chefareDopo il successo della prima edizione è tornato anche quest’anno il bando Che Fare volto a premiare con 100 mila euro progetti culturali innovativi e con forte impatto sociale. Per capire le novità introdotte abbiamo intervistato Marco Liberatore, responsabile comunicazione del bando, che ci ha spiegato non solo come partecipare, ma ci ha fornito anche qualche dritta per aggiudicarsi il premio.

 

È partita la nuova edizione del Bando Che Fare 2013. Quali sono le novità rispetto all’anno passato?
Il 28 ottobre abbiamo aperto la seconda edizione del nostro bando, quella dell’anno passato è stata la prima e ci è stata utile per lanciare a livello nazionale un dibattito su uno dei temi che riteniamo di grande interesse collettivo, quello del finanziamento alla cultura, che non vuol dire solamente “Come si pagano i musei” o “dove trovano i soldi gli enti lirici” ma anche, e più semplicemente, in un paese che investe sempre meno in ricerca e in istruzione, come posso rendere sostenibile un’iniziativa culturale se i referenti tradizionali di un tempo (enti locali e istituzioni) si sono eclissati?L’edizione dello scorso anno ci è quindi stata utile per sollevare un problema e per metterci nell’ottica di cercare delle possibili risposte. Data la situazione politica ed economica come muoversi? Che strade percorrere? Di fatto il bando è espressione di un’operazione culturale più ampia.
Preso atto dell’esperienza molto positiva abbiamo deciso di riprovarci. Quando rifai una cosa del genere per la seconda volta cerchi di farla meglio, naturalmente, e questo vuol dire soprattutto potenziare la struttura, lavorando sulla squadra e ottimizzando gli aspetti critici, che ci sono sempre, individuati alla prima esperienza. Gli aspetti più evidenti sono ovviamente legati al sito, nuovo, più funzionale e ricco di contenuti. Uno di questi è il Vademecum, una sorte di guida che abbiamo stilato grazie all’apporto di alcuni nostri partner (Fondazione Fitzcarraldo, Tafter, Fondazione <ahref, Avanzi). L’altra novità è legata all’allargamento della rete dei partner.

 

Squadra che vince non si cambia. Con chi collaborate quest’anno e quale il valore aggiunto del vostro network?
Alcuni partner sono gli stessi dell’anno scorso: Avanzi, Fondazione<ahref, Tafter, Domenica del Sole 24 ore. A questi si sono aggiunti altri: Fondazione Fitzcarraldo, Societing, Vita, Bollenti Spiriti della Regione Puglia, Enel e Lìberos, il progetto che ha vinto l’anno scorso.
L’allargamento della rete è fondamentale, rafforza cheFare e ci permette di collaborare con realtà di cui abbiamo grande stima. Soprattutto ci permette di unire competenze e capacità differenti.

 

Ho un progetto nel cassetto riguardante l’innovazione sociale e culturale. Come faccio a partecipare al bando? Ci sono dei requisiti da rispettare?
Il bando e aperto a organizzazione profit e non profit e per partecipare è sufficiente andare sul nostro sito (www.che-fare.com), scaricare il bando e compilare il form online. Noi però suggeriamo prima di tutto di leggere il vademecum e di scaricare il fac-simile del modulo da compilare, in modo da avere tutto il tempo per rispondere al meglio alle domande e alle richieste lì esposte. E solo in un secondo momento riempire il modulo online.
In generale sono soprattutto due gli elementi da tenere in considerazione, gli otto requisiti richiesti ai progetti e il business model. Il nostro bando si rivolge a progetti culturali di innovazione sociale e abbiamo cercato di identificare otto criteri utili a identificarli: collaborazione, progettazione innovativa, scalabilità e riproducibilità, sostenibilità, equità, impatto sociale, approccio open source, capacità di coinvolgimento delle comunità.

 

Cosa è successo a chi ha vinto lo scorso anno?
Ha potuto dare un impulso significativo al proprio progetto, rafforzando l’organizzazione e realizzando una buona parte degli obiettivi. La prima edizione è stata vinta da Lìberos, un comunità di lettori scrittori, editori, librai e associazioni della Sardegna, un social network del libro che sfrutta la filiera editoriale per creare valore sociale, una rete virtuale e fisica, radicata sul territorio che promuove e organizza incontri, reading ed eventi culturali in mille forme e modi diversi. Per dieci mesi, dopo la premiazione, abbiamo monitorato il progetto, confrontandoci con loro sulle possibilità di crescita della loro iniziativa. Tra pochi giorni, inoltre, si terrà il loro convegno annuale (durante il fine settimana del 30 novembre) e avremo modo di conoscere quali saranno le loro prossime mosse. È un progetto molto bello e valido e anche per questo li abbiamo voluti come partner per la seconda edizione del nostro bando.

 

È tempo di consigli. 3 consigli che daresti a chi decide di partecipare…
Studiare il vademecum, fare network, guardarsi intorno e imparare da chi ne sa di più.
Sul vademecum e sul collaborare e fare rete abbiamo già detto, sull’imparare da chi ne sa di più le cose stanno così: a scuola ci insegnano che copiare dal compagno di banco è sbagliato ma nella vita come nel mondo animale si apprende soprattutto per imitazione. È il primo passo per poi fare le cose a proprio modo. C’è sempre qualcuno più bravo di noi o che ha più esperienza e che magari ha già affrontato e superato problemi che noi incontriamo per la prima volta. Credere di sapere tutto non è l’atteggiamento giusto per fare innovazione e vedere come fanno gli altri può essere il modo migliore per creare qualcosa di veramente unico e originale.

 

TAFTER è mediapartner di Che Fare

 

unlearningLucio e Anna sono una coppia di Genova come tante altre, hanno un lavoro, una bambina di nome Gaia e una casa in città. Eppure un giorno si rendono conto che la loro vita, le loro giornate, hanno bisogno di qualcosa in più rispetto alle opportunità che ogni giorno offre la realtà urbana.
Decidono allora di intraprendere, tutti e tre, un progetto ambizioso e pionieristico: viaggiare alla scoperta di nuovi modi di vivere, di fare economia e di intendere il rapporto uomo-natura. Capire come si vive in una fattoria biologica, cosa comporta il cohousing, come effettivamente si svolgono le giornate in un villaggio ecosostenibile, provare in prima persona forme alternative di educazione e di apprendimento.

Anche il modo di spostarsi di Unlearning – così si chiama il loro progetto – avverrà in maniera originale e sostenibile, sfruttando le più avanguardistiche forme di baratto: WorkAway, Banca del tempo, Couch Surfing, scambi di ospitalità in cambio di lavori in fattorie biologiche, in strutture culturali indipendenti, baratto di conversazione per imparare le lingue, e così via. Da questa particolare avventura verrà fuori un documentario, un prodotto culturale che sarà il risultato di un’ulteriore forma di scambio e condivisione “dal basso”, basandosi sui finanziamenti del crowdsourcing.

Ma sentiamo dalla voce dei suoi stessi protagonisti i dettagli di questa esperienza, unica nel suo genere.

 

Come spiegate nel trailer di presentazione di “Unlearning”, l’idea del vostro progetto è nata da un pollo a quattro zampe, che è diventato il simbolo della vostra iniziativa. Potete raccontarci l’aneddoto che ha dato inizio a tutto e rivelarci i motivi che vi hanno spinto a intraprendere un’avventura del genere?

Viaggiare e curiosare ha sempre fatto parte del nostro DNA di coppia. L’arrivo di una figlia ha cambiato molti aspetti pratici della nostra quotidianità. Ma quando Gaia ha disegnato un pollo a quattro zampe si è riaccesa la scintilla e ci siamo detti “Perché non coinvolgere anche la bimba?” Meraviglioso… la nostra crescita individuale si è trasformata esponenzialmente a livello familiare. Il pollo a quattro zampe è diventato il simbolo della nostra epoca, dove i bambini di città conoscono gli animali al supermercato, guardano gli speciali in tv e, se va bene, vanno allo zoo.

 

Tutto il vostro viaggio si baserà sull’idea del baratto. Si tratterà di un’esperienza all’insegna dell’improvvisazione e della scoperta o potete già dare delle anticipazioni sull’itinerario, i tempi, le persone che incontrerete?

Viaggeremo con una bimba piccola, non possiamo pensare di fare come Indiana Jones!
Sarà un viaggio pianificato perché non è l’aspetto avventuroso che ci interessa.
Anticipazioni: vi possiamo dire che questi ultimi giorni sono fantastici perché abbiamo ricevuto numerosi inviti da parte di  persone che hanno trovato interessante il progetto, e li ringraziamo. È molto probabile che ci vedrete alle prese con un progetto educativo indipendente, una famiglia di “artisti del riciclo” e… un circo! Abbiamo sei mesi di viaggio e qualche mese per decidere le ulteriori tappe.

 

Quanto e come pensate che “Unlearning” possa essere importante per vostra figlia? E in generale, pensate che il vostro potrebbe o dovrebbe essere un esempio per altre famiglie, per altri bambini?

Noi non pensiamo di essere un esempio, ciascuna persona ha il diritto di vivere come preferisce, ma le famiglie che vogliono sperimentare differenti modi di vivere e di viaggiare troveranno in Unlearning un manuale pratico per affrontare con serenità questo tipo di esperienza.

