roma, un’ampia rassegna al Teatro Quirinetta, ma in Italia i film indiani non vengono acquistati, così Bollywood corre soprattutto nella rete e da qualche anno trovano spazio anche in tv nella programmazione estiva della Rai, seppure tagliati soprattutto in ciò che hanno di più caratteristico: musiche e danze, a causa della loro consueta durata di 3 ore circa. Eppure l’industria del cinema indiano inizia ad approdare anche nel nostro Paese, set sempre più selezionato dai cineasti indiani, a caccia di locations esotiche che diventano richiamo turistico per il ceto più abbiente. Non dovremmo sottovalutare il cineturismo indiano, lo hanno ben compreso le agenzie di consulenza e produzione che si stanno affacciando a questo mercato, pronte a collaborare con l’esigente, ma ricca, macchina cinematografica indiana.

In India già da un anno sono iniziate le celebrazioni per l’anniversario della nascita dell’industria cinematografica più ricca del mondo, con cifre, ogni anno, da capogiro: oltre 1000 film prodotti (quasi il doppio di Hollywood), oltre 2 miliardi di dollari di incassi, destinati presto a raddoppiare, circa 20 milioni di biglietti venduti al giorno soltanto in India, un potenziale pubblico di quasi un miliardo e mezzo di individui e un’esportazione in oltre settanta paesi. Numeri che se da una parte hanno attirato Hollywood e le majors statunitensi come Fox e Disney, dall’altra destano preoccupazioni nei registi indiani più impegnati che sempre meno vedono rappresentata nel cinema nazionale la ‘Madre India’ con la complessità e diversità di un paese con 20 lingue ufficiali. Un tale business ha suscitato anche l’interesse della mafia locale che, attraverso i movimenti dell’enorme massa di denaro intorno ai film, ha riciclato il quello ‘sporco’, proveniente da traffici illeciti (droga, armi, contrabbando etc.).

Per questo centenario a New Delhi è stato organizzato un Festival con la proiezione dei classici del cinema indiano, un’appetitosa sezione dedicata alle versioni inedite dei film tagliati dalla censura (la cui autorizzazione appare per qualche secondo all’inizio di ogni proiezione) e un’anteprima del materiale – esposto nel foyer del predetto festival, insieme alla rappresentazione della storia del cinema locale – di quello che sarà il Museo Nazionale del cinema indiano (NMIC) di Mumbai, città che metterà in mostra l’evoluzione di tale industria. Un primo allestimento riguarderà una porzione di Gulshan Mahal, un edificio storico rinnovato recentemente e secondo il curatore coinvolto nel progetto, Amrit Gangar: “Il museo avrà una visione olistica del cinema indiano, dove sarà visualizzata la molteplicità dell’arte…”.
Tra le tante iniziative si segnala il progetto, frutto di una collaborazione di una compagnia di Dubai e di un produttore di Bollywood, di un parco a tema dedicato al cinema: Dubai Adventure Studios, con inevitabile riferimento a quelli statunitensi.

In Europa il centenario sarà celebrato soprattutto a Cannes, dove Bollywood è “special guest” al 66° Festival del Cinema (15/26 maggio) con quattro cortometraggi dedicati ai suoi 100 anni, raccolti nella pellicola Bombay Talkies (di quattro registi: Karan Johar, Zoya Akhtar, Dibakar Banerjee e Anurag Kashyap). Amitabh Bachchan ha sottolineato l’evoluzione del ruolo dell’attore indiano, all’inizio appartenente agli strati più bassi della società mentre oggi anche tra i livelli sociali più alti i giovani ambiscono ad un ruolo nell’industria cinematografica. Bombay Talkies è già stato valutato positivamente dalla critica indiana, il ritmo è rapido, tutt’altro che letargico e Anupama Chopra di Hindustan Times ha affermato che è un esperimento unico che funziona molto bene e che la collaborazione tra questi quattro grandi registi indica un affiatamento raro nel settore anche soltanto una decina di anni fa. Attendiamo di conoscere come sarà accolto dalla critica occidentale.

Se il cinema impegnato di Satyajit Ray ha avuto riconoscimenti internazionali – la Trilogia di Apu vinse sette premi nei festival di Cannes, Berlino e Venezia – il cinema bollywoodiano vince nei numeri. Ma qual è il segreto del suo successo? Si tratta di commedie che tranquillizzano la società, film d’evasione dalla realtà, film ‘puliti’ senza scene di sesso che tutta la famiglia può vedere, in cui sono assenti le fratture o le fughe, i conflitti sociali o generazionali si ricompongono, trionfa il patriottismo, la famiglia, la figura della madre e il finale pacificatore/positivo è sempre garantito.
Sarà questa la risposta cinematografica alle esigenze di una società multietnica?

 

Roma ha dato un caloroso benvenuto alla XII° rassegna del “Florence indian film festival” al cinema Trevi, con l’auspicio che questa iniziativa venga riproposta anche per le edizioni successive.
Il programma romano si è sviluppato in soli tre giorni, sicuramente tralasciando qualche buona pellicola, che ha trovato il suo spazio nei sette giorni di Firenze, ma ha sicuramente offerto al pubblico un concentrato delle migliori proposte del cinema indiano del momento, presentando il vincitore del premio assegnato dal pubblico fiorentino al miglior cortometraggio, al miglior documentario e al miglior lungometraggio. Inoltre ha presentato un kolossal: Gangs of Wasseypur 1 e 2, apprezzato quest’anno all’ultima Quinzaine des Réalisateurs di Cannes e un film di successo di uno dei più apprezzati registi indiani, Sanjay Leela Bhansali, Black.

Le sponde dei fiumi indiani e italiani non sono poi così lontane, ma sono unite da metri di pellicola. Il regista, Anurag Kashyap, autore del dittico Gangs of Wasseypur 1 e 2, ha subito la fascinazione del cinema vedendo De Sica, ed è forse al cinema italiano che deve il suo realismo, toccante e coinvolgente. Il suo dittico narra, in oltre 5 ore di film, diviso in due parti non necessariamente collegate, la saga di due famiglie, I Singh e i Khan, assetate di vendetta nello scenario dell’India del nord, il Bihar, dalla fine dell’epoca coloniale ai giorni nostri. Indiani in versione per noi inedita: gangster, mafiosi, corrotti, violenti. Ingredienti che ben conosciamo e che, probabilmente, ci fanno sentire, questo “Padrino” indiano, più vicino, anche se a prima vista la poligamia islamica sembra non riguardarci (ma quanti maschi occidentali hanno una sola moglie/compagna, senza dichiarare amanti o storie collaterali?).

