pescespadaziamariaZia Maria era un’aristocratica jonica dall’aria decisamente magnogreca. Cucinava con delicato ingegno: ho imparato questa ricetta, dopo averne sperimentato il gusto sublime in una di quelle case à la Camilleri, tutte trumeaux e boiseries all’ombra del Monte Tauro. Altri tempi, certo, ma la ricetta rimane potente anche nell’universo digitale, oggi diremmo soltanto che è smart. Il pescespada, va detto per cominciare, è considerato autoctono pur essendo migrante; attraversa lo Stretto di Messina in primavera, per deporre le uova lungo la costa nordafricana, e torna indietro ad agosto. Non è un caso che risulti molto più saporito a maggio.

Catturato con la fiocina in un rito quasi mistico e del tutto silenzioso (la canzone di Modugno rimane un pezzo di storia ma durante la pesca non fiata nessuno), il pescespada finisce male quando lo si cucina alla brace o, peggio, sulla piastra, il che lo rende piuttosto stopposo. Muore con molta più dignità in altre cotture, alla ghiotta per esempio, cioè con cipolla, pomodoro, sedano, olive e capperi (un chiodo di garofano non guasta), oppure in forma di involtini, in modo che il ripieno renda il sacrificio più dolce. L’abbia appresa da qualcuno con un patto di omertà culinaria o l’abbia inventata, zia Maria ci regala una ricetta facile, di sicuro effetto e di antica nobiltà.

 

 

 

Ingredienti:

– fettine di pescespada (meglio se conosciuto personalmente e non emerso dalla refrigerazione metropolitana)

– pangrattato

– menta

– capperi

– aceto di vino

– olio

– sale

 

Preparazione:

Le fettine non dovrebbero essere troppo sottili, né troppo spesse. In una teglia rettangolare vanno adagiate su un’ombra d’olio, salate e cosparse da un velo di pangrattato, decorate con capperi (dissalati, ovvio) e foglie di menta fresca, e percorse da un filo d’olio possibilmente timido. L’aceto va messo in una tazzina e spruzzato sul tutto con le dita, senza esagerare. Cottura a bagnomaria, quindi la teglia va coperta, messa dentro una teglia più grande con un suolo d’acqua e cotta a fuoco molto moderato.

 

Da abbinare con:

 

cantimusiche

 

La preparazione è breve ma una volta a tavola si può protrarre il godimento di gusto, vista, olfatto, e tatto (il pescespada di zia Maria si squaglia in bocca) con un adeguato sfondo che accarezzi l’udito: i “Canti della Terra e del Mare di Sicilia” pubblicati nel 1907 da Alberto Favara, al quale si deve anche il “Corpus” delle musiche popolari dell’isola (ne circolano clandestinamente alcuni adattamenti davvero potenti per mano del chitarrista e cantante Eugenio Favano).

 

 

 

 

uominiepesci

 

 

Leggere non si può, soprattutto perché la voce recitante oscurerebbe gemiti e mugolii dei commensali. Ma prima di cominciare, magari durante un primo discreto, si può raccontare la pesca dello xiphias (il nome greco del pescespada) così come argomenta Serge Collet, antropologo francese che ha speso un anno sullo Stretto e raccolto le narrazioni più antiche e le esperienze più disparate nel libro “Uomini e pisci. La caccia al pescespada tra Scilla e Cariddi”, pubblicato a Catania da Maimone nel 1989.

 

 

 

 

vucciria

 

Un dipinto? Certo “La Vuccirìa” di Renato Guttuso, custodita a Palazzo Steri a Palermo, ma anche l’affresco che decora il soffitto del Teatro Vittorio Emanuele di Messina, che per mano dello stesso Guttuso e della sua bottega racconta la storia di Colapesce, un eroe ittico che tuttora regge dal fondo del mare la punta a nord-est della Sicilia, Capo Peloro (così narra la tradizione). In questo affresco si coglie la mescolanza di verdi e blu dello Stretto, quella stessa magnifica ibridazione cromatica che faceva dire a Giovanni Pascoli, più o meno: “Se immergi la mano nello Stretto la tiri fuori dipinta di blu”.

 

 

 

Much_Ado_About_Nothing_9434_Medium

 

Sulle sponde dello Stretto si parla tanto, ma i maligni dicono si faccia molto di meno. Non si “quaglia”, come si dice nel gergo locale. Lo disse e lo scrisse, negli ultimi anni del sedicesimo secolo, William Shakespeare che ambienta proprio a Messina “Much ado about nothing”. Nel 1993 ne ha realizzato un film solare e ammiccante Kenneth Branagh: tra prati e case di pietra (forse poco peloritane) recitano Emma Thompson, Keanu Reeves, Kate Beckinsale, Denzel Washington, Michael Keaton e lo stesso regi-sta.