Noi abitiamo a Genova e, come molte altre famiglie, siamo contenti della nostra vita e Gaia ha i suoi punti di riferimento: amici, giochi, casa. Certo, il confronto con altri stili di vita, non sarà indolore perché metterà a nudo aspetti di forza e di debolezza delle nostre convinzioni, della nostra routine. Come una sorta di depurazione, alla fine resteranno solo le cose più preziose.

 

I finanziamenti per compiere il vostro singolare viaggio si basano interamente sul crowdfunding. Perché un individuo, un’altra famiglia come la vostra, o una collettività dovrebbero finanziarvi?

Bella domanda! E ti ringrazio perché è molto importante spiegare questo passaggio, tanto delicato quanto importante.
Unlearning è un progetto di documentario indipendente. Ti piace il trailer? Puoi acquistare il film in prevendita qui: www.unlearning.it. È come comprare un biglietto del cinema ma vedere il film dopo sei mesi. Capiamo che può sembrare strano, ma il ricavato della prevendita ci permetterà di realizzare Unlearning al meglio! Non chiediamo soldi per organizzarci una vacanza, ma per creare un prodotto culturale a stretto contatto con i suoi fruitori. Il costo del download è di dieci euro ma se proprio vi siamo simpatici, potete richiederci i fantastici gadget creati appositamente per Unlearning: t-shirt per uomo, donna e bambino, fondini per il desktop, stampe e segnalibri magici.
In Francia, e in altri paesi europei il finanziamento da basso (crowdfounding) è un metodo molto utilizzato per progetti di tipo sociale, scientifico, musicale, letterario.
Ci è sembrata una buona idea adottare questa nuova formula di finanziamento anche da noi, in Italia. La nostra scelta è pioneristica ma, se compresa dalla collettività, potrebbe rivelarsi molto utile anche per altri progetti.

 

Intraprendere un percorso del genere non è un avvenimento di tutti i giorni. Cosa pensano le vostre famiglie e i vostri amici di “Unlearning”? C’è un territorio o una realtà che vi sostiene particolarmente?

Familiari e amici sono stati in nostri primi fans! Ma non solo, sono state le prime persone con le quali confrontarci e mettere a fuoco il progetto. Insomma, sono il nostro “territorio amico”.

 

Probabilmente la vostra vita sarà cambiata dopo aver portato a termine un’avventura come questa. Cosa vi aspettate per il futuro, dopo “Unlearning”? Il vostro proposito di sperimentare nuove forme di vita e di economia avrà un seguito?

In realtà i cambiamenti sono iniziati già da ora! “Imparare, disimparare per imparare nuovamente”. E quando rientreremo a casa dopo sei mesi, chissà! Magari saremo felici di ritornare alla nostra quotidianità, oppure… Questo sarà il finale del nostro documentario!

 

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C’è chi da bambino sogna di fare l’astronauta, il dottore, il calciatore, chi di ricevere una bici nuova, di andare alle giostre, di avere un cucciolo. Anche Miles ha un sogno, ha espresso un desiderio ben preciso: vuole essere Batman. Se tuo figlio è malato di leucemia dall’età di 20 mesi e adesso, dopo lotte, cure e sacrifici, sta per cominciare una vita normale, la frase “ogni tuo desiderio è un ordine” diventa realtà.

 

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A realizzare il sogno del piccolo Miles ci ha pensato la fondazione no-profit Make-A-Wish, che ha come scopo proprio la concretizzazione dei desideri di tanti altri bambini che si trovano in situazioni particolari. Solo che la vicenda di Miles ha avuto una risonanza incredibile sui social, ha fatto il giro del mondo, e si appresta ad essere un evento davvero indimenticabile non solo per il piccolo Miles.
Oggi, 15 novembre, San Francisco si trasformerà in Gotham City, il mitico scenario delle avventure del supereroe alato. Il valoroso Batkid verrà convocato durante un notiziario tv dal Capo della Polizia in persona; poco dopo Batman in carne ed ossa andrà a prelevarlo a casa e sulla sua batmobile lo porterà con sé per vivere strabilianti avventure. Batkid salverà un donzella in pericolo, sventerà rapine e altre malefatte, e sfiderà uno dei più temibili nemici di Batman, Pinguino. La città lo ringrazierà radunata nella City Hall dove il Sindaco e il Capo della Polizia in persona gli consegneranno le chiavi della città.

 

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Migliaia di persone si sono mobilitate per aiutare Batkid. È nato anche un progetto fotografico per supportare le sue mirabolanti gesta: con un cartellone in mano con su scritto “We love Batkid”, in costume da supereroe o in abiti civili, chiunque può fotografarsi per dimostrare di essere fan del coraggioso Miles.

In moltissimi parteciperanno attivamente anche all’evento, radunandosi a Union Square per chiedere a Batkid di salvare la mascotte di San Francisco dalle grinfie di Pinguino, e poi nella City Hall dove festeggeranno il piccolo supereroe.

 

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Oggi la giornata di un bambino sarà costellata di sorrisi ed emozioni. Tanti altri piccoli soffrono ancora, da soli, ma la felicità di uno di loro basta già a illuminare un po’ di più la vita di tutti.

Per condividere o seguire l’evento, tenetevi aggiornati con l’hastag Twitter #SFBatKid

improveverywhereIl marketing è un’attività svolta dalle aziende principalmente per piazzarsi sul mercato, per ottenere maggiore visibilità e quindi maggiore profitto, per rendere più appetibili e commerciali i propri prodotti. C’è anche un marketing diverso, però, più scanzonato e giocherellone, virale, che si basa sull’originalità e sulla creatività, sul coinvolgimento e l’interazione, sullo stupore e anche il divertimento.

Charlie Todd ne ha fatto il cuore del suo business, spingendosi ancora oltre però: il viral diventa puro divertimento e semplice momento per suscitare gioia e sorrisi. Poi lo si può associare ad un’azienda, ad un festival, ad un evento pubblico o privato. Ma questo è un discorso secondario.

Il business di Charlie Todd si chiama Improv Everywhere ed è nato nel 2001: una sera in un bar con un amico, Todd si è finto un attore famoso, firmando autografi, scattando foto con i fan ed elargendo amichevoli pacche sulle spalle a tutti gli ignari avventori del locale. La finzione è riuscita talmente bene che Todd ha lasciato il bar senza svelare la sua vera identità e ha pensato di organizzare scherzi giocosi per mestiere, coinvolgendo anche altre persone. Da allora sono passati 12 anni e Improv Everywhere è decollato, portando le sue originali iniziative nelle piazze, ma anche in prestigiosi festival o persino durante le conferenze di Ted.

Mr. Todd ci tiene a precisare che i suoi non sono flash mob. “Flash mob” è un termine abusato che ormai non ha più una vera identità. Gli eventi da lui organizzati possono durare anche ore, non sempre sono “flash” e non sempre vedono la partecipazione di migliaia di persone, possono anche essere opera di piccoli gruppi. Meglio, allora, il termine “performance”, o ancora meglio “prank”, un misto tra una recita mezza a soggetto e un episodio da candid camera. Altra caratteristiche del progetto è che le iniziative di Improv Everywhere non sono improvvisate. Ci si può iscrivere ad una newsletter che informa sui prossimi eventi che si terranno a New York, scenario principale delle “Improvate”, o nel resto del mondo.

Ci sono, poi, alcuni eventi che si tengono ogni anno, in un determinato mese. Uno è The No Pants Subway Ride che si tiene a gennaio a New York: gli Improviani, vecchi, giovani, bambini, si danno appuntamento nella metro della Grande Mela, si spargono per i vagoni e le stazioni e si sfilano con nonchalance i pantaloni, rimanendo bellamente in mutande. Ed ecco che scatta il fattore “Improv”, ovvero l’improvvisa reazione di divertimento e stupore che cattura la folla allibita di fronte alla scena a cui sta assistendo.

 

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L’altro evento annuale è Black Tie Beach che si tiene, invece, ad agosto. In questo caso i partecipanti devono vestirsi di tutto punto, in abiti eleganti e sfarzosi, e buttarsi allegramente a mare a fare un bel bagno. L’effetto scenografico e coreografico è davvero affascinante.
Di impatto è anche The Mp3 Experiment, anche questo un evento annuale. I partecipanti scaricano un mp3, si radunano in un luogo pubblico, e contemporaneamente lo ascoltano. L’mp3 dà delle istruzioni e i passanti, i turisti, i curiosi che si trovano lì per caso, assistono a delle scene quantomeno singolari.

 

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Una delle iniziative più divertenti è, forse,Movies in Real Life: spezzoni di film celebri riprodotti tra la gente comune. Ecco, allora, la reazione dei normali frequentatori di un bar, quando, ad un tratto, innumerevoli donne nella sala cominciano a ripetere la famosissima scena di Harry ti presento Sally, in cui Meg Ryan simula un orgasmo. Qualcosa di simile è stato fatto, tra gli altri, con Jurassic Park, Matrix, Ritorno al futuro.

