Culture21 srl – Gruppo Monti&Taft Ltd
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E così vorresti fare lo scrittore?
Non è un manuale di scrittura. È un manuale di salvataggio dopo la pubblicazione del primo inedito. Aiuta a salvarsi dalle nebbie della impopolarità, dalle asprezze delle prime stroncature, dalla SDC o Sindrome Da Classifica che, immancabilmente, attanaglia ogni scrittore. È un testo che racconta delle fatiche della promozione, girando per il mondo in lungo e largo, ospitato da piccoli librai entusiasti o in trasferta negli hotel più affascinanti, sotto i fuochi di domande scomode o lusingato da commenti interessanti. Sopravvivere in veste di scrittore professionista non è facile e la vita da post esordienti è costellata da scadenze, blocchi della creatività, premi vinti e premi persi, obblighi sociali e convenevoli. È un testo che insegna che, alla fine di qualunque giro di giostra, a rimanere e a motivare è la passione bruciante e incontenibile per la scrittura declinata in tutte le sue forme.
L’ironia e la leggerezza sono le caratteristiche portanti di questo libro. L’umorismo pungente e realistico e il tono confidenziale rendono la lettura piacevole e scorrevole. Il lettore segue l’escalation di un autore attraverso i tre gradi che ne costituiscono la carriera (oltre che la macro suddivisione del libro): Brillante Promessa, Solito Stronzo e Venerato Maestro. Per ogni fase ci si addentra, con sincerità, nel mondo di gioie e dolori che uno scrittore deve affrontare, ciascuna con un grado e una sfumatura diversa di intensità.
Per apprezzarlo e arrivare fino all’ultimo capitolo non bisogna per forza avere in un cassetto un manoscritto inedito che si sogna un giorno di pubblicare.
Leggendolo non scoprirete la formula che mondi possa aprirvi, non verrete a conoscenza dell’incantesimo che vi farà diventare magicamente scrittori, ma avrete a disposizione uno spaccato pratico e divertente di quello che significa fare il mestiere dello scrittore.
Come racconta nella prima parte del suo volume, l’autore Giuseppe Culicchia ha cominciato la sua carriera nel mondo dei libri e dell’editoria come commesso in una libreria, dove ha lavorato per dieci anni. Una volta diventato a pieno titolo Giovane Scrittore ha lasciato il posto fisso per dedicarsi full time ad uno dei lavori più belli e faticosi del mondo. Poi da Solito Stronzo si è iscritto a Facebook, per promuovere uno dei suoi libri, ma di Twitter dice: “Non ho qualcosa di intelligente e sarcastico e interessante e brillante da dire su tutto lo scibile umano in centoquaranta caratteri e ogni tre minuti. Per me escogitare anche solo un pensierino al giorno da postare su Twitter sarebbe un secondo o terzo lavoro”. Come biasimarlo…
Tutti quelli che sognano di diventare scrittori, gli amanti dei libri, della lettura e dell’editoria. Ai curiosi dotati di senso dell’umorismo.
E così vorresti fare lo scrittore? di Giuseppe Culicchia, Laterza 2013, 14 euro.
La rete brulica di corsi di formazione, seminari e workshop volti ad approfondire i temi della responsabilità sociale d’impresa. E’ sufficiente digitare su google le parole chiave csr, corso, master e si apre un nutrito elenco di opportunità, destinate ai professionisti che già operano nel settore, ai dipendenti delle aziende e delle pubbliche amministrazioni o ai giovani appassionati della materia che vorrebbero farne un lavoro. Tra i master più rinomati, quelli promossi dall’Università Bocconi, dall’Università Ca’ Foscari di Venezia e dalla Lumsa di Roma. Questi sono, tuttavia, solo alcuni esempi dell’eccellenza formativa offerta dalle università italiane.
Eppure alcuni dubbi sorgono spontanei. Il sistema formativo, pubblico o privato che sia, non dovrebbe facilitare l’effettivo incontro dell’offerta e della domanda nel mercato del lavoro? E, ancora, siamo sicuri che in una fase storica di recessione, quale quella attuale, le aziende abbiano risorse da investire in responsabilità sociale d’impresa?
I dati relativi ai primi nove mesi del 2012 rilevati dall’Osservatorio su fallimenti, procedure e chiusure di imprese del Cerved Group parlano chiaro: con una media di 200 imprese al giorno che escono dal mercato, per un totale complessivo di 55mila imprese chiuse nel 2012, la crisi è nera e le cifre riferite ai primi sei mesi del 2013 non sono certo più rosee.
Visto il contesto è d’obbligo, dunque, domandarsi quale impresa possa permettersi il lusso di investire in csr? Di certo non le piccole e medie imprese che, a causa della contrazione della liquidità e della stretta al credito praticata dalle banche, stentano ad arrivare alla fine del mese. Tendenzialmente le aziende che investono regolarmente in csr sono piuttosto quelle che possono contare su fatturati consistenti, come rilevato da un’indagine condotta da SWG per l’Osservatorio Socialis su L’impegno sociale delle aziende in Italia, 2012.
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Intervista al Direttore di Lucana Film Commission, Paride Leporace
Insieme alla Regione Basilicata avete promosso il bando per il finanziamento di produzioni sul vostro territorio, in scadenza l’11 novembre. Quali i principali punti di forza di tale opportunità?
Fino a duecentomila euro di finanziamento per ogni film da spendere sul nostro territorio. E una quota destinata a sperimentare la nascita di piccole imprese locali vocate all’audiovisivo. Si tratta della prima pietra per edificare un sistema di piccole e medie imprese che possano formare un distretto della creatività a supporto dell’industria cinematografica
Cosa consiglia alle PMI che si candideranno per ricevere i finanziamenti messi a disposizione? C’è magari qualche location particolare che vuole suggerire?
Consiglio innanzitutto di non pensare alla Basilicata come un bancomat da utilizzare nella forma usa e getta. Spero si ragioni tutti in modo virtuoso e mi auguro che qualche squalo che circola in questi ambienti venga demotivato dalla rigidità dei controlli che un bando europeo propone. Per chiarimenti abbiamo attivato un servizio FAQ consultabile dal nostro sito lucanafilmcommission.it. In merito ai set da proporre io preferisco chiamarli luoghi. La Basilicata è molto vasta, contrariamente a quello che restituisce il luogo comune. Si tratta di luoghi che a volte hanno visto l’alba dell’uomo. Sono poco abitati quindi molto cinematografici. Matera è un patrimonio dell’umanità e città del cinema. Ma abbiamo anche due mari, molti laghi, cime innevate e deserti brulli, paesini che sembrano presepi e nidi di vespe arrampicati sulle colline, cattedrali medioevali, palazzi barocchi, foreste, centri storici intatti, piccole savane, campi di grano, attrazioni con filo d’acciaio che imbracati vi conducono come un angelo da un paese all’altro a grande altezza. Un campionario di scenari naturali pronto a soddisfare ogni sceneggiatura da illuminare con una luce che ha già entusiasmato molti direttori della fotografia.
Che tipo di interazioni si attivano tra le produzioni che giungono da voi e le realtà locali, come imprese, associazioni, istituti culturali e amministrazioni?
C’è grande accoglienza e molta partecipazione. Le amministrazioni locali, a differenza dei luoghi metropolitani, non creano ostacoli burocratici, ma favoriscono permessi e mettono a disposizioni mezzi e risorse. Le relazioni corte lucane sono molto utili per risolvere i problemi di una produzione, dove ridurre i costi e i tempi è il primo risultato da raggiungere. Il mondo delle imprese deve attrezzarsi meglio, quello della cultura essere più propositivo.
Tra le produzioni che avete sostenuto in passato, quale a suo avviso ha meglio rappresentato e veicolato le bellezze della Basilicata?
“Basilicata coast to coast”, grazie ad un regista lucano come Rocco Papaleo e al racconto “on the road”, ha permesso di rendere riconoscibile la Basilicata e di renderla anche molto affascinante al visitatore che non cerca luoghi banali o scontati. Abbiamo favorito la distribuzione del film anche in Francia e grazie a questo prodotto cinematografico abbiamo notato come la nostra regione sia attraente anche all’estero. Tra l’altro molti studi indicano questa favorevole circostanza. Il film è nato grazie all’intuito del produttore che ha ricevuto attenzione e finanziamento dalla Regione Basilicata e dal ministero, godendo anche di un’ottima campagna pubblicitaria pagata da parte di alcune compagnie petrolifere operanti nella nostra regione. E’ stata un’ottima operazione di promozione territoriale, abbinata ad un prodotto di successo economico e artistico.
Che tipo di attività svolgete invece sul territorio per promuovere il cinema e la sua conoscenza? Che feedback riscontrate?
Siamo in stretto contatto con una rete di Centri della creatività, nati in Basilicata grazie alla Regione, che ha riqualificato delle vecchie cattedrali nel deserto inutilizzate affidandole a gruppi e cooperative che hanno partecipato ad un bando pubblico. In questi Centri abbiamo tenuto molti incontri con i territori e oltre ai lavoratori della creatività e del cinema abbiamo anche interagito con imprenditori, amministratori, banche e categorie produttive. La nostra narrazione dimostrativa convince sempre più persone. Siamo inoltre molto impegnati a difendere le sale cinematografiche esistenti e con un Apq tra governo e Regione speriamo di poter effettuare una sperimentazione sul nuovo cinema digitale nelle nuove sale del presente. Infine, e non da ultimo, dobbiamo formare dei cittadini spettatori che abbiano una buona cultura delle immagini, che le sappiano leggere e capire. Per questo è indispensabile partire dalle scuole e dall’Università.
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La Basilicata ha un lungo trascorso cinematografico: come spiega questa particolare vocazione?
Le inchieste sociali e i documentari aprirono la strada. Girare in Lucania era come andare in un posto esotico. Poi la spedizione di De Martino apri’ la vocazione antropologica che continua ancora oggi ad un cinema che indaga e prende a pretesto riti e costumi ancestrali. Poi la decisione di Pasolini di ritrovare la Palestina di Cristo a Matera e Barile per alcune scene monumentali del Vangelo segnerà per sempre la storia del Cinema. Da allora Matera in particolar modo, ma non solo, diventa set privilegiato per film legati alla vicenda di Gesù. Quasi un genere compresa qualche parodia, metacinema e qualche flop americano. Poi si gira “The Passion” di Mel Gibson che, grazie ai suoi incassi stratosferici e alle polemiche globali suscitate, ha fatto diventare Matera una delle mete di cineturismo più conosciute al mondo. A Pasqua il turista trova le croci sulla Murgia ormai diventato Golgota nell’immaginario collettivo. Poi c’è tutto il resto. L’esordio della Wertmuller, la trilogia di Francesco Rosi che riesce a impossessarsi dell’epopea contadina di Carlo Levi negli anni Settanta, la finta Sicilia di Tornatore. La Basilicata è un set naturale che ispira il cinema d’autore per contaminazione culturale di alcuni testi e per forza dei luoghi. Grandi documentari pure. Oggi il nuovo snodo. Mettere a sistema questo grande patrimonio.
Guarda l‘infografica che in 2 minuti ti spiega come partecipare al bando, che trovi in versione integrale qui
Molte aziende pubbliche e private utilizzano, ormai in modo consolidato, i “buoni lavoro” come sistema per remunerare prestazioni professionali. Conosciuti anche come “buoni pasto” o più semplicemente “ticket”, questi coupon sono una vera e propria moneta di scambio, tanto che, chi li percepisce, si ritrova di fatto ad arrotondare la propria capacità di acquisto mensile.
I molti siti internet dedicati agli acquisti online ci dimostrano come lo scambio “coupon-servizio” possa essere applicato a molti ambiti produttivi al fine di favorire maggiori consumi; tra questi vi è anche quello della Cultura e dell’Entertainment.