 

 

 

carricante

 

 

Che cosa bere? Una ricetta così morbida ed elegante chiede lo champagne. Dai contrafforti dell’Etna il solido Benanti ci offre un metodo classico, “Noblesse”, dovuto al vitigno etneo Carricante in purezza e alla sapienza dell’enologo Salvo Foti. Ricco e lungo, sottolinea la sinuosità del pescespada con grande rotondità archetipica di aromi.

 

ZATERLa storia di ogni famiglia si compone dei ricordi e racconti che ciascun componente ha nel proprio cuore: immagini, profumi e sapori impressi nella memoria che sentiamo come preziosi tasselli della nostra esistenza. C’è chi, come Franca Tramontin-Polla, ha preferito condividere questo patrimonio piuttosto che tenerlo per sé.

La sua famiglia, stabilitasi a Soverzene, in provincia di Belluno, ha qui aperto l’”Antica Osteria all’Amicizia”, dove piatti semplici scandivano le giornate dei zattieri del Piave, impegnati a trasportare il legname sulle zattere lungo il fiume.

Le ricette sono state tramandate, come i ricordi, di generazione in generazione, finché Franca non ha deciso di raccoglierle e salvaguardarle dal tempo.

E’ nato così “Al magnar dei Zater”, una collezione non solo di piatti tipici del territorio, ma anche di testimonianze capaci di rievocare la vita delle generazioni passate, che hanno vissuto in simbiosi con il fiume.

I zattieri lasciavano infatti che il Piave scandisse il loro tempo mentre la loro dieta si componeva di ciò che la terra aveva da offrire di stagione in stagione: legumi, erbe officinali, polenta e riso, erano gli ingredienti principali sapientemente lavorati per ottenere cibi semplici ma genuini, che venivano consumati sul posto di lavoro (i campi e le sponde del corso d’acqua) o attorno al “larìn”, il focolare domestico.

Tutto ciò è racchiuso nel ricettario completato da Franca Tramontin-Polla nel 1993 e consegnato al Museo degli Zattieri del Piave di Codissago: in occasione dei 30 anni dello spazio espositivo, il volume è stato ora pubblicato e distribuito affinché contribuisca a far conoscere la storia di questo angolo d’Italia, dal punto di vista culinario, ma anche culturale.

“Al magnar dei Zater”, arricchito da foto e note è infatti molto più che un libro di ricette: sembra più una zattera che lungo il Piave ci riporta agli anni in cui la sveglia era alle 4 di notte e le rape erano il principale rimedio per tosse e bronchite, ma anche in cui ogni ospite veniva accolto con un semplice: “Ciao, sèntete; atu fan?” (“Benvenuto, siediti, hai fame?”) “Quello che c’è in pentola basta per tutti, senza alcuna differenza”.

 

 

POLENTA E BACALA’ (polenta e baccalà)

 

Ingredienti:

1 kg. di baccalà secco

½ kg. di cipolle

2 spicchi d’aglio

2 cucchiai di conserva

Sale e pepe

Strutto o olio

10 acciughe

10 patatine pelate intere

1 buon battuto di prezzemolo

 

Mettere in ammollo per 24 ore in acqua il baccalà, cambiare l’acqua parecchie volte, levare le lische, lasciare il baccalà a pezzi più grandi possibile.
In una padella soffriggere le cipolle con strutto o olio e l’aglio; le cipolle si possono lasciare intere o a piacere tagliarle a fettine, aggiungere i pezzettini di baccalà infarinato, soffriggere a fuoco lento.
Quando il baccalà è soffritto, aggiungere l’acqua necessaria, sale, pepe e la conserva o a piacere pomodoro, le acciughe, le patatine e cucinare a fuoco lento per due ore.
Aggiungere il prezzemolo battuto. Far bollire ancora per 10 minuti e servire con la polenta calda.

 

Per la ricetta della polenta consultate “Al magnar dei Zater” a pagina 10.

 

“Al magnar dei Zater”
La cucina degli zattieri
Franca Tramontin-Polla (a cura di)
pp. 59
Edizioni DBS, euro 8,00

 

 

Il Sole della Sicilia rende unici tutti i prodotti di questa terra meravigliosa, visitata quest’estate in un viaggio itinerante che parte dalla Calabria, tocca Capo Vaticano e continua a Palermo, prima al mercato di Ballarò – dove siamo rapiti da un banco di soli pomodori, distesa di infinita bellezza di datterini rossi – poi al tempio di Segesta, attraversando la Valle dei Templi, per concludersi a Siracusa, in un susseguirsi e alternarsi di visite culturali e gastronomiche e una sosta al U’ Vastiddaru.
È lo stesso Sole che illumina le leggende che hanno ispirato questa ricetta con ingredienti locali, in onore di Zeus.