 

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Improv Everywhere è un vero e proprio business. Vi si può partecipare come semplici individui interessati a vivere un’esperienza esilarante, oppure si possono assumere i creativi che stanno dietro l’iniziativa. Si può avere da loro consiglio e supporto per organizzare eventi simili o si può chiedere direttamente la loro presenza per rendere indimenticabilmente eccentrico un momento della propria vita privata o un episodio importante nell’attività della propria azienda.

social streetA quanto pare la diceria che dai momenti di crisi si viene fuori più forti, nuovi e positivamente resettati, non è finzione ma realtà. Il collasso economico che ha interessato l’Europa negli ultimi anni sta rivelando sorprese impensabili riguardo alle direzioni che l’economia e la società contemporanee stanno prendendo.

Abbiamo passato una fase di capitalismo sfrenato, di predominanza dell’egoismo e dell’individualismo, di chiusura verso il prossimo. Ancora adesso subiamo gli strascichi di questo stadio, che potrebbero sembrare acuiti dalla crescente predominanza della realtà virtuale sulle vite di ciascuno di noi. In realtà è proprio dal mondo della tecnologia e del virtuale che stanno nascendo i primi germogli di quella che potrebbe essere una vera e propria rivoluzione sociale. Un nuovo cambio di rotta nel modo di vivere i rapporti individuali e comunitari.

Uno startupper bolognese, di origini fiorentine, Federico Bastiani, un bel giorno si è reso conto di ignorare l’identità dei suoi vicini di casa. Se un tempo il quartiere era la comunità per eccellenza, luogo di pettegolezzi e piccoli sgarbi, ma anche di condivisione e comunione, oggi, chiusi nei nostri piccoli o grandi appartamenti, viviamo giornate isolate, costellate da cenni del capo e freddi convenevoli. Bastiani ha pensato di voler modificare questo status di cose, quantomeno nel suo quartiere e, quasi per caso, ha dato il via al primo esempio di social street.

A settembre ha creato un gruppo chiuso su Facebook – strumento tra i più semplici e democratici, anche perché gratuito – per chiamare a raccolta gli abitanti della via Fondazza di Bologna. Ha stampato dei volantini per dare notizia della sua iniziativa e li ha distribuiti nei condomini del quartiere. In più di 300 hanno risposto, creando la prima comunità cittadina che nasce con l’intento precipuo di “scollare” dagli schermi di un pc le stesse persone con le quali condividiamo un pianerottolo e che non abbiamo mai conosciuto, per avviare forme di collaborazione, di sostegno, di aiuto reciproco, di scambio di idee, socialità e quando serve, anche di merci.

Non si tratta solo di un esperimento sociale, infatti, ma anche dell’incarnazione di un sistema economico che sta prendendo sempre più piede in diverse forme. Teorizzata qualche anno fa dalla studiosa Loretta Napoleoni, la pop economy sta diventando la risposta più concreta alle magagne della crisi, che fa un baffo alle spesso finte riforme dei politici. È l’economia del popolo, quella basata sullo scambio, sul baratto, sul dare e sul ricevere, gratis o in cambio di qualcos’altro. È l’evoluzione di eBay, che evita lo spreco, incentiva il riciclo e assicura il risparmio. Lo spiegano bene sul sito che è nato dall’esperienza di Bastiani, www.socialstreet.it: “Dovete cambiare il frigorifero? Perché metterlo su ebay, creare un annuncio, pagare una commissione, pagare un trasporto quando magari il vostro vicino di casa ne sta cercando proprio uno come il vostro?”. Lo stesso vale se non si vogliono buttare le uova prima di partire per le vacanze, se serve l’aiuto di una baby sitter, se si cerca un appassionato di cinema con cui condividere il proprio hobby, se si vuole trovare una comitiva di amichetti al proprio bambino, e così via. Dalla rete, da internet, dai social, si passa di nuovo alla realtà, alla strada, al quartiere.

Di esempi di pop economy ce ne sono molti altri: dal bike e car sharing, al cohousing, dal couchsurfing al baratto turistico in cambio di cultura, dalle comunità ormai diffusissime in tutta Italia “Te lo regalo se vieni a prenderlo”, fino agli swap parties nel quale scambiarsi vestiti e altri oggetti.

Di necessità si fa virtù e l’unione fa la forza, l’uomo ha una grande capacità di adattamento e si è stancato di vivere da solo. Non semplici luoghi comuni, ma un ritorno vero e istintivo al branco.

Dopo il successo della scorsa edizione, torna anche quest’anno il bando cheFare volto a premiare il miglior progetto culturale di innovazione sociale con 100 mila euro.

Il termine per inviare la propria partecipazione è per il 9 dicembre prossimo.

I progetti saranno selezionati da un gruppo di esperti scelti dall’associazione culturale Doppiozero, promotrice del bando. Ai partecipanti che avranno superato la prima selezione, sarà garantita visibilità on line per due mesi, così da consentire alla community della Rete di esprimere il proprio voto. Tra gli otto finalisti, una giuria di saggi sceglierà infine il vincitore che potrà ricevere i 100 mila euro in premio.
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Attraverso il bando più realtà hanno la possibilità di presentarsi e farsi conoscere da esperti del settore in modo orizzontale e democratico. Ci sono infatti parametri ben precisi cui attenersi sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo: di ciascun progetto presentato sarà considerata la sostenibilità economica, l’impatto sociale e la rilevanza culturale. Questi aspetti sono alla base di esperienze di successo, come dimostra Lìberos, il vincitore del bando cheFare 2012.

Lìberos è una rete sociale creata e costituita da alcuni scrittori, editori, librai, biblioteche, associazioni, festival e altri professionisti dell’editoria. Il progetto propone un sistema operativo culturale, un social network e un laboratorio permanente di progettazione comune volto a sostenere il comparto editoriale in Sardegna e non solo.

Quest’anno Lìberos figura tra i partner di cheFare insieme a TAFTER, Avanzi, Fondazione Ahref, Fondazione Fitzcarraldo e Societing.

L’obiettivo è sempre lo stesso: “CheFare è uno strumento per indagare le trasformazioni del presente e le strade del futuro” sostenendo le realtà capaci di innovare e progettare nel campo culturale.

 

 

L’idea primigenia di Zuckeberg quando ha ideato Facebook era di creare un portale tramite il quale socializzare e fare rete. Oggi Facebook è diventato una realtà molto più articolata e complessa, e gli usi che se ne fanno si sono a dir poco moltiplicati. Facebook è diventato anche uno strumento per promuovere l’arte e la cultura, per curare la brand image di un’istituzione culturale o di un museo.

L’ha ben capito l’Essl Museum di Vienna, il museo a venti minuti dal centro della città, che raccoglie la collezione di arte contemporanea dell’austriaco Karlheinz Essl. Si tratta di un museo all’avanguardia, che basa la sua policy sul coinvolgimento diretto dei visitatori. Questi non sono semplici fruitori passivi delle opere esposte, ma sono protagonisti, soggetti direttamente coinvolti nelle attività del museo. Persino nelle sue scelte curatoriali.

La mostra LIKE IT!, inaugurata il 23 ottobre, nasce proprio seguendo i gusti degli utenti dell’Essl Museum che hanno scelto le opere da esporre tramite Facebook. L’esperienza social di LIKE IT! si è sviluppata in due fasi. Dal 30 settembre all’8 ottobre, i fan della pagina ufficiale dell’Essl Museum hanno avuto la possibilità di votare, attraverso un like, tra circa 120 opere, di varie tipologie – pitture, fotografie, video –  tutte appartenenti ad artisti della collezione, nati a partire dal 1973. Le più votate sono andate a costituire la mostra allestita nella Great Hall del museo. Una volta scelte le opere era necessario dare inizio alla seconda fase del processo: a tutti gli “Amici” Facebook del Museo è stata data la possibilità di candidarsi come curatori della mostra. 5 elementi sono stati scelti per collaborare con Andreas Hoffer, critico professionista del museo. E così, dopo un workshop intensivo di due giorni, l’allestimento ha avuto inizio e i curatori in erba hanno potuto occuparsi anche dei testi di commento a corredo delle opere.

 

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Un’opera fra tutte è stata scelta ad emblema della mostra, sia perché la più votata, sia perché effettivamente rappresentativa della natura della mostra: Estrella di Patrìcia Jagicza. Si tratta di un dipinto raffigurante una donna che si specchia in un bagno per uomini mentre si sta mascherando. È stata individuata come un simbolo del problema della privacy, del dilemma tra pubblico e privato di cui sono appunto espressione i nuovi mezzi di comunicazione digitale.

 

essl museum

 

L’esperimento con la mostra LIKE IT! è continuato anche durante la Vienna Fair, tenutasi dal 10 al 13 ottobre. I visitatori della fiera sono stati chiamati a votare, stavolta, le 5 opere che costituiscono la parte speciale della mostra “Vienna Fair – The New Contemporary Special Selection”. Il parere degli utenti di Facebook, inoltre, è richiesto per tutto il corso della mostra – che si terrà fino al 6 gennaio – attraverso commenti e like che possono determinare cambiamenti nell’allestimento.

Andreas Hoffer stesso ha spiegato la necessità di portare avanti questo esperimento di curatela social partecipata: è inutile per un museo avere una pagina Facebook, un’identità sui social network, se questi devono essere usati passivamente. I social vanno considerati uno strumento professionale vero e proprio, indispensabile se sfruttato in tutte le sue potenzialità.

 

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Ed effettivamente un prima esperienza del genere l’Essl Museum l’aveva già sperimentata con il progetto “Festival of Animals”. In quel caso erano quattro gruppi a scegliere le opere, a contribuire al catalogo della mostra e a interagire direttamente con gli artisti: i bambini di due scuole, un gruppo di donne della Caritas e i fan Facebook del museo.