Stupefacente il film Chittagong del pluripremiato scienziato della Nasa (Jet Propulsion Laboratory, inserito nel 1999 nella US Space Technology Hall of Fame) Bedabrata Pain, che nel 2008 decide di lasciare la sua carriera di scienziato e di insegnante all’UCLA di Los Angeles, per dedicarsi a quella di regista, cosa di cui artisticamente gli siamo grati. Già alla sua prima opera, con questo film, gli viene assegnato dal pubblico il premio per il miglior lungometraggio della rassegna fiorentina e il Piaggio Foundation Award, consistente in una Vespa ultimo modello. Un’intelligenza creativa come quella di Bredabrata non fa distinzione tra arte e scienza, come lui stesso ha asserito. Il Bengala di Tagore e Ray (il padre di Bedabrata è nato a Dhaka e lui ha studiato a Calcutta) continua a dare i suoi frutti e a trasmettere nel dna dei suoi discendenti i germi di quella cultura antica e moderna, allo stesso tempo, nella sua apertura al futuro e ad ogni germe di creatività. Il cinema era già ‘di casa’ e probabilmente la moglie, Shonali Bose, cineasta, non ha posto ostacoli quando Bedabrata ha deciso di investire tutti i suoi risparmi per la realizzazione di questo lungometraggio.
Nel 1930, Chittagong, una cittadina ad est di Calcutta, è stata protagonista dei primi moti di ribellione contro l’odioso dominio britannico. Non un covo di rivoluzionari ma un gruppetto di studenti minorenni, con tutte le loro incertezze e debolezze, che, guidati dal loro maestro di scuola e di vita, decidono di ribellarsi alla violenza, alla sottomissione, all’ingiustizia. Sarà il loro viaggio di iniziazione il modo migliore di affermare i valori in cui erano stati educati e diventare adulti. Bravissimi gli attori ed il protagonista vero della storia, Jhunku Roy, che abbiamo avuto il privilegio di conoscere, seppure al cinema e per pochi minuti. Alla fine del film è sopravvissuto soltanto un paio di settimane. Ci auguriamo vivamente che questo film pieno di valori, a cui non siamo più abituati travolti dal consumismo ed egoismo, trovi il suo giusto spazio nelle sale cinematografiche e nelle scuole.

The Rat Race, è più di un pluripremiato documentario sui cacciatori di topi a Mumbai, ma è un’analisi della situazione sanitaria, della realtà lavorativa, dei problemi degli studenti universitari, della più ricca città dell’India, dove è concentrato il 95 % della ricchezza nazionale. E’ proprio qui che esplode, in tutte le sue contraddizioni, la moderna metropoli del subcontinente indiano: 14 milioni di abitanti, 84 milioni di topi, quartieri lussuosi e slum, capitale dell’industria cinematografica e disoccupazione, ricchezza sotto i riflettori e, nel buio della notte, il fantasma della peste, l’ultima nel 1994. Nel 2011 sono stati uccisi 348.000 topi. Mooshik (topo sacro), è il veicolo di Ganesh da adorare, ma allo stesso tempo i ratti devono essere uccisi per necessità, infrangendo un precetto religioso. L’intrepida Menacherry, pedina implacabile, con la sua macchina da presa documenta la vita di questi cacciatori di topi. L’idea nasce da un annuncio per pochi (30) posti di lavoro precari, per cacciatori di topi a cui rispondono 2.000 candidati. Ne devi uccidere almeno 30 ogni notte altrimenti sei fuori. L’obiettivo: diventare cacciatori di topi a tempo indeterminato per il Comune e avere dei guanti in dotazione! Sono molti gli studenti universitari che fanno questo lavoro di notte per mantenere i propri studi. Un documentario da proiettare nelle nostre università, forse contribuirebbe alla consapevolezza del diritto irrinunciabile alla cultura e del privilegio che ha chi può dedicarsi ad essa. La regista Miriam paragona un documentario alla tela di un pittore che non è uno studio cinematografico ma la città stessa. La maggiore difficoltà Miriam l’ha incontrata nel voler filmare la discarica dove i ratti vanno a finire, poiché il permesso le è stato negato per ben due volte. Il protagonista del film è un Parsi, Behram Harda (57 anni), che sta andando in pensione, ed il documentario gli offre l’opportunità di mettersi in gioco di fronte alla macchina da presa: avrebbe voluto far parte del mondo del cinema, ma poi si è rassegnato al suo lavoro sicuro. Ora si paragona a James Bond con licenza di uccidere (i ratti)!

Calcutta Taxi è il brillante cortometraggio di Vikram Dasgupta, di circa 20 minuti, premiato a Firenze. Il montaggio è dinamico e creativo, benché si tratti di una storia vera. Il regista non ha dato al suo plot uno sviluppo cronologico, ma ha scelto uno percorso narrativo fatto di flashback, che partono dallo stesso momento della giornata, che sembra ripetersi, ma vista ogni volta dal punto di vista di un protagonista diverso, con sorprendenti colpi di scena. Su un taxi di Calcutta si incrociano tre protagonisti, il loro incontro segnerà le loro vite.

Poco convincente il film di Sanjay Leela Bhansali nonostante la presenza di un mito del cinema indiano: Amitabh Bachchan. Ma non bastano dei bravi attori a fare un buon film. Il rispetto dei canoni del film bollywoodiano, l’assenza di danze e una tematica straziante e commovente, come quella della ragazza sorda e cieca che riesce ad andare all’università fanno sì che Black, l’oscurità in cui vive la protagonista, abbia riscosso forse, in Italia, più lacrime che consensi. Eppure il recupero ad una vita quasi indipendente di una ragazza handicappata e la sua sete di cultura sono temi profondamente seri, sebbene il regista abbia puntato più sulla commozione dello spettatore che sulla problematica. Convince ancor meno quando lui stesso ridicolizza la “diversamente abile” Michelle facendola camminare con un’andatura che ricorda Charlot di Charlie Chaplin: non si capisce perché una ragazza sorda e cieca, senza avere una menomazione alle gambe, debba avere una camminata ridicola.

Arrivederci al prossimo anno, le rive del Tevere aspetteranno ancora l’approdo del cinema indiano.

 

Cineama

 

 

 un sito internet completamente dedicato al mondo del cinema indipendente. Una piattaforma per mettere in contatto, attraverso blog e sezioni suddivise, non solo i professionisti del settore, ma soprattutto gli appassionati dell’universo cinematografico.

per perseguire le reali esigenze degli spettatori, la piattaforma è strutturata in modo tale che il film sia il prodotto finale di una autentica collaborazione tra chi lo finanzia e lo distribuisce ( spesso gli stessi spettatori e non solo i produttori di professione) e i registi che lo creano. Tutti possono partecipare come preferiscono: proponendo una sceneggiatura per trovare i fondi al fine di realizzarne una pellicola vera e propria; finanziando un progetto sia nella fase di produzione e che di distribuzione. Gli addetti ai lavori inoltre possono conversare e scambiarsi opinioni ed offerte di lavoro all’interno di una community dedicata. Il film diventa in questo modo un’operazione collegiale in cui è possibile conoscere iniziative e progetti con cui collaborare, anche in qualità di semplici amatori, versando un piccolo contributo per portare in sala il film che vorremmo vedere.

uno strumento social utile per gli operatori indipendenti di uno degli ambiti più affascinanti ma anche più spietati. Per contrastare le difficoltà per emergere in questo settore, la piattaforma digitale Cineama rappresenta uno strumento valido, soprattutto per i giovani talenti e gli spettatori al fine di conoscere quelle pellicole lontane dalla grande distribuzione, ma comunque di notevole qualità.

la piattaforma purtroppo non è ancora molto diffusa e conosciuta. Sono pochi i follower sui social network e anche le sceneggiature e le pellicole a disposizione non sembrano essere molte. Eppure il sito ha nella sua struttura e nei suoi obiettivi delle forti potenzialità.

all’interno del catalogo dove sono elencati i film da distribuire, sono presenti dei trailer davvero molto interessanti.

 

 professionisti del settore, giovani creativi, appassionati di cinema. Chiunque voglia entrare a far parte di questo mondo.