Sembra esserne convinta “Qui!Group Spa” (società italiana attiva nel settore dei servizi e Buoni Pasto) che di recente ha lanciato l’iniziativa “Qui!Cultura”: un coupon dedicato ad arte e cultura (accettato da musei, gallerie, siti archeologici, cinema e teatri partners dell’iniziativa) che consente una riduzione sul biglietto d’ingresso o sull’acquisto di prodotti venduti dalle stesse strutture. Il progetto “Qui!Cultura” si ricongiunge ad una più ampia politica di Welfare Aziendale: le agevolazioni culturali si sommano a quant’altro un’azienda è in grado di offrire ai propri collaboratori al fine di dare valore al tempo delle persone, migliorando di conseguenza performance professionali e clima aziendale.
Anche l’azienda “Edenred”, proprietaria del marchio “Ticket Restaurant”, attua veri e propri piani di Welfare per le aziende attraverso i voucher “Ticket Family” (per pagare servizi come asili nido, ripetizioni scolastiche, assistenza domiciliare per anziani) e “Ticket Cultura” (con sconti per l’ingresso in enti convenzionati o per l’iscrizione a corsi di formazione ed aggiornamento professionale).
Nel nostro Paese, però, a parte le iniziative di specifiche realtà aziendali, le opportunità derivanti dal binomio “coupon-cultura” sono ancora poco sostenute. Le politiche culturali di altri Paesi (come ad esempio Francia, Belgio, Portogallo) hanno già sperimentato almeno in parte questa pratica. Nel 2008, nella regione spagnola dell’Andalusia, il Consiglio Regionale della Cultura ha promosso buoni sconto al fine di incrementare la partecipazione culturale giovanile. In quel caso, il voucher fu concepito come un modo per evitare che i giovani usassero la scusa economica per non partecipare ad attività culturali.
Un caso interessante quanto attuale è rappresentato dal Brasile, dove il Governo recentemente ha approvato il programma “Vale-Cultura”: un vantaggio rivolto ai lavoratori dipendenti (in primis di basso e medio reddito) per garantire loro l’accesso e la partecipazione alle varie attività culturali del Paese, mentre per le aziende che aderiscono al programma sono previsti speciali favori fiscali. Ad ulteriore sostegno dell’intera iniziativa il Governo ha istituito un portale online, interamente dedicato al progetto ed utilizzabile come strumento di informazione e consulenza anche legislativa.
I coupon dedicati alla cultura, dunque, possono rappresentare un’opportunità per ampliare il consumo culturale, soprattutto in tempi di crisi. Un’azienda che sostiene una simile iniziativa può ottenere molti benefici, come: usufruire di agevolazioni fiscali, incentivare lo svago dei propri dipendenti, maturare un valore aggiunto grazie ad iniziative a sostegno del reddito. I lavoratori, invece, possono beneficiare di vantaggi economicamente tangibili derivanti da un risparmio sul costo diretto di accesso e consumo culturale, senza perdere l’opportunità di svolgere leisure activities e di frequentare luoghi culturali, anche in tempi di ristrettezze economiche.
Certamente non si può pensare di risolvere il problema dei bassi consumi culturali proponendo buoni sconto, soprattutto nel nostro Paese. Il sistema culturale italiano necessita con urgenza di politiche culturali oculate e complesse che, attraverso l’integrazione di differenti strumenti, possano favorire una concreta promozione del consumo culturale. Il “Coupon Cultura” non può che essere un singolo passo.
Vi presentiamo Cesare Bellassai, giovane siciliano che ha fatto il giro del mondo per trovare la sua strada: tra Noto, Milano e Londra si muove alla ricerca di ispirazioni e intuizioni per creare i suoi poster “ideas on walls“.
Come inizia la tua carriera di designer e illustratore? Come è nato il progetto di ideas on walls?
Tutto è partito nel 2006, quando mi sono trasferito in Inghilterra, dove ho cominciato disegnando biglietti d’auguri, i famosi “greetings card”, per clienti privati. Ero dedito a pittura e scultura, ma disponevo solo di un piccolo spazio, con un tavolo da campeggio, e perciò potevo al massimo disegnare, la mia passione di sempre. Da lì è stato facile, perché l’Inghilterra è un mercato molto ampio e gradisce humor e tratto semplice. Io avevo entrambi, perché venivo da un’esperienza di clown per bambini negli ospedali e il disegno, come ho detto, è da sempre una mia propensione. Ho creato biglietti d’auguri fino al 2011 e dall’anno successivo è nato il marchio ideas on walls: un amico inglese mi ha chiesto un disegno da appendere in camera da letto e da lì ho creato il mio primo poster. Ho cominciato a pensare al progetto, mentre proseguivo la carriera di illustratore con agenzie francesi, grazie anche alla collaborazioni di molti altri colleghi inglesi e americani che mi hanno spinto a creare nuovi poster per altre stanze. Da lì in poi ho compreso che quella era la strada da seguire, poiché era un percorso ancora mai battuto: nessuno aveva pensato di dividere i poster a seconda degli ambienti, seguendo una linea semplice, che lasciasse apparire la realtà così com’è, senza ricorrere ad immagini astratte, con colori vivaci e allegri, mettendo un pizzico di ironia.
Questi gli elementi principali del progetto ideas on walls, che se per ora dispone solo di una piattaforma e-commerce, sarà presto lanciato attraverso dei franchising presenti in diverse città italiane.
Da cosa si differenzia la tua attività da quella di un grafico tradizionale? Quali le peculiarità delle tue creazioni?
Io non sono un grafico e nemmeno un illustratore: in realtà non sono una gran cima nel disegnare. Vivo di intuizioni e di visioni. Tutto quello che creo è frutto di studio, di notti passate a pensare o da improvvise illuminazioni: si tratta di una sovrapposizione di pensieri, di idee che emergono mentre guido, faccio la doccia e conduco le mie attività quotidiane. Non disegno dei bozzetti, ma il più delle volte registro le mie idee in maniera vocale. Per certi aspetti l’idea nasce già finita nella mente e solo successivamente diventa grafica. L’importante è che il disegno abbia un’armonia, un centro dal quale farlo partire, e soprattutto che venga partorito col cuore. Io non posso definirmi un grafico, ma un designer che entra nelle case e nei luoghi; non sono nemmeno un illustratore, che disegna su libri e fogli di giornale; si tratta per lo più di etichette. Io arredo gli ambienti con i miei disegni.
Come scegli i soggetti dei tuoi poster? Quanto e cosa c’è di Cesare Bellassai in quello che crei?
I soggetti vengono scelti dopo un accurato studio: tento di capire come rappresentare determinati elementi facendo indagini anche su motori di ricerca on line. Se il poster è per la cucina mi ingegno ad esempio a raffigurare una forchetta o un piatto tradizionale. Le “penne all’arrabbiata” è nato da un forchetta trovata su Google e poi, studiando la forma della pasta infilzata ho avuto l’intuizione di vederci una bocca aperta, evocativa della fame e della rabbia che il languore genera. E’ un gioco di visioni, un cercare di guardare le cose al di là, da un altro punto di vista, da una diversa postazione, che consente di vedere altro. Un disegnatore è abituato a guardare il foglio dal tavolo da disegno o dal computer, sempre nella stessa direzione, ma se ci girasse intorno, alzandosi, riflettendo, socchiudendo gli occhi, farebbe più un lavoro da artista, abituato a muoversi attorno al cavalletto. Questa propensione mi deriva proprio dal passato di pittore e scultore, come anche i colori che utilizzo, di una tavolozza ben più ampia rispetto alla gamma cui ricorrono i grafici.
C’è stata una telefonata o un contatto che ti ha svoltato la carriera?
Nel 2010 sono stato a New York dove ho incontrato l’ideatore del famoso logo d’artista “I love NY”, Milton Glaser, il più grande grafico e designer vivente al mondo, che mi ha accolto nel suo studio. C’è stata una sorta di benedizione da parte sua e una collaborazione per un logo destinato a Miami. Mi ha dato dei consigli e mi ha rassicurato dicendomi che la strada che stavo percorrendo era quella giusta.
Come lui, altri grafici, designer, artisti e creativi mi hanno dato delle utili indicazioni spronandomi a provarci. Ci vuole poi tanta testardaggine e curiosità per fare questo lavoro: bisogna guardarsi attorno, conoscere i colleghi, scambiandosi idee, senza rivalità, perché è talmente vasto questo settore che c’è posto per tutti. Non credo vi sia concorrenza. Nel mio caso, a dimostrazione di ciò, sono il primo in Italia ad aver fatto questo tipo di attività, proponendo poster per ciascun ambiente della casa, con tutte queste categorie e forme, dalla cucina alla camera per i bambini, cercando di prendere soggetti precisi da reinterpretare in chiave umoristica e metaforica. Si tratta soprattutto di un gioco, nel senso che è un lavoro perché è fonte di rendita, ma per me è un’attività continua che mi diverte.
Chi sono i tuoi principali committenti? Come influenzano le tue creazioni? Quale la richiesta più particolare che hai ricevuto?
I committenti sono privati e pubblici, dai ristoranti ai liberi professionisti, italiani e stranieri. Mi mandano delle e-mail con suggerimenti su cui io cerco di costruire l’immagine. Ci sono coppie che magari mi inviano riferimenti di lui o di lei per poster di anniversari o magari genitori che vogliono un’immagine da appendere nella cameretta del bambino e bar che chiedono elementi evocativi come ad esempio i croissant; poi lavoro io sull’idea da sviluppare: nessuno dei committenti comunque ha mai rifiutato l’opera.
La più particolare è stata la richiesta di un signora inglese che voleva un poster da regalare al suo compagno per appenderlo sopra una grande vasca da bagno: mi ha infatti scritto via e-mail che per loro il momento del bagno era una sorta di rituale, in cui lei si presentava in autoreggenti e decolleté con tacco a spillo, attorniata da candele e musica. Ho allora pensato di realizzare questo poster erotico con una calza a rete blu, che indossa una scarpa con tacco rossa, e all’interno della gamba ci sono i pesci, che rappresentano i pensieri di entrambi, racchiusi in questo ambiente acquatico d’amore. Un omaggio di lei per lui e per il loro amore.
Un designer e illustratore come te, risente della crisi economica? In che modo si reagisce?
Quando nel 2012 ho ideato il marchio ideas on walls ho pensato subito ad un qualcosa di low cost. Avere dei brand con una buona qualità, con idee belle ed innovative, ma a prezzi giusti, è un concetto che dovrebbe essere sempre valido, non solo nel mio settore. La crisi economica si può sentire, ma considera che i costi dei poster non sono eccessivi. La gente abita la casa e vuole farlo in maniera armonica, perciò non rinuncia ad arredarla, per sentirsi a proprio agio e affinché rispecchi chi ci vive. Per quel che riguarda l’illustrazione lascio la parola ai colleghi, perché nel campo dell’editoria le condizioni sono diverse. Dal mio frangente posso dire che non subisco contraccolpi perché le persone hanno bisogno di nutrirsi di immagini e sembrano esorcizzare la crisi economica proprio con i miei poster.
Tre “dritte” che daresti a chi intende intraprendere la tua stessa professione.
Innanzitutto bisogna capire qual è il proprio talento, ma soprattutto è bene affacciarsi al mondo, uscendo dalle quattro mura italiane e proporsi verso altri luoghi. Si faccia poi la differenza: è bene scegliere la strada meno battuta che consenta di far emergere la peculiarità che contraddistingue ciascuno di noi. Se non si trova la propria originalità e la propria unicità, ci si ripeterebbe solamente.