Sempre Andreas Hoffer ci ha tenuto a precisare, però, che quello di LIKE IT! sarà un evento “one shot”: è assolutamente vietato ripetersi nel mondo dei social e le domande da porre al pubblico devono variare di continuo. Il caso di questo museo di Vienna va sicuramente tenuto in conto come esempio intelligente di uso dei social media, un modo interattivo e dinamico per coinvolgere pubblici sempre più vasti, soprattutto giovani, all’interno di strutture e processi che spesso sono percepiti troppo settoriali o elitari. Uno sguardo fresco e nuovo sulle cose, specialmente nel mondo dell’arte e della creatività, non fa mai male.

 

Stai passeggiando per le strade di New York, la città in cui tutto – ma davvero tutto – accade e può accadere. Ti trovi a Times Square, detta anche l’ombelico del mondo, quando d’un tratto il flash di una macchina fotografica ti cattura. Ti giri di scatto, giusto in tempo per vedere una figura angelica librarsi in volo, in una posa plastica. No, non si tratta di una visione mistica di fantozziana memoria, ma di un set fotografico vero e proprio, quello di Dancers Among Us” di Jordan Matter.

 

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Per tre anni questo fotografo statunitense ha immortalato ballerini, “congelati” in pose meravigliose, non dentro una sala da ballo o una palestra, ma nelle strade, nelle piazze, nei luoghi pubblici, sotto gli occhi ammirati della gente comune. Sono immagini fresche, gioiose, che esprimono la magia della dinamica e del movimento, l’eleganza e la bellezza delle forme del corpo umano. Tutto è cominciato con degli scatti per Jeffrey Smith, un ballerino della Paul Taylor Dance Company al quale Jordan ha confessato il suo progetto di fotografare danzatori in luoghi comuni, di raccontare storie attraverso i loro passi di danza e le loro movenze. Jeffrey è riuscito a coinvolgere altri dieci membri del suo corpo di ballo, i primi protagonisti di quello che è diventato un progetto durato quasi tre anni.

 

Rockefeller_Center_NYC

 

Elemento fondamentale di questo lavoro è lo scenario, all’inizio costituito principalmente dalle strade di New York. Le foto di “Dancers Among Us” sono tutte naturali, e la posa che il fotografo coglie è reale, non è il frutto di modifiche apportate con programmi grafici. Jordan gira per la città alla ricerca della location adatta a far emergere in maniera più potente la natura dell’artista che posa per lui. Al ballerino è richiesta solo molta pazienza. Si tratta di un processo creativo che ha i suoi tempi e che artista e fotografo devono compiere assieme. L’ultimo anno Jordan ha cominciato a girare anche per altre città americane, come Philadelphia, Washington o Santa Monica. Prima di recarvisi, twittava e postava su Facebook la sua prossima destinazione, chiamando a raccolta i ballerini interessati. E le risposte alla sua chiamata sono state numerose, tanto che i soggetti immortalati arrivano a più di 200.

 

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Da questa incredibile esperienza, portata avanti con pazienza e tenacia, è nato un libro, dal titolo omonimo al progetto, “Dancers Among Us”, che ha raccolto gli scatti migliori dei tre anni vissuti dal fotografo accanto ai suoi ballerini. L’ostacolo più difficile per Jordan è stato fare una cernita delle foto create, e dover così escludere alcuni danzatori dal suo progetto.
Il volume pubblicato è divenuto in pochissimo tempo New York Times Bestseller e ha ottenuto l’Oprah Magazine Best Book 2012 e il Barnes & Nobles Best Book 2012. Il segreto del suo successo, a detta di critici e lettori, sta nel suscitare in chiunque guardi quelle immagini un sorriso, un lampo di meraviglia, un pensiero positivo, un sospiro felice. Jordan Matter ha raggiunto il suo scopo, insomma: quello di far rivivere a tutti lo stupore divertito che prova un bambino davanti alle cose semplici e belle, lo stesso stupore che dimostra di avere suo figlio quando, giocando con una macchinina, immagina storie e avventure grandiose

 

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La vicenda di Jordan Matter non finisce qui, però. Dalla prima esperienza con i ballerini è nato il sequel Athletes Among Us, che si concentra stavolta sulla potente fisicità degli sportivi, degli atleti, anche loro immersi in contesti ordinari. D’altra parte neanche “Dancers Among Us” è giunto al suo ultimo capitolo. Anzi, quei tre anni girando per l’America sono stati solo un inizio, e adesso il progetto vuole piroettare verso altri lidi, verso altri continenti, verso nuovi scenari.

 

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Dancers Among Us goes around the USA in Ninety Seconds from Jordan Matter on Vimeo.

La storia dell’arte rischia di essere ridotta o addirittura eliminata dai programmi di formazione scolastica. La petizione per contrastare la decisione presa dal Governo con la Riforma Gelmini del 2010 raccoglie, specialmente negli ultimi giorni, sempre più firme, sempre più adesioni.

Anche Stefano Guerrera, giovane informatico pugliese di 25 anni, si è interessato al problema e ha pensato di risolverlo a modo suo. È nata così la pagina Facebook “Se i quadri potessero parlare” che, messa online solo il 18 ottobre, oggi conta già circa 180mila like. L’idea balenata in mente a Stefano è stata molto semplice, ma decisamente vincente: le opere d’arte più famose di artisti come Leonardo, Botticelli, Caravaggio, vengono corredate da una frase comica che ne stravolge totalmente il senso agli occhi dello spettatore. Il linguaggio usato è il dialetto romano che inevitabilmente fa ridere, come spiega lo stesso Stefano che da sei anni vive a Roma.

 

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Il risultato ottenuto con questo esperimento è davvero esilarante e, effettivamente, conferma un’esigenza che si è venuta palesando altre volte negli ultimi anni: quella di rendere l’arte una materia comprensibile a tutti, un campo che deve vantare i suoi specialistici e i suoi studiosi, i suoi critici e i suoi esperti, ma che può anche rivolgersi ad un pubblico vasto e variegato.

 

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Il blog L’arte spiegata ai truzzi di Paola Guagliumi, ad esempio, ha iniziato già un anno fa ad affrontare la questione, presentando spiegazioni in romanaccio dei più grandi capolavori dell’arte moderna e contemporanea. Anche in questo caso il risultato è divertentissimo, e al contempo anche abbastanza istruttivo. La Guagliumi è una studiosa di storia dell’arte e una guida turistica e le opere che presenta sono trattate attraverso un lato didattico serio, che si nasconde dietro alla forma faceta.

 

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È del 2008 un altro tentativo di desacralizzare la storia dell’arte e di renderla familiare agli occhi dei più: Understanding art for geeks, un blog in cui ancora una volta quadri famosi vengono parodiati in versione “geek”, modificati appositamente per gli amanti di internet e della tecnologia.

 

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Un esempio cartaceo che sperimenta un modo non convenzionale di spiegare la storia dell’arte è rappresentato, poi, dal volume di Mauro Covacich del 2011, L’arte contemporanea spiegata a tuo marito, un testo ironico, ma molto completo per approcciarsi all’arte contemporanea senza i pregiudizi che portano a non considerarla espressione artistica vera e propria, o comunque non al livello dei grandi maestri del passato, per perizia tecnica e comunicazione estetica.

Tornando al fenomeno degli ultimi giorni, “Se i quadri potessero parlare”, si tratta ovviamente di un gioco. Eppure, potrebbe rivelarsi non fine a stesso. Di sicuro serve ad avvicinare tutti, soprattutto i più giovani, ad un mondo dal quale spesso si sentono distanti, anche solo reintroducendo nella loro iconosfera rappresentazioni che al giorno d’oggi sono sempre più escluse dall’immaginario collettivo, perché sostituite da cartelloni pubblicitari, divi del cinema, o appunto, espressioni visive appartenenti al mondo web.

hana4Non troppi anni fa alle donne era vietato indossare i pantaloni, e un uomo vestito in gonnella avrebbe suscitato piuttosto scandalo. Oggi le cose sono un po’ diverse, ma lo scambio di vestiti tra uomini e donne continua a suscitare curiosità, interesse, divertimento e, a volte, anche un po’ di scalpore.

E’ quanto ha sperimentato Hana Pesut, una fotografa canadese ventenne, portando avanti il suo progetto, Switcheroo. Si tratta di più di 200 fotografie che Hana ha scattato principalmente a Vancouver, ma anche a Vienna, Barcellona, Osaka, Parigi, San Francisco, New York, Los Angeles, Palm Springs, Austin, Montreal. Il soggetto di tutte le foto è una coppia, principalmente di fidanzati, che si scambia i propri abiti. Sono i protagonisti stessi della foto a scegliere gli abiti e la location. La Pesut, che ha da poco pubblicato un volume che raccoglie gli scatti più belli, non vuole dare un senso univoco alla sua ricerca artistica, ma preferisce che ciascun osservatore dia il significato che vuole al gesto, molto intimo, di mettersi nei panni degli altri.

Per saperne di più, è possibile visitare il blog di Hana Pesut.