 

Ingredienti:

150 gr di insalatina verde tipo lattuga

1 cipolla di Tropea

300 gr di pomodori datterini di Sicilia

2 cetrioli

200 gr di Feta

150 gr di olive greche

4 cucchiai di Olio Extravergine d’Oliva

mezzo limone

origano fresco

sale

 

 

 

Preparazione:

È un piatto in cui la freschezza e il sapore dell’insalata è importante, per cui vi suggerisco di uscire presto la mattina e andare al mercato più vicino ad acquistare il cespo di insalata verde che vi piace di più, lattuga o cappuccina.
Lavatela e asciugatela (possibilmente passandola nell’apposito strizza-insalata), poi tagliatela a pezzetti piccoli. Pelate i cetrioli, dopo averli ben lavati, e tagliate ad anelli la cipolla. Snocciolate le olive e unitele alla insalata e ai cetrioli.
Preparate un’emulsione di olio, un pizzico di sale e il succo di limone.
Tagliate la Feta a cubotti e unitela al resto insieme alla cipolla, mescolando il tutto con l’emulsione.

 

Da abbinare con:

Una buona birra, per esempio…

Stelle e strisce

Volume alcolico 3,9%
La Stelle e Strisce è una Golden Ale di Birra del Borgo.

24 K
Volume alcolico 4,6%
Golden Ale del birrificio lombardo Brewfist.

Runa
Volume alcolico 4,8%
Birra base del birrificio Montegioco, che spesso viene utilizzata per successive elaborazioni, ma che non è da sottovalutare “in purezza”.

 

 

 

 

 

 

 

Cosa visitare in particolare?
Luogo suggestivo e carico di storia, il Teatro Greco di Siracusa era lo sfondo di declamazioni oratorie e rappresentazioni teatrali e contribuiva perciò ad animare la vita politica e culturale della città. L’Orecchio di Dionisio, cavità artificiale ricavata dall’estrazione della pietra, è tuttora sede di spettacoli estivi di grande impatto emotivo. A pochi passi dall’uscita della cavità, in direzione dell’anfiteatro, si trova questa bellissima pianta di capperi siciliani, che, appesa al muro a secco, lungo le spaccature della roccia, cattura tutto il sole della Sicilia.

 

 

 

 

 

 

 

Cosa possiamo ammirare mentre degustiamo?

Trovandoci a Siracusa, e avendo visitato il Teatro Greco, non possiamo non rimanere stendhalianamente colpiti dalla forza e dalla vividezza del parto mostruoso della Gorgone ferita da Perseo raffigurato in questa lastra in terracotta (575 a.C. circa) di rivestimento architettonico proveniente dall’Athenaion (Tempio di Atena) di Siracusa e ora conservata al Museo Archeologico Regionale “Paolo Orsi”. La maggior parte delle raffigurazioni delle Gorgoni accosta al corpo la maschera digrignante e la lingua pendente della Gorgone Medusa, insieme ad altri simboli di dinamica energia vitale: tralci di vite, serpenti, spirali e lucertole.
Ma chi erano le Gorgoni? Figlie di Ceto e Forcio, un vecchio dio marino e sorelle delle tre Graie (tre vecchie con un solo occhio e un solo dente, pallide e simili a cigni che sorvegliavano l’accesso alla dimora delle Gorgoni) e, in alcune versioni, delle tre Esperidi (tre fanciulle che custodivano in un giardino l’albero delle mele d’oro), vivevano ad Occidente, vicino alla terra dei morti.
Le Gorgoni erano tre, di cui due immortali (Steno “la forte”, Euriale “la spaziosa”) e una mortale, ovvero la famosissima Medusa, “la dominatrice”.

 

 

 

Il film giusto?

La scelta più scontata a volte è la più avvincente: come non visitare le vestigia della Magna Grecia senza pensare agli dèi e agli eroi che ne hanno animato la tradizione? Come non rivedere “Troy”, per esempio, senza pensare al prode guerriero Ulisse che per tornare alla sua Itaca dopo aver distrutto Troia toccò le coste della Magna Grecia vivendovi avventure straordinarie? E poi è anche un gran bel film, con attori di una bravura immensa: Diane Kruger è perfetta nella sua Elena come lo sarà nel ruolo di Bridget von Hammersmark in “Bastardi senza gloria”; non a caso è considerata la donna più bella del mondo, ma è anche un’attrice formidabile. Per non citare le emozioni contrastanti che riescono a suscitare due giganti come Eric Bana e Brad Pitt, che si fronteggiano nel duello tra Ettore e Achille. Insomma, per respirare la Magna Grecia basta chiudere gli occhi e respirarne i profumi… e poi riaprirli quando inizia il film!

 

 

 

 

 

 

 

 

Cosa leggere all’ombra degli ulivi?

Io ho scelto un libro pubblicato da Mondadori nel 2012, “Il mio nome è Nessuno” di Valerio Massimo Manfredi: è scritto in prima persona e Ulisse si racconta con tutta l’umanità e il coraggio che lo hanno reso il mio eroe preferito. Valerio Massimo Manfredi porta alla luce episodi e personaggi che né Omero né Dante ci hanno raccontato: è il mondo antico quello in cui ci immergiamo in quelle pagine, brulicante di uomini, donne, imprese… Una storia incalzante e inesorabile come il Sole di Sicilia, tempestosa come il mare di Scilla e Cariddi, divina come l’insalata di Zeus!