Per saperne di più consulta il sito www.cesarebellassai.com
Intervista a Ivan Canu, direttore artistico e didattico del Mimaster di illustrazione di Milano
Com’è nato il progetto Mimaster?
Il progetto Mimaster è nato nel febbraio del 2009 nello studio Bandalarga, fondato da illustratori fra cui Libero Gozzini e Gianni De Conno, cui si aggiunsero da subito Piera Nocentini e Giacomo Benelli. La composizione attuale è un’evoluzione del passaggio dalla Scuola del Fumetto, che ci ha prodotti per prima, all’attuale amministrazione di OPPI – Organizzazione per la preparazione professionale degli insegnanti (www.oppi.it). Io ne sono il direttore artistico e didattico, mi affianca Giacomo Benelli per le comunicazioni esterne e la progettazione, con la collaborazione poi di uno staff numeroso.
Sin dal primo momento il punto di forza è stata la partecipazione di artisti internazionali uniti alle eccellenze italiane. In 4 anni abbiamo ospitato americani (Holland, Ascencios, Guarnaccia, Nascimbene, Fingeroth, Red Nose Studio, Blechman, Ruzzier, Daniel), canadesi (Kunz), francesi (Roca, Bernard, Bloch, Ehretsmann, Martin), belgi (Crowther), austriaci (Zwerger), russi (Dugin), spagnoli (Ajubel, Amargo). E gli italiani Carrer, Innocenti, Bussolati, Orecchia, Scarabottolo, Giacobbe, Mai, Macchia, Ponzi, Maggioni, Mattotti, Valentini, Ferrari, Papini, Maddalena, Ghermandi.
Ciascun docente, nella formula del workshop di una o due settimane, elabora con la direzione i temi e le metodologie su cui far lavorare la classe, puntando su un approccio all’illustrazione direttamente collegato al mercato di destinazione (e di provenienza dei diversi professionisti che chiamavamo a insegnare).
Le aree tematiche spaziano dall’illustrazione editoriale per magazine e quotidiani, quindi con un approccio molto adulto e concettuale al lavoro e una tempistica di progetto e di realizzazione fra le più concentrate, all’illustrazione del libro per l’infanzia, la più nota e con il mercato più ampio negli ultimi 15 anni, delle copertine dei libri per ragazzi, adolescenti e adulti e delle riviste, dall’editoria scolastica all’illustrazione di comunicazione istituzionale (per manifestazioni o festival o per prodotti musicali o immagine coordinata per parchi a tema). L’approccio metodologico unisce la formazione al contatto diretto col mercato. Da un lato, inserendo un corso pratico sul diritto d’autore, la contabilità, la fiscalità e una serie di interventi di editor (Rizzoli, Mondadori, Salani, Pearson, Kite, Lapis, Carthusia, Coccole Books, Principi & Princìpi, Zoolibri, De Agostini, Feltrinelli, Casterman, Flammarion, Penguin, Creative Company, Panini, Moritz Verlag, Vicen Vives).
Dall’altro, ospitando professionisti dell’editoria, mostrando i diversi ruoli con cui l’illustratore si confronta nel lavoro. Nascono così le “masterclass” in cui editori, art director, editor, blogger, agenti, autori, stampatori, grafici incontrano la classe per una giornata di confronto sui diversi mestieri e sul mondo dell’editoria. Come l’agente Chrystal Falcioni di Magnet Reps. o Debbie Bibo, Nicholas Blechman della New York Times Book Review, Stefano Cipolla de La Repubblica, Adriano Attus de Il Sole 24 Ore, Aris Papatheodorou di Le Monde, Jennifer Daniel di Bloomberg Businessweek, fra i più noti.
Quali sono gli elementi di eccellenza che caratterizzano Mimaster da altri corsi?
Trattandosi di una startup ante-litteram, concepita da professionisti per formare altri professionisti futuri nel mercato dell’illustrazione (in particolare editoriale, l’unica il cui mercato fosse ancora in piedi dopo la crisi dell’illustrazione pubblicitaria negli anni ’90), il Mimaster ha da subito cercato un profilo innovativo, rispetto ai corsi e alle scuole esistenti già nel territorio nazionale.
Vogliamo infatti presentare la professione dell’illustrazione nelle più diverse sfumature, perché sia evidente durante il corso la mole di potenzialità che il mestiere e i mercati offrono, senza rinchiudersi nel recinto delle opportunità (poche) dell’editoria nazionale o nella sfera autoreferenziale del considerarsi “artisti”.
Dalla terza edizione, ad esempio, abbiamo introdotto la formula dei moduli tematici che racchiudono i corsi e le masterclass su temi come l’illustrazione per infanzia e bambini, quella per ragazzi e adulti, quella per magazine e quotidiani, l’animazione e il digitale per eBook e app. In questo modo siamo diventati antesignani di un movimento che si sta facendo progressivo e inarrestabile nel panorama editoriale internazionale sia perché questa formula consente spesso a professionisti e non solo a giovani amatori, di seguire percorsi di interesse senza dover frequentare un anno intero di corso, sia perché in questo modo sperimentiamo l’applicazione delle illustrazioni a prodotti inconsueti.
Un esempio fra tutti è la realizzazione di un prototipo di guida digitale inclusiva (ovvero utilizzabile sia da udenti che da sordi) per visitare Villa Necchi-Campiglio a Milano.
Ciò che vogliamo traspaia è il fatto che non ci ispiriamo ad un unico modello ma abbiamo colto, nel corso degli anni aspetti metodologici, didattici, organizzativi, che riteniamo tra i più interessanti o di cui abbiamo sperimentato l’efficacia. Non a caso, dalla sua prima edizione, il Mimaster è molto cambiato.
Così, gli americani ci hanno portato l’esperienza di SVA, Parsons, The Illustration Academy e dei seminari di ICON, i francesi quella dell’Emile Cohl di Lyon, i russi Dugin la formazione dell’Accademia di Stuttgart. Da ciascuno abbiamo preso spunti e chiesto pareri, opinioni, critiche. Il pregio dei progetti innovativi in settori che sono ingessati, asfittici, in crisi per definizione, è che aprono spazi lasciati scoperti da quanti si dirigono un po’ frettolosamente altrove, dove il business o la moda contingente si sono spostati.
Perché l’illustrazione, con l’esplosione tecnologica della rivoluzione digitale dei tablet, con gli eBook, le app, i games interdisciplinari, sta trovando un mercato di enormi proporzioni e di grandi prospettive. Che l’Italia, com’è suo solito, nella sua parte istituzionale non ha ancora colto appieno, ferma anche nei dibattiti alle discussioni se la carta e il suo odore e la sua tattilità non sia una specie da proteggere dall’estinzione; come se il digitale fosse un nemico e non l’opportunità che possa aprire un nuovo mercato. Credo si possa definire questo un momento di frontiera, non a caso subito colto dai paesi più sensibili al concetto come gli USA, l’Asia e le nazioni sudamericane più dinamiche.
Parliamo del mondo dell’illustrazione in Italia. Quali sono i legami, gli enti, i circuiti all’interno del quale vi muovete?
L’illustratore è una libera professione, legata certo alla qualità del proprio lavoro ma anche molto ormai alla complessa capacità progettuale e di rapporti necessari, che soprattutto in tempi di forte crisi dell’offerta diventano la discriminante fra le diverse proposte. La figura dell’illustratore artista, chiuso nella sua casa a produrre capolavori nell’attesa reverenziale degli editor, il cui valore prescinda dalla sua capacità imprenditoriale e di autopromozione, è relegata ormai alla sfera delle casistiche o delle curiosità naif.
Ormai la professione è complessa, radicata nei social anche per la sua pubblicizzazione: all’illustratore sono richieste progettualità complesse, articolate, competenze grafiche, di editing e strategie di marketing. Non che a me dispiaccia, personalmente. La scelta artistica può essere ancora interessante, ma limitarsi ad essa è antistorico prima ancora che poco pratico. Si può avere un’idea dell’evolversi della figura dell’illustratore guardando la composizione dell’AI-Associazione Illustratori, che negli anni ha rappresentato la cartina di tornasole della professione e dei suoi aderenti e, pur nei suoi naturali alti e bassi, resta un riferimento ancora per i giovani che si affacciano a questo mestiere.
La crisi netta dell’illustrazione pubblicitaria, che negli anni ’80 era il dominus incontrastato e godeva di un mercato ricchissimo e molto ampio, non è stata interamente assorbita dal sorgere dell’editoria, trattandosi di un mercato di gran lunga più ristretto ed economicamente meno forte, con tempi di lavoro dilatati e destinazioni d’uso fra le più diverse.
In Italia gioca ancora una buona fetta di mercato la scolastica, ma anche qui rispetto agli anni ’90 si parla di una contrazione significativa, cui resistono meglio i gruppi maggiori come De Agostini o Pearson che negli anni hanno acquisito piccole e medie realtà editoriali anche d’eccellenza (la CIDEB nel primo caso, la Bruno Mondadori nel secondo).
Gli illustratori più attivi si proiettano più spesso verso l’estero, fra paesi tradizionalmente forti e richiesti come la Francia (molto meno l’Inghilterra e la Germania, rispetto ai decenni scorsi) e gli Stati Uniti, con la fortuna che i nuovi media, la diffusione di internet e dei social hanno aperto tutti i mercati e ridotto molto il gap comunicativo e linguistico. Se pensiamo che i tradizionali annual illustrati, i volumoni che tutti abbiamo conosciuto e ai quali abbiamo almeno una volta partecipato – per avere l’opportunità di finire sotto gli occhi di un art director o di un editore illuminati – sono stati soppiantati almeno dieci anni fa prima dai siti web, poi dai social dedicati come FB e Pinterest, quindi dai blog e dai forum che sono diventati talvolta organi semiufficiali consultati dagli editori e dagli specialisti, per scoprire nuovi autori.
Che percorsi di inserimento nel mondo del lavoro maturano dopo questa esperienza? E che riscontri avete in un mercato che ha ridotto disponibilità e opportunità?
Il numero massimo di iscritti, dopo le prove di ammissione che si svolgono ai primi di luglio e a metà settembre, è fissato a 25.
Il Mimaster si è connesso da subito con le realtà editoriali e produttive italiane e internazionali, attivando collaborazioni nelle diverse formule dei contest interni alla classe e delle commissioni che, nel tempo, gli editori hanno proposto al Mimaster per avere la soluzione più professionale ai loro problemi.
I contest agevolano l’inserimento diretto dei corsisti nel mercato e nelle sue diverse articolazioni, consentendo a molti di loro di lavorare con quelli che saranno poi i committenti naturali, in una formula di selezione interna che alla fine produce portfolio molto selezionati, non omologati e spesso poi consultati di nuovo dagli stessi clienti che li hanno scartati la prima volta. Accade di frequente che anche esterni, che si siano iscritti a workshop o moduli, abbiano l’occasione di mostrare il loro lavoro e di collaborare con realtà editoriali approcciate solo grazie al Mimaster.