1 (2)C’erano una volta un fratello e una sorella, Pellegrino e Margherita, che amavano la creatività e la magia. Pellegrino disegnava, creava, illustrava, Margherita scriveva storie, racconti favolosi per bambini, fiabe avventurose e delicate.

Per fortuna quella dei fratelli Capobianco non è solo una bella storia, ma una realtà esemplare, la storia vera di giovani artisti italiani che, tra alti e bassi, tra delusioni e gratificazioni, alla fine ce la fanno.

Margherita ha esordito come autrice nel 2011 pubblicando “Le avventure di Holly” per Tabula Fati. Nel corso dell’anno successivo è una delle vincitrici del 1° Festival nazionale di scritture per ragazzi “Astolfo sulla Luna” di Manocalzati (AV). Nel settembre del 2013 ha pubblicato per NarrativaePoesia Editore, “Holly e il trofeo dell’estate”, un altro racconto che ha come protagonista il folletto di Tulipandia, sempre illustrato dal fratello Pellegrino. Questi ha esordito nel 2009 come illustratore, collaborando con varie case editrici (Musso, Gruppo Editoriale Tabula Fati, etc.). Pellegrino, conosciuto con lo pseudonimo di Crinos, non è solo illustratore, ma anche artista e pittore a 360 gradi. Il suo stile personalissimo e innovativo gli ha meritato molti riconoscimenti nel campo della pittura.

Con il patrocinio del MiBAC, il romanzo di Margherita Capobianco, “Le avventure di Holly”, sarà presentato il 18 ottobre alle ore 10,00, nell’ambito della rassegnaNote e voci d’autore, che si tiene presso la Biblioteca Statale di Montevergine ad Avellino, un incontro coinvolgente e interattivo per grandi e piccini.

Il suo nuovo romanzo, “Holly e il trofeo dell’estate”, verrà presentato prossimamente in diverse librerie irpine e romane. Non perdete d’occhio, quindi, il sito di Margherita e Pellegrino.

Venezia, i suoi canali, la magia delle strade strette e tortuose che si aprono su spazi vasti e maestosi, sul mare, su monumenti incredibili come la Basilica di San Marco. Bastano pochi elementi, fondamentali però, a rendere una città unica.
Se, poi, quegli stessi luoghi speciali sono celebrati da una mostra esclusiva il tutto diventa ancora più magico e accattivante.

E’ il caso di “Gero qua Canaletto”, la mostra che avrà luogo a Venezia dal 10 novembre al 27 dicembre. Non è un’esposizione come tutte le altre però. Tre componenti contribuiscono a caratterizzarla come unica nel suo genere.

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1) L’opera: l’esposizione è focalizzata su una particolare veduta del Canaletto, “L’entrata nel Canal Grande dalla Basilica della Salute”. Si tratta di un olio su tela dalle dimensioni importanti, 72 x 112,5 cm, che ritrae uno scorcio particolare della città lagunare: inizialmente l’occhio incontra le architetture del Tempio del Longhena, poi si sofferma sui Magazzini del Sale e la Punta della Dogana, il Gran Canal, il Palazzo Ducale e la Riva degli Schiavoni. Il tutto inframmezzato dalle scene di vita quotidiana che riempiono la veduta arricchendola di dettagli: le gondole del Bacino di San Marco, le barche, i passanti di cui si riescono a percepire persino le fatture dei vestiti. Si tratta di un’opera poco esposta, concessa in prestito dalla collezione Terruzzi della quale esistono altri due esemplari: uno fa parte della collezione privata della regina d’Inghilterra, l’altra si può ammirare al Louvre.

 

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2) La location: la mostra è ospitata nella Abbazia di San Gregorio, un edificio insolito e complesso che è stato a lungo dimora dei monaci benedettini, ma che ha anche ospitato la Raffineria Pubblica dell’Oro della zecca veneziana, ed è stata intaccata durante le peripezie della guerra. È stata poi la famiglia Buziol ad acquistarla e restaurarla, ripristinandone l’antico fascino.
“Gero qua” significa “ero qui” in dialetto veneziano e pare, infatti, che sia proprio qui che Canaletto abbia realizzato la sua monumentale veduta, abbia studiato proporzioni e prospettive. Il visitatore può mettersi nei panni dell’artista e fare un confronto diretto opera-realtà da un punto di vista unico. Il resto della location è arricchito da altri elementi multimediali, che rendono la visita un’esperienza multisensoriale ed emozionale. Un film d’autore, realizzato dal regista e sceneggiatore Francesco Patierno, introduce la visita e il percorso spazio-temporale offerto dall’esposizione.

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“Tutte le opere realizzate all’interno, in studio, non saranno mai tanto belle quanto quelle realizzate all’esterno”. Con questa frase di Paul Cézanne si presenta il progetto Better Out Than In dell’ormai celeberrimo Banksy. Questo misterioso street artist di cui non si conosce l’identità sta invadendo per un mese la città di New York, trasformandola ogni giorno in una sorta di parco giochi artistico, di scatola delle sorprese, di scenario per una caccia al tesoro gigantesca alla scoperta della sua ultima trovata geniale.

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Inutile speculare sulla sua identità. Banksy potrebbe essere un uomo, una donna, un gruppo di artisti, un clochard, un ricco sfondato, un comune borghese, un’entità mistica e ineffabile. Di sicuro è l’eroe mascherato dell’arte contemporanea che prende in giro i potenti e il sistema comune, punisce i prepotenti, difende i deboli e gli emarginati, ruba ai ricchi per dare ai poveri. Il segno che lascia a firma inconfondibile del suo passaggio non è un taglio a forma di Z, né un paio di ali da pipistrello. Ma un’immagine, in genere uno stencil bicromo dal soggetto caustico, sovversivo, ironico, assolutamente accattivante. C’è il ragazzo che lancia fiori come fossero fumogeni, Topolino che cammina a braccetto con l’omino della Mac Donald e un bambino smagrito del Terzo Mondo, un ratto impegnato nelle attività più svariate. Sono queste alcune delle sue creazioni più famose e apprezzate.

 

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A New York, però, Banksy si sta davvero sbizzarrendo. Non solo stencil, ma anche performance, strane installazioni, apparizioni originali, corredate da altrettanto strambe audio guide, reperibili sul sito ufficiale il giorno dopo, o attraverso codici per gli smartphone incisi sui muri accanto. E così è comparso un camion pieno di animali di pezza urlanti, che si aggira per le strade dove hanno sede i mattatoi della città, come forma di protesta contro l’industria della carne.

 

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C’è un palloncino a forma di cuore, ricoperto da cerotti che, come spiega una voce deformata dall’elio, è la rappresentazione dell’animo umano che lotta tra ferite e raffiche di vento. Non mancano, poi, le scritte dal profondo substrato filosofico, ad esempio: “Ho una teoria secondo cui puoi far sembrare profonda qualsiasi frase semplicemente scrivendo il nome di un filosofo morto alla fine. Platone”. È stato avvistato anche un camion che dall’esterno sembra stia per esalare l’ultimo rombo soffocato di motore, ma che all’interno nasconde un giardino mobile da sogno.

 

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Una delle sue ultime invenzioni, però, quella che risale a sabato 12 ottobre, è stata davvero madornale. Un giorno come un altro, in quel di Central Park, un signore attempato, dall’aria comune e banale, si è messo a vendere stampe delle opere di Banksy a 60 dollari, contrattabili. Il suo incasso della giornata è stato di circa 420 dollari. Solo tre persone hanno acquistato: un giovane uomo che ha comprato 4 pezzi per arredare casa a 240 dollari, una donna neozelandese che ne ha voluti due, e una signora che ha optato per due quadretti di piccole dimensioni per i figli, alla metà del prezzo di vendita. Fin qui nulla da stupirsi, niente di strano o scioccante. Se non che, ieri, sul sito ufficiale del progetto newyorchese, Banksy ha dichiarato che le opere vendute erano originali, con tanto di firma e autentica. Tre milionari, quindi, contro le centinaia di persone che sono passate ieri davanti alla innocua bancarella allestita per 4 ore. State fermi sulle sedie, però, niente precipitosi acquisti di voli per New York nella speranza di diventare milionari al prezzo di 60 dollari (più spese). Banksy ha precisato, anche, che la fortunata svendita è stata solo per un giorno e non si ripeterà più… Forse.