 

 http://www.cineama.it/

 

 

 

Due rassegne di cinema indiano nel mese di dicembre in Italia: Bollywood al Teatro Quirinetta di Roma dal 29 novembre al 9 dicembre e River to River a Firenze dal 7 al 13 dicembre e poi a Roma al cinema Trevi dal 14 al 16 dicembre.
Ma perché tanto cinema indiano in occidente dove di certo non mancano film, festival e rassegne?

Per capire cosa significa il cinema per gli indiani, basterebbe fare l’esperienza di vedere un film in una sala indiana, dove lo spettatore non è passivo ma interagisce con il film: la gente canta perché già conosce le canzoni dei film trasmesse in anteprima alla radio o in televisione, piange alle loro storie, recita le battute più famose. In alcune zone remote del subcontinente il cinema, proiettato anche su un telo con il pubblico seduto a gambe incrociate a terra, è stato una fonte di informazione, di rappresentazione della realtà o dei sogni della gente. L’India può vantare dai 13 ai 15 milioni di spettatori al giorno e una produzione annua di circa 1.000 film, superiore a quella americana. Inoltre sarebbe più corretto parlare di cinematografie indiane, in quanto l’India è una repubblica federale con 26 governi statali e con 20 lingue ufficiali e ogni regione produce film nella propria lingua che si fonde sempre di più con l’inglese, formando un nuovo “hinglish”(da “hindi” e “english”).
La produzione del cinema indiano era già stata apprezzata all’estero ai primi del ‘900, con film in cui le parti femminili erano recitate ancora da attori maschili, il primo film a soggetto mitologico Raja Harishchandra del 1913 di Dada Sahab Phalke, tratto dal Mahabharata (in programma nella rassegna di Firenze domenica 9 dicembre), ricevette critiche favorevoli anche fuori dai confini nazionali. Già all’epoca i film muti non mancavano di rappresentare alcuni intervalli di varietà con danze e musica, perché la musica ha sempre fatto parte dell’estetica indiana e non è solo un’acquisizione recente di Bollywood. La danza e la musica sono vissute come forme di linguaggio alla stregua dei dialoghi.

Il cinema indiano ha conquistato già molti paesi esteri, oltre quelli dell’estremo Oriente: Africa e Medio Oriente in cui film indiani vengono programmati regolarmente, i paesi dell’Europa dell’est, e negli ultimi anni Stati Uniti ed Europa occidentale. All’inizio il pubblico estero era costituito principalmente dai Non Resident Indians, emigrati in occidente con la nostalgia della Madre India ma in seguito dopo l’onda New Age, la diffusione delle discipline e filosofie orientali (yoga, meditazione etc.) gli occidentali hanno dimostrato di apprezzare il cinema indiano che ha prodotto un giro d’affari enorme. Inizialmente i film indiani sono stati proiettati principalmente nel circuito dei Festival internazionali. Quest’anno a Cannes erano presenti diversi film ed intere rassegne dedicate sono diventate regolari appuntamenti, non solo per addetti ai lavori ma anche per il grande pubblico. Originariamente i Festival prediligevano i film d’autore indiani (con la meravigliosa fotografia in bianco e nero, carica di suggestioni), rispetto a quelli di puro intrattenimento stile Bollywood (fusione tra Bombay e Hollywood) basati sulla formula masala (in hindi “miscela di spezie”) che iniziano nel dopoguerra: storie semplici, romantiche, a lieto fine, forti passioni, melodrammi, con un numero minimo di canzoni accompagnate da danze e siparietti comici intrisi di una visione del mondo induista. Come noi abbiamo avuto il cinema dei “telefoni bianchi”, l’India ha creato Bollywood, finalizzata all’evasione, a far dimenticare i problemi della povertà, anche attraverso locations lussuose o paesaggi turistici internazionali, come le Alpi svizzere o Venezia.
La leadership indiana ha presto compreso la funzione di questo straordinario strumento di comunicazione, e istruzione, e dagli anni ’60, ha programmato una serie di investimenti a favore del cinema, con lo scopo di promuovere la propria immagine all’estero.

Ma il cinema d’autore, che si rivolge alla mente dello spettatore, ha un pubblico limitato e dopo che Bollywood, attento alla reazione emotiva dello spettatore, è entrato in crisi negli anni ’80 (i ¾ della produzione non raggiungeva le sale), si è affermato, soprattutto a livello internazionale il “cinema di mezzo” (Mira Nair, Deepa Metha), un compromesso tra il cinema d’autore/sperimentale e quello commerciale indirizzato a soddisfare i gusti del pubblico, con maggiore attenzione agli incassi. Nel 1983 Gandhi, film anglo-indiano, vince l’Oscar. Dalla new economy degli anni ’90 il cinema indiano ha tratto nuovo impulso, indirizzandosi verso tematiche più aderenti alla realtà: conflitti generazionali, i problemi degli indiani all’estero, i matrimoni combinati (tradizione ancora praticata in India), i problemi dell’urbanizzazione, la condizione della donna etc. Gli investimenti esteri hanno determinato un ampliamento dei suoi generi: gialli, film di fantascienza, polizieschi, drammatici, storici etc., andando incontro ad un pubblico sempre più vasto ed eterogeneo e iniziando ad avere la considerazione della critica internazionale più esigente. Sembra finita così la dicotomia tra cinema commerciale e cinema parallelo.
Il segreto del successo della settima arte indiana anche in occidente risiede, oltre che nell’imponente macchina produttiva, nella realizzazione di prodotti ben confezionati che nulla hanno da invidiare, in quanto a linguaggio e tecniche cinematografiche, ai prodotti americani. Si tratta di film in grado di essere apprezzati da un vasto pubblico, che fanno divertire, curatissimi da un punto di vista musicale e coreutico, capaci di toccare i sentimenti e le emozioni della gente, divenendo così il luogo dove si avverano i sogni dell’uomo comune, dove la giustizia trionfa. Un esempio su tutti, il film della regista Mira Nair, che vive all’estero dal 1976: Monsoon Wedding, premiato a Venezia (2001), nella formula masala. Questo film ha avuto più successo tra il grande pubblico del suo più impegnato Salaam Bombay! (premiato a Cannes), film realista sui bambini di strada dell’odierna Mumbay, che ha ottenuto come risultato la creazione della fondazione Salaam Balak, con diversi sedi in India, per i bambini di strada.

Molti registi indiani vivono all’estero e quindi ben conoscono la cultura, i gusti delle popolazioni non indiane e sono estimatori del cinema occidentale: non a caso le commedie sentimentali del cinema americano e francese sono state una fonte di ispirazione per film indiani di successo. Inoltre le multisale hanno favorito una diversificazione dei prodotti. Rimane una perplessità nei confronti di film sempre più occidentalizzati: riuscirà il cinema indiano a non perdere la propria autonomia e cifra stilistica nel suo andare incontro ad un pubblico sempre più globalizzato? Un esempio, sono inglesi sia il regista che lo sceneggiatore del film premio Oscar The Millionaire (Danny Boyle, e Simon Beaufoy) ma in molti sono convinti di aver visto un film indiano, senza sapere che l’unica sopravvivenza indiana, oltre l’ambientazione, è la musica!