È il caso di Le Monde, della NYT Book Review, di Businessweek, del Sole 24 Ore che hanno dato spazio non solo agli allievi (Paola Rollo nel 2012, Stefano Pietramala e Luca D’Urbino nel 2013, illustratori di rubriche della Book Review del NYT) ma anche a contributi di professionisti esterni. In tal senso, il Mimaster si colloca in una dimensione che va oltre la realtà formativa e tocca ruoli che tradizionalmente sono delle agenzie o dei consulenti editoriali, pur senza prendere i benefit che questi ruoli richiedono. Infatti tutti i contatti e i rapporti di lavoro che si creano durante il corso master non prevedono commissioni percentuali, ma li riteniamo il valore aggiunto del progetto, assommati alle consulenze continue che tutti i partecipanti ricevono rispetto a contratti, agenti, fisco e fatturazione. Dal Mimaster emergono anche realtà professionali dinamiche, come lo studio Armad’illo a Milano, formato da 10 ex allievi del 2011o la rivista Lucha Libre, in cui collaborano numerosi nostri studenti di varie edizioni. Ci sono exploit individuali, che hanno pubblicato i progetti di tesi già nell’anno in corso, realizzando l’ambizione per la quale si erano iscritti al corso quasi alla lettera. Non a caso abbiamo dedicato proprio agli “alumni” delle varie edizioni una sezione del sito, in cui teniamo gli aggiornamenti sulle loro carriere e i lavori che hanno fatto subito dopo l’uscita dal master.
Quali sono le attività collaterali durante l’anno accademico? Prevedete appuntamenti o eventi speciali?
La più significativa attività di collaborazione, è la Fiera del Libro per ragazzi di Bologna, di cui il Mimaster sin dalla sua nascita è un partner organizzatore oltre che avere uno stand dove ogni anno presenta le novità e i progetti. Per la Fiera è nato anche un progetto molto fortunato come The illustrate Bologna Children’s Book Fair survival Guide, una mole di materiale, scritto e disegnato, eterogeneo e di altissimo livello pensato da me e da Giacomo, con il contributo dei più vari operatori della fiera, di amici e colleghi illustratori e autori, di un eccellente progetto grafico realizzato dallo Studio Bozzo di Torino. È un progetto che è stato così ben accolto, che proseguirà anche nel 2014 in una veste e con contenuti rinnovati e qualche sorpresa.
Cosa bolle in pentola nel prossimo futuro e quali le novità che dovremmo aspettarci?
La sindrome del deserto dei tartari ci appartiene poco e io ho il personale difetto, per fortuna condiviso dai miei compagni di sortite, di voler sempre sperimentare e rinnovarsi. A Novembre, parteciperemo alla seconda edizione del festival milanese Bookcity, ospitando il grande Peter Sìs, premio Hans Christian Andersen, con un workshop basato sul suo “La conferenza degli uccelli”, che sarà laboratorio con la classe ma anche spunto per una festa della comunicazione multilinguistica e multiculturale e si aprirà alla comunità non solo dei lettori e degli appassionati del festival, ma anche del quartiere di Villapizzone, dove opera Oppi. Parte consistente di questo laboratorio, sarà il coinvolgimento dei sordi, la cui lingua sarà parte integrante dell’operazione.
Abbiamo due nuovi partner, con i quali faremo un percorso sperimentale di un anno: la Fondazione Mondadori, nostri vicini di quartiere e autori del più importante master di editoria in Italia, da più parti imitato. E poi lo spagnolo iCONi, master sull’albo illustrato per l’infanzia e organizzatore del prestigioso IlustraTour di Valladolid, appuntamento internazionale sull’illustrazione. Con entrambi, abbiamo stipulato accordi di programma e di partnership che avranno il culmine nelle comuni presentazioni alla Fiera di Bologna 2014.
Non sono le sole collaborazioni a cui ci stiamo dedicando e che speriamo avranno una concreta e fortunata realizzazione nei prossimi mesi. Confido ne potremo parlare fra un anno, magari.
Al giorno d’oggi le conoscenze, il network di persone con le quali si interagisce, sono fondamentali, praticamente per qualunque lavoro. Spesso, però, la possibilità di approfondire i contatti, di crearsene di nuovi, di estendere la rete di relazioni lavorative, viene a mancare per ragioni di tempo o semplicemente di opportunità. Ecco che a salvarci interviene Let’s Lunch, sito dedicato alla costruzione di proficue relazioni lavorative… a pranzo! Tramite Let’s Lunch si entra in collegamento con professionisti che possono essere a noi affini per interessi o attività e si organizza un pranzo “di lavoro” insieme. Si coinvolge, così, chi è in cerca di lavoro, chi vuole proporre un progetto per ottenere dei finanziamenti, i recruiter delle aziende che vogliono conoscere con un approccio informale i loro candidati, le imprese che vogliono creare nuove partnership.
Il sito è di semplice utilizzo. Una volta iscritti, si connette il profilo LinkedIn o Facebook alla piattaforma, in modo che il sistema possa reperire i dati utili alla nostra profilazione professionale e sociale. Quindi si indicano i giorni in cui si è disposti a dedicare un pausa pranzo ai nuovi incontri e la massima distanza che si può percorrere per spostarsi. Infine, due giorni prima dell’incontro, un’email riepilogativa informa sulla persona che si andrà a conoscere e sui ristoranti in zona che possono essere convenienti per entrambi. Il gioco è fatto. Non resta che andare a pranzo, rendere la conversazione il più possibile proficua, e tornare a lavoro, magari con qualche interessante spunto, affare, o semplicemente piacevole momento da ricordare, in più. L’ultima cosa che resta da fare è inviare un feedback sulla persona conosciuta.
I feedback e i pranzi aumentano, infatti, il “karma sociale” dell’utente di Let’s Lunch, permettendogli di diventare sempre più “appetibile” e richiesto per i prossimi pranzi di lavoro. E’ possibile organizzare incontri a due, o di gruppo, mettere in contatto tra loro utenti che si ritengono affini, rivestendo il ruolo di link builder, prendere parte a dei Gruppi di interesse. Il format è disponibile oltre che a San Francisco e New York, in Italia, Olanda, Spagna, UK, Nuova Zelanda.
È un’idea divertente, dinamica e utile per ampliare le conoscenze professionali, all’interno di un ambiente informale che favorisce lo scambio di opinioni e di progetti, senza l’ansia da prestazione di un colloquio, o di un incontro ufficiali.
La pausa pranzo dura davvero poco, e il range di persone interessanti da conoscere nel raggio di qualche chilometro, prima o poi potrebbe esaurirsi.
Let’s Lunch nasce nel fermento creativo e produttivo della Silicon Valley, a San Francisco. A capo del progetto ci sono un indiano, Syed Shuttari, un americano, Ryan Hoover, e un italiano, Daniele Bianca. Tutti e tre sono giovanissimi e super intenzionati ad espandere ancora di più il loro progetto, che in soli due anni ha già ottenuto un notevole successo.
Chi si annoia durante la pausa pranzo, chi ama discutere d’affari in maniera rilassata e informale, chi pensa che ogni occasione è buona per intessere relazioni con professionisti interessanti, e chissà, forse anche ai cuori solitari.
Sempre più frequentemente ci si imbatte in notizie di ritrovamenti archeologici effettuati grazie alla realizzazione di lavori pubblici o privati. Infatti l’Italia sempre più povera in tema di ricerca e di università arricchisce la propria storia in modo sempre maggiore con i dati storici rintracciati durante scavi d’emergenza. La sensazione che suscitano questi ritrovamenti è sempre di stupore, sorpresi che il nostro territorio abbia ancora così tante informazioni da svelare sul nostro passato.
Fortunatamente negli anni si è intensificata la presenza degli archeologi sui cantieri dal forte rischio archeologico, affinché, in caso di ritrovamento, si possa intervenire per salvaguardare il reperto archeologico e studiarlo, il tutto sempre sotto il vigile occhio delle Soprintendenze .
Quanti pezzi di storia ci saremmo persi per strada se non ci fossero stati gli archeologi a vigilare? Probabilmente molti, perché l’Italia mostra ancora molta insofferenza verso gli scavi archeologici, percepiti come fonte di costi e di disagi urbani.
Ma se non ci fosse l’archeologia con quali occhi guarderemo indietro? Se non sapessimo leggere il nostro passato che identità avremmo?
Purtroppo da quanto risulta da recenti appelli delle associazioni di categoria , ANA e CIA, questo prezioso lavoro vale davvero poco, tra i sette e i cinque euro l’ora. L’insofferenza per l’archeologia nasce infatti da qui, dalle aziende e dagli enti i quali, tenuti su richiesta delle Soprintendenze a garantire la presenza degli archeologi nei loro cantieri , strappano contratti al massimo ribasso. Una gara a chi offre la cifra più bassa, e non a chi offre il miglior servizio al miglior prezzo.
La presenza dell’archeologo è percepita come un’imposizione, e tanto vale affrontarla con il costo minore.
Ma questo è solo un aspetto di un problema più ampio, culturale, che è lo stesso che ci vale i moniti dall’Europa, che fa crollare i muri a Pompei, che lascia immutato un ministero vetusto e ingessato in una burocrazia lenta che non sa mettere a frutto nemmeno le scarse risorse economiche a disposizione.
Gli archeologi in Europa? Meglio sorvolare sulla retribuzione degli archeologi in Inghiterra, uno stipendio minimo è di 19.000 annui, basterà raccontare che in Portogallo ogni comune può assumere alle proprie dipendenze uno o più archeologi, esiste per legge la figura dell’archeologo come funzionario comunale: intuizioni che in Italia sono appena nate e arrancano.
Bisogna far presto , perché quando in Italia ci si accorgerà di quanto poco lungimiranti siamo stati nel gestire la nostra ricchezza primaria e di quanto sia utile l’archeologia preventiva ad ottimizzare tempi e costi delle opere, i nostri archeologi potrebbero essere fuggiti altrove, o aver ripiegato su un lavoro più dignitoso.
Intervista a Alessia Bottone, autrice del blog e libro “Amore ai tempi dello Stage- Manuale di sopravvivenza per coppie di precari”
In un mondo dove tutto è precario, l’amore e il lavoro raggiungono la stessa condizione di incertezza e di squilibrio. Da questa riflessione si compone il blog prima e il libro poi, di Alessia Bottone, diventata ormai la “paladina dei precari italiani”. Noi di Tafter la abbiamo conosciuta…
Dove nasce l’idea di “Amore ai tempi dello Stage”?
L’idea di scrivere “Amore ai tempi dello stage- Manuale di sopravvivenza per coppie di precari” nasce a seguito dell’ultimo colloquio come centralinista.
Si trattava di un apprendistato e per l’ennesima volta mi sono sentita dire” Signorina, con un curriculum come il suo, una laurea, 4 lingue parlate, stage alle Nazioni Unite, cosa vuole mai? Lei è troppo per la nostra azienda. Andava a finire sempre così, o ero troppo, o ero troppo poco e mi sono vista disoccupata per sempre. Un pomeriggio in Rai ho conosciuto il Direttore di Vero Salute, abbiamo parlato di amore e psicologia e le ho mostrato il mio blog “Amoreaitempidellostage”.
Da lì a poco ho iniziato a scrivere per il suo giornale occupandomi di temi di attualità, amore, salute etc. Ed è li che è scattato qualcosa e mi sono detta “se il lavoro non esiste, allora io voglio crearmelo da sola”. Ho raccolto il materiale e l’ho inviato alla mia casa editrice, due giorni dopo avevo il contratto in mano. Due mesi dopo il libro veniva pubblicato. Un mese dopo mi ritrovavo a Mattino 5 su Canale 5 per presentarlo al pubblico.
Perché legare i temi del lavoro e della vita sentimentale?
Perché siamo precari nel lavoro quanto nell’amore. Hai mai notato che ci si lascia con un sms senza neanche fare lo sforzo di confrontarsi e mandarsi a quel Paese? Benedette siano le discussioni e le notti passate a chiarirsi. Tutto quello che richiede un impegno maggiore oggi è out, ci si frequenta, non si sta assieme. “E’ una ragazza con la quale mi vedo, per ora, poi non so” . Appuntamenti durante i quali lui ti racconta di tutte le sue ex e tu preferiresti stare a casa a fare all’uncinetto con la nonna piuttosto che rimanere seduta a quel tavolo con lui. Donne convinte che Uomo Tiamomanonposso un giorno si accorgerà di loro, perché la sua crisi mistico esistenziale è solo momentanea.
