Culture21 srl – Gruppo Monti&Taft Ltd
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Durante la presentazione delle statistiche sull’attività di spettacolo relative ai primi sei mesi del 2013, il direttore generale della SIAE Gaetano Blandini ha colto l’occasione per parlare di diversi temi scottanti del settore, quali le conseguenze derivanti dalla legge di stabilità, il regolamento dell’Agcom contro la pirateria on line e, immancabile, la spinosa questione del Teatro Valle Occupato, ora trasformato in Fondazione. La SIAE come l’AGIS da sempre ritengono che nel palco capitolino permanga una “situazione di illegalità e di alterazione della concorrenza”, sebbene in molti, tra cui il nostro editorialista Gioacchino De Chirico, abbiano accolto la neonata Fondazione Teatro Valle Bene Comune come un importante traguardo.
Sul tema abbiamo voluto interpellare una voce super partes, rivolgendo alcune domande ad un esperto in materia di economia della cultura, qual è il Professore Michele Trimarchi. Questa la sua analisi sul “fenomeno Valle”.
E’ nata la Fondazione Teatro Valle Bene Comune. Cosa è cambiato rispetto a prima?
Dalla fine del modello ETI alla nascita della Fondazione sono cambiate molte cose: lo spiazzamento, l’occupazione, una partecipazione intensa di artisti e di pubblico, un’inedita attenzione intellettuale. La prospettiva, tuttavia, è che