 

1942
Regia di Feng Xiaogang
Kolossal
Cina 2012

Il film è tratto da Remembering 1942, un romanzo di Liu Zhenyun.
Feng Xiaogang è un regista molto amato in Cina che, solo dopo aver sbancato il box office nazionale, è riuscito a realizzare il suo film sulla carestia del 1942. Nel cast ci sono soltanto due divi non-cinesi, ma americani: Adrien Brody e Tim Robbins, che interpretano un giornalista americano ed un prete cattolico negli anni della guerra contro il Giappone.
La tragica carestia del 1942 è stata una delle più gravi del XX secolo: si è abbattuta nella provincia cinese di Henan, causando la morte di 3 milioni di persone. Il governo non ha pietà del popolo e distoglie le forniture di grano a favore delle truppe cinesi impegnate nella guerra contro il Giappone. Questo costringe gli abitanti, ricchi e poveri, ad un duro e faticoso esodo verso lo Shaanxi, la terra promessa dove sperano di continuare a vivere.
Il film racconta questa epica e inutile marcia di milioni di persone, durante la quale nemmeno i facoltosi proprietari terrieri si salvano dalla fame, e anche i sacerdoti, di fronte a tanta sciagura, perdono la loro fede in Dio. La fame rende gli sfollati tutti uguali e vittime, l’eroe è l’uomo comune che cerca di sopravvivere senza vendere le proprie figlie per un pugno di farina. Tutto questo è fotografato da un giornalista del Time, Theodore White (Adrien Brody) che tenta di aiutare la popolazione usando i suoi contatti. I cinesi alla fine sembrano persino sollevati dell’arrivo degli invasori giapponesi nella provincia di Henan: cedendo questo territorio si disfano di 30 milioni di problemi, ovvero una popolazione stritolata dalla fame e dalla guerra. E’ una lezione di storia poco nota all’occidente, che condivide con l’Asia i milioni di morti della seconda guerra mondiale.
Il regista ha sottolineato, nell’intervista che, mentre il mondo conosce la tragedia degli ebrei nella seconda guerra mondiale, ignora quella cinese. Ma forse, possiamo aggiungere, gli stessi cinesi oggi conoscono poco la vicenda. Il film è denso di colpi di scena, battaglie, incursioni di banditi, bombardamenti aerei che rendono scorrevoli le oltre due ore di spettacolo. Feng Xiaogang non rinuncia a nessuno dei requisiti del kolossal: migliaia di comparse e scenografie imponenti. Una produzione grandiosa, una immensa tragedia umana ricostruita storicamente, un film epico-popolare che suscita forti emozioni senza essere retorico, ma che non convince completamente forse per qualche ripetizione o per l’inserimento di personaggi, come il sacerdote (Tim Robbins), che nulla sembrano aggiungere alla storia.

 

BULLET TO THE HEAD
Regia di Walter Hill
Azione – 92’
USA 2012

Un proiettile in testa, classico film d’azione ben fatto, divertente e con un ritmo incalzante. Brillante l’interpretazione di Sylvester Stallone di un sicario rude e attempato, Jimmy Bobo, ma con un cuore generoso. Jimmy Bobo lavorava insieme ad un socio che viene ucciso ed è proprio per vendicare l’amico, e cercarne l’assassino, che si rassegna a entrare in società con Taylor Kwon (il bravo Sung Kang) di Washington DC, detective coreano e tecnologico, difensore della legge che rimanda l’arresto di Bobo a dopo la cattura dei mandanti.
La vena di ironia che accompagna tutto il film scaturisce dal contrasto tra i due protagonisti, opposti in tutto: Bobo incarna il giustiziere vecchia maniera (“niente donne, niente bambini”), la legge della strada, il codice d’onore, assesta pugni e atterra nemici; il detective incarna la legalità, usa la tecnologia per scoprire i malfattori. Peccato che nel doppiaggio in italiano si perderà la voce roca ed il timbro con cui Stallone sferza con le sue battute chiunque gli capiti a tiro.
Un’inaspettata protagonista femminile (Sarah Shahi), che non è la solita amante sexy di uno dei due, movimenta la trama.
In fondo il vero pericolo non è il killer assoldato per uccidere un altro delinquente, ma la malavita dei grossi affari, dei palazzinari.
L’ispirazione è venuta al bravo sceneggiatore, Alessandro Camon, da una graphic novel dell’autore francese Alexis Nolent (Matz) e illustrata da Colin Wilson. La location scelta da Mr. Hill è un luogo che lui adora: New Orleans, dove ha girato altri due film.
Qualche sbavatura negli eccessi: la pendrive, in cui sono memorizzati i documenti della banda criminale, funziona perfettamente anche dopo una nuotata in acqua.
La frase indimenticabile di Jimmy Bobo (Sly): “non sono le pistole ad uccidere ma le pallottole, la prossima volta ricordati di caricare la tua pistola”.
Un Walter Hill, regista famoso per “I guerrieri della notte” e “48 ore” con un’altra coppia anomala di protagonisti, è tornato, smagliante e in ottima forma dopo dieci anni, a girare per il cinema un action movie stile anni ’80 ben confezionato e divertente.
Il film, distribuito dalla Buena Vista International, uscirà nelle sale cinematografiche italiane ad aprile 2013.

 

GOLTZIUS AND THE PELICAN COMPANY
Regia di Peter Greenaway
Storico artistico – 128′
Paesi Bassi 2012

Il film, presentato in anteprima a Roma al Festival Internazionale del cinema, è stato proiettato al Maxxi, la scelta di un museo piuttosto che di una sala cinematografica, nel caso di Greenaway, è particolarmente appropriata.
Fedele al principio della fusione di tutte le forme d’arte, Greenaway, che è soprattutto un artista, perché sarebbe riduttivo definirlo ‘regista’, ha fatto precedere la proiezione al Maxxi da un concerto, un modo per accompagnare il pubblico dentro l’atmosfera barocca del film.
Goltzius and the Pelican Company, dedicato al famoso incisore e pittore olandese Hendrik Goltzius (1558 – 1617), interpretato dal bravissimo Ramsey Nasr, è il secondo film di una trilogia dedicata a tre artisti: il primo è stato il mirabile Nightwatching (ispirato al famoso ed enigmatico quadro La ronda di notte di Rembrandt), film presentato a Venezia nel 2007 e purtroppo mai distribuito in Italia; e il terzo uscirà nel 2016 in occasione del cinquecentenario della morte del pittore Hieronimus Bosch.
Un film di Greenaway non si ‘vede’, è una partecipazione ad un’esperienza artistica, si entra nell’opera, è una fruizione plurisensoriale, a cui soltanto l’olfatto non partecipa, mentre persino il tatto sembra appagato dal realismo carnale delle immagini.
Goltzius vuole convincere il Margravio di Alsazia a finanziare un libro di incisioni sugli episodi più ambigui e scandalosi del Vecchio Testamento e un altro sulle Metamorfosi di Ovidio, a tal fine mette in scena con la sua compagnia i sei tabù sessuali (voyeurismo, incesto, adulterio, pedofilia, prostituzione e necrofilia) rintracciabili nelle storie del veterotestamentarie (Adamo ed Eva, Lot e le sue figlie, Davide e Betsabea, Giuseppe e la moglie di Putifarre, Sansone e Dalila, Salomè e Giovanni Battista). In realtà il sesso è il solo tabù, esorcizzato dalla religione ma perseguito ipocritamente dai religiosi. Il film è un manifesto contro i dogmi e i tabù religiosi di ogni confessione.
E’ così che si scatena la fantasia e la padronanza dei linguaggi artistici di Greenaway: musica, danza, parole, scrittura, teatro, quadri in sovrimpressione, il tutto ambientato in un luogo simbolo di archeologia industriale che ricorda l‘Arsenale di Venezia. L’artista Greenaway si pone lo stesso obiettivo dell’artista Goltzius, seppure gli strumenti sono diversi: cinema e incisioni, distillare la sensualità fino a renderla sublime. Innumerevoli le citazioni di raffinata cultura, soprattutto pittorica, e i nudi, figure danzanti, rappresentazioni erotiche, quasi personaggi di quadri, protagonisti di un happening che non è mai volgare perché solo l’ignoranza e il bigottismo religioso sono volgari. L’essenza è rivelata dal regista: “tutto, nella nostra vita, può essere messo in discussione, tranne due cose: il sesso, che è all’origine della nostra nascita, e la morte”. L’inizio e la fine, Eros e Thanatos, sono imprescindibili. Geniale è lo scambio continuo tra vita e teatro: la vita stessa diventa palcoscenico e il teatro prende vita. La finzione è dichiarata, la recita avviene davanti a noi, una Babele barocca, un vortice artistico e colto (arte, religione, morale, politica), da cui non si emerge e che non si domina ma che richiede allo spettatore di lasciarsi andare, di farsi trasportare in un universo simbolico.
Greenaway ci regala un’opera sontuosa e sperimentale, il suo è un linguaggio che fonde video-arte, cinema e pittura, un’opera multidimensionale, un palinsesto artistico, con più livelli di significato e di lettura (dall’arte e la sua mercificazione alla religione), ma con una predilezione per il linguaggio visivo. Proprio per questo l’unico eccesso è forse nel narratore onnisciente (Goltzius), racconto e romanzo di se stesso, che forse troppo distrae dal flusso delle immagini, ricche di citazioni iconografiche sacre. Ogni inquadratura è trattata dal regista come un’opera pittorica sfarzosa, in cui ogni dettaglio è scelto e curato, quadri barocchi a cui la musica di Marco Robino aggiunge una elegante espressione lirica.

