Culture21 srl – Gruppo Monti&Taft Ltd
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Nel nostro Paese, ancora oggi, si realizzano spot o campagne pubblicitarie in cui si tende a rappresentare la famiglia in modo molto tradizionale, come era negli anni ’50 o ’60: il papà che lavora fuori casa, la mamma casalinga, i figli che studiano e hanno necessità di ricche colazioni e sostanziose merende (benché l’obesità infantile sia piaga riconosciuta).
Questi stereotipi non sono più totalmente in linea con la nostra società, che è cambiata, si è evoluta e in cui i ruoli si sono modificati: il papà oggi cambia i pannolini, la mamma lavora anche fuori casa, ecc. Non siamo certo ai livelli del nord Europa, ma ritengo giusto che la pubblicità rifletta la società contemporanea.
E’ quindi corretto che si tenga conto anche delle situazioni non tradizionali (se vogliamo usare questa terminologia), delle diversità (tema che sarà proprio al centro della Nona Conferenza Internazionale della comunicazione sociale che come Unicom stiamo organizzando al fianco di Pubblicità Progresso per il prossimo 18 novembre a Milano, dedicata a “Il valore della diversità – Verso una nuova cultura di genere”).
Ben venga, dunque, se la pubblicità adeguandosi ai tempi, contribuisce ad un cambio di mentalità.
Non trovo invece che sia corretto strumentalizzare questi temi (omofobia, violenza sulle donne ecc.) perché, purtroppo, fanno scalpore e quindi fanno sì che si parli di quello o quell’altro spot.
Riguardo all’infelice affermazione di Guido Barilla, si può leggere in due modi differenti. Può essere stata frutto di una svista, carpita a tradimento da un abile conduttore. Diciamo che da un capitano d’azienda ci si aspetterebbe più capacità di reazione e più prontezza, invece sembra sia caduto molto ingenuamente nella trappola che gli era stata tesa.
Viceversa potremmo sospettare che si sia voluto esprimere in questi termini proprio per sfruttare lo scalpore che ne è derivato, ma in questo caso si è rivelata un’arma a doppio taglio, un vero boomerang.
Un ultimo commento lo lascio alla nuova comunicazione di Enel “#Guerrieri”: trovo l’idea creativa interessante, capace di generare il coinvolgimento e di far sentire protagonista la gente comune con i suoi problemi quotidiani, a patto che non sia un modo di accattivarsi questo target in vista di future operazioni finanziarie.
… quindi sì alla vita reale, no alle strumentalizzazioni.
Donatella Consolandi è Presidente Unicom – Unione Nazionale Imprese di Comunicazione
Vi piacerebbe girare uno spot pubblicitario sulle vostre passioni?
Non affannatevi, la cinepresa è già all’opera da tempo! Il marketing comportamentale è questo: non uno scherzo, ma una call to action in piena regola che entra nelle nostre “case” virtuali, a volte, senza neanche bussare. Una sorte di grande fratello in rete in perenne modalità “on” che traccia la nostra navigazione in internet e ci regala quei consigli per gli acquisti che desideriamo, senza neanche saperlo.
Sulla scia del gettonato “like” di Facebook, il viaggio dei nostri interessi online è, difatti, iniziato da anni. Preziose informazioni sui nostri profili sociali vengono raccolte, catalogate e archiviate proprio come si fa nei musei; ma non basta, qualcosa è cambiato nel panorama pubblicitario odierno. Se ieri si parlava di broadcasting e di induzione applicata agli spot online, oggi le parole d’ordine sono narrowing e deduzione storica, o meglio, si assiste al passaggio da una targhettizzazione su larga scala a una segmentazione sempre più inversa e oculata che mira a monte, o meglio, all’analisi dei nostri comportamenti d’acquisto più specifici.
In altre parole, i sistemi informatici non tracciano più solo ed esclusivamente i nostri interessi ma misurano le nostre passioni. La linea di demarcazione è sottile, ma il raggio d’azione è illimitato quanto strategico è l’utilizzo sempre più frequente dei dati filtrati dalla nostra abituale navigazione in rete. Così anche in tempi di crisi, la macchina della pubblicità guadagna terreno sulle nostre stesse azioni, anticipando bisogni a noi sconosciuti, ma studiati grazie all’effetto del data mining prodotto per lo più dai cookie applicati al browser, che scavano in profondità nei nostri comportamenti online generando e registrando una vera e propria mappatura del singolo target di riferimento. Quindi, non si parla più di patrimonio di informazioni, ma di un vero e proprio bagaglio di dati che viaggiano con la stessa cifra evolutiva degli strumenti sempre più in voga di search advertising e web analysis: in trasformazione come la realtà!
Ma quali sono i rischi reali per il consumatore?
Ritrovarsi bersagli di un viaggio contromano dove si diventa registi e attori invisibili del proprio spot preferito interpellando se stessi in un curioso “sguardo in macchina” che desterebbe l’attenzione anche dell’artista più avvezzo Vito Acconci.
Del resto, il passaggio da consumatore a “consumattore” è breve quanto il salto alla profilazione di utente di un servizio. Se da un lato il marketing comportamentale colpisce dritto al cuore della nostra privacy, dall’altro ci offre senza dubbio la possibilità di pensare e scegliere con maggiore facilità e senza messaggi invasivi i nostri acquisti grazie all’interpretazione capillare dei nostri comportamenti “sedimentati”.
In Usa, dove il behavioural marketing è molto più diffuso, si registra non tanto il divieto di questo modello strategico quanto la maggiore informazione degli utenti e la conseguente regolamentazione della pratica di accettazione di termini e condizioni di utilizzo di servizi web anche attraverso l’estensione della definizione di “informazione sensibile”.
In Italia, cresce la credibilità del web così come il mercato dell’online advertising ma ciò che avanza è proprio il mercato delle analisi. È, infatti, tutta italiana la start up Aida Monitoring che rende “umana” la business intelligence attraverso l’analisi del giusto mix di comportamenti e identità online degli utenti. Nata nel 2013, realizza dashboard personalizzate di monitoraggio in tempo reale delle conversazioni che si sviluppano sui Social e sul Web intorno a persone o a temi specifici e, integrandole con i dati relativi alle performance dei clienti online, offre alle aziende modelli interpretativi traducibili in azioni concrete.
E allora, ciak, si gira…che lo spot abbia inizio!
Che effetto sortiscono i claim e pay off pubblicitari o i simboli che ci permettono di identificare un prodotto associandolo ad una determinata azienda? Secondo gli studi inaugurati dalla società Millward Brown negli anni ’70 sul brand tracking, ovvero l’identità e la forza sul mercato di una determinata marca, un manufatto viene acquistato da consumatori che non tengono in considerazione le caratteristiche e le componenti: essi si lasciano invece suggestionare dalla comunicazione immateriale, dando così importanza soprattutto ai sentimenti suscitati dall’immagine del marchio piuttosto che dalle peculiarità fisiche del prodotto stesso.