 

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ReggioCalabria CECIntervista al Prof. Francesco Adornato, Presidente del Comitato Scientifico responsabile del progetto di candidatura di Reggio Calabria a Capitale europea della Cultura 2019.
Qual è l’identità del territorio dalla quale scaturiscono le strategie e il progetto del 2019?
È un’identità le cui radici hanno lontane e significative origini e dalle quali si è diffusa una più ampia civiltà euro-mediterranea. Ulisse e Enea hanno attraversato il mare che bagna Reggio Calabria e sulle sue coste è approdato San Paolo. Non solo. La città ed il suo territorio, anche per via della posizione centrale rispetto alle rotte mediterranee, sono stati da sempre luogo di incontro e contatto di diverse culture. Di qui, percorsi e stratificazioni culturali di origine greco romana, bizantina, araba, medioevale, confermati tanto dal patrimonio archeologico e artistico, quanto dalla presenza ancora attuale di minoranze linguistiche ed etniche e, più recentemente, da numerose comunità di immigrati di area mediterranea, che costituiscono un’autentica emergenza umanitaria per l’Europa intera. Non a caso, il titolo del progetto che la Città presenta a sostegno della sua candidatura  è “ Reggio Calabria porta del Mediterraneo”.
Quali sono gli asset che la città immette in questo programma?
L’obiettivo della candidatura di Reggio Calabria è quello di mettere al centro il tema della integrazione e della promozione di un’autentica dimensione interculturale, che servirà a rafforzare l’unità nella diversità delle culture comunitarie e la loro integrazione, pur nella differenza, nei rapporti con le comunità degli immigrati e, più in generale, con le culture mediterranee. In questo senso, gli asset storici e multiculturali di cui la città ed il suo territorio dispongono, vanno oltre lo spazio del mito e della classicità per diventare elementi fondamentali nel dialogo interculturale dei popoli.
Quali sono le mancanze cui dovrete invece sopperire?
Probabilmente, in modo particolare, possono riguardare qualche carenza infrastrutturale, specialmente per quanto riguarda il collegamento con le zone interne. Ma il programma delle iniziative previste è articolato in modo opportunamente diffuso e ciò consentirà gli opportuni interventi per sopperire a tale ritardo.
I flussi economici delle città d’arte riguardano solitamente pochi addetti ai lavori. Il programma relativo alla candidatura intende coinvolgere uno spettro più ampio di operatori economici?
Il programma può contare, innanzitutto, sul coinvolgimento e il sostegno delle istituzioni locali territoriali: oltre che il Comune proponente, la Provincia e, a livello più generale la Regione (Giunta e Consiglio) e, nel rispetto dei ruoli, la Prefettura di Reggio Calabria, che ha avviato l’iniziativa. È significativo, tuttavia, che gli imprenditori e gli operatori economici abbiano aderito e partecipato alla discussione attraverso le loro rappresentanze, ovvero Confindustria e Camera di Commercio, stimolando in tal modo il coinvolgimento delle imprese nelle iniziative previste nelle diverse realtà territoriali reggine. Il risultato che ci attendiamo dal progetto è che il tessuto economico reggino e della provincia possa avere margini di crescita e di rafforzamento, all’interno di una logica di sviluppo che intende fare della cultura un volano per nuove iniziative economiche.
Cosa rimarrà alla città dopo il titolo di Capitale europea della Cultura?
Da punto di vista ideale rimarrà una grande prova di cittadinanza attiva, ovvero di una comunità che vuole manifestare attraverso il progetto la sua determinata volontà di riscatto. Resteranno inoltre le esperienze e gli scambi che, sul piano culturale, andranno ad arricchire i cittadini e la collettività nel suo insieme, rafforzandone un’identità inclusiva e dialogante. Dal punto di vista materiale resteranno, in particolare, gli interventi pubblici e privati che, nell’ambito dei Progetti integrati di sviluppo urbano, vogliono realizzare una visone strategica di città sostenibile.

 

 

Leggi le interviste alle altre candidate a Capitale europea della Cultura 2019.

In principio era “Life in a day”. Un progetto monumentale, portato avanti da Youtube, prodotto da Ridley Scott e girato da Kevin Macdonald, premio Oscar per il miglior documentario nel 2010. Nell’arco di 24 ore, dalle 00:11 alle 23.59 del 24 luglio 2010, tutto il mondo è stato chiamato a filmare una porzione della propria vita. Le indicazioni date agli utenti dal regista erano semplici. Chiedeva di dare una sorta di uniformità al progetto cercando di filmare dei momenti che rispondessero principalmente a tre domande: qual è la vostra paura più grande di oggi? Che cosa amate? Che cosa vi fa ridere?

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Il risultato sono stati 4500 ore di riprese, provenienti da 180 nazioni, che la bravura del regista è riuscito a condensare in un lungometraggio di circa 95 minuti, tuttora visibile sul canale Youtube del progetto, e la vittoria di alcuni premi cinematografici internazionali quali il Sundance Film Festival, il Krakow Film Festival e il Cinematic Vision Award di Discovery Channel, oltre che la presentazione al Festival Internazionale del Cinema di Berlino.

 

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bieniek6Il progetto “Doublefaced” è nato per caso: il figlio di Sebastian Bieniek, un giorno come un altro, prima di recarsi a scuola, annoiato, andò dal padre e gli mostrò come i capelli sul suo volto gli facessero sembrare il viso spostato, doppio. Lo spirito artistico di Sebastian entrò subito in azione e, preso in mano un rossetto e una matita per occhi della compagna, disegnò sul viso del figlio un altro volto.

Ripensando la sera stessa a quel momento, Sebastian pensò di trasformare il banale evento di quella mattina in un progetto fotografico vasto, che in poco meno di un mese ha fatto il giro del mondo. Le donne sono diventate il soggetto della sua arte, donne con volti doppi, dipinti sul loro stesso viso: un occhio è vero l’altro è finto, i capelli, spostati di lato, incorniciano labbra disegnate con il rossetto e contorni dell’ovale finti, eppure incredibilmente reali. Sono l’incarnazione della doppia anima della donna contemporanea che, presa nella attività di ogni giorno – specchiarsi, bere un caffè, fare la doccia – nasconde in realtà mondi altri, diversi, sfaccettati, doppi.

Sebastian Bieniek è un artista di origini polacche, ma di formazione tedesca, operante a Berlino, che si sta imponendo nel panorama artistico contemporaneo con la forza delle sue opere semplici, irriverenti, divertenti, profonde. Senza snobismi o preconcetti di sorta.

Se volete conoscere di più sulla sua arte, potete visitarne il sito ufficiale o, se il tedesco non fa per voi, la pagina Facebook.

MANTOVACECIntervista al Prof. Vittorio Longheu, docente di progettazione architettonica al Politecnico di Milano – sede di Mantova e membro del Comitato Promotore di Mantova 2019.

 

 

Qual è l’identità del territorio dalla quale scaturiscono le strategia e il progetto del 2019?

È un’identità che ha le proprie ragioni in una storia molto lunga, che parte da Virgilio e arriva fino ai giorni nostri. Trova dei punti significativi soprattutto in periodi specifici della storia della città che coincidono con l’alto medioevo e il rinascimento, caratterizzato dall’ascesa di una grande corte europea, quella dei Gonzaga. Da qui, nel tempo, la città ha costruito la propria identità e il proprio valore, sia dal punto di vista economico, sia sulle modalità di governance del territorio e, sia dal punto di vista culturale con una straordinaria apertura all’Europa. La città ha immaginato il suo percorso di candidatura proprio per rivendicare questa identità. Il processo che si è sviluppato in questi anni ha messo a sistema il rapporto tra modernità, contemporaneità e passato: il passato non è solo un luogo dove trovare verità, ma è anche la chiave per capire il proprio presente e immaginare il futuro.

Il tema della candidatura, il suo slogan, è “La nuova corte d’Europa. Smart Human City”. Tenendo insieme le istanze contemporanee di una città veloce, che sa dialogare con la contemporaneità e sa leggere e capire il presente, ha posto al centro della propria riflessione non tanto l’accezione puramente tecnologica, futuribile della città, ma l’uomo, la storia, il territorio. “Smart” diventa anche “Human” e la città si trasforma in un luogo sociale nel quale lo spazio di relazione fra le persone struttura i suoi valori in relazione con il passato. È un progetto articolato che nasce da una lettura sui temi della città già qualche anno fa sviluppato da prof. Settis.

Ma l’aspetto fondante della candidatura è il suo partire dal basso, dalle persone, perché il valore culturale della città impone una valutazione corale sul senso di questa candidatura, che è anche un momento per immaginare il futuro. La relazione con più di sessanta associazioni culturali che operano in città, il  rapporto con i cittadini, sentire le loro impressioni su quello che si sta facendo e che si è fatto è diventato il bagaglio, il tessuto sul quale è stato redatto il dossier di candidatura.

 

 

Quali sono gli asset che la città immette in questo programma?

È stato abbastanza semplice individuare gli elementi qualitativi attraverso i quali esprimere la candidatura, perché erano già presenti nei sistemi culturali operanti in città. È un percorso che si sviluppa in continuità, ma che innesta una diversa qualità relazionale tra questi operatori e l’Europa. Primo fra tutti emerge, in questo senso, il tema dell’inclusione sociale. Mantova e il suo territorio sono   il secondo territorio per inclusione, capace di accogliere e inserire. Emerge, poi, la stessa capacità e volontà che aveva la corte gonzaghesca di attrarre nuovi talenti. In questo senso il progetto sviluppa, dal punto di vista strutturale, un ampio sistema relazionale che parte dall’idea di macro-regione, tenendo conto che, facendo una circonferenza di 200 km, Mantova è al centro di un sistema amplissimo di grandi città culturali, come Bologna, Ferrara, Cremona, Brescia, Treviso, Trento, Bolzano. Questo insieme strutturato è volano per uno degli altri temi importanti, quello relativo all’ampliamento della rete turistica. Abbiamo 32 milioni di arrivi turistici con circa 139 milioni di presenze. Mantova oggi accoglie circa 500.000 turisti all’anno. Mettere a sistema  questo ampio bacino significherebbe ampliare l’attrattiva turistica che la città ha congenita in sé ma che non riesce a sviluppare per tutta una serie di ragioni, che il progetto di candidatura cerca di trasformare da debolezze in punti di forza.

 

 

Quali sono le mancanze cui dovrete invece sopperire?