 

THE MOTEL LIFE
Regia di Gabriel Polsky e Alan Polsky
Drammatico – 95’
Stati Uniti 2012

Premiato dal pubblico quale migliore film in concorso e vincitore del premio per la migliore sceneggiatura al Festival Internazionale del Film di Roma The Motel Life è stato uno dei lungometraggi più applauditi in sala.
La sceneggiatura ha un ritmo incalzante ed è ricca di colpi di scena, merito di Noah Harpster e Micah Fitzerman-Blue. Il film, tratto dal romanzo del cantante country Willy Vlautin, è la storia di due fratelli rimasti presto orfani, che a seguito di varie e sfortunate vicende si trovano in fuga da un motel all’altro. La madre, prima di morire, aveva raccomandato loro di restare sempre uniti a qualsiasi costo: questo legame sarà il filo conduttore della loro vita e anche della loro dannata sorte, perché ognuno dei due è cresciuto avendo come riferimento l’altro.
I registi, due fratelli che comunicano attraverso l’arte del cinema e con la fantasia, proprio come i protagonisti del film, indagano abilmente il confine tra legame affettivo e dipendenza reciproca.
Frank e Jerry Lee Flannigan, interpretati da Emile Hirsch (protagonista dello stupendo “Into the wild” di Sean Penn) e Stephen Dorff, bravissimo, esprimono i loro disagi anche attraverso i racconti di Frank, che hanno lo scopo di tranquillizzare il fratello, e i disegni di Jerry Lee, che sono inseriti in modo originale nello sviluppo del film; in fondo questo talento li riscatta. I disegni che si animano sullo schermo offrono incantevoli pause al pathos della storia, inserti fumettistici che danno un valore aggiunto all’opera. Una storia di perdenti su cui sembra abbattersi ineluttabile la sfortuna, ambientata nella fredda e anonima Reno. Ma non è un film sull’infausto destino che sembra precipitare le vite dei due protagonisti nel baratro: il fine non è commuovere lo spettatore, perché chi ha risorse e sentimenti alla fine riesce a dare una rotta alla propria vita. Un film on the road, un viaggio di iniziazione lungo le strade di provincia del Nevada.
L’esordio alla regia dei fratelli Polsky, già produttori indipendenti, è stato brillante e particolarmente apprezzato dal pubblico. Non si può parlare di un capolavoro ma è sicuramente un film ben confezionato, considerato anche il breve tempo in cui è stato girato, meno di un mese.

 

LE 5 LEGGENDE (Rise of the Guardians)
Regia di Peter Ramsey
Animazione 3D – 89′
USA 2012

Le 5 leggende è il nuovo cartoon della Dreamworks che dal 29 novembre sarà presente nelle sale cinematografiche. Ha ricevuto al Festival Internazionale del Film di Roma, dove è stato presentato in anteprima mondiale, il “Vanity Fair International Award for Cinematic Excellence” per il suo contributo innovativo e artistico. Prodotto da Guillermo del Toro, tratto dalla serie di libri illustrati “The Guardians of Childhood” di William Joyce sarà sicuramente il film di punta di Natale. Quello che lo differenza da altri cartoon 3D, oltre la tecnica innovativa e i colori sfavillanti, è il ritmo: è stato girato come un film d’azione, forse per conquistare anche un pubblico adulto.
E’ la storia epica di eroi costretti a lottare contro Pitch (l’Uomo Nero) che vuole portare le tenebre sulla terra e trasformare i sogni dei bambini in incubi. Contro Pitch (pitch black significa nero come la pece) si schierano i Guardiani dei sogni dei bambini, che solo uniti riusciranno a sconfiggere l’Uomo Nero. Questi supereroi, scelti dalla Luna, provengono prevalentemente dal mondo anglosassone. Jack Frost, è lo spirito della neve, controlla il clima e con un bastone magico è in grado di scatenare neve, tempeste, freddo e vento. Babbo Natale, che parla con accento russo, ha due grandi tatuaggi sulle braccia: su uno c’è scritto cattivo e sull’altro buono. Calmoniglio, il coniglio di Pasqua, sa usare il boomerang ed è esperto di arti marziali. La Fatina dei denti (the Tooth Fairy), sembra un colibrì, è bellissima e vivace, vestita con stupendi colori cangianti (blu e verde), vola nelle case dei bambini per lasciare un soldino per ogni dente caduto. Nei dentini dei bambini si conservano i loro ricordi e, imprigionando le fatine, Pitch fa sparire tutti i ricordi dei bambini. Sabbiolino (Sandman) è il guardiano dei sogni, non parla ma si fa capire attraverso le immagini di sabbia che lui stesso crea. Tutti sono magicamente potenti ed esistono solo perché c’è gente che crede in loro, solo così i sogni, la luce e i colori alla fine ritorneranno.