Ormai è trascorso poco più di un secolo da quando la pubblicità influenza la nostra spesa quotidiana e le strategie di marketing per riuscire ad incrementare la conoscibilità di un brand sul mercato. La Millward Brown stila da 8 anni un’autorevole classifica che racchiude i dieci brand mondiali più forti e di conseguenza più radicati nelle coscienze dei consumatori.
A conferma dunque che ci ritroviamo nell’era in cui spadroneggia la tecnologia, anche nel 2013 al primo posto c’è l’immagine della mela morsicata della Apple, marchio leader in tutto il globo per pc, smart phone e tablet: sempre più aggiornati e agognati da tutti i consumatori mondiali, i dispositivi elettronici ideati da Steve Jobs stanno gradualmente cambiando le nostre abitudini quotidiane, sempre più dominate da informazione e socializzazione virtuale. Al secondo e la terzo posto, a conferma di questa supremazia ormai indiscussa delle nuove tecnologie, troviamo il colosso di Mountain View Google, seguito dalla Ibm (nel 2012 invece le posizioni tra i due erano invertite).
Il quarto posto se lo aggiudica la catena di fast food più celebre, la Mc Donalds, seguita dalla Coca Cola, che riescono così a spezzare la catena della supremazia tecnologica, dal momento che al settimo posto viene riconfermato il settore egemonico con la presenza della Microsoft, che nel 2012 invece occupava la quinta posizione.
Per imbattersi in settori differenti, in cui non rientrino neanche le telecomunicazioni, di cui un esempio è il marchio Vodafone o la logistica e il commercio online rappresentato da Amazon, dobbiamo scorrere sino alla ventiseiesima posizione dove si attesta il settore entertainment con l’indiscusso primato della Disney.
In questo interessante elenco in cui sono riportati i gusti e le affezioni dei consumatori in tutto il globo, il primo brand italiano che incontriamo in classifica è quello della moda Gucci, al sessantottesimo posto, seguito da un’altra inconfondibile firma nel settore, quella di Prada, alla novantacinquesima posizione. La presenza di questi marchi italiani, pur essendo un importante riconoscimento per l’eccellenza made in Italy, in particolar modo in un momento di crisi economica e di netta riduzione dei consumi, è offuscata dal primato nel settore del lusso dalle case francesi Luis Vitton ed Hermes, nettamente più avanti nella classifica.
Una considerazione finale è doverosa nei confronti delle aziende cinesi: per due anni consecutivi sette dei cento brand presi in esami provengono dalla Repubblica Popolare del Medio Oriente e nessuna di queste sembra avere subito variazioni percentuali negative rispetto alla classifica 2012, affermando così una crescita costante e incontrastata dei brand made in China sul mercato globale.
Se seguite l’hashtag internazionale #freedompress oggi, troverete tutti i 140 caratteri dedicati alla giornata mondiale per la libertà di stampa. Ventiquattro ore per diffondere i numeri di giornalisti uccisi sul campo al fine di informare l’opinione pubblica, e i dati relativi al controllo dei governi o grandi gruppi finanziari di quanto viene pubblicato nei giornali o registrato nei servizi televisivi. Nella classifica redatta ogni anno dalla World Association of Newspapers and News Publisher e pubblicata nella versione cartacea di La Stampa, vengono contati 68 giornalisti uccisi solo nel 2012 mentre svolgevano il proprio lavoro ( il numero tuttavia oscilla perché secondo l’Unesco sono 121, 90 invece secondo Reportes sans frontieres e 70 secondo il Committee to Protect Journalists). Si tratta di omicidi, nella maggior parte dei casi rimasti impuniti, in alcune zone del mondo in cui lavorare in sicurezza non è affatto scontato.
Sono 7 i giornalisti uccisi in Pakistan, uno in Cambogia, Indonesia, Filippine, Thailandia, due in Bangladesh ed in India; se ci spostiamo in Africa, 14 reporters hanno perso la vita in Somalia, 16 nella sanguinosa guerra in corso in Siria, 3 in Iraq, uno in Sud Sudan, Tanzania, Nigeria. In medio Oriente sono 7, tra cui uno in Egitto e Libano, 3 in Iraq, 2 in Palestina. Spostandosi in America sono 12 coloro che sono stati uccisi sul campo: 6 in Messico, 5 Brasile ed uno in Colombia.
Nonostante gli appelli, le petizioni e le giornate celebrative come quella attuale, non si ferma quindi la carneficina dei professionisti dell’informazione, dipendenti sul campo di e per un’opinione pubblica che spesso li ignora o ben presto se ne dimentica. L’ultimo tentativo di sensibilizzazione è stato l’iniziativa di “A day without News”, volta a far comprendere in modo concreto cosa e come sarebbe l’informazione se non ci fossero reporter pronti a rischiare la vita per portare alla propria redazione una notizia. Esempio di questo giornalismo solitario fatto di impegno e dedizione è l’inviato della Stampa, Domenico Quirico, di cui la redazione non ha notizie dallo scorso 9 aprile, mentre portava incessantemente avanti il suo dovere di raccontare ed informare in Siria.
È proprio questa la parola che dovrebbe essere celebrata in queste 24 ore: informare. L’informazione non è la semplice comunicazione, come ben riportano i manuali e le regole deontologiche. Perché libertà di stampa non vuol dire solo poter lavorare in sicurezza, senza rischiare la vita per rendere consapevole l’opinione pubblica di quanto avviene nel mondo: la libertà per un giornalista consiste innanzitutto nella possibilità di scegliere in modo indipendente quale sia la notizia degna di pubblicazione e diffusione, un lusso che ben pochi professionisti si possono permettere.
Perché c’è una minaccia più subdola e meno evidente della guerra, finalizzata non ad informare, ma ad orientare l’opinione pubblica a seconda dell’interesse di chi i giornali li controlla. Uno degli ostacoli per la libertà di stampa sono spesso infatti gli stessi editori, una categoria che non svolge in modo esclusivo ed unico questo mestiere. L’editoria pura non esiste infatti neanche nei tanto decantati paesi democratici; basta guardare la cartina redatta da “Reporters without borders” e seguire la pratica legenda, che indica in modo preoccupante come l’Italia presenta problemi sensibili nella libera diffusione delle notizie. Perché non tutto può essere considerato realmente una news, e spesso un avvenimento viene fatto passare per tale solo perché fa comodo a qualcuno. Indirizzare l’opinione pubblica vuol dire infatti innanzitutto guadagnare, attraverso la pubblicità, politica o commerciale che sia, di cui le testate non possono più fare a meno, ma che sta trasformando i giornali in meri contenitori di comunicazioni e non di informazioni, uccidendo così metaforicamente anche la stessa figura del giornalista, da reporter dedito alla verità sostanziale dei fatti da riportare con lealtà e buona fede, a redattore di autentiche campagne mediatiche.
L’idea che l’arte possa salvare il panorama delle nostre città dal degrado che le deturpa e ne rovina l’orizzonte e gli scorci non è così utopica, ma appare sempre più realizzabile. Tra le strutture fastidiose che maggiormente disturbano la nostra vista, quando alziamo gli occhi all’insù tra le strade cittadine, ci sono senza dubbio i cartelloni pubblicitari: talvolta abusivi, altre volte invece sebbene autorizzati, presentano delle dimensioni talmente ampie da essere fuori luogo; che piacciano o meno, ormai sono comunque entrati a far parte dell’architettura delle nostre metropoli, suscitando spesso critiche per la loro eccessiva diffusione.