 

 

 

 

Che musica ho ascoltato durante questo viaggio?

Tanta, tanta… mi piace guidare e cantare: il ricordo più vivido ce l’ho di un momento bellissimo, in cui dopo chilometri e chilometri di asfalto infuocato, una curva mi ha rivelato un panorama bellissimo, un mare blu solcato da tante barchette bianche, il profumo del rosmarino… insomma, un momento di vera e bellissima estate, e la radio trasmetteva “Di sole e d’azzurro” di Giorgia! Il testo era appropriatissimo:

Voglio parlare al tuo cuore

come acqua fresca d’estate

far rifiorire quel buono di noi anche se tu, tu non lo sai

Vorrei illuminarti l’anima

nel blu dei giorni tuoi più fragili, io ci sarò

come una musica,

come (una) domenica di sole e d’azzurro.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=DAXIFF-iDiI]

 

La vicinanza storica, culturale e geografica con la Grecia rappresenta un nodo decisivo per la storia e la cultura della Sicilia anche nella gastronomia: olio e vini sono simboli della cucina di queste terre. Nella mitologia greca, l’olivo è una pianta sacra ad Atena, l’olio è dono di Aristeo, figlio di Apollo, la vite è dono di Dioniso, che dall’Attica portò la prima pianta in… Sicilia!!
Miti e leggende con il sapore delle birre gelate e delle olive greche…
Non potevamo non preparare un’insalata dedicata a Zeus… in fondo, non siamo poi così sicuri che a Zeus veniva offerto solo il nettare degli Dei: chissà, magari ogni tanto anche un calice di birra!
Assaggiamo “goduriosi” il primo boccone di Feta e cipolla tagliata alla julienne, mentre la nostre ospite e filosofa Mariarita inizia il suo racconto:
“Sapevate che l’olio d’oliva greca era ampiamente usato come cosmetico da Era? La moglie di Zeus lo usava nei suoi vari tentativi di sedurlo. Bianchissima e piacevolmente salata, la Feta vanta origini riconducibili a Polifemo e a Ulisse che mentre scappa dalla grotta del Ciclope si aggrappa al caprone, il cui stomaco era utilizzato da Polifemo come otre per cagliare il formaggio…”.

Il nostro abbinamento brassicolo preferito: Runa

Della Stella e Strisce ci piaceva la definizione data dal birrificio: “perfetta per i mesi caldi, ci fa venire in mente le spiagge di San Diego o i boulevard di Los Angeles. Ma potete berla anche a Capocotta!”.
Cosa c’è di meglio per accompagnare i sapori e il calore di una spiaggia greca?
Ottima bevuta, anche se la 24K ci soddisfa per un amaro più delicato e meno maltato.
La Runa, con la sua leggiadria – come dice la nostra commensale di questa sera “è una birra per sottrazione” – manca di qualcosa, e in effetti le spieghiamo che viene utilizzata per successive elaborazioni.
Ma anche in purezza per la sua semplicità accompagna alla perfezione un’insalata leggera arricchita con il tocco di sapidità dato dal formaggio greco Feta.

 

 

 

Tra Scilla e Cariddi si cucina tanto e si parla in continuazione di pietanze, pranzi e cose conviviali. Buon segno? Chissà. Sicuramente sulla sponda siciliana, all’ombra di una pineta enorme e protetti dalla falce del porto, si trovano ricette semplici ma di grande effetto. Tra i piatti più amati dai messinesi brillano gli involtini di carne, che sotto la mera etichetta di “braciole” rivelano l’intelligenza della cucina povera. Pochi ingredienti, un po’ di maestria nella preparazione, e possibilmente un rudimentale barbecue (nell’idioma locale “u fucuni”) per mescolare il sapore della carbonella con il ventaglio dei blu che affrescano il mare dello Stretto. Gli involtini sono ben più che una pietanza. Molte infanzie, adolescenze ed età mature sono state segnate dalle “braciolate” settembrine in campagna, a suggellare un’estate in uscita e affrontare con la giusta energia il ritorno in città.

 

Ingredienti:

Gli ingredienti non si possono misurare, qui conta l’occhio e la mano dell’artefice. Servono poche cose: fettine di carne (manzo o vitella, ma ci si avventura anche con il maiale, che non sbaglia un colpo), pangrattato, pecorino grattugiato, olio in quantità, un tocco di caciocavallo ragusano. La cosa ha i suoi profili rituali. La carne va tagliata a fettine minime e battuta con decisione in modo da sfibrarla e renderla tenera. In una ciotola si mescolino pangrattato, pecorino e olio fino a ottenere un ripieno non più secco ma non ancora troppo umido. La cosa si può arricchire con degli atomi di aglio e qualche brandello di prezzemolo, e naturalmente è il caso di non lesinare il sale. Questo basta, anche se non manca chi aggiunge pezzetti di pomodoro, prosciutto cotto e quant’altro, violando di fatto la logica della pietanza.