 

 

 

MARFA GIRL
Regia di Larry Clark
Drammatico – 106′
USA 2012 

La giuria del Festival, questa volta in sintonia con critica e pubblico, ha assegnato il Marc’Aurelio d’Oro per il miglior film a “Marfa Girl”, che più indipendente di così non si può: visibile da tutti i cibernauti solo su web, senza essere accusati di pirateria, dal 20 novembre sottotitolato in italiano.
Protagonista del film è l’adolescenza, tema caro al fotografo-regista e provocatore Larry Clark, autore di “Ken Park”. Ispiratrice del film è Marfa, cittadina del Texas, a pochi chilometri dal confine con il Messico, crocevia di diverse culture ed etnie (bianchi-americani e messicani-americani), luogo di conflitti, contraddizioni e atmosfere new age. L’adolescenza dunque quale età di confine vista in una terra di confine. Marfa è una cittadina di frontiera, con tutti i suoi problemi relativi all’immigrazione e ai contrasti tra i diversi ceti: artisti, poliziotti di frontiera bianchi ed ex immigrati, disoccupati.
Adolescenti che sperimentano la vita e i piaceri, sesso e droga, ma quali saranno i loro confini? Quando finirà la loro iniziazione e diventeranno adulti? Un’adolescenza che sembra non conoscere l’aids. Adam (Adam Mediano), un sedicenne di origini messicane che si fida ciecamente di Inez, la sua fidanzata, ma che non la ripaga con altrettanta lealtà o libertà, si lascia infatti sedurre dalla moglie (ragazza madre) di un galeotto. Un poliziotto bianco rigido conservatore ma con una personalità paranoica, con ossessioni sessuali, che tiene sotto controllo i giovani di Marfa ma più per soddisfare le sue perversioni che per mantenere l’ordine. Corteggia una cassiera ma con il solo intento di portarsela a letto, la divisa non potrebbe che avere la meglio sulla donna di colore, la violenza non è nelle scene ma nella schiacciante prevaricazione dei ruoli. In una cittadina che sembra immobile come il deserto che la circonda in realtà molte cose accadono. Una giovane e bella artista (Drake Burnette), ospite di una fondazione e cresciuta da un padre hippie, crede nell’amore libero portando scompiglio tra i giovani ispanici e si trova presto ad avere a che fare con il poliziotto deviato sessualmente. Personaggi borderline figli di una terra di confine. Larry Clark sembra voler soltanto fotografare la realtà di Marfa, un documentario senza una trama apparente, ma il suo obiettivo scava fino in fondo tutti i personaggi del film e la bella colonna sonora lega egregiamente le scene. Lui stesso ha dichiarato: “Sono stato un artista per molti, molti anni e non sono interessato a fare film per soldi”.

 

 

E LA CHIAMANO ESTATE
Regia di Paolo Franchi
Drammatico –  89′
Italia 2012 

La stampa che ha assistito alla proiezione del film al Festival non è stata clemente, con i suoi fischi e insulti al film; identiche esternazioni hanno accompagnato la premiazione. Se i giornalisti si chiedevano quali fossero stati i requisiti di tale candidatura ora la critica ed il pubblico si interrogano sulle motivazioni dei verdetti della giuria.
Il film è la storia di un coppia di quarantenni uniti da un rapporto sentimentale apparentemente platonico. Ma non è il sesso che manca a Dino, lui lo soddisfa in modo compulsivo e trasgressivo con prostitute e scambisti, all’insaputa di Anna, con la quale ha soltanto un rapporto affettuoso.
Dietro Dino aleggia una personalità controversa e sofferente, ma di cui non si definiscono mai bene i contorni o le cause. Se visto in senso psico-patologico il suo comportamento è poco approfondito ed indagato: non è sufficiente il suicidio di un fratello a motivare una sessualità perseguita solo al di fuori del rapporto di coppia e che per esistere ha bisogno dell’assenza dei sentimenti. Su un piano più generale c’è il tema, socialmente rilevante, della sessualità, spesso maschile, vissuta in netta separazione dai sentimenti e, peggio ancora, all’insaputa del partner. Poco credibili appaiono infatti i rimorsi e l’amore di Dino nei confronti di Anna, la ricerca di un piacere trasgressivo è una libertà egoisticamente consentita solo a lui, con lei che non condivide le proprie fantasie o avventure erotiche. Dino non tenta in alcun modo di coinvolgere Anna nella sua sfera sessuale e magari farla diventare sua compagna di giochi piccanti: dice di amarla ma la lascia priva di piacere, escludendola da ogni suo desiderio. Sente Anna come qualcosa di suo, ne gestisce l’assenza di piacere o all’acme del suo delirio va alla ricerca di ex partner di Anna a cui proporre un incontro sessuale con lei, un cadeau per lenire i suoi sensi di colpa?!
Piuttosto banale è la personalità di Anna, speriamo non più attuale: lei ama incondizionatamente, passivamente Dino e si accontenta dei suoi “sono stanco” ogni volta che rientra in piena notte dopo scorribande sessuali, e quando vede sul telefonino l’altro mondo di Dino, anche se non si può definire una ‘scoperta’ perché chiunque si sarebbe posto interrogativi e avrebbe intuito il suo mondo parallelo. Si concede allora un’evasione con un improbabile ragazzo infatuato di lei. Ma non si tratta di una presa di coscienza cui segue una ribellione o reazione.
Non scandalizza il tema scabroso trattato – uomini che vanno con prostitute e club privé non sono eventi così rari – quanto il modo piuttosto superficiale con cui è stato elaborato.
Il tormentone della lettera attraverso la quale Dino racconta ad Anna la verità, che il regista Paolo Franchi ripropone per almeno quattro o cinque volte, toglie ai traumi di Dino ogni sofferta credibilità e autenticità al suo tormento interiore.
Si tratta di uno di quei casi in cui non basta il tema scabroso, l’audacia, o immagini che non lasciano spazio alla fantasia, a fare un film alternativo, originale, che emoziona o irrita. Qui i personaggi tutt’al più annoiano, stancando lo spettatore, con una ripetitività di situazioni, che nulla aggiungono alla storia.
Ci auguriamo che Nicoletta Mantovani, che ammiriamo per il suo coraggio ma che non sembra aver aggiunto un prodotto di qualità alla Pavarotti international, faccia parlare ancora di sé in futuro per opere degne di un nome così prestigioso nell’ambito culturale.

 