Il tasto dolente sul quale si è lavorato è la capacità ricettiva che la città offre, non tanto considerando i numeri attuali, ma pensando ai numeri che si possono realizzare attorno a questi 200 km di raggio. La città si sta attivando partendo dal basso, attraverso l’idea di un sistema alberghiero diffuso, con il suo fulcro nel centro storico, che parte dalla possibilità, attraverso investimenti relativi, di attivare strutture ricettive di straordinaria qualità e di facile gestione.
In questo senso, diventa forte e importante anche la presenza del territorio, con città di grande qualità come Sabbioneta o Castiglione. Ad esempio, all’interno del progetto di candidatura, si sta sviluppando un ciclo di conferenze sull’architettura e uno dei maestri mondiali dell’architettura, l’architetto Tadao Ando, è stato ospitato in uno di questi piccoli alberghi nel centro della città. Dopo un mese ci ha mandato una lettera dicendo che quello è l’albergo che lui ritiene più bello al mondo. Ecco come si può trasformare, con investimenti relativi e sostenibili, un punto di debolezza in una qualità.
Gli elementi che stanno alla base di quest’idea sono:
Il chilometro zero, ovvero il programma culturale prevede la valorizzazione delle eccellenze mantovane a km 0 che sanno dialogare con l’Europa ed il mondo come il Festival Letteratura o l’Accademia Virgiliana, per esempio.
L’Impatto zero. Il riutilizzo di edifici e complessi monumentali presenti in città, sottoutilizzati o non utilizzati, con Mantova 2019 vengono rigenerati, senza costruire nulla di nuovo, ma recuperando.
Il costo zero. Perché tutti i progetti che vengono presentati nel palinsesto degli eventi di Mantova 2019 saranno finanziati tramite risorse provenienti da progetti europei. Sono programmi interni alle linee guida della Comunità Europea e quindi passibili di finanziamenti, o attraverso lo sfruttamento del brand Mantova, attraverso privati, sponsorizzazioni e crowdfunding. Quest’ultimo è un sistema di mecenariato diffuso che già Mantova sta sviluppando, attraverso le piccole offerte di cittadini che hanno permesso di restaurare alcuni monumenti e che adesso stanno consentendo di partecipare alla candidatura.

 

 

I flussi economici delle città d’arte riguardano solitamente pochi addetti ai lavori. Il programma relativo alla candidatura intende coinvolgere uno spettro più ampio di operatori economici?

Sicuramente sì. Uno degli aspetti importanti della candidatura è lo sviluppo delle attività economiche e culturali. Già il sistema culturale di Mantova è molto ampio e complesso, e si snoda attraverso una serie di eventi come il Festival della Letteratura, il Mantova Film Fest, le rassegne per l’infanzia, il teatro, i percorsi mozartiani. Il problema è fare rete, sistema, articolare una proposta ampia che stia insieme non solo a livello teorico, ma anche attraverso azioni strutturali, a partire dall’idea di macro-regioni, attraverso scambi e attività relazionali. Immaginiamo di coinvolgere un ampio territorio che si rivolge anche all’Europa con tutti i sistemi culturali che la città ha già sviluppato nel tempo.

 

 
Cosa rimarrà alla città dopo il titolo di Capitale europea della Cultura?

Dal punto di vista materiale, il progetto prevede, in accordo anche col Ministero, l’ultimazione di una grande progetto su Palazzo Ducale, la riorganizzazione del Centro Internazionale d’Arte e di Cultura di Palazzo Te, lo sviluppo e la ristrutturazione del teatro sociale e la costruzione di un museo di arte contemporanea. Quest’ultimo sarà laboratorio di cultura sulla contemporaneità, costituendo assieme al Centro Internazionale d’Arte e di Cultura di Palazzo Te, alla Casa del Mantegna e al Tempio di San Sebastiano di Leon Battista Alberti, un polo culturale parallelo al grande sistema culturale costituito da Palazzo Ducale e dal Museo Archeologico. Si tratta, quindi, di un sistema di grandi spazi culturali con la possibilità di accogliere grandi flussi turistici.
Tutte le altre strutture dedicate all’organizzazione nel 2019 degli eventi e del palinsesto saranno completamente removibili e a impatto zero. L’eredità che tutto ciò, in definitiva, lascerà alla città sarà un grande apparato culturale, aggregativo, riconoscibile, aperto all’Europa, non solo dal punto di vista culturale ma anche da un punto di vista sociale, attraverso la trasformazione della città in un polo capace di  attrarre giovani talenti, costruendo con le università di Mantova un centro di ricerca e di sviluppo a livello internazionale.

 
Le altre candidature a Capitale europea della Cultura 2019.

fallen2“…E vissero per sempre felici e contenti?” Non è esattamente così secondo Dina Goldstein, fotografa di Vancouver che ha ripensato i finali ottimistici delle fiabe della Disney, proponendo una serie di principesse contemporanee tutt’altro che felici.

Si chiama Fallen Princesses il suo progetto e a fare la loro comparsa sono una Cenerentola ubriacona, una Raperonzolo malata di cancro, una Biancaneve schiava delle mura domestiche. Si tratta di foto provocatorie con le quali l’artista porta a riflettere sulla condizione della donna e, in generale, sull’imporsi di stereotipi illogici e convenzioni negative.

Questo e gli altri lavori di Dina Goldstein sono reperibili sul sito ufficiale dell’artista.

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MATERAIntervista al Professore Paolo Verri, direttore del Comitato per la candidatura di Matera a Capitale europea della Cultura 2019.

Qual è l’identità del territorio dalla quale scaturiscono le strategia e il progetto del 2019?
Sono piemontese e sono arrivato da pochi anni a Matera per questo lavoro, dopo averla visitata da turista e da operatore culturale, e devo dire che Matera è una città assolutamente sorprendente, straordinaria, fuori dal normale per quello che rappresenta e per quello che può rappresentare, per il suo passato e il suo presente ma anche per il futuro che lascia intravedere. È una città in cui si abita da ottomila anni senza soluzione di continuità, ed è una città che rischiava di scomparire. Fino a quando, negli anni ‘50, Togliatti e De Gasperi, visitandola, si resero conto che le condizioni di vita erano impossibili da sostenere in quel modo. Stava rischiando di divenire una città come Petra o Cuzco e rimanere disabitata. Invece, nella metà degli anni ’60, è stata riabitata e l’arrivo di Pasolini negli anni ’50 ha cominciato a far intendere quale potesse essere l’immaginario che scaturiva da quella città, il suo binomio di natura e cultura, l’aspetto del costruito e dell’intaccato, del non toccato, e cominciò a nascere l’idea delle grandi mostre di arte contemporanea da organizzare nei Sassi nella seconda metà degli anni ’80. Poi, grazie all’impulso di Pietro Laureano, è arrivato il riconoscimento di Matera come parte del Patrimonio Mondiale Unesco, prima città del sud ad ottenere questo onore. A partire da allora, cioè dal 1993, la città ha cominciato ad avere una storia completamente diversa: invece che precipitare in un collasso, ha cominciato a re-immaginare il futuro e una riqualificazione, grazie soprattutto ai materani che hanno immaginato un futuro possibile. Oggi ci troviamo in un nuovo momento di svolta, dopo che il turismo è cresciuto del 200% negli ultimi dieci anni ci si chiede: cosa fare di questa città? Matera può diventare un parco tematico sulla demo-antropologia o può rimanere una città in cui si intende produrre cultura, dare stimolo alla creatività e attrarre giovani da tutto il mondo, senza lasciare che l’unica sorte possibile sia quella di aspettare turisti. Ed è proprio questa la sfida della candidatura: mettere in gioco tutti questi temi e capire come possano essere di servizio anche per altre città simili in Europa e nel mondo.

 

Quali sono gli asset che la città immette in questo programma?
Per quanto riguarda Matera, il dossier inerente alla candidatura non è top secret: le idee che si possono avere in merito ad una città, lo dico come urban planner, sono per forza di cose diverse rispetto a quelle che si possono avere per un’altra, perché ogni città ha una sua identità e una sua individualità. Le cose vengono fatte su misura. Il nostro, quindi, è un processo aperto, abbiamo una community online con la quale abbiamo discusso dei contenuti. Dal 19 settembre comunicheremo tutto attraverso la Rai, su Materadio.

La prima componente del nostro dossier per la candidatura è il metodo: abbiamo riscontrato che si sta sviluppando, a partire dalla candidatura, una sorta di “istinto partecipativo”, come lo definisce Charles Darwin, cioè nel nostro caso la capacità e la voglia del cittadino di mettersi in gioco per candidarsi. Su questo facciamo leva. Questa voglia di partecipare dà il titolo al dossier di candidatura, “Insieme”, che richiama un importante libro pubblicato da Richard Sannett l’anno scorso, “Togheter”, un invito ad una economia e ad una politica collaborative. Se, infatti, il ‘900 è stato il secolo della competizione, il XXI secolo non può che essere il secolo della collaborazione, pena la sparizione di forme di urbanità ed urbanesimo.