 

La preparazione:

Stendere una fettina, passarci sopra le dita oliate, deporre un gruzzolo di ripieno, mettere un tocco di caciocavallo e arrotolare. Per la riuscita occorre piegare i bordi a tasca mentre si arrotola: il pollice e l’indice fanno girare la fettina, il medio piega il bordo verso l’interno, l’effetto è un involtino opportunamente capace di proteggere il proprio ripieno dalla forza di gravità. Infilare ogni involtino in uno spiedino di legno, alternandola con una foglia di alloro o con una fettina di cipolla bianca, che daranno un supplemento di sapore anche grazie alla brace.

 

Da abbinare con:

Mentre si preparano gli involtini si chiacchiera e si scherza. La musica da ascoltare è vintage ma infallibile: quel calderone di melodie e ritmi prodotto negli anni Ottanta dai “Kunsertu”, un gruppo che anticipava di almeno dieci anni forme e stili di un sincreti-smo radicato nella storia e capace di guardare lontano.

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=kten-5l-c10?rel=0]

 

Se si dispone di un amico dalla voce soave gli si può chiedere di leggere dei versi di Pascoli, che a Messina trascorse i migliori anni della sua vita (lo scrisse con chiarezza una volta tornato in Garfagnana): “La luna s’è levata dal monte. Le acque ondeggiano sotto il chiarore. Una vela. Come una vela? Non è il Serchio, è lo Stretto. E quel monte è l’Aspromonte. Quel lido ebbe primo di tutti il nome d’Italia. E il campaniletto di San Nicolò? Quella è la lanterna del Faro … Nel cielo illuminato tintinnano tetracordi ed eptacordi” (prefazione ai Poemetti, 1900).

 

Il dipinto è inevitabilmente il ritratto di ignoto di Antonello da Messina, che ammicca enigmaticamente ai visitatori del Museo Mandralisca di Cefalù. Ci ha scritto Consolo nel “Sorriso dell’ignoto marinaio” che può far bene rileggere mentre si digeriscono gli involtini (di norma se ne mangia un numero biblico e spesso inconfessabile). Volendo accentuare le assonanze fisiognomiche si può andare al Museo Regionale di Messina e riconoscere le espressioni locali nel magnifico Polittico di San Gregorio, che “Antonellus messanensis pinxit” come recita il cartiglio dipinto ai piedi di Maria.

 

 

 

Volendo rimettersi la coscienza a posto si può vedere un film tutto messinese, quel “La gentilezza del tocco” di Francesco Calogero che ha vinto insieme a “Mignon deve partire” la prima edizione del Premio Sacher. Storia ambientata tra città e campagna, fatta di equivoci un po’ francesi (à la Eric Rohmer) e di ironie molto sicule.

Ah, il vino non può che essere il grandioso “Rosso del Soprano” prodotto sulle colline messinesi da Geraci. Fratello minore del più blasonato “Palari” ha il vantaggio di non essere stato rinchiuso in barrique, ne guadagna il sapore rotondo ma con qualche mini-ma asprezza verace. Il vitigno è ovviamente un Faro D.O.C.

 

La cucina come identità culturale sembra essere una conquista, non una prerogativa, della globalizzazione: per ogni nuova contaminazione si accende un altro legame con la tradizione, o qualche scaramuccia da terza pagina.
Identità in cucina è sempre individuale, perché legata a ricordi e sensazioni, immersi in un orizzonte grande quanto la memoria di ciascuno; ed anche per questi motivi può essere identica ad altre o solo a se stessa, anche se l’oggetto che produce – il cibo- è immediatamente e universalmente riconoscibile. E questo, per me, è il vero miracolo dell’arte in cucina, identico – appunto- ad ogni altra arte.
La ricetta che ho scelto è un classico, ma l’ho sempre considerata una contaminazione rivoluzionaria e stupefacente, identifica una cucina locale (quella della Lunigiana), ma ogni volta che l’ho proposta al di fuori della mia terra ha creato dubbi sulla sua origine: un gioco che mi diverte.

Ingredienti per quattro persone:
1 kg di vongole
3 funghi porcini circa 200 gr (o un cucchiaio di funghi secchi)
un mazzetto di prezzemolo
2 spicchi di aglio
un bicchiere di vino bianco secco
sale pepe e olio evo
400 gr di spaghettoni alla chitarra

Preparazione:
Preparare un trito con aglio e prezzemolo, e dividerlo in due metà; una prima la utilizziamo con le vongole: in una padella farlo soffriggere con due cucchiai di olio e metà vino, aggiungere le vongole pulite e farle aprire a fuoco medio coperte (circa 8’); sgusciarle, tenendone qualcuna per la decorazione.
La seconda metà del battuto la utilizziamo per cuocere i funghi: metterlo in una padella con due cucchiai di olio e il resto del vino, appena soffrigge aggiungere i funghi tagliati a lamelle e cuocere a fuoco medio per 12’.
Aggiungere le vongole sgusciate alla padella dei funghi e scaldare per 3’ a fuoco vivo, aggiungendo se serve poca acqua e correggendo di sale e pepe.
Cuocere gli spaghetti in abbondante acqua salata, scolarli e farli saltare in padella; impiattare aggiungendo qualcuna delle vongole non sgusciate.