NARMADA
Regia di  Manon Ott e Grégory Cohen
Documentario – 47′
Francia 2012 

Narmada, da fiume sacro a “tempio dell’India moderna”, è arrivato al Festival. Il mediometraggio in concorso, di Manon Ott e Grégory Cohen, è stato proiettato al Maxxi, scelto quest’anno, oltre all’Auditorium, quale sede del Festival del Cinema di Roma.
Ai due registi, presenti in sala, va senz’altro riconosciuto il merito per la scelta di portare sugli schermi internazionali il problema sociale, economico e politico del progetto della costruzione di mega-dighe in India.
Il loro lavoro documentaristico dà tuttavia per scontati alcuni aspetti del problema, forse per il timore di giudicare e di non essere obiettivi nei confronti di un problema interno del subcontinente indiano, ma solo apparentemente.
Narmada è un fiume conteso tra i diversi interessi economici e i diritti della popolazione che, da sempre, vive sulle terre fertilizzate dalle sue acque. Narmada è un fiume di circa 1300 km che attraversa tre stati dell’India: Madhya Pradesh, Maharashtra e Gujarat, prima di sfociare nel mare a nord di Mumbay.
E’ uno dei corsi d’acqua più sacri dell’India: ritrovamenti archeologici dimostrano che le sue vallate erano abitate dal paleolitico ed è oggetto, dalla fine degli anni ’80, del Narmada Valley Development Plan (NVDP), un sistema di oltre 3000 dighe (di cui 30 molto grandi) che è destinato a cambiare l’idrologia e la morfologia del territorio circostante. Ma il problema non è soltanto ambientale: innalzamento del livello di umidità, l’aumento delle piogge e l’abbassamento della temperatura, con l’allegamento di vaste terre, riguarda oltre 3 milioni di persone che vivono in villaggi vicino al fiume.
Dal 1985-86 la gente che vive sul Narmada, gli adivasi, i Bhil e gli attivisti protestano perché la compagnia Narmada Hydroelectric Development Corporation (NHDC), che sta realizzando le mega-dighe (Sardar Sarovar, Maheshwar e Omkareshwar), ignora quanto decretato dal Narmada Water Dispute Tribunal che ha stabilito l’obbligo di dare a tutte le persone, obbligate ad un re-insediamento forzato, nuove terre almeno un anno prima dell’allagamento della zona da loro abitata.
Nel film il problema sembra toccare solo poche persone locali, ma è necessario ricordare che in India i cosiddetti tribali, definiti dal governo indiano scheduled tribes, sono complessivamente più della popolazione italiana, circa 90 milioni di persone.
Nel 1993 la Banca mondiale ha abbandonato il progetto della NHDC; nel 2000 una task-force di esperti internazionali, voluta dal Ministero dello Sviluppo tedesco ha dato una pessima valutazione del progetto e successivamente la Siemens ha rinunciato alla propria partecipazione.
Il territorio, uno di più fertili dell’India, è abitato da migliaia di famiglie di contadini che rischiano di venire annegate, rimanere senza casa e senza risorse economiche. Un dramma che rischia di fare più vittime di una calamità naturale come lo tsunami.
Il problema energetico ed idrico potrebbe essere risolto diversamente: il progetto presentato dal Narmada Bachao Andolan (NBA) prevede la costruzione di tante piccole dighe e lo sfruttamento dell’energia solare, di cui oggi l’India è un leader mondiale.
Molte proteste sono state messe in campo e molti attivisti sono stati arrestati, ma nonostante ciò le conquiste legali di tante battaglie non si traducono in fatti. Non è un caso il susseguirsi di diversi processi per corruzione legati alle dighe, di cui non è fatto cenno nel filmato. Nel 2009 le Autorità arrivarono ad ammettere che il reinsediamento ha riguardato solo il 3% della popolazione.
Per tali motivi, da anni, il NBA lancia la sua forma pacifica di protesta, quella insegnata da Gandhi, la Satyagraha (fermo nella verità): abitanti ed attivisti si immergono fino alla gola nel fiume minacciando di lasciarsi annegare se non vengono ascoltati, questo nel tentativo di contrastare l’innalzamento illegale dei livelli dell’acqua di queste mega-dighe. Tali proteste, l’ultima a settembre del 2012, non potevano essere, per ragioni di tempo, incluse nella pellicola, che però poteva risultare più incisiva attraverso maggiori notizie oppure l’uso di un ritmo più serrato, con sequenze meno lunghe e a volte ripetitive.

 

LE SPOSE CELESTI DEI MARI DELLA PIANURA
Regia di Alexey Fedorchenko
Sperimentale – 106′
Russia 2012

Se avete intenzione di non perdervi il film di uno dei registi più innovativi del Festival, “Le spose celesti dei Mari della pianura” sappiate che acquisterete un biglietto per un teletrasporto. Alexey Fedorchenko, che potremmo definire rappresentante della corrente: ‘realismo magico’, ha presentato finora i suoi film a Venezia per i quali ha ottenenuto sempre dei premi.
Le sue spose celesti ci conducono in un viaggio nelle terre lontane e innevate di Russia tra i Mari, una etnia dai tratti fortemente pagani, gente che sembra vivere nel periodo dell’infanzia dell’umanità, che dimora in case di tronchi di legno, dove contano gli istinti primari e la donna, madre-natura, fila le trame dei rapporti con gli altri: uomo, famiglia e società.
Si tratta di brevi profili di donne, ma la vera e stupenda protagonista del film sembra essere la natura. Una natura incontaminata, dura, glaciale, bellissima, dipinta come nei quadri fiamminghi dalla mirabile fotografia di Shandor Berkeshy. Le scene dei boschi di betulla, dai tronchi bianchi screziati di nero immersi in paesaggi innevati, bianco su bianco, sono natura in 3D che esce dallo schermo.
Una film antropologico e magico allo stesso tempo, dove la vita è scandita dai ritmi e divinità naturali, s’invoca la “madre della nascita” sotto un albero centenario, si fanno offerte a divinità naturali, si cerca di rabbonire una enorme betulla causa di disgrazie dopo che è stata offesa.
La sessualità è vissuta in modo naturale, spontaneo e senza inibizioni. Una donna-orco, Ovda, richiede anche lei un po’ d’amore e vuole passare una sola notte con il marito di una donna del villaggio. La moglie del prescelto rifiuta, ma anche lei dovrà rinunciare all’amore del suo uomo. Donne che desiderano sesso e sono felici dopo averlo fatto. Donne che fanno l’amore con la natura: come la giovane donna che offre il suo corpo nudo al vento e il suo amico scopre che non è la figlia del vento, ma la sua amante. Un film pagano, tratto dal libro di Denis Osokin, che ci racconta la vita dei Mari con le sue superstizioni. Sebbene il film sia costituito da 23 episodi, come i capitoli di un libro, mantiene la sua unitarietà. Deliziosa la carrellata finale delle attrici tutte in costume tradizionale.

 

MAINS DANS LA MAIN
Regia di  Valérie Donzelli
Commedia – 85′
Francia 2012 

La trentanovenne Valèrie Donzelli, che ha abbandonato i suoi studi di architettura per dedicarsi alla recitazione, ha iniziato con piccoli ruoli nel cinema e poi per farsi conoscere dal grande pubblico in televisione. Decisivo è stato l’incontro con Jérémie Elkaïm, suo compagno di vita e protagonista anche del film proiettato al Festival; insieme hanno scritto “La guerra è dichiarata”, apprezzato da pubblico e critica, ispirato alla vicenda autobiografica della grave malattia del figlio.
Mains dans la main è una commedia spumeggiante, raffinata, elegante, dall’inconfondibile tocco ed ironia francese. I due protagonisti sembrano gli eterni opposti inconciliabili: Hélène (la brava Valérie Lemercier) è la sofisticata direttrice della scuola di danza dell’Opéra Garnier, mentre Joachim (Jérémie Elkaïm) vive in periferia e lavora in un negozio di vetri e specchi. Lei, sola, nella sua vita dorata e lui in un appartamento sovraffollato (con sorella, interpretata da Valérie Donzelli, nipoti, cognato e nonna centenaria). I due si incontrano per caso e quasi per caso si baciano. Sembra che la storia tra loro debba finire lì, ma il bacio produce un sortilegio: non riescono più ad allontanarsi l’uno dall’altra e così le due vite apparentemente inconciliabili trovano dei compromessi esilaranti. Un nuovo bacio scioglierà l’incantesimo e lui potrà dire la frase d’effetto: “non ti lascio per allontanarmi da te ma per ritrovare me stesso”. Chissà quante donne l’hanno sentito dire?! Ma l’amore ed il destino non hanno ancora messo la parola ‘fine’ alla loro storia.
L’eleganza del film è dovuta anche alle diverse scene di danza che sapientemente intervallano la storia, piccoli quadri di Degas in una Parigi contemporanea.