La seconda componente riguarda i contenuti: a cosa si applica il metodo? A cinque temi in particolare, contenitori di contenuti.
1)    Il futuro remoto: quelle cose che sono così avanti da richiamare un passato lontano nel tempo. Ad esempio: a Matera esiste il Centro di Geodesia Spaziale italiana. In questo luogo si studia come cambia la terra nel corso dei secoli, quali sono gli impatti causati da certi fenomeni naturali, dagli tsunami in Giappone, ai terremoti in tutto il mondo, ad altri fenomeni legati a stelle, asteroidi e così via. Così come fa il Centro di Geodesia Spaziale, noi immaginiamo che le politiche e il cambiamento debbano essere valutate non solo in un tempo breve, ma anche e soprattutto in un tempo lungo e quindi il tema del futuro remoto riguarda la capacità di scrutare lontano tenendo ben presente quali sono le necessità del presente.
2)    Radici e percorsi: roots and routes. A partire dalle nostre radici lontane nel tempo, si tratta di considerare cos’è successo nei nostri territori, incontrando forme di società e momenti storici diversi gli uni dagli altri: l’impatto dell’arrivo dei greci, il nostro territorio facente parte della Magna Grecia, Pitagora e Zenone che abitavano in quella che era la Grande Lucania, l’apporto dei bizantini, degli arabi, dei Borboni e più recentemente le nuove indicazioni che consentono di coltivare i campi. Si tratta, quindi, di avere una grande attenzione verso la diversità e una grande considerazione verso il mutamento sociale e come questo si adatta al mutamento culturale.
3)    Connessioni e ricezioni. Bisogna fare in modo che in certe società interamente digitali, invece di vivere il tema della frammentazione, si dia spunto alla riflessione e all’approfondimento dei propri pensieri culturali. Allo stesso modo, gli strumenti che abbiamo non devono tarpare le nostre ali, ma devono aiutarci a vivere meglio, da qui ai prossimi quindici anni, sempre in maniera collaborativa.
4)    Continuità e rottura. Matera nel passato ha rischiato il collasso, ma noi non vogliamo diventare una città basata solo sul turismo, non perché non amiamo i turisti, anzi, ma perché li consideriamo “cittadini temporanei”, persone che devono aiutarci a dare continuità al cambiamento.
5)    Utopie e distopie. Matera nel corso dei secoli ha vissuto diverse utopie: dall’utopia socialista di Campomaggiore, all’utopia di Adriano Olivetti che ha creato il più importante villaggio agricolo contemporaneo negli anni ‘50, fino alla marcia per Scanzano Ionico in cui 100.000 persone si sono opposte all’idea che la Basilicata diventasse deposito di scorie radioattive. Quindi un luogo di utopie positive, ma un luogo in cui si vivono anche certe volte delle distopie. Vogliamo discutere di tutto questo lungo 12 mesi di attività.

La terza componente riguarda l’investimento sui temi di cultura. Si pensa che Matera sia lontana, in realtà a Matera si arriva molto velocemente attraverso Bari: siamo a 300 km da Bari, connessi con 4 corsie e prossimamente saremo collegati in 50 minuti con un treno che parte da Bari Centrale. Ma siamo percepiti come lontani e quindi è necessario lavorare su questa percezione. Siamo riconosciuti, poi, come una città dal grande passato architettonico, ma vogliamo anche rinnovare e lavorare su quattro aree della città: una riguarda proprio i Sassi, all’interno dei quali faremo rinascere un’area disabitata attraverso un museo multimediale, il Museo Demo-etno-antropolgico, o DEA, che sarà un esempio di come debba essere un museo contemporaneo  in Europa oggi, un museo fatto di esperienze, interazione e non di semplice visione di teche.
Un secondo grande asse di sviluppo sarà il Castello Tramontano, un castello del 1500 dentro un grande parco, che ospiterà l’Università e la nuova università, un luogo di attrazione di studenti dall’Italia e dall’estero.
Poi una grande area dedicata alle cave,  dalle quali si estrae la calcarenite, materiale molto duttile, con la quale vengono costruite le case di Matera. Dentro le cave creeremo un centro per spettacolo, intrattenimento, congressi, utilizzando delle strutture temporanee, quindi con un impatto molto basso sul consumo di suolo.
La quarta area è quella del borgo La Martella di Adriano Olivetti, voluto dal grande imprenditore piemontese e disegnato da due grandi architetti e urbanisti, Ettore Stella e Ludovico Quaroni.
È previsto un investimento complessivo di circa 700 mila euro sulle infrastrutture e le trasformazioni urbane, e un investimento di circa 50 mila euro sulle attività dell’anno in cui Matera sperabilmente sarà capitale.

 

Quali sono le mancanze cui dovrete invece sopperire?
La mancanza principale è proprio quella per cui ci candidiamo: proponendo Matera vogliamo entrare nella mappa d’Europa. Oggi la crescita del turismo straniero è straordinario. Se il turismo italiano cresce dell’11 %, il turismo straniero cresce del 30% l’anno. Questo perché abbiamo degli ottimi alberghi e attiriamo un pubblico di fascia alta di lunga permanenza, che punta sulla qualità. Tuttavia la nostra produzione culturale e la nostra innovazione tecnologica non sono al livello dell’Europa. Il nostro punto di debolezza è proprio la nostra sensibilità nei confronti delle reti europee e internazionali e il fatto di candidarci significa cercare di essere consapevoli di ciò e rimediare.

 

I flussi economici delle città d’arte riguardano solitamente pochi addetti ai lavori. Il programma relativo alla candidatura intende coinvolgere uno spettro più ampio di operatori economici?
Ritengo, per mia esperienza, che non sia possibile pensare ad un progetto per lo sviluppo turistico e culturale, autonomo, si può fare soltanto considerando le altre città, gli altri grandi attrattori. Dobbiamo essere altamente collaborativi e cooperativi. Per questo lavoreremo per una sempre maggiore attrazione turistica, assieme alle altre città candidate. A tal proposito abbiamo dato vita ad un organismo, Italia 2019, un cappello sotto al quale ci riconosciamo e collaboriamo tutti.

 

Cosa rimarrà alla città dopo il titolo di Capitale europea della Cultura?
Posso rispondere con una battuta: prima vinciamo, poi vediamo. Noi, intanto, attueremo tutto quello che è previsto nel dossier di candidatura: sia lo sviluppo delle quattro aree urbane, sia la comunicazione correlata ad esse, sia il programma culturale. Se dovessimo vincere, questi progetti verranno attuati con maggiore velocità, intensità e redditività, perché qualunque titolo se ben giocato dà queste opportunità. Matera ha conosciuto un primo salto di qualità tra gli anni ‘50 e gli anni ‘80, un secondo tra l’82 e il ’93, ora le spetta un altro balzo in avanti. Le rimarrà l’orgoglio di continuare a cambiare, sapendo che soltanto nel cambiamento c’è la vita.

 

Le altre candidature a Capitale europea della Cultura 2019

TITOLOjustdelete.me just-delete-me-service-3

 

 

COSEAvete mai sentito parlare di diritto all’oblio, tutela della privacy sul web et similia? Quante volte vi siete registrati su un sito e dopo alcuni giorni, mesi, anni avete provato il desiderio di cancellarvi e scomparire dalla faccia di quella piattaforma online? justdelete.me è proprio un sito che agevola la cancellazione da social network, applicazioni, siti che richiedono un’iscrizione e che spesso non chiarificano come potersi cancellare.

 

 

COMESi tratta di una pagina web in cui, in ordine alfabetico, sono indicati i principali servizi web che richiedono una registrazione. I rettangoli che ospitano i servizi sono colorati in base alla difficoltà che l’utente incontra nell’eliminare il proprio account: si va dal verde di Facebook, che indica una cancellazione rapida, all’arancio di Whatsapp, di difficoltà media, al rosso di Skype, dal quale è molto difficile eliminare i propri dati, fino al nero di Pinterest, che non permette una ripulitura definitiva dei propri dati dalla piattaforma. Cliccando sul sito “incriminato” si viene rimandati direttamente alla pagina con il “bottone” di cancellazione relativo. Molti servizi web, infatti, nascondono volontariamente l’opzione di cancellazione, oppure come skype, richiedono dopo diversi passaggi, di contattare il customer service. Per i siti più ostici, Just Delete Me offre una spiegazione della procedura, cliccando su “show info”.
Un motore di ricerca, poi, permette di arrivare rapidamente al sito di interesse.

 

 

proÈ possibile contribuire allo sviluppo del sito suggerendo le procedure di cancellazione per nuovi siti, o richiedendo di inserirli, tramite l’invio di un’email ai creatori del sito.

 

 

CONTROjustdelete.me rappresenta un passo avanti nella procedura di eliminazione dei propri dati dall’oceano di informazioni, personali e non, che è il world wide web. Ma la strada verso la tutela della privacy è ancora lunga e contorta, anche perché, spesso, non basta un semplice bottone di cancellazione per scomparire del tutto da un sito.

 

 

SEGNI PARTICOLARIGli ideatori di justdelete.me, due giovani studenti britannici, sono rimasti stupiti dal successo del loro servizio che, nato il 20 di agosto, in solo una settimana ha totalizzato più di 30.000 visitatori e ha conquistato persino una recensione da parte della nota rivista tecnologica Wired.

 

 

CONSIGLIATO ATutti i naviganti della rete, con particolare attenzione a chi si annoia presto di qualcosa, a chi ha istinti da agente segreto, a chi ha qualche piccola mania di persecuzione.

 

 

INFO UTILIhttp://justdelete.me/#