Eppure una soluzione per conciliare gli introiti dei grandi marchi e la tutela del paesaggio urbano è stata già trovata e l’esperimento sembra aver riscosso un notevole successo.
È accaduto a Città del Messico, dove due agenzie pubblicitarie, La Agencia Viva! e La Doblevida, insieme al Brand Scribe, hanno reclutato un’artista per la realizzazione delle loro campagna di comunicazione. Cecilia, la pittrice selezionata, non si è limitata a creare il logo da riprodurre in serie in diversi cartelloni, ma ha deciso di trasferirsi e vivere per una decina di giorni dietro le quinte dell’enorme tela bianca, all’ultimo piano di un palazzo.
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Lo scopo era essere il più possibile vicina al suo lavoro, ripercorrendo le orme dei grandi pittori del passato che passavano mesi sui ponteggi, dipingendo i più piccoli dettagli dei loro affreschi.
E per trovare l’ispirazione Cecilia non si è lasciata influenzare né da se stessa né tantomeno dai committenti che l’hanno reclutata: ha divulgato attraverso il canale Twitter la sua idea e attraverso il canale social ha chiesto agli utenti di consigliarle cosa dipingere sopra l’immenso cartellone bianco. Ha iniziato così partendo dall’angolo all’estrema sinistra con i primi suggerimenti che le sono arrivati ed è andata avanti ininterrottamente, sino a coprire l’ultimo puntino bianco del pannello.
Non senza imprevisti e piacevoli sorprese, il lavoro di Cecilia ha avuto grande risonanza, non solo sul web, ma anche all’interno delle strade cittadine: passanti e curiosi hanno seguito il suo lavoro, giornalisti da tutto il mondo sono stati incuriositi da questo evento insolito, musicisti si sono esibiti pubblicamente accanto all’artista, altri pittori si sono uniti a Cecilia, per aiutarla nella sua opera.
Il risultato, grazie ai diversi stimoli creativi del pubblico e degli utenti del web, ha ottenuto il successo sperato: l’impatto comunicativo è andato ben oltre quello di un semplice cartellone anonimo e in serie.
Il 2013 non si presenta come un anno facile sia per il Bel Paese, che per gran parte dell’Europa e del Mondo. La crisi economica, i suoi effetti sull’occupazione e la società, la transizione dal governo tecnico alla nuova fase politica stanno segnando con forza la vita degli italiani. Molti dei temi sociali e politici che stanno caratterizzando l’attualità di questo nuovo anno coinvolgono da vicino milioni di persone, che si trovano a fronteggiare una situazione per molti versi difficile e complessa.
In questo contesto, è interessante notare come sempre l’attualità si trovi ad animare la fantasia di creativi, comunicatori e pubblicitari, i quali scelgono di trarre ispirazione dai “temi caldi” del momento per sviluppare idee e dare forma alle proprie campagne pubblicitarie, chi scegliendo un taglio ironico, chi sfruttando magistralmente i limiti dell’odierna situazione, chi trasmettendo uno speranzoso messaggio d’ottimismo. Sempre più spesso i grandi brand decidono di relazionarsi col presente per proporsi al pubblico, coniugando attualità, web 2.0 e comunicazione virale.
Ecco qualche esempio pratico, per entrare nel vivo della questione: Ceres, la nota birra danese, nel 2013 sceglie di parlare delle elezioni governative e struttura una campagna sul tema: “L’Italia ha bisogno di eroi”. Nelle principali città italiane vengono affissi una serie di manifesti, ognuno dei quali recante una frase d’effetto: “Gli eroi non si astengono”, “Prima si vota e poi si beve. Non come l’ultima volta” e “Bottiglie aperte solo a urne chiuse”. A questi si aggiunge una sorta di video tutorial, sul modello di quelli realizzati per informare i votanti sulle procedure che, dopo aver esortato a svolgere il proprio dovere civico, invita a festeggiare con una birra. La campagna pubblicitaria, che vuole sfruttare le potenzialità della comunicazione virale, coniuga sapientemente la promozione del brand con l’invito ad adempiere ai propri doveri civici, dando vita ad un prodotto efficace, ironico ed originale.
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Sulla stessa scia si è mossa l’azienda Cesare Fiorucci, che per promuovere incisivamente i propri salumi ha scelto la strada dell’ironia, diffondendo nei giorni seguenti le elezioni il video “Potere e Salumi”, che parla della corruzione immaginando un mondo in cui le tangenti e gli scandali ruotano attorno a traffici illeciti di affettati e salumi di prima qualità. C’è chi ha accusato la campagna di svendere il Made in Italy, andando a toccare un tema caldo e sofferto. L’azienda ha risposto dicendo di aver voluto privilegiare una comunicazione d’impatto, un taglio irriverente e ironico per posizionare il brand sul versante della creatività.
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C’è anche chi, come Mc Donald’s, ha saputo plasmare a proprio vantaggio i limiti della situazione attuale, nel tentativo di rinnovare la propria immagine. “Lavorare da Mc Donald’s” è il tema della comunicazione creata per il 2013, con la quale si vuole annunciare una grossa opportunità di occupazione per l’Italia: più di 3.000 assunzioni in 3 anni. In uno spot girato da Gabriele Salvatores vengono intervistati alcuni giovani dipendenti e vengono enunciati una serie di dati: Mc Donald’s da lavoro ad oltre 16.000 persone in Italia, offre al 90% dei dipendenti un contratto a tempo indeterminato, paga puntualmente ogni mese e offre concrete possibilità di carriera per i giovani. “Noi di Mc Donald’s nell’Italia ci crediamo”, questa una delle frasi topiche attorno cui ruota la comunicazione della multinazionale, che in una serie di manifesti diffusi per le città italiane ha citato l’art. 1 della Costituzione: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Lo spot ha suscitato non poco scalpore, nonché la reazione della CGIL, che ha aperto un vero e proprio caso, per sondare la veridicità di quanto affermato e promesso.
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Altro esempio interessante è quello fornito da Ikea, con la campagna “Basta poco per vivere meglio”. L’azienda svedese, cui è nota la capacità di coinvolgere il pubblico attraverso la scelta di leve sociali per la propria comunicazione, ha proposto un video in cui vengono raccontate tre storie, tre nuovi inizi dopo un cambiamento. Una famiglia che festeggia il compleanno del figlio adottato, un gruppo di studenti che vivono insieme, un uomo divorziato che volta pagina: tre diversi modi di ripartire, tre target a cui rivolgere un’offerta specifica, scegliendo la strada dell’ottimismo.
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Ad accomunare tutti e quattro questi casi è la scelta di articolare la propria campagna di comunicazione attorno a temi sociali vivi nel nostro presente, dalle elezioni alla corruzione, dai problemi legati all’occupazione alla fiducia nel domani, coniugando la promozione del brand ad un messaggio dal risvolto anche sociale. Chi privilegiando l’ironia, chi volendosi riproporre in senso creativo, chi sfruttando la situazione attuale a proprio vantaggio, le aziende citate hanno deciso di puntare sull’attualità per comunicarsi al proprio audience, scegliendo di raccontare il presente per arrivare in modo più diretto al proprio pubblico.