L’amore 2.0 ha stravolto il mondo dei sentimenti. Gli appuntamenti si chiedono su Facebook, così lo sforzo è minore e non ci si mette la faccia. Su Twitter scopri che la tua lei sta insieme un altro e che forse è ora di “mettersela via”. Mi fa sorridere una notizia che ho letto l’altro giorno. Lo sai che la Regina Elisabetta era terrorizzata al pensiero che Twitter avrebbe saputo prima di lei se era nato il Royal Baby? Dura essere nonne al tempo dei social.
Scherzi a parte, Amore ai tempi dello stage racconta con uno stile ironico il mondo degli stagisti precari in giro per il mondo, in cerca di un’occupazione vittime di una fluttuazione dello spread o del crollo della Borsa di Wall Street. Descrive le peripezie della coppia moderna durante le vacanze natalizie e di come riescono a dribblare le domande della famiglia desiderosa di vederli sposati, Ironizza sulle tipiche discussioni dei conviventi e fa una top ten degli uomini e delle donne da prendere a piccole dosi prima di darsela a gambe!
Il tuo nome è noto al pubblico anche per la lettera che hai scritto alla Fornero. Come è andata la storia? Ci sono state evoluzioni?
Mi sembra ieri, era fine giugno del 2012 e mentre leggevo il testo della neonata Riforma ho buttato già qualche riga, sai quelle che scrivi di getto, senza pensare. Del resto, non è stato poi così difficile raccontare al Ministro storie di ordinaria precarietà contestando non solo la legge ma tutto ciò che è venuto prima. La situazione drammatica nella quale ci ritroviamo oggi non è stata di certo determinata dall’ultima Riforma, che sicuramente l’ha aggravata, ma è la conseguenza diretta di anni di sfruttamento in cui si sono tenuti gli occhi chiusi mentre giorno dopo giorno si andava sgretolando lo stato sociale, il sistema previdenziale e di tutela del lavoratore. Evoluzioni? Nessuna! Io vedo ancora stagisti non retribuiti e commesse che lavorano per 400 Euro al mese.
Che idea ti sei fatta della realtà giovanile italiana? Come li/ti vedi tra dieci anni?
Che idea mi sono fatta? Bella domanda! Io credo molto nei miei coetanei, anche se devo dirti la verità a parer mio si sono adagiati in questa situazione. Mi piacerebbe vederli lottare per i loro ideali, per il loro lavoro, per ciò che gli è di diritto. E’ chiaro che dovrebbe essere la politica a dare risposte concrete, ma se non crediamo noi per primi nel cambiamento? Io tifo soprattutto per quei giovani figli di nessuno che scalpitano perché hanno voglia di darsi da fare, ma non hanno santi in paradiso. Vorrei che avessero voce in capitolo perché sono loro, quelli che tanto patiscono questa crisi che potrebbero davvero dare il via ad una nuova era basata sulla meritocrazia e non sulle conoscenze e sulle mazzette.
Come mi vedo tra 10 anni? E chi lo sa, è tutto così mutevole oggi. Forse non serve andare troppo in là. Ti dirò come mi vedo fra un anno. Sognatrice, determinata e felice del mio lavoro. Non chiedo altro, non voglio altro.
Hai qualche buon consiglio per chi è innamorato ai tempi dello stage?
Certo, ne ho una valanga! Il primo consiglio è rifiutatevi di fare l’ennesimo stage, il secondo è impegnatevi, fissatevi un obiettivo, in amore come nel lavoro. Non arrendetevi alle statistiche mondiali sui divorzi e sulla disoccupazione. Ciò che succede ad altri non è detto che possa succedere a voi. Un giorno, dopo tutti gli sforzi vi girerete indietro e con fierezza potrete ripetervi, Confesso che ci ho provato, Confieso que he vivido.
Esistono ancora belle storie da raccontare in questa Italia sempre più malinconica e alla deriva. È la storia di Gabriele, Nicola e Manrica che nel 2010 fondano On The Road Again Pictures, un collettivo indipendente con tre grandi passioni: la musica, l’arte e il filmmaking. Decidono nel 2012 di lanciarsi in una nuova avventura, io aggiungerei di colta e nobile ispirazione, che ha per protagonisti due realtà ugualmente nobili, ovvero la musica e l’artigianato. Tutti questi ingredienti shakerati con gli strumenti della loro arte, creatività e sensibilità hanno dato alla luce un prodotto audiovisivo innovativo e geniale: ART&CRAFT, la web-serie in onda anche su youtube.com, ha avuto ampi consensi e apprezzamenti anche all’estero.
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=6IuWO0tokcw]
ART&CRAFT racconta con un linguaggio reale e “nuovo” la musica e lo fa in luoghi oramai in ombra. Non aspettiamoci stadi, teatri o auditorium, non i soliti videoclip patinati. No. ART&CRAFT porta con grande abilità la musica nelle botteghe degli artigiani di quartiere ed è subito magia: il moderno e l’antico si incontrano e assurgono a nuova vita. Ad oggi sono stati prodotti due episodi: il primo, uscito nel dicembre del 2012, ha come protagonisti i Vadoinmessico che con un freak-folk psichedelico riempiono di note la falegnameria del Signor Graziano, un anziano signore del quartiere romano di San Lorenzo; il secondo episodio è uscito giorni fa e vede Rhò giovane artista italiano esibirsi nell’officina del Signor Filiberto, anziano romano anche lui con la passione del ciclismo ed abile meccanico di biciclette.
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=Cb4m_NupA_I]
L’originalità del format, ideato e interamente autoprodotto dai tre giovani, è che, accanto alla indiscutibile potenza comunicativa della musica, viene raccontato, in pillole di 8 minuti circa, quello che è il nostro passato attraverso i mestieri che oggi purtroppo stanno pian piano scomparendo. Nessun giovane italiano penserebbe più di aprirsi una falegnameria o una officina meccanica di biciclette. La grande distribuzione industriale e la cultura effimera dell’usa e getta hanno fagocitato abilità artigianali e sensibilità che un tempo erano la nostra fortuna all’estero. Si dimentica spesso che i grandi marchi che sono l’esempio fortunato del Made In Italy sono nati come botteghe di artigiani caparbi che poi hanno scommesso ampliandosi con la grande distribuzione. Le stesse commoventi testimonianze degli anziani protagonisti confermano che oggi, il problema più cogente, è trasmettere ai giovani queste abilità manuali.
ART&CRAFT non si fermerà, ma andrà lontano a raccontare altri Mestieri in cerca di una manodopera che si spera sia sempre più giovane e volenterosa, e lo farà coinvolgendo musicisti e gruppi musicali che rispondono con grande entusiasmo. L’obiettivo è sbarcare in TV ma per farlo servono mezzi ulteriori e On The Road Again Pictures è aperta a qualsiasi proposta di sviluppo del progetto. I video sono tutti con i sottotitoli in inglese perché possano essere visti e capiti da chiunque worldwide.
È l’artigianato italiano che ha reso l’Italia, e non solo, un Paese ricco di cultura e di arte. L’artigianato è cultura pratica e va preservato e i ragazzi di On The Road Again Pictures lo hanno compreso bene.
Job Swapper è il sito giusto per chi è stanco di spostarsi ogni giorno per decine di Km per raggiungere il posto di lavoro, per chi è stufo di stressarsi e perdere tempo nel traffico, o in attesa di una metro o di un treno. Swap, dall’inglese, significa scambiare e Job Swapper è proprio un portale web cartografico che permette di cercare, scambiare e offrire un posto di lavoro con un altro, con l’ottica di trovare il lavoro più comodo e a km zero. I vantaggi prospettati sono molteplici, non solo in fatto di qualità della vita quotidiana, ma anche per ambiente e ecosistema: raggiungere il lavoro a piedi riduce lo stress e le spese, contiene l’inquinamento ambientale, migliora le prestazioni di lavoro del singolo, e arricchisce l’immagine sociale dell’azienda.
Job Swapper richiede una fase iniziale di iscrizione in cui è necessario compilare il proprio profilo, fornendo informazioni sull’attuale domicilio e sugli eventuali profili social che si possiedono. Il sito offre, poi, tre sezioni principali: “Scambia”, “Offri”, “Cerca”. La sezione “Scambia” consente di entrare in contatto con un altro utente che ha segnalato di avere competenze analoghe alle nostre, o di lavorare in un’azienda simile, per scambiare il proprio posto di lavoro attuale. Con “Offri” è possibile offrire le proprie competenze alle aziende localizzate nell’area geografica di nostro interesse. E, infine, “Cerca” permette di sfruttare il motore di ricerca libero.
Se si è fortunati si possono davvero risolvere molti problemi della vita quotidiana con un click. Il portale è totalmente gratuito e permette sia alle aziende, che ai privati di avere oltre che visibilità e vantaggi, un panoramica sul mondo del lavoro contemporaneo in Italia.
È un progetto ancora in fase di espansione, cominciato solo nel maggio 2013, che necessita di crescere. E infatti gli utenti che partecipano all’iniziativa non sono al momento molto numerosi. Sarebbe interessante inserire la possibilità di scambi anche internazionali.
Job Swapper è un progetto totalmente italiano, nato dall’iniziativa di tre amici ed ex-colleghi che hanno deciso di lanciarsi in questa avventura. Autofinanziatisi fino a questo momento, hanno lanciato sul sito anche una mini campagna di crowdfunding, inserendo una sezione “Support Us”: “moltissime sono le novità che ci emozionano e vorremmo condividere subito, ma più ne introduciamo e più cresce l’esigenza economica di sostenere queste novità”.
I lavoratori estenuati dalle distanze che li separano dal posto di lavoro. Gli amanti dell’ambiente, del green, dello sviluppo sostenibile. I disoccupati.
Una domanda sembra ricorrere sempre più spesso, ora anche negli ambienti legati alla cultura e al turismo. Parliamo del “SUPERMANAGER”.
Ma chi è questo nuovo animale sociale? E, soprattuto, è veramente “super” come vorrebbe far credere?
Iniziamo col dire che il SuperManager ha molte facce diverse e riassume in sé la capacità di diversi personaggi leggendari meno “super”, più classici e con tutine più vistose.
I suoi stipendi fanno pensare ai soldi di Bruce Wayne perchè può arrivare ad intascare anche 300 volte lo stipendio dei suoi dipendenti, ricorda Flash Gordon per le sue presenze velocissime alla guida di imprese che poi automaticamente scarica, oppure Superman in grado di sorreggere da solo delle aziende in piena crisi economica.
Altre volte il suo super-potere viene disperso su tanti fronti in contemporanea, decine di diversi consigli di amministrazione per permettere a quante più società di beneficiare delle sue doti fuori dal comune.
Sono quelle persone che sanno cosa fare, che hanno il fiuto, l’intuizione. Sempre.
Le loro regole sono dure e il loro ruolo ingrato. Devono indossare una maschera come quasi tutti i supereroi, fatta di durezza e distacco, riassumibile nel principio “il medico pietoso fa la piaga purulenta”, perché loro fanno quello che devono: poche dichiarazioni pubbliche, nessuna consultazione, obiettivi da raggiungere, un incarico da portare a termine e l’unica cosa che deve quadrare alla fine dell’esercizio di stile sono i conti societari.
Non c’è pareto-ottimalità che tenga.
Probabilmente è in virtù di questo carico emotivo e di questo peso che vengono ricompensati con dei super-stipendi, oltre che per questione di coerenza con la loro super-natura.