Il gioco dell’identità è diventato gioco di doppi: due padelle, due cotture come due sentieri che partono divisi e poi si incrociano; sul filo di questa idea ho tentato di trovare le giuste associazioni per creare un cortocircuito mentale che spero qualcuno possa condividere e gustare.
Luis Sepulveda ha scritto libri bellissimi, ma questo è il mio preferito: perché mi ha insegnato che chi insegue e chi fugge possono essere la stessa cosa, o meglio le due uscite dello stesso tunnel, e perché la Terra del Fuoco è il non luogo perfetto per ogni scrittore, dopo Chatwin.

 

Il “Ritratto di Papa Innocenzo X” di Velazquez, è un esempio di identità famose catturate da pittori geniali: il potere con tutti i suoi paramenti, ma anche personalità prigioniere di un ruolo; le stoffe, ricche e bellissime, dipinte anche con le loro piccole smagliature, il tempo che passa identico nel quadro come nella realtà. Il quadro verrà ripreso, altrettanto magistralmente, da F. Bacon che ne eseguì diversi studi estremizzando il conflitto interiore del personaggio.

 

 

 

 

Ho perso il conto di quante volte ho guardato questa scena, tutto perfetto: lei –bellissima- che fa un gesto così semplice e così americano, in un vestito per niente semplice né americano, in una New York deserta alle sei di mattina (che diventerà sogno in “vanilla sky”). Colazione da Tiffany è un film sugli stereotipi: l’uomo e la donna, come sono e come la società li vorrebbe; incontri, silenzi ed abbandoni perché l’identità di ciascuno possa realizzarsi (o fingere di esserlo).

 


Se ogni impresa inizia sempre con un piccolo passo, il cammino di Santiago è la cura per chi è in cerca di una identità spirituale, una pace, un obbiettivo da raggiungere; e poi lì, vicino a Santiago, c’è Finisterre per chi vuole affacciarsi e vedere cosa ci sia oltre la fine del mondo.

 

 

 

Alle volte bellezza e grandezza di una canzone si vedono dalle cover, quelle belle, che non vogliono essere identiche agli originali, qui ci sono parecchi begli esempi … la mia preferita è quella di smells like teen spirit.

 

Se volete sperimentare tipi di cucina diversi, che spazino dai piatti di mare a quelli tipici della tradizione montana, la Sardegna offre una varietà di ricette tradizionali che riflettono la sua lunga storia, fatta di commistione tra cultura pastorizia del verde ed isolato entroterra e la sapienza dei pescatori che affrontano il mare aperto.

Ogni zona conserva e tramanda il suo piatto tradizionale a seconda delle attività portate avanti dagli abitanti dei paesini che si sono sviluppati nelle aree rurali o a ridosso degli sbocchi sul Mediterraneo. La gastronomia è lo specchio di una storia fatta da popolazioni diverse che si sono succedute nel tempo e che hanno lasciato la loro influenza a livello dialettale, fisionomico ed enogastronomico. Che siate amanti del pesce o non possiate fare a meno della buona carne, spostandovi nella variegata regione troverete sicuramente quello che fa per voi.

Partendo da Cagliari, città castello che è cresciuta a ridosso del golfo degli Angeli, potrete gustare gli spaghetti conditi con la bottarga, uova di muggine grattugiate che conferiscono alla pasta un sapore salato molto particolare. Se volete invece rimanere sul tradizionale, nella stessa città non è difficile trovare un’ottima pasta ai ricci di mare. In genere quest’ultima specialità viene gustata d’inverno, periodo in cui i ricci vengono pescati, ma in diversi ristoranti il condimento viene conservato in barattoli sigillati che ne preservano il sapore in vista del periodo estivo. Se avete in programma una passeggiata sul lungomare del Poetto durante i mesi invernali potrete incontrare pescatori che puliscono i ricci appena pescati e, con un po’ di fortuna, potrete assaggiarli o acquistarli direttamente sul posto freschi senza alcun tipo di condimento aggiunto.  Sino a poco tempo fa, a ridosso della spiaggia, procedendo verso il comune di Quartu Sant’Elena erano presenti diversi chioschi dove con prezzi ragionevoli si ordinavano piatti di pasta alla bottarga e ai ricci, ma oggi questi ristorantini un po’ rustici e casarecci sul lungomare non esistono più. Girando per la città non è, tuttavia, difficile trovare un posto dove gustare queste pietanze: tra questi c’è il ristorante Da Cesare, dove si può gustare un buon menù di pesce a prezzi contenuti. Oppure se siete alla ricerca di un posto senza troppe pretese potete visitare la locanda La Balena, in un quartiere un po’ decentrato e periferico.