Ormai siamo talmente abituati che sarebbe quasi impossibile immaginare la nostra vita senza: non passa mattina che non ci si connetta su Facebook per vedere le ultime novità dei nostri amici, che non si scandagli Twitter per essere castamente informati sulle ultime notizie, che non si accenda il computer per ascoltare musica o vedere video su Youtube. Chissà come avrebbero reagito i nostri nonni se i social network fossero nati negli anni 50’ e chissà quale utilizzo ne avrebbero fatto. Probabilmente le pubblicità sarebbero state queste!
“Story Selling. Strategie del racconto per vendere se stessi, i prodotti, la propria azienda”.
Il saggio, scritto da Andrea Fontana, esperto di corporate storytelling, è un piccolo manuale che spiega come raccontare sé stessi, la propria attività o specifici prodotti. L’autore parte dall’assunto che attraverso una storia ben narrata è possibile destare interesse: il perché e il come viene spiegato nel libro.
Il libro si apre con una premessa e un’introduzione, per poi suddividersi in due parti: la prima, composta di tre capitoli dedicati al business storyselling e la seconda, spiegata in sette capitoli incentrati sullo storyselling in azione, dalla retorica, al mindfuckining, fino alla captologia. Il volume segue dunque un percorso logico che, partendo dalla presa coscienza dell’importanza del racconto nelle nostre vite, insegna a narrare nel modo migliore e più interessante, per poi spiegare come promuovere le nostre storie.
Il testo è chiaro e ricorre spesso ad esempi utili per la comprensione. Qualora ci fosse bisogno di ulteriori spiegazioni, il libro non lesina in grafici ed illustrazioni schematiche, che sintetizzano il contenuto concentrando l’attenzione sui concetti principali.
Essendo un saggio, “Story selling” non risulta una lettura particolarmente vivace, ma appare molto tecnica e specialistica.
Ogni capitolo si apre con una citazione, che introduce al tema trattato, e si chiude con l’indicazione dei cosiddetti “punti fondamentali”, domande che fanno riflettere il lettore riguardo i principali contenuti illustrati.
“Story Selling” è vivamente consigliato a chi lavora nell’ambito della comunicazione, del marketing e della pubblicità, ma può essere utile anche a chi vuole semplicemente promuovere il proprio curriculum e scoprire i segreti del mestiere di “storyseller”.
“Story Selling” è un libro di Andrea Fontana, edito da Rizzoli Etas, in vendita a 17,00 euro, prezzo di copertina.
ISBN 9788817056830
Ingovernabili o no, sull’ironia senza dubbio noi italiani siamo imbattibili. In tempi di campagna elettorale spesso ci superiamo, soprattutto per esorcizzare i timori e le delusioni per i programmi elettorali fumosi ed inconcludenti. Ecco alcuni dei manifesti più divertenti, usciti in occasione della campagna elettorale, volti a sdrammatizzare queste ultime elezioni.
Forse è un po’ presto per pensarci, ma il detto parla chiaro: chi tardi arriva male alloggia. Allora perché non iniziare a programmare le vacanze per la prossima estate? Con un po’ di nostalgia per la villeggiatura vecchio stampo siamo andati a recuperare i primi poster pubblicitari dove venivano reclamizzate le mete più ambite, vicine e lontane.
Pubblicittà: forme pubblicitarie del moderno
un breve ma intenso saggio che, in soli cinque esaustivi capitoli, ripercorre la storia della pubblicità e della sua teorizzazione, dalla sua assimilazione con la propaganda, alle teorie dell’AIDA o al cosiddetto modello DAGMAR, sino ad arrivare alla pubblicità odierna il cui modello prevalente non è più quello della persuasione occulta, bensì del coinvolgimento del pubblico finale. Un libro interessante che illustra le nozioni basilari per la professione pubblicitaria, oggi più che mai esigente nella formazione dei propri adepti, pubblicitari che, per avere successo, non devono più essere specialisti di un campo specifico, ma possedere una preparazione ampia ed approfondita.
diviso in cinque capitoli, il libro ripercorre la storia della pubblicità, attraverso le sue tappe fondamentali e riportando le diverse correnti di pensiero ordite dagli studiosi che in questo campo hanno lavorato per anni o che hanno reso la pubblicità, il suo messaggio e il mezzo di trasmissione, oggetti di studio per carpirne i segreti e il suo rapporto con il pubblico. Una digressione storica che arriva sino ai nostri giorni, per analizzare la paventata crisi del settore e il suo rapporto con il contesto urbano di cui la pubblicità sta divenendo sempre più parte integrante e caratterizzante.
un saggio necessario per la formazione dei professionisti del settore, ma anche per gli operatori della comunicazione, perché, pur non essendo troppo specialistico, riesce a chiarificare concetti complessi come l’approccio semiotico, la funzione fatica, il concetto di pubblicità obliqua, brand reputation e brand awareness e il subvertising.
poco spazio è riservato al ruolo innovativo che rivestono i social media per la diffusione virale del messaggio e per il mutamento nella percezione dei mezzi utilizzati per la sua propagazione. Nonostante l’autrice rimandi ad un ulteriore saggio per approfondire l’argomento, forse sarebbe stato indicato, per completezza del testo, riportare qualche informazione, anche solo generica.
ogni capitolo si apre con un motto famoso rimasto impresso nelle menti del pubblico, perché caratteristico di pubblicità celebri che hanno decretato la fama del prodotto reclamizzato: ogni claim è stato affiancato a ciascun capitolo in modo mirato.
gli studenti e i professionisti del settore in particola modo, ma non bisogna escludere anche il fruitore abituale di tv ed internet, soprattutto se incuriosito di scoprire quanto le trovate pubblicitarie influenzino i suoi comportamenti o quanto partecipi in modo attivo alla fama di un prodotto. Infine, ma non meno importante, il libro potrebbe risultare utile per i comunicatori politici.
Pubblicittà: forme pubblicitarie del moderno di Stefania Antonioni Franco Angeli
costo 18 euro
Giovedì 13 dicembre 2012, quando il Comune di Venezia ha indetto la gara per accapararsi lo sponsor di ristrutturazione del ponte di Rialto, Renzo Rosso con il suo gruppo finanziario (OTB) non ha avuto rivali e ha vinto il contratto mettendo sul piatto 5 milioni di euro.
L’accordo prevede che i lavori inizieranno a fine gennaio e si concluderanno non prima del 2015; l’intera opera di recupero da 5 milioni di euro offrirà al marchio Diesel la possibilità di essere associato per molto tempo all’immagine di uno dei ponti più famosi del patrimonio culturale italiano.
Su vaporetti e mezzi di comunicazione del capoluogo lagunare, per quattordici giorni l’anno, lo sponsor potrà affiggere messaggi pubblicitari legati a particolari campagne di marketing.