Ma esistono anche i super-eroi per tutti i giorni, quelli che normalmente gestiscono le società e che per portare sulle spalle l’onere della decisione percepiscono stipendi varie decine di volte superiori ai dipendenti che invece si possono cullare nella routine dei romantici risvegli all’alba in piccole case accoglienti e del calore umano di treni e autobus affollati.
É poi una circostanza casuale il fatto che i super-manager debbano spesso intervenire a salvare le società gestite da altri eroi.
Uno dei tanti elementi di fascino anche sulle folle è la loro ecletticità: non fa niente che si tratti di produrre macchine, di latte, di sicurezza pubblica, di banche, di scarpe, di cultura o di metal meccanica. Anche perché, in fondo, un budget è un budget!
Non tutti sono però d’accordo con questo corso degli eventi.
A marzo 2013 in Svizzera Thomas Mindler ha ottenuto un ampio successo con il suo referendum che mira a limitare gli stipendi d’oro ai dirigenti delle società quotate in Borsa.
Anche a livello europeo si muovono frange di diggers e livellatori contro questi super-eroi: l’intesa raggiunta qualche mese fa da Consiglio Europeo e Parlamento Europeo è che i premi ai banchieri non possono superare il doppio del loro stipendio e devono essere approvati da una maggioranza pari a due terzi degli azionisti.
D’altra parte contromisure sono state prese già l’anno scorso, imponendo tetti di retribuzione per i grandi manager pubblici o di società partecipate (Hollande ha fissato il limite a 450mila euro e Monti a 294mila €). Con l’immancabile lista di chi continua a sforare ampiamente.
Ma alcune domande sorgono spontanee.
Sono super in quanto capaci di gestire correttamente determinate attività. Ma questo più che al super non dovrebbe afferire direttamente al concetto di manager?
Vengono spesso chiamati presso società al collasso che traghettano verso il fallimento in cambio di vari milioni. Questo non li dovrebbe rendere più simili a Caronte che a Spiderman?
Se è vero che un budget è un budget però è anche possibile ipotizzare che il settore merceologico, il comparto industriale e il contesto geografico abbiano un qualche peso.
I super-manager presenzialisti di CDA che abitualmente gestiscono tante realtà con quali azioni della loro forza lavoro rendono così innegabili i loro lauti stipendi?
A molte di queste domande non sapremo mai fornire una risposta, per il motivo che queste persone esistono sono nel mondo dei fumetti. La cosa grave è che noi cerchiamo e crediamo ancora nell’uomo dei miracoli. Il mondo della cultura e del Turismo necessità di serietà, impegno e buon senso. Caratteristiche di cui ormai l’uomo italiota manca totalmente
Volevo diventare Picasso. Diario di un artista (precario) del Sud
Un libro-raccolta di tanti aneddoti, a volte ironici a volte amari, appartenenti a Luca Scornaienchi, artista, fumettista, sceneggiatore e organizzatore di eventi culturali di Cosenza. Le sue storie, raccontate con spontaneo umorismo contengono le vicende di un ragazzo che si incontra e si scontra con personaggi più o meno noti della musica, del fumetto, dell’arte. Uno stralcio di diario che, come dice l’autore “non ho mai avuto e che avrei tenuto chiuso nel cassetto se non me lo avessero chiesto”.
Prendete Albano Carrisi, Patti Smith, Micheal Jackson e Lou Reed in quantità moderata, aggiungete un po’ di Roma, di Cosenza, qualche goccia di Bologna e di estati afose al mare. Mixate il tutto e ogni tanto assaggiate. Ecco le 15 brevi storie raccontate tutte d’un fiato (così come tutte d’un fiato si lasciano leggere) il cui fil rouge è la passione smoderata per un lavoro che riesci a fare solo perché animato dalla temeraria voglia di conoscere e capire questo strano concetto che chiamiamo “cultura”.
Spigliato e perfettamente a suo agio nelle vicende che racconta (anche quando prevedono figure barbine e malcapitati eventi) l’autore accompagna il lettore nelle ambientazioni delle sue storie ma anche nelle ambientazioni della sua mente e della sua fantasia. Che è una delle cose più belle che un libro riesca a fare.
All’interno di un libricino scorrevole e dinamico forse due sole cose possono disturbare la sensibilità del lettore: la sensazione che a volte l’autore sia un po’ troppo egocentrico (che fa parte del gioco, nonostante tutto) e una correzione bozze non proprio ottimale che purtroppo semina qua e là qualche refuso.
Una postfazione carina e personale, che elenca una serie di “amo” ed “odio” in cui qualcuno potrà trovare dei punti di contatto con l’autore. O di totale disaccordo.
Chi appartiene, anche solo sfiorandolo, a questo mondo un po’ borderline che è quello dell’arte e della cultura. E a coloro che, lavorandoci, devono ogni volta spiegare a nonni e parenti che organizzare eventi culturali non è “un divertimento, in cui passi giornate spensierate a fare PR da un vernissage all’altro, come in quei film americani dove tutti i galleristi, tutti ricchissimi, escono, bevono, sono ospiti di cene meravigliose e trombano come conigli”.
“Volevo diventare Picasso” – diario di un artista (precario) del Sud. Di Luca Scornaienchi, Round Robin edizioni, 12 euro. ISBN 978-88-95731-70-4
Della crisi economica che dal 2008 sta colpendo il nostro Paese molto si è detto e molto si continua a dire. Quello che emerge, con particolare riguardo alla situazione del commercio estero, è come l’adozione della moneta unica abbia reso la ripresa ancora più problematica e ambiziosa, precludendo, di fatto, la strada della svalutazione monetaria per rilanciare la competitività delle esportazioni. Oggi l’Italia ha difficoltà nel vendere se stessa e i suoi prodotti e fatica ad attrarre quegli investimenti internazionali che potrebbero giocare un ruolo strategico nel processo di ripresa.
Allo stesso tempo, però, si può dire che stia divenendo una piazza invitante per tutta una serie di interlocutori che, progressivamente, stanno acquisendo sempre più prodotti, strutture, territori, sempre più frammenti del Made in Italy.
Sono i grandi capitali extraeuropei, che da economie emergenti come Russia e Cina, o da potenze affermate come gli Emirati Arabi, stanno penetrando sempre più a fondo nel nostro Paese, acquisendo immobili, patrimoni e imprese. Le élite globali che stanno dietro a questi investimenti spesso provengono da una nuova generazione di attori economici, una generazione che non è nuova ad operazioni giocate oltre il limite della trasparenza.
Nel contesto dell’impoverimento nazionale e della svalutazione economica bisogna fare particolare attenzione a questa progressiva penetrazione, considerando tanto i potenziali investimenti, quanto le implicazioni che possono scaturire da un’eccessiva leggerezza.
Molto si è detto anche sul patrimonio paesaggistico e culturale dell’Italia, universalmente noto per essere uno dei più ricchi al mondo. Alla base della sua unicità e del suo valore, vi è quella frammentazione che da sempre ha contraddistinto il governo della penisola, una condizione che ha permesso ad ogni territorio di sviluppare un suo specifico “color locale”.
L’incapacità del nostro Paese di valorizzare al meglio delle possibilità il patrimonio culturale costituirà sempre più un fattore chiave di disavanzo. L’Europa di domani, infatti, è un’arena in cui il valore intellettuale delle professioni legate al mondo della creatività è destinato a giocare un ruolo da protagonista.
In questo contesto, colmare il gap esistente nella valorizzazione delle risorse è importante tanto quanto monitorare l’infiltrazione di capitali di oscura provenienza. Sono queste, infatti, operazioni fondamentali per costruire su basi solide il nostro domani oltre la crisi.
Stefano Monti è il direttore editoriale di Tafter
Era il 1980 quando, all’indomani del terribile terremoto che devastò l’Irpinia, il quotidiano napoletano “Il Mattino” titolava in prima pagina “Fate presto”: un imperativo forte che richiamava al senso di solidarietà tipicamente partenopeo e invitava tutta la cittadinanza ad aiutare chi era rimasto senza una casa e a salvare chi era ancora intrappolato sotto le macerie.
Quel grido di aiuto e di dolore, consegnato all’eternità della memoria dal grande Andy Warhol, è tornato tristemente attuale, dopo il tragico incendio doloso che ha distrutto quasi del tutto il complesso di Città della Scienza, a Napoli. Dello spazio espositivo si è salvato pochissimo: quello che si vede adesso è solo un cumulo di cenere e macerie. Solo i pilastri portanti sono riusciti a resistere in piedi e a salvarsi da quella distruzione così barbara e vergognosa.
Ero appena un ragazzino quando visitai per la prima volta la Città della Scienza, che aveva aperto da pochissimo tempo. Rimasi incantato da tutti quegli esperimenti e dai giochini messi a disposizione per avvicinare i bimbi come me alla scienza e alla natura. Ricordo di essermi divertito molto a provarne la maggior parte, con la curiosità dei miei 11 anni (ora ne ho 26) e con la gioia di riuscire a imparare giocando: il sogno di ogni bambino.
Quella prima visita con la scuola fu una specie di svolta per me e mi piacque talmente tanto che decisi di ritornarci insieme ai miei genitori poco tempo dopo. Da allora a oggi, ho avuto modo di visitare più volte e per diverse occasioni quei padiglioni espositivi. Sono tornato volentieri durante le superiori e vedevo crescere sempre di più quel complesso, che nel frattempo si stava allargando anche sull’altro lato di via Coroglio con il BIC (Business Innovation Centre). Leggevo che lì sarebbe nato un incubatore di imprese. “Che buffo nome” pensai, senza sapere che quello spazio sarebbe diventato, per me, anni dopo, importantissimo.
Anni fa ho partecipato anche all’organizzazione della mostra “Europa Museum”, dove diverse scuole superiori di Napoli hanno elaborato progetti ed esposizioni per comunicare al pubblico la propria idea di Europa in diversi settori, dall’istruzione alla cultura, dall’ambiente all’energia. Ricordo un aneddoto curioso: l’apertura della mostra fu anticipata dall’intervento di alcune personalità istituzionali. In poche parole, una gran noia… Io, insieme all’artista Maria Giovanna Ambrosone (direttrice artistica di quella mostra) e a un’altra ragazza, decidemmo di passare in modo diverso quell’ ora di chiacchiere e andammo a vedere un’esposizione scientifica altamente interattiva che si teneva in un altro padiglione. Ci divertimmo tantissimo… E neanche ci rendevamo conto del tempo che passava. Tornammo giusto in tempo per le conclusioni della discussione e l’apertura della mostra.
E poi, l’anno scorso. Ho passato diversi mesi nell’area del complesso dedicata al progetto Creative Clusters, un concorso promosso dall’agenzia Campania Innovazione e volto alla creazione di imprese innovative, a partire da una semplice idea imprenditoriale. Lo dico senza alcun dubbio: si è trattato di una delle esperienze più belle della mia vita. Partire da una piccola intuizione, confrontarsi con un team competente e con altri ragazzi creativi anche durante le deliziose pause pranzo, vedere crescere sempre di più la tua idea e vederla trasformata, alla fine, in un progetto imprenditoriale abbastanza maturo da essere presentato a business angels e investitori…
Credo di non aver mai fatto un’esperienza tanto bella e formativa come questa. Non riuscivo a capirlo ancora, ma quell’opportunità mi ha aiutato tantissimo… È lì che ho piantato il seme del mio futuro. E’ in quei laboratori settimanali che ho costruito il mio domani. È grazie a Città della Scienza se sono riuscito a sbloccare le mie potenzialità, a pensare in modo creativo e ad avere tante e grandi soddisfazioni, soprattutto sul piano lavorativo. Anche oggi, anche adesso che sto scrivendo.