Sempre rimanendo in tema di pesce, ma passando ai secondi piatti, dovete spostarvi nel nord della regione, nella cittadina roccaforte di Alghero, dove sono forti le influenze della dominazione spagnola. Qui il piatto forte è infatti l’aragosta alla catalana, condita semplicemente con olio, sale, pepe e servita con pomodori e cipolle. Nelle stradine dalla doppia dicitura, italiana e catalana, potrete trovare diversi posti dove gustarla, tra cui il ristorante Mabrouk, dove il menù è tutto a base di pesce. Se siete nei pressi della cittadina, ma preferite pietanze a base di carne, spostandovi nell’entroterra visitate l’azienda agrituristica Sa Mandra, dove i prodotti della tradizione locale possono essere degustati ma anche acquistati e portati con sé: tra questi i numerosi formaggi lavorati secondo la tradizione pastorizia e il pane carasau cotto a legna, che viene servito come pane guttiau, ovvero già condito con l’olio.

Se volete provare il piatto di carne più diffuso, il porceddu, il maialetto cotto allo spiedo, nella terra o nel caminetto e aromatizzato al mirto, dovete sempre continuare l’itinerario tra i boschi e i paesini di montagna e cercare i numerosi agriturismi tradizionali a conduzione famigliare. Tra questi in provincia di Nuoro, a Dorgali c’è l’agriturismo Su Cuile oppure l’agriturismo Guparza, che prende il nome dalla località in cui sorge nei pressi del suggestivo paesino di Posada. Per assaggiare invece i malloreddus alla campidanese, degli gnocchetti con impasto allo zafferano conditi con sugo di salciccia, dovete cercare un agriturismo situato nel sud dell’isola. Uno di questi si trova proprio tra le tappe di uno dei trenini verdi che attraversano la regione. Si tratta dell’agriturismo Furfullanu, nel paesino di Nurallao. Se sono presenti nel menù richiedete anche un assaggio dei Culurgiones tipici ravioli rotondi ripieni di ricotta e menta.

Una zona incosueta della Sardegna è l’isolotto di San Pietro, nella costa occidentale. Qui la cittadina di Carloforte è stata per diversi anni sotto la dominazione genovese, che si riscontra nelle diffusissime trofie al pesto, un tipo di pasta che ricorda i sapori e le abitudini liguri più che quelle autoctone. Una manifestazione enogastronomica molto importante per i pescatori della zona si svolge tra fine maggio e inizio giugno: si tratta della tonnara o Girotonno di Carloforte. Uno dei ristoranti in cui potrete gustare le specialità dell’isolotto dal sapore ligure è l’Osteria della Tonnara, in cui pesto e tonno sono anche mescolati per una pasta al forno alla carlofortina.

Ad Assemini invece il piatto tipico è un timballo ripieno di carne di agnello o di anguille in umido. Si tratta di una torta salata detta Panada la quale nel sud dell’isola è servita in porzioni molto grandi, mentre al nord sono cucinati come una sorta di assaggini più piccoli.

Una specialità tipica della Sardegna sono,  inoltre, i numerosi dolci tradizionali. Il più famoso tra questi è la Seadas o Sebadas, a seconda del luogo in cui vi trovate. Si tratta di una pasta non lievitata ripiena di formaggio che viene fritta nell’olio bollente e servita con sopra il miele e lo zucchero. Il piacere di mangiare questo piatto sta proprio nel contrasto tra il salato del ripieno e il dolce del condimento. Uno dei posti migliori dove trovare la seadas realizzata in modo artigianale è l’agriturismo Araxi e Mari, nel borgo di Castiadas, nell’entroterra a pochi chilometri dalla nota località di mare Villasimius, nella costa sud orientale dell’isola.

Da una parte all’altra della regione quindi le possibilità per assaggiare piatti tradizionali e genuini sicuramente non mancano. Non vi resta che armarvi di cartina e iniziare a girare per trovare il vostro piatto preferito e scoprire quanto è variegata una terra in cui le tradizioni culinarie si sono conservate intatte tuttora .

Buon viaggio quindi e soprattutto buon appetito!

 

 

 

Ingredienti:

Per il ripieno
200 g di ricotta di bufala
150 g di yogurt bianco
200 g di panna semimontata
170 g di zucchero semolato
3 uova codice 0
1 limone non trattato

Per la pasta frolla
100 g di farina gialla fioretto
200 g di farina 00
150 g di burro ammorbidito
150 g di zucchero di canna
scorza grattugiata di 1 limone
1 uovo codice 0
1 cucchiaino di estratto di vaniglia (facoltativo)
1 pizzico di sale

Per decorare
12 fichi
mandorle a lamelle
zucchero a velo
3 cucchiai di zucchero di canna