Inoltre l’accordo prevede l’organizzazione di eventi culturali di grande visibilità e prestigio, uno in Piazza San Marco, uno al Teatro la Fenice, due a Palazzo Ducale e in altre sedi importanti della città. Il buon senso è inteso qui come vincolo tra pubblicità, decoro e qualità in quanto ogni forma pubblicitaria sarà vigilata in osservanza dell’importanza del ponte in questione e dell’interà città.
Una nuova forma di mecenatismo si sta sviluppando in Italia per salvaguardare il patrimonio; anche se in maniera contenuta, si sta assistendo ai primi segni di partecipazione del ceto imprenditoriale per la tutela delle ricchezze artistiche. Si sta tracciando l’importanza di creare un modello di partecipazione fra poteri pubblici e privati modernizzando il mecenatismo tradizionale.
Laura Biagiotti nel 1998 contribuì al restauro della Cordonata del Campidoglio in collaborazione con il Comune di Roma e l’Associazione Caput Mundi, mentre recentemente l’esempio più emblematico è stato quello che ha visto Diego Della Valle mecenate per il Colosseo. Dopo mesi di polemiche e critiche da parte di Codacons e Antitrust l’accordo è comunque partito e Mister Tod’s finanzierà il restauro dell’anfiteatro Flavio per 25 milioni di euro.
Le polemiche innescate dal Codacons si rivolgevano a cartelloni abusivi e appalti truccati ma dure sono state le risposte dell’opinione pubblica italiana. Se le casse dello Stato piangono, infatti, i soldi per la salvaguardia del patrimonio devono essere cercati altrove.
Per quanto riguarda l’appalto di restauro al Ponte di Rialto, fino ad ora non sembrano essersi scatenate numerose critiche o polemiche. Forse l’opinione pubblica italiana si è arresa di fronte al fatto che il nuovo mecenatismo dei grandi ricchi in questo momento sia l’unica soluzione possibile.
Nessun turista o cittadino appassionato vorrebbe vedere in Piazza San Marco grandi cartelloni pubblicitari, ma se non avere questo significasse perdere uno dei ponti più prestigiosi d’Italia, varrebbe ancora la pena perseguitare il mecenatismo?
Il compromesso giusto è quello della continua sorveglianza e del continuo controllo sulle campagne pubblicitarie che verranno messe in piedi da questi grandi sponsor, la qualità e il prestigio dello spazio non dovranno soffrire soffocati dalla pubblicità.
Sfogliando ogni mattina il giornale qui in redazione succede spesso che la nostra attenzione venga catturata da una pubblicità o da un annuncio singolare, divertente o paradossale che sia, piuttosto che da una notizia o da un titolo in prima pagina. Abbiamo cominciato un po’ per gioco questa originale collezione, ma alla fine abbiamo realizzato un autentico archivio delle pubblicità più ironiche, spesso troppo irriverenti e bizzarre, altre volte inspiegabili. Ecco le pubblicità che abbiamo ritagliato dai giornali in questo 2012.
E’ stata ribattezzata “Pubblicità a tradimento” ma c’è da dire che la trovata, per quanto scorretta e probabilmente perseguibile, ha del sensazionale, soprattutto in termini di spettacolarità a suon di concorrenza (anche sleale).
Accade quindi che la tratta più contesa del nostro paese, quella Roma-Milano che le compagnie aree e ferroviarie cercano di propinare ai propri clienti in tutte le salse, scontate e non, diventa teatro di un’astuta campagna di marketing che vede scendere in campo la compagnia aerea tricolore Alitalia: contro i colossi ferroviari FS e NTV.
Volantini in stile settimana enigmistica sono stati infatti recapitati su tutti i treni Roma-Milano (a/r) in partenza e distribuiti da ammalianti hostess in divisa all’interno delle stazioni: “sai qual è la traiettoria più veloce per unire due punti? Roma-Milano, 70 minuti, 99 euro”.
Ed ecco che scatta la concorrenza sleale, condita da un buono sconto del 20%.
“E’ stata una vicenda che ha seguito delle regole non corrette e come tale deve essere trattata” ha commentato la responsabile della comunicazione esterna FS, Daniela Carosio.
“La comunicazione sui nostri treni – prosegue – segue delle regole. Noi abbiamo affidato per gare ad una concessionaria la possibilità di comunicare sui nostri treni con un controllo economico e di messaggio comune a tutte le grandi aziende. E comuni anche ad Alitalia.”
Ntv e Fs stanno dunque mobilitando i loro uffici legali per eventuali provvedimenti da adottare.
Da comuni cittadini, non possiamo far altro che assistere divertiti a queste creative battaglie tra aziende, combattute a colpi di spot, pubblicità, flash mob e volantinaggio.
Una pratica che è perseguita in Italia dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato sulla base della direttiva 2006/114/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, concernente la pubblicità ingannevole e comparativa, ma che all’estero propone campagne pubblicitarie spietate tra competitor.
È il caso della ironica lotta Audi-Bmw-Subaru di qualche anno fa che ha generato un botta e risposta di affissioni e pubblicità su riviste specializzate tale da essere ripresa e analizzato per la dirompente carica concorrenziale che, è risaputo, vige tra i marchi.
A cominciare fu la provocazione lanciata da BMW:
“Congratulazioni all’AUDI per aver vinto il premio per miglior auto del sud Africa dell’anno 2006.
Dal vincitore dell’auto dell’anno 2006”
A questo punto, la casa automobilistica tedesca non ci ha pensato due volte rispondendo a tono con un:
“Congratulazioni alla BMW per aver vinto i premio di miglior auto del 2006. Dal vincitore di 6 gare consecutive delle 24 ore di Le Mans (2000 – 2006).”
Per ultima, entra in scena Subaru che riprende il mood proponendo un:
“Bravi entrambi Audi e BMW per aver vinto dei premi. Dal vincitore del miglior motore internazionale del 2006.”
La concorrenza rende creativi, non c’è che dire e ora che anche in Italia le acque si stanno agitando, non ci rimane che aspettare curiosi le prossime mosse degli avversari.
Li ammiro i pubblicitari, i creativi, gli sceneggiatori, non demordono e inseguono il cliente senza fermarsi davanti a nulla: mitizzano la sfiga se serve, trasformano il disagio (altrui) in (loro) opportunità, cambiano la semantica dei termini, sorridono a chi annega nel fango sperando così di portargli sollievo. In tempo di crisi i consumatori sono disoccupati e, certo, duro diventa il loro lavoro se il disoccupato gli si deprime, se non spende più per trastulli inutili, rinuncia al prodotto di marca, non aggiorna le app dello smartphone o l’auto, smette pure di farsi lo spritz e di scommettere sui goal dell’Albinoleffe.
Il fatto che un paio di generazioni non comprino come e cosa si è deciso per loro li mette in crisi.
Ecco allora che il genio si accanisce sul disoccupato per evitare di diventarlo lui stesso.