Città della Scienza non era un semplice museo, ma un cuore pulsante al centro di un territorio molto difficile da amministrare. Un esempio di archeologia industriale che il mondo intero ci invidiava. Un’oasi in un deserto, quello di Bagnoli, sul quale si è parlato troppo e si è fatto poco, anzi pochissimo. Un laboratorio di idee e menti creative dal quale stava partendo un riscatto di noi giovani napoletani.
Chissà se davvero si riuscirà a ricostruire quello che è andato perduto per sempre. Certamente non si potranno riavere indietro i bellissimi ricordi che ognuno di noi porta con sé e conserverà nella memoria. Quel fuoco non ha distrutto solo un patrimonio culturale incredibile, ma ha cancellato le idee di noi giovani, i sogni dei tanti bambini che si sono avvicinati alla scienza e alla cultura con gli esperimenti interattivi e con il simpatico Bit. Ha cancellato il nostro futuro!
Ma noi siamo il futuro, siamo la forza dirompente che può sconfiggere questo cancro della società. Città della Scienza deve essere ricostruita, deve rinascere, più bella di prima, senza se e senza ma. Quel simbolo di riscatto e di costruzione di un futuro migliore non può mancare in una città tanto ambigua come Napoli. Il fuoco distrugge e cancella ogni cosa che incontra sul suo cammino, ma non potrà mai cancellare la nostra voglia di combattere e di modellare una città finalmente degna del suo nome.
Non possiamo permettere che la criminalità vinca ancora una volta e che l’imperativo sia quel fastidioso “Fujitevenne”. Dobbiamo vincere noi, devono vincere i giovani di Napoli, deve vincere la nostra città, devono vincere i buoni. Ma soprattutto, deve vincere la Cultura. Nulla è ancora perduto, ma per favore… Fate presto!
Crescente è l’attenzione da parte di imprese e istituzioni per la Corporate Social Responsibility (CSR), in italiano la Responsabilità Sociale d’Impresa.
Ma che cosa è la CSR? Definita dall’Unione Europea come “integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”, la CSR è un nuovo modo di fare impresa attento alle ricadute sociali e ambientali derivanti dalle attività economiche svolte. L’unica via percorribile per crescere in modo sostenibile.
Si potrebbe pensare, dunque, che la questione riguardi solo le imprese. Niente di più sbagliato. La CSR riguarda tutti noi. Scegliere la sostenibilità è un gesto responsabile che quotidianamente ciascuno di noi può attuare, premiando quelle aziende attente a temi fondamentali quali l’ambiente, le questioni sociali, il benessere e la sicurezza dei dipendenti e del luogo di lavoro.
Per tale ragione le istituzioni europee si sono fatte promotrici di numerose iniziative volte a sensibilizzare i cittadini della comunità rispetto i temi della CSR, prestando particolare attenzione alle generazioni future. Sia perché i giovani di oggi saranno gli imprenditori di domani, sia perché la CSR costituisce un’opportunità di lavoro reale dato il moltiplicarsi dell’interesse delle imprese verso tale tematica.
In tale contesto si inserisce il progetto internazionale “Prince, Merchant and Citizen as one: CSR in Europe”, finanziato tramite il programma comunitario “Gioventù in Azione” e dedicato proprio ai giovani. Il progetto, al quale partecipano Italia, Portogallo, Polonia e Turchia, ha l’obiettivo di diffondere i temi legati alla CSR ai giovani, coinvolgendo a livello locale enti di formazione, imprese, istituzioni, associazioni, fondazioni e centri giovanili. Oltre a sensibilizzare i ragazzi, l’intreccio di attori coinvolti consentirà a livello nazionale lo sviluppo di sinergie positive tra settore pubblico, imprese e società civile, mentre a livello internazionale lo scambio di buone pratiche ed esperienze arricchiranno il bagaglio di ciascun paese partecipante.
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TAFTER, in qualità di partner del bando Che Fare, vi fa conoscere da vicino i 6 finalisti del premio dedicato all’innovazione sociale. Fino a sabato 26 gennaio, uno per uno, i responsabili dei progetti finalisti ci mostrano i loro obiettivi, i loro sacrifici e le loro ambizioni nel caso risultassero tra i favoriti della Giuria. La votazione finale, si svolgerà il 27 gennaio.
Verrà data comunicazione ufficiale del vincitore martedì 29 gennaio. Siete pronti a scommettere sul vincitore?
Parliamo di Crisi 2.0 con i portavoce del Teatro Valle Occupato, dove il progetto è stato ideato
Siete tra i 6 finalisti del premio Che Fare. Come è nato il vostro progetto?
Il progetto Crisi 2.0 nasce all’interno del percorso del Teatro Valle Occupato. Dal 14 giugno 2011 al Valle si è innescato un processo costituente per la creazione di una istituzione nuova, creata dal basso, a partire dai desideri degli artisti e raccogliendo le proposte dei cittadini. In questi mesi abbiamo scritto lo statuto di una Fondazione Bene Comune come messa a punto di un sistema giuridico ed economico radicalmente innovativo. All’interno di un dibattito pubblico e partecipato è emersa la volontà di trasformare il Teatro Valle in un luogo dedicato alla scrittura teatrale con vocazione alla produzione, alla promozione, alla formazione. Il desiderio di fare del Valle una casa per le drammaturgie contemporanee risponde all’esigenza di riaprire un processo di narrazione e rappresentazione della realtà, che nell’ultimo mezzo secolo della vita del nostro paese ha subito un’involuzione, un congelamento. CRISI è il progetto pilota che realizzerà il nucleo essenziale della vocazione artistica della Fondazione Teatro Valle, prima istituzione Bene Comune in Italia.
Perché il vostro progetto è innovativo?
Il progetto presenta diversi punti di novità. -Lo studente è considerato a tutti gli effetti un lavoratore. Lo Statuto sociale europeo degli artisti sottolinea che “occorre prendere in considerazione la natura atipica e precaria di tutte le professioni sceniche” e che “tutti gli artisti esercitano la loro attività in modo permanente, non limitandosi alle ore di prestazione artistica”. Incoraggia “a sviluppare la definizione di contratti di formazione/qualificazione nelle professioni artistiche”. Il progetto introduce in Italia il concetto che le ore di formazione sono ore di lavoro a tutti gli effetti. -Il pubblico che lo voglia è parte integrante del processo creativo: è presente, consultabile e consultato. Lo spettatore non è trattato come un acquirente di biglietti (il laboratorio è accessibile gratuitamente agli uditori) e partecipa attivamente alla scrittura dello spettacolo a cui vorrebbe assistere. Tutti i teatri europei sono naturali centri di aggregazione e di confronto tra artisti e artisti e pubblico. Crisi 2.0 aiuta a superare l’idea di Teatro come luogo dove si entra, si vede lo spettacolo e si va a casa. -Il passaggio dalla formazione alla produzione è graduale: lo studio è finalizzato alla produzione di drammaturgie e quindi alla condivisione, la produzione a sua volta è la naturale conseguenza di uno studio e di un percorso condiviso, non un generico fare business.
-L’impegno a rafforzare i rapporti e la collaborazione con diversi Teatri europei una maggior diffusione della scrittura italiana – sempre più ai margini della contemporaneità. Nell’ambito del progetto CRISI 2.0 saranno invitati a partecipare drammaturghi di altri Paesi, dando vita ad un’esperienza di lavoro fondata su confronto, collaborazione e scambio di saperi.
In che modo riuscirete a rendere economicamente sostenibile la vostra idea?
“Crisi 2.0” sarà sostenibile economicamente attraverso diverse fonti. Una di esse immaginiamo sia la produzione di contenuti audiovisivi per canali Tv tematici satellitari o generalisti che abbiano programmazioni culturali diversificate, oppure per Web Tv di portali di rilievo nazionale che possano valorizzare su importanti audience questo innovativo progetto formativo e creativo. Il percorso formativo prevede anche la produzione di occasioni di presentazione –spettacolo per ogni settimana di lavori. Contiamo molto sulla partecipazione della cittadinanza che in questo anno e mezzo di lavoro è stata protagonista di questo luogo e soprattutto di ciò che vi è stato creato. Attraverso la condivisione web di parte dei materiali audiovideo del laboratorio, e soprattutto di quelli testuali sulla piattaforma “eMend” di scrittura/revisione open-source, si svilupperanno canali di coinvolgimento della comunità anche a livello di crowdfunding. Anche un’attività di fundraising sarà sviluppata. E poi c’è l’idea di fare un libro in co-edizione. Una nostra piccola pubblicazione sta già ricevendo un appassionato interesse dalla cittadinanza. Le attività di formazione infine sono sempre più al centro di programmi di finanziamento europei e i progetti culturali saranno fondamentali nella nuova programmazione dei prossimi anni. “Crisi 2.0”, con i suoi sviluppi, come progetto culturale e formativo con al centro un forte componente di partecipazione della collettività e in virtù della sua vocazione internazionale costituirà un importante modo con cui la costituenda Fondazione Teatro Valle Bene Comune potrà accedere a tali finanziamenti.
Che obiettivi vi siete posti?
Trasformare il Teatro Valle nel nuovo polo per le scritture contemporanee all’altezza dei grandi Teatri europei. Il Teatro Valle deve diventare un centro permanente di riferimento per le drammaturgie, colmando un vuoto del nostro Paese e fornendo agli autori formazione, possibilità di incontri, opportunità di lavoro e agli addetti ai lavori e al pubblico la possibilità di conoscere le drammaturgie partecipando al processo di creazione.
Dateci 3 motivi per i quali la giuria dovrebbe votare per voi.
Crisi 2.0 rappresenta una concreta opportunità di confronto tra pubblico e palco, artisti e autori, accorcia la distanza tra spettatore e scena, idee e creazioni. Crea uno spazio di partecipazione per ricreare una vera e propria comunità intorno al teatro e consente di sviluppare il concetto di cultura come bene comune È fondamentale la nascita di un teatro dedicato alla scrittura teatrale, attento alla formazione e capace di interloquire alla pari con i suoi omologhi esistenti e operanti all’estero: il Royal Court Theatre di Londra, il Théâtre de la Colline di Parigi, la Schaubuhne di Berlino. Il progetto Crisi 2.0 non è solo un progetto. É la risposta concreta al desiderio di migliaia di persone che in questo anno e mezzo hanno creduto nella visione del Teatro Valle Occupato. Una visione che ha come missione la diffusione indiscriminata, aperta, inventiva, condivisa della cultura e dell’arte. Una visione che non prevede il male minore, che non insiste sulla difesa. Una visione performativa sull’esistente e sul presente che incarna l’imprudenza. Perché il ruolo dell’artista è di rendere la rivoluzione irresistibile.
La scheda di Crisi 2.0 su Che Fare
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TAFTER, in qualità di partner del bando Che Fare, vi fa conoscere da vicino i 6 finalisti del premio dedicato all’innovazione sociale. Fino a sabato 26 gennaio, uno per uno, i responsabili dei progetti finalisti ci mostrano i loro obiettivi, i loro sacrifici e le loro ambizioni nel caso risultassero tra i favoriti della Giuria. La votazione finale, si svolgerà il 27 gennaio.
Verrà data comunicazione ufficiale del vincitore martedì 29 gennaio. Siete pronti a scommettere sul vincitore?
Parliamo di Artribune Jobs con Massimiliano Tonelli, direttore di Artribune
Siete tra i 6 finalisti del premio Che Fare. Come è nato il vostro progetto?