 

 

 

Si è conclusa l’impresa di un Festival del cinema organizzato in quattro mesi: i premi sono stati consegnati, il sipario è calato ed è arrivato il momento di tirare le somme.
I bilanci si basano su indicatori di qualità e quantità. Un Festival che forse ha scontentato i cinefili più esigenti che hanno lamentato poche pellicole degne del podio, pochi nomi autorevoli presenti, una giuria contestata per alcuni premi, come quelli al film “E la chiamano estate”, riconoscimenti che comunque non riescono a legittimare in modo convincente i cospicui fondi assegnati al film di Paolo Franchi. Per quanto riguarda i numeri: 25.000 le presenze registrate durante il week-end e 100.000 i visitatori del villaggio del cinema. Ottimi i riscontri di “Alice in città” nel nuovo spazio autonomo che, nei primi giorni, ha ospitato 85 scuole, ha registrato 12.500 presenze e soprattutto ha dimostrato come il basso costo del biglietto vada incontro alle esigenze del pubblico che ripaga tale scelta.
In ogni caso è stato un Festival che ha saputo accogliere anche la contestazione: la protesta ecologista di Greenpeace all’insegna dello slogan: “Enel veleno, morte per tutti”, con gli attivisti che hanno proiettato sui muri dell’Auditorium alcuni video; gli studenti hanno sfilato contro i tagli alla cultura e in difesa della scuola pubblica; alcuni manifestanti di Occupy, hanno protestato contro la disoccupazione e le motivazioni di una crisi che non sono rintracciabili solo nella recessione economica ma anche nella politica del malaffare.

Ma dopo le cifre e le valutazioni degli esperti, abbiamo chiesti al pubblico un parere sul Festival e per questo abbiamo intervistato una frequentatrice abituale delle varie edizioni del Festival, Laura T. di Roma, e un’appassionata di cinema ma alla sua prima esperienza qui all’Auditorium, Virginia F.


Cosa pensa del programma di quest’anno, sia della selezione dei film italiani che di quelli stranieri?
Laura: Credo che la crisi economica mondiale abbia avuto una ripercussione drammatica anche nel settore cinema. Quest’anno ci sono stati pochi contributivi significativi, ma non dobbiamo disperare, contiamo in una ripresa economica e cinematografica.
Virginia: L’ho trovato estremamente variegato, “ce n’è per tutti i gusti”: dai film-evento di massa lanciatissimi, dal red carpet delle star del momento, a quelli di élite, più attenti alle innovazioni; dai documentari alle retrospettive, con un’attenzione particolare rivolta al genere per ragazzi. Sicuramente un ottimo trampolino di lancio anche per il nostro cinema italiano, con alcune proposte interessanti.

Una valutazione sull’organizzazione?
Laura:
Roma è sempre prodiga di braccia e volontà ma ciò non ha risolto alcune lacune; per esempio il sovrapporsi di spettacoli di punta concomitanti con altri eventi e rappresentazioni in siti lontani tra loro (per es. Barberini).
Virginia: Soddisfacente: personale addetto disponibile, sito internet curato, distribuzione delle proiezioni tra le varie sale ben organizzata. Forse avrei visto con favore una maggiore disponibilità di spazi allestiti per l’occasione nel centro storico, soprattutto per gli spettacoli serali, più facilmente fruibili per chi, come me, lavora durante il giorno e non ha potuto godere appieno degli eventi tenutisi durante la settimana lavorativa, perché essenzialmente concentrati nel Polo Auditorium.

Le sedi di proiezione le sono sembrate adeguate?
Laura:
Complimenti per il nuovo padiglione “Alice nella città”. Il Maxxi, per quanto bello come museo, risulta carente per il numero dei posti disponibili e l’acustica non è ottima.
Virginia: Le proiezioni a cui ho assistito si sono svolte presso la Sala MAXXI del Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo e al Barberini. La prima, in particolare, è stata una piacevole sorpresa, perché, dalla sua inaugurazione nel 2010, non avevo ancora avuto occasione di visitare l’interno del complesso. Salacinema molto bella, all’insegna del comfort e del design più accattivante.

In questo periodo di crisi il costo dei biglietti le è sembrato adeguato?
Laura:
Mi ripeto, considerata la “crisi mondiale” la risposta è scontata…
Virginia: Escludendo gli eventi delle anteprime “VIP”, con un costo che reputo francamente esagerato per una proiezione cinematografica, ho notato delle iniziative che vengono incontro al pubblico, composto spesso di giovani: previsioni di riduzioni varie, concorsi con in palio biglietti gratuiti, proiezioni “mini” al prezzo di uno snack, 3 euro.

Quale film ha apprezzato particolarmente e quale non le è piaciuto?
Laura:
Il film più interessante è stato “Aspettando il mare” quello che mi è piaciuto meno: “Il regno delle carte”
Virginia: Mi è piaciuto Mental, di P.J. Hogan: la follia ai nostri tempi, vista dall’eccentrico regista nella sua Australia… ancora un ritratto comico-grottesco della nostra società. Bravissima Toni Collette.
Delusione per Narmada: anzitutto mi è risultato incomprensibile l’abbinamento con l’altro corto girato nelle Filippine, tempo massimo di sopportazione per quest’ultimo: 10 minuti. Sempre per Narmada, la lentezza del ritmo – prevedibile – non è stata bilanciata da un adeguato approfondimento della questione della lotta alle catastrofi naturali e sociali nella corsa al progresso dell’India moderna. Un’occasione persa.

L’attore o l’attrice di cui le è piaciuta in particolare la recitazione?
Laura:
Sebastian Koch, protagonista del film Suspension of Disbelief
Virginia: Confermo la Collette, sicuramente anche per l’effetto revival della sua precedente interpretazione ne “Le nozze di Muriel”, sempre per la regia di P.J. Hogan.

Con quale protagonista del red-carpet avrebbe preso volentieri un caffè e quale domanda gli avrebbe voluto fare?
Laura:
Adrien Brody a cui avrei chiesto “che cosa si prova ad indossare il “Traje de Luces” (n.d.r. tradizionale abito dei toreri) anche se solo al cinema.
Virginia: Dopo aver ammirato le sue foto sul red-carpet in mezzo ad un cast di attori cinesi, direi senz’altro Adrien Brody, anche perché mi risulta che abbia disertato la conferenza stampa per 1942. Gli avrei chiesto della sua esperienza di attore hollywoodiano in un kolossal cinese; il confronto con lo stile di recitazione, le difficoltà con la tematica… la censura che ancora opera in quel Paese.

A Laura: ritiene le passate edizioni migliori? Se si, quali?
Come in amore: la prima edizione.

A Virginia: può inviare consigli e suggerimenti all’Organizzazione del Festival, quindi quali sono le sue indicazioni per renderla migliore, più conosciuta a livello internazionale e nota al grande pubblico?
Virginia:
A mio avviso, bisogna sempre partire da un’accurata selezione delle pellicole: se i film sono di qualità, nel mondo globalizzato di oggi, non fanno fatica a superare confini territoriali e far breccia tra il grande pubblico. Ritengo che si possano sfruttare di più le locations uniche che offre la città di Roma, estendendo gli eventi più importanti (anche per i problemi di capienza delle sale) in altri luoghi del centro storico o di altri quartieri caratteristici. Non ultimo, si potrebbe studiare una modulazione del prezzo di costo dei biglietti, magari legandoli ad altri eventi (concerti, mostre tematiche…), o prevedendo ulteriori spettacoli a prezzi ridotti.

Non possiamo che accogliere volentieri l’invito di Virginia al contenimento dei costi, è stato bello vedere in questi giorni diversi studenti universitari, che hanno beneficiato dell’accredito culturale, studiare le materie di esame nelle pause delle proiezioni in sala, un sistema interdisciplinare di apprendimento che sicuramente può dare i suoi frutti.
Arrivederci alla prossima edizione, Festival go on!