“UNEMPLOYED OF THE YEAR” è la nuova campagna di Benetton per vendere magliette e calzini. In Benetton, ovviamente, non si capacitano del fatto che i disoccupati stiano diventando consumatori imperfetti e preferiscano rattoppare la mutanda piuttosto che comprare l’underwear e considerino i jeans ereditati dal cugino un dono del cielo. Per questa pubblicità hanno preso attori a cui hanno assegnato la parte dei finti disoccupati in completino mistolana e camicetta noironing, e inneggiano alla fortuna di essere a spasso perché così si ha il tempo di partecipare tutti a un concorsino per vincere 5.000 euro, giusto quanto serve a cambiare il guardaroba.
Come il disoccupato sia incastonato nel cuore dei media e nel mirino degli inserzionisti è evidente anche in “THE APPRENTICE”, il nuovo reality in cui Flavio Briatore, improbabile leader senza macchia e senza paura, icona di coloro che hanno finora consumato il presente dei giovani per dare un futuro a se stessi, taglia teste a baldi volontari lampadati che vorrebbero lavorare per lui (e già per questo andrebbero comunque puniti).
Si percepisce la necessità di aver un bel disoccupato tranquillo, pulito, integrato e pettinato, del cui benessere preoccuparsi, disposto a tutto per essere all’altezza di ciò che chi ha pianificato il suo futuro si aspetta da lui, voglioso di essere adottato ma non progettato per essere rispettato.
Sembra opportuna l’istituzione di un cavalierato anche per il non lavoro. Già ne posso immaginare la celebrazione, con Emanule Filiberto che consegna il titolo di Cavaliere del Non Lavoro a Pino da Perugia che si è comprato il Freelander coi soldi della pensione dei nonni e a Sara da Pordenone che ha raggiunto l’invidiabile primato di 30 stage non retribuiti. Sì, del disoccupato ne propongo la nomina da parte dell’Unesco a patrimonio dell’umanità.
Samuel Saltafossi è sociologo della complessità
Che il tema più sentito da parte della società civile in questo primo decennio del 21esimo secolo sia la mancanza di un posto di lavoro sicuro e la possibilità di crearsi un futuro stabile non è una novità. Negli ultimi anni questa problematica da piaga sociale incisiva e preoccupante tuttavia si è trasformata in un’autentica fonte di visibilità, non solo a livello politico ma anche per i mezzi di comunicazione. Se un tema riesce a fare breccia nell’opinione pubblica è sulla bocca di tutti e quindi basta solo citarlo per fare notizia ed attirare l’attenzione. Sembra questo l’atteggiamento assunto nei confronti del disagio giovanile per una disoccupazione dilagante che affonda le speranze della nuova forza lavoro. E così a fronte dei dati del rapporto Employment Outlook 2012 secondo il quale i disoccupati nell’area Ocse sono arrivati ad essere 48milioni e che in Italia hanno raggiunto la soglia del 10% ( per quanto attiene il dato della disoccupazione giovanile il tasso arriva al 30%), alcune iniziative hanno trasformato l’aurea di negatività del fenomeno in una potenziale ricchezza da sfruttare, soprattutto sul piano della comunicazione.
Forse facendo zapping in televisione vi sarete imbattuti nel nuovo reality “The Apprentice”, mandato in onda sul canale Cielo tv. Il format del programma prevede la sfida tra diversi giovani imprenditori che si contendono tra loro il posto di assistente del team manager della Formula1 nonché fondatore del Billionaire Flavio Briatore. Un reality, dunque, volto a valorizzare la figura del self made business man, così diffusa nella mentalità di altri paesi come l’America ma poco perseguita in Italia, dove si predilige, invece, il posto fisso e sicuro. Il format del programma, infatti, ricalca quello dell’omonimo reality già passato nelle televisioni inglesi ed americane, riportando tuttavia alcune peculiarità del tutto italiane: nel modello previsto dalla BBC, ad esempio, i giovani manager si sfidano per portare avanti il proprio progetto imprenditoriale e il vincitore si aggiudica il finanziamento necessario per avviarlo. In Italia il premio, come abbiamo visto, è un po’ differente probabilmente per alzare gli ascolti coinvolgendo il magnate brizzolato. La struttura, dunque, non si equivale del tutto, ma in entrambi i casi i protagonisti sono i giovani e la loro volontà a tutti i costi di crearsi un lavoro che non c’è.
Un altro esempio di quella che può essere definita una spettacolarizzazione della disoccupazione giovanile è l’ultima campagna pubblicitaria del concorso Unemployee of the year, promossa dalla Fondazione Unhate dell’azienda Benetton. A presentare il contest, davanti ad una schiera di giornalisti, è stato lo stesso presidente Alessandro Benetton, il quale ha definito quest’iniziativa, in cui protagonisti assoluti sono i giovani disoccupati, encomiabile e da prendere a modello da parte di altre fondazioni. Il contest si propone di premiare 100 progetti in campo artistico, sociale ed imprenditoriale, creati da giovani senza lavoro di tutto il mondo. I file contenenti le idee dovranno essere caricati sul sito della fondazione e votati dalla community al fine di decretare il 31 ottobre 2012 un vincitore. Un’iniziativa dagli intenti nobili apparentemente, almeno sino alla scoperta del premio finale per i vincitori: non è previsto né un posto di lavoro in Benetton né in nessun altra realtà prossima al progetto presentato. In palio, invece, la Fondazione Unhate offre 5.000 euro in denaro per creare il proprio progetto imprenditoriale: un fondo dunque per avviare una start up.
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C’è da chiedersi se, prima di avviare il contest, alla fondazione abbiano fatto davvero bene i conti: ad esempio, nell’ultimo rapporto sulle start up in Italia, al fine di sostenere il budget indispensabile per le diverse iniziative è stato persino istituito un “Fondo dei Fondi”, in cui far pervenire il maggior numero di finanziamenti privati, proprio in previsione della necessità di un capitale, non di certo esiguo, necessario alla partenza dei progetti.
Il contest Unemployee of the year si prefigge dunque di creare lavoro con investimento minimo, ma anche qualora si riuscisse nell’intento, l’incognita è se, senza ulteriori finanziamenti per il progetto, la neo impresa potrà o meno andare avanti e mantenere quindi stabile il lavoro creato.
Forse la verità è che il tema delle disoccupazione sta diventando troppo “di moda” e che viene usato indistintamente per promuovere iniziative non sempre risolutive. Se realmente l’obiettivo del contest Benetton era quello di garantire un’occupazione, già un primo passo falso è stato quello di reclutare (e quindi anche stipendiare) attori modelli per la campagna pubblicitaria e non chiedere di fare da testimonial agli stessi partecipanti al contest.
Forse un’iniziativa più incisiva per combattere questa piaga e da prendere ad esempio potrebbe essere quella organizzata dal cast dello spettacolo Full Monty che ha aperto un contest pubblico per reclutare attori. Non si tratta di un’audizione aperta a professionisti dello spettacolo o a studenti della scuola di recitazione: il requisito per essere selezionati è quello di aver perso il lavoro nel comparto tecnico- industriale da almeno 24 mesi. Il vincitore finale avrà diritto ad contratto vero e proprio per entrare a far parte del cast e girare l’Italia in tournèe. I protagonisti dello spettacolo saranno Paolo Calabresi, Gianni Fantoni, Sergio Muniz, Paolo Ruffini, Jacopo Sarno, e Pietro Sermonti e l’ambientazione della storia sarà la zona periferica ed industriale di Torino. Un adattamento peculiare nel nostro paese forse non scelto a caso a giudicare dalle cronache sconfortanti che giungono da quest’angolo del Piemonte in questi giorni. Per sostenere l’iter di selezione dovrete sottoporvi ad un colloquio attitudinale, una prova d’improvvisazione e infine verificare le vostre attitudini al canto e alla danza.
Se siete interessati a partecipare questo è il sito internet dello spettacolo e per informazioni dettagliate questi sono i contatti:
Tel: 06.39745568
Secondo i dati pubblicati da Nielsen, il mercato pubblicitario in Italia si è chiuso nel primo semestre del 2012 con un calo del 9,7% rispetto all’anno precedente. Purtroppo la contrazione economica si ripercuote anche nel mondo della pubblicità che sembra non farcela di fronte ad un calo dei consumi e, di conseguenza, di eventuali consumatori.
Tra i canali più in crisi della raccolta pubblicitaria, la stampa quotidiana e i periodici sono tra i più colpiti in negativo registrando rispettivamente un calo del 13% e del 14%, un vero e proprio crollo di inserzionisti nella carta stampata.
Anche la Tv arretra vistosamente con un meno 9% rispetto all’anno precedente. Alla televisione in realtà poteva andare peggio, gli europei di calcio hanno fatto si che la raccolta per questo canale non crollasse definitivamente, mentre la radio conferma il suo trend negativo fermandosi ad un meno 5% , l’andamento verso il basso è registrato anche da parte di canali come Cinema, Outdoor, OOH e Transit. In costante crescita con un più 11% rimane incontrastata la comunicazione attraverso la rete.
A questo calo complessivo si registra soprattutto un ridimensionamento dei settori merceologici che investono di meno in questi canali: l’unico settore a resistere, secondo i dati, è il comparto dedicato al Tempo Libero che incrementa i suoi investimenti del 24%, e il Turismo con quasi l’8% in più, mentre telecomunicazioni, settore automobilistico e alimentari subiscono la crisi e investono meno in promozione.
Insomma il panorama degli investimenti pubblicitari è critico soprattutto nei settori considerati “tradizionali”. Il 2011 si era chiuso non solo in Italia ma anche nel resto dell’Europa con un calo generalizzato rispetto ad altri paesi extraeuropei come per esempio l’America Latina che registra un incremento dell’investimento pubblicitario di oltre 11%.
La crisi economica generalizzata in Italia e nel resto d’Europa si ripercuote su questo mercato e fa sì che le imprese si orientino verso altri canali più innovativi, meno costosi e soprattutto performanti che portano a risultati in termini di ROI più sicuri, e più certi in merito a centramento del target e numero di contatti raggiunti, ma non solo.
Internet, infatti, si piazza al primo posto come canale su cui le imprese investono in pubblicità ma non di certo solo per colpa della crisi economica. Il web è ad oggi non solo il canale più innovativo, ma potenzialmente in grado di offrire il più esteso bacino di consumatori. Perché ad avere in casa un pc, ormai, sono due terzi degli italiani e ad accedervi anche da altri device come tv, tablet, smartphone sono oltre il 66% .
Insomma, il bacino di consumatori sembra essersi spostato, verso il web che offre linfa al mercato pubblicitario poiché le imprese investono in un canale innovativo e fruibile dappertutto che ben si coniuga con obbiettivi di marketing e precisione nella valutazione dei risultati raggiunti . Consentendo oltre a ciò, una penetrazione del target più precisa: di fatto i potenziali consumatori che navigano su internet sono osservati e studiati nelle loro tendenze di scelta e di acquisto.
Non solo, le imprese hanno privilegiato il web e soprattutto i canali 2.0 avvicinandosi così sempre di più al consumatore, intercettando più da vicino i suoi bisogni e realizzando di contro un prodotto che sarà di sicuro interesse perché tagliato sulle sue esigenze.
Le previsioni di chiusura per il 2012 non sono rosee, infatti il mercato pubblicitario secondo le stime di Nielsen chiuderà con un calo complessivo negli investimenti del -5,7%. Per il 2013 è previsto un timido rialzo che si posiziona al 2.9%
In tutto questo panorama, non abbiamo fatto i conti con il mistero di Google che secondo le indiscrezioni, sarebbe pronto ad entrare nel mercato pubblicitario italiano nel settore televisivo; girano voci che sia pronto, addirittura, ad acquistare La7. Questo misterioso “benefattore” che di misterioso ha soprattutto i dati in relazione alla raccolta pubblicitaria che esercita nel territorio italiano, infatti né Nielsen né Audiweb lo monitorano l’andamento nei risultati dei trend non vengono presi in considerazione canali Google e Youtube che insieme, secondo i centri media stimano di possedere più del 50% del mercato digitale. Inoltre la polemica sul colosso americano non tende a placarsi in merito al fatturato e al pagamento delle tasse che avviene non Italia, ma in paradisi fiscali come l’Irlanda e tutto a di scapito dell’economia del nostro paese.
Il piano segreto di Google si prefigge insomma di conquistare il 20% del mercato pubblicitario italiano entro il 2015 superando Rai e raggiungendo Mediaset.
Intanto per quest’anno dovremmo accontentarci di un calo generale degli investimenti in questo settore e sperare in una ripresa nel 2013, stimata al 2,9%, mentre il mistero di Google si infittisce: segnerà le sorti del mercato pubblicitario Italiano? E’ il caso di dire che staremo a guardare…
Mancano 68 giorni all’apertura delle danze. La scadenza ultima per l’agguerrita campagna elettorale tra il candidato del partito repubblicano Mitt Romney e l’attuale presidente uscente democratico Barack Obama è fissata al 6 novembre. Tuttavia la battaglia già imperversa da mesi, non solo nei convenzionali comizi e convention. A farla da padrone nella campagna elettorale americana 2012 è più che mai il web con i suoi canali social. Attraverso Twitter e Facebook, opinioni, punti dei rispettivi programmi e affondi vengono comunicati in tempo reale ad utenti ed elettori a chilometri di distanza e senza il filtro della stampa. Ed è proprio sul campo dei social network che si combatte, dunque, la sfida elettorale. I like dei post in bacheca e il numero dei follower possono essere una spia di quale sarà l’esito delle elezioni?
Social Network La battaglia sul numero dei seguaci nel canale Twitter e Facebook è nettamente vinta da Obama: la rivista AdAge ha realizzato un’infografica in cui chiaramente il numero di follower e like giocano a favore del presidente democratico. Tuttavia considerato il target di utenti di questi canali, in genere utilizzati dalle giovani generazioni, questi dati non tengono conto di una buona fetta di popolazione americana.
Pagina Facebook di Barack Obama
Pagina Facebook di Mitt Romney
App I’m voting Dati più oggettivi potrebbe fornirci l’applicazione Facebook realizzata dal canale di informazione CNN: porta il nome di “I’m voting” e permette di esprimere in anteprima la propria preferenza attraverso Timeline e Newsfeed. L’applicazione disponibile sia in inglese che in spagnolo, è già stata utilizzata da più di 1600 utenti.
Youtube Molto sfruttato dai due candidati è anche il canale televisivo online youtube: interessanti ed indicativi del peso che una parte della società americana sta assumendo sempre di più, sono gli spot elettorali rivolti alla popolazione latina che vive e lavora negli Stati Uniti.
Sul canale televisivo non mancano però filmati divertenti ed ironici, come l’orecchiabile “Call me Maybe” mix rapper di Obama, che fa il verso alla popolare hit di Jastin Bieber.
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Da ieri, inoltre, sulla piattaforma web dedicata ai video è disponibile un intero canale completamente dedicato alle elezioni americane, dove è possibile seguire in diretta le convention e gli appuntamenti pre-elettorali.
Presidential cookie Bake-off Eppure le elezioni in America non si combattono solo a colpi di spot e di programmi economici e sociali: da qualche anno sta tenendo banco la gara culinaria che porta faccia a faccia le potenziali future first ladies e le loro rispettive ricette di biscotti. La battaglia al sapore di burro e cioccolato è ormai una tappa irrinunciabile per la campagna elettorale e coinvolge tutte le donne americane chiamate a votare la ricetta che più preferiscono all’interno della rivista di cucina Family Circle.
Siti internet personali una buona grafica può determinare in positivo l’impatto e l’influenza che il candidato ottiene nei confronti dell’opinione pubblica: lo sanno bene i realizzatori dei siti web degli sfidanti. La squadra di Romney ha dedicato un’intera pagina, in cui vengono denunciati tutti i presunti fallimenti e inadempienze della presidenza Obama, attraverso una grafica chiara e suddivisa per argomenti. Nel sito di Obama, invece, è disponibile una applicazione che permette di prevedere calcolo delle tasse, in aumento secondo il candidato democratico, nel caso vincesse il suo avversario repubblicano.
quante volte vi siete fermati ad osservare un cartellone pubblicitario e avete avuto la sensazione di aver già visto in qualche altro luogo del pianeta quello stesso spot? In un mondo che cambia repentinamente come quello della pubblicità è noto che è necessario avere sempre idee nuove, ad effetto ed incisive. Un’impresa creativa che spesso scoraggia i professionisti del settore, i quali perciò ricorrono a qualche trucchetto di plagio, imitando in particolar modo le campagne di successo. Dal 1999, tuttavia non sono tempi facili per la categoria dei fantasiosi dello spot: il sito internet francese Joe la Pompe, infatti, monitora da più di dieci anni tutte le campagne televisive e non, riconoscendo le somiglianze sospette anche a distanze chilometriche: l’obiettivo è infatti quello di indagare e scovare il maggior numero di imitazioni nel mondo delle propaganda.
il sito è diviso per categorie diverse a seconda dei prodotti reclamizzati e riporta i manifesti e i video “incriminati” mettendoli a confronto. Spesso le pubblicità sospette riguardano i medesimi beni da commercializzare, ma in parti del globo molto distanti tra loro, oppure sono riprese da brand affini. Tutti gli esempi sono accompagnati da una doppia spiegazione ironica in lingua inglese e francese, ma il giudizio finale è lasciato all’utente. Basta dare un’occhiata per rendersi conto che alcune delle somiglianze sono davvero troppo ovvie e scontate per non dare nell’occhio.
ironico e sagace, il sito fornisce degli spunti davvero divertenti che aiutano a comprendere anche le tecniche del pubblicitario, professionista che spesso si trasforma in un autentico psicologo e conoscitore delle esigenze dell’utente e del consumatore comune.
sebbene il sito sembri essere costantemente aggiornato, ci sono buone probabilità che qualche spot rubato sia sfuggito al cacciatore di plagi. Gli esempi messi a confronto sono nella maggior parte dei casi sempre in coppia: possibile che non ci sia un terzo professionista del settore che non abbia ripreso alcune di queste idee originali o contraffatte che siano?
una sezione in particolare ospita le pubblicità del tutto uguali uscite nello stesso anno. Proprio questa concomitanza rende molto complicato risalire a quale delle due sia l’originale e quale sia il plagio
Kitchen surfing
A prima vista potrebbe sembrare un blog di cucina, ma le potenzialità di Kitchensurfing non si limitano ad un semplice scambio di ingredienti e trucchetti per migliorare la vostra ricetta.
Si tratta di un sito web all’interno del quale gli chef e appassionati di cucina da tutto il mondo possono creare una propria pagina personale in cui caricare le foto, un profilo descrittivo, le proprie ricette e non solo. Una volta elencate le proprie specialità e manicaretti, è possibile anche offrire la propria manodopera per organizzare cene a domicilio o catering veri e propri. Il meccanismo è semplice: basta registrarsi e fornire delle indicazioni base sul proprio stile di cucina e in quale città si è disposti a lavorare. Non vi resta poi che aspettare la prima prenotazione e il gioco è fatto. Per chi invece è alla ricerca di una idea originale o di uno “chef in affitto” per ovviare alla scarsa dimestichezza in cucina, basta digitare la città e scegliere dall’elenco quello che preferite.
la ricerca all’interno del sito è molto semplice ed intuitiva. Il primo passo è scegliere la città di proprio interesse e poi scrutare l’elenco per trovare lo chef che fa al caso nostro. Si aprirà così una pagina in cui il cuoco ci descriverà il proprio book di ricette, la propria formazione, ci proporrà diversi menù a costi diversi e ci fornirà indicazioni su dove trovare la sua attività, qualora decidessimo di scoprire nuovi locali e ristoranti.
il sito è utile e divertente per quanti amano scoprire nuove tendenze nel campo culinario e sperimentare un piatto prelibato a prezzi modici e contenuti rispetto a quelli del menù del ristorante. Inoltre compreso nel prezzo c’è anche la possibilità di assistere lo chef mentre è al lavoro. Un’occasione da non perdere per rubare qualche idea o trucchetto del mestiere. Un modo originale e partecipativo per essere clienti di un ristorante seduti comodamente a casa propria.
il sito per adesso è conosciuto solo nell’area di New York, città in cui è nato. Il fondatore del sito è uno chef italo americano che possiede un ristorante italiano nella grande mela. Gli chef provenienti da ogni angolo della terra hanno la possibilità di registrarsi nel sito, ma per adesso se volete sperimentare le ricette a domicilio dovreste risiedere al di là dell’Oceano.
le foto sono sicuramente la sezione più suggestiva: anche i meno golosi incontreranno difficoltà a non farsi venire l’acquolina in bocca.
tutti gli chef professionisti e a quanti amano pasticciare in cucina ma non hanno mai avuto il coraggio di farne la propria professione. E a tutti coloro che non sanno rinunciare al buon cibo ma anche ai rapporti interpersonali: perché dietro al vostro piatto preferito nel ristorante che prediligete c’è sicuramente un grande cuoco, che magari potrebbe anche esservi simpatico e diventare un vostro amico
http://www.kitchensurfing.com/