Il progetto Artribune Jobs si inserisce in un più ampio piano di investimenti che l’azienda intende portare avanti con l’obiettivo di internazionalizzare il brand, ampliare il proprio mercato e aprire nuove aree di business. Il processo di apertura del marchio Artribune verso l’estero, che verrà perseguito durante il biennio 2013-14 attraverso una serie di iniziative coordinate (pubblicazione di contenuti in inglese su carta e web, presenza del giornale in eventi internazionali, progettazione di nuove applicazioni per il mercato dei dispositivi mobili, lancio di una piattaforma di content curation), punta sul progetto Jobs come perno dell’intera strategia.
Perché il vostro progetto è innovativo?
E’ innovativo perché non c’è niente di questo genere in giro per il mondo della creatività. Un settore dove il turnover di personale e addetti è continuo, ma dove la domanda e l’offerta di lavoro è demandata al passaparola. Un settore, inoltre, dove c’è una sovrabbondanza di opportunità in termini di bandi, call e concorsi e dove non c’è nulla per averli tutti insieme a disposizione. Artribune Jobs è innovativo perché semplifica le procedure per chi sta offrendo o cercando lavoro. Rende più facile l’incontro della domanda e dell’offerta in ambiti strategici in questo momento come il lavoro e le opportunità.
In che modo riuscirete a rendere economicamente sostenibile la vostra idea?
Grazie alle sinergie con Artribune, grazie all’approccio “freemium” ovvero dare una parte del servizio di domandaofferta di lavoro in modalità gratuita ed una parte, la parte premium, a pagamento sia per chi consulta che per chi inserisce le offerte. In questo modo e anche grazie a software open source e non molto costosi la macchina dovrebbe stare in piedi ed essere sostenibile accompagnando al contempo la nostra internazionalizzazione. Ovviamente ci sono circa 100.000 euro di start-up da trovare, ecco perché abbiamo partecipato al Premio Che Fare e lo vogliamo fortemente vincere.
Che obiettivi vi siete posti?
Artribune Jobs ha obiettivi ambiziosi: cambiare l’approccio che le persone hanno al settore della cultura e della creatività, affermare la meritocrazia perché questo progetto accrescerà esponenzialmente la trasparenza specie dei bandi eliminando la possibilità per qualcheduno di pubblicare bandi confidando sulla scarsa diffusione. Con Artribune Jobs tutto sarà disponibile a tutti in qualsiasi momento.
Insomma cambio di prospettiva, merito, opportunità. L’obbiettivo è creare una vera infrastruttura per l’intero comparto. Qualcosa che diventi insostituibile.
Dateci 3 motivi per i quali la giuria dovrebbe votare per voi
Si richiedevano progetti di impatto sociale e attivando Artribune Jobs si cambia letteralmente la faccia, dal punto di vista lavorativo ad un intero settore.
Si richiedeva replicabilità e siamo nelle condizioni di replicare il modello su tutti gli ambiti della creatività, non solo l’arte che è il nostro ambito, ma anche l’editoria, la letteratura, il design, l’architettura, la moda. Nessuno di questi mondi ha delle piattaforme di job engine attive e ben funzionati
E infine siamo il progetto che, se lanciato e messo nelle condizioni di funzionare, può dare maggiormente lustro, diffusione e prestigio al Premio Che Fare e alle realtà che lo hanno realizzato.. Artribune Jobs è un progetto destinato a durare negli anni ed a incidere sulla vita di migliaia di persone. Tutti, dunque, dovranno ringraziare Che Fare per questo.
La scheda di Artribune Jobs su Che Fare
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Alessandro Barra, giovane designer torinese, ci racconta la sua “versione dei fatti”: il ruolo del design nella stretta attualità e la complessa situazione lavorativa nel suo ambito di ricerca
Ciao Alessandro, per iniziare…quali sono gli studi che hai portato avanti prima di diventare un designer?
Il mio percorso formativo è stato un pò movimentato, ma sempre caratterizzato da una vena creativa. Nel 2003 all’istituto tecnico ”La Salle” di Torino ho conseguito il diploma di geometra e nello steso anno mi sono iscritto al corso di studi in D.A.M.S. (discipline delle arti della musica e dello spettacolo) della facoltà di Torino frequentando un anno di corso. Il corso di studio non soddisfaceva la mia indole irrequieta, quindi decisi di abbandonarlo ed iscrivermi al Politecnico della mia città; ero indeciso su quale ”disciplina” indirizzarmi: se ad Architettura o Design. La scelta fu in parte influenzata dai miei genitori, entrambi architetti, quindi frequentai due anni del corso di laurea ”Architettura per il progetto”, ma mi si ripropose quell’irrequietezza ed insoddisfazione passata; ma nel 2009 ci fu la svolta. Ricordo ancora quel momento ero seduto su una panchina ed aspettavo il pullman per tornare a casa quando mi resi conto di una pubblicità dello IED (istituto europeo di design) non era sfarzosa ma mi rimase impressa il nome della scuola, ma soprattutto della parola design; decisi quindi di visitare l’istituto. Qui rimasi affascinato nel rendermi conto che le persone della scuola erano giovani ragazze e ragazzi creativi e finalmente mi sentii a casa.
Cos’è per te il design e, soprattutto…a cosa “serve”?
Il termine design al giorno d’oggi è usato in maniera avvolte impropria e discriminatoria; per indicare oggetti, creazioni per lo più appariscenti e costosi; per rendersi conto di quello che sto affermando basterebbe citare il personaggio di Fuffas interpretato da Maurizio Crozza, il quale durante uno sketch osserva una sedia affermando che non può trattarsi di un’oggetto di design perchè un vero oggetto di design per essere considerato tale non si deve comprendere.
Per me il design è un progetto, una soluzione creativa che fonde l’estetica e la funzionalità ma dove entrambi hanno un ruolo non subordinato l’uno all’altra, ma congiunto, indissolubile senza sfociare in manierismi o tecnicismi; dove la forma dell’oggetto e dettata anche dalla sua funzione ed il suo utilizzo risulta essere intuitivo, naturale dal fruitore; tutto ciò deve inoltre ”sposarsi” alle esigenze industriali: ripetibilità all’infinito del prodotto e produzione per la maggior possibilità d’utenza; inoltre per me il designer è un uomo che crea per l’uomo tenendo conto dell’uomo.
Quanto conta lo studio della storia del design nel tuo lavoro?
Per il mio lavoro lo studio della storia del design conta abbastanza ma non costituisce un punto d’arrivo bensì di partenza: prendo spunto nel mio lavoro, nei designer che hanno fatto l’innovazione del prodotto o che la stanno facendo come Steve Jobs o Tokujin Yoshioka; a me interessa la loro visione progettuale, la loro sensibilità creativa ed il perchè siano arrivati ad una soluzione anzichè ad un’altra.
Qual è il ruolo del designer nella contemporaneità e quali le reali prospettive occupazionali?
Il ruolo del designer è quello di immedesimarsi, interpretare, estrapolare le problematiche o i desideri del committente; farle proprie e tradurle in soluzioni ed infine concretizzarle.
Per questo motivo il designer deve studiare la realtà circostante, la società e le sue esigenze e contaminazioni; infatti la produzione di un designer è quasi sempre contemporanea a ciò che vive ma con un occhio al futuro.
Le prospettive lavorative di questo mestiere possono essere suddivise in due situazioni principali: come dipendente, il designer mette la sua capacità e la sua creatività al servizio di un’unica azienda; oppure come libero professionista /free lance; qui la mente creativa potrà liberare la sua influenza creativa e mettersi in gioco affacciandosi al mondo del mercato com e individuo singolo o come gruppo collettivo tramite studi, studi associati, start up.
Uno dei suoi progetti a mio avviso più interessante è la seduta Pretaporter (nella foto), che fa emergere anche un senso di consistente precarietà.
Com’è nato questo lavoro?
Il lavoro è nato da un’osservazione: come può un oggetto testimoniare la presenza e l’esperienza del suo utente senza perdere o cambiare la sua identità?
Ho creato così una sedia (Pretaporter) che mantiene i ”valori solidi”, immutabili; la sua struttura in contrapposizione ai ”valori liquidi” di una ”società liquida” quali mode, passioni, rappresentati dai quotidiani, magazine; che il fruitore potrà conservare all’interno.
La grafica della seduta è variabile, mutabile in quanto è intrinseco nella natura stessa della rivista mutare nel corso del tempo; la seduta sarà testimone irreprensibile del continuo cambiamento della società.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Il sogno di ogni designer è: sposarsi, mettere su casa, avere dei figli e possibilmente un cane… a parte gli scherzi quello che desidererei è di poter partecipare al salone di Milano; far conoscere al pubblico i miei lavori esponendo in negozi, gallerie e, perchè no, vincere il Compasso d’oro!!
Un sabato piovoso, di fronte al Pantheon: un figurante come gladiatore, le carrozze romane e un centinaio di archeologi, alcuni muniti di elmetto, che parlano ad un megafono e sorreggono striscioni.
“L’archeologia non è una merce”, “Diritti di maternità per le archeologhe”, giovani venuti dalla Sicilia, da Napoli, da Caserta, dalla Toscana che, attraverso un megafono raccontano le esperienze di chi, laureato, specializzato e dottorato, si trova a combattere per avere più diritti, per essere tutelato in un mercato di appalti al ribasso che minano la professionalità ma anche la sopravvivenza di una figura fondamentale per la tutela del patrimonio archeologico.
Tempo fa abbiamo parlato dell’anomalia italiana che non riconosce legalmente una professionalità preziosa in un paese come il nostro.
Nel 2008, a seguito della prima manifestazione degli archeologi, era approdata alla camera dei deputati la proposta di legge “Madia” che prevedeva il riconoscimento della figura professionale di archeologo e il suo inserimento nel Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, mentre ora l’obbligatorietà di una valutazione di impatto archeologico redatta da un professionista è prevista solo nel Codice degli Appalti.
Da allora tutto tace in Italia: non si è fatto alcun passo in avanti e così, nella piena anarchia, le tariffe si abbassano e l’assenza di una cassa sanitaria ti costringe ad andare in cantiere con la febbre per non perdere la “giornata”. Per le donne la situazione è anche peggiore, come sempre in Italia; non esistendo la professione non c’è alcun diritto di maternità, ed è spesso difficile per una mamma archeologa, dopo un periodo di assenza dal lavoro, ritrovare “il giro” e ottenere nuove commissioni.
Quello che ci si aspettava dal ministero era, inoltre, la ratifica della convenzione della Valletta siglata nel 1992 nella quale si stabilisce che chi opera nelle trasformazioni del territorio deve farsi carico degli oneri della tutela archeologica prevedendoli già a monte del bilancio le risorse necessarie. Le indagini archeologiche, se accuratamente programmate e finanziate, sono fonte di conoscenza e rappresentano un’opportunità lavorativa al contrario di quanto si continua a far credere dipingendole come un ostacolo alla realizzazione di nuove opere.
Così l’ANA, l’associazione nazionale archeologi, ha organizzato una giornata di protesta che si è conclusa con un simbolico incatenamento degli archeologi tra le colonne del pronao del Pantheon, un gesto per dimostrare che si sentono legati da un Ministero indifferente.
L’adesione alla manifestazione non è stata quella che molti speravano, a causa del mancato coinvolgimento da parte dell’ANA delle altre associazioni di categoria, e le forte critiche rivolte da queste ultime nei confronti della manifestazione stessa.
Le altre associazioni CIA, CNAP e FAP hanno guardato con sospetto alla manifestazione vista l’assenza dell’ANA dal tavolo di lavoro comune. Il sospetto non è riuscito a tramutarsi in un’adesione disinteressata, né ha spinto le altre sigle a cercare un dialogo con l’ANA per la causa. Ognuno fermo sulle proprie posizioni, nessuno ha fatto un passo verso una lotta comune; così la strada per le lotte degli archeologi si mostra sempre più in salita e disseminata di ostacoli.