Preparazione:
Lavorate brevemente gli ingredienti della pasta frolla e amalgamate l’impasto fino a formare una palla. Stendetela tra due fogli di carta da forno e mettete a riposare in frigorifero il tempo necessario a preparare il ripieno.
In una terrina mescolate la ricotta, lo yogurt, la panna semi-montata e lo zucchero fino a ottenere un composto liscio ed omogeneo. Inserite le uova una alla volta e mescolate accuratamente. Aggiungete la scorza grattata di un limone non trattato.
Stendete la pasta frolla ad uno spessore di 5 mm (deve essere abbastanza sottile da permettere una cottura omogenea). Ricoprite il fondo e i bordi di una tortiera di 28 cm, imburrata e infarinata. Bucherellate la pasta frolla e versate il composto di ricotta al suo interno.
Infornate a un’altezza medio – bassa a 170° per 45 minuti, coprite con un foglio di alluminio e proseguite la cottura per altri 15 minuti.
Nel frattempo tagliate i fichi in quattro e lasciate marinare con 3 cucchiai di zucchero si canna. Disponeteli in cerchi concentrici sulla torta facendo affondare la punta nella crema, e proseguite la cottura per altri 15 minuti circa. Sfornate la crostata, spolverizzatela con zucchero a velo e servite tiepida o fredda.
Conservate in frigorifero.

 

Da abbinare con…

Chi non ha mai sentito l’esclamazione “Mica pizza e fichi!”
Un modo di dire che esalta il valore di qualcosa rispetto alla semplicità di questo cibo povero, di memoria contadina, che per me, invece, è pregno di ricordi ed è associato alla merenda che da bambina in assoluto amavo più di tutte. Porta con sé il ricordo delle estati in campagna, dove arrampicati sulle scale e direttamente dall’albero, facevamo incetta, noi bambini, di questo frutto delizioso, accompagnandolo con la pizza calda del fornaio del paese. Una sorta di remind istintuale innescato dalle “mie” madeleins proustiane, che evocano involontariamente un ricordo alogico, incentrato sul cuore e sull’emozione.
Nell’evoluzione di questo ricordo e di pari passo con la mia passione adulta per i dolci, ho sposato felicemente i fichi con la pasta frolla, il mio cavallo di battaglia, per cui solo questa sarebbe potuta assurgere agli onori e sostituire con dignità la pizza fumante di allora, senza peraltro sfigurare.

 

 

Questo dolce, anch’esso di ‘fattura’ contadina per la presenza insolita del formaggio, mi piace abbinarlo per assonanza al film “Un’ottima annata” di Ridley Scott con Russell Crowe. Qui, per un meccanismo circolare dei ricordi dell’infanzia, il cinico e ricco uomo d’affari Max, ritorna in contatto con il suo Sé migliore, legato alla fanciullezza trascorsa nella campagna in Provenza, con lo zio saggio e amante della vita. Il “Fanciullino pascoliano” fa capolino con le sue “lagrime e tripudi” e fa sì che Max torni in contatto con la sua parte sensibile ed emotiva nel relazionarsi con il mondo esterno. Cosicché tornando nei luoghi del “suo fanciullino”, Max si re-innamorerà di una bellissima Marion Cotillard, conosciuta quando erano bambini, e darà un impulso definitivo alla sua vita: scegliendo la campagna e l’amore, producendo vino nelle sue terre come avrebbe voluto suo zio Henry.

 

Nel film è ben visibile un quadro che tra tanti rievoca in me tutte queste emozioni insieme: è il quadro di Van Gogh “Strada con cipressi e cielo stellato”, nel quale il pittore rappresenta una congiunzione dei pianeti Mercurio e Venere, avvenuta una notte del 1820, stagliati sul fondo dei cipressi. La campagna, ancora, e la natura sono qui per me rappresentative di uno stato di grazia legato alle emozioni della fanciullezza.

 

 

 

 

 

 

 

Quindi poter idealmente passeggiare per quei sentieri ascoltando una qualsiasi delle musiche dei Sigur Ròs, i quattro folletti islandesi, che aprono il cuore alle emozioni e ai pensieri in modo inconsapevole e direi quasi terapeutico, sarebbe per me l’assioma perfetto di un momento perfetto. Quello ‘stato di flow’ che si attribuisce agli atleti o a chi fa attività immerso nella natura, in cui il flusso delle emozioni sgorga armonicamente con il resto che li circonda. Quando i loro brani non sono strumentali, cantano in islandese o in Hopelandic, una lingua inventata, che ancor più aggiunge magia, se possibile, all’uso quasi celestiale che fanno degli strumenti: uno su tutti vorrei citare il capolavoro Agaetis Byrjun.

 

 

 

 

Per chiudere questo cerchio magico la città che sento mia per elezione, va da sé, è Reykjavik, come espressione di una ‘natura quasi soprannaturale’, dove le aurore boreali e i paesaggi, che sembrano provenire da antiche favole nordiche, mi conducono per mano in un viaggio sensoriale ed emotivo pari solo alla Musica.

 

 

 

 

 

“È come se le note musicali creassero una specie di parentesi temporale, una sospensione, un altrove in questo luogo… un sempre nel mai. Si, proprio così, un sempre nel mai”.
Da “L’eleganza del Riccio” di Muriel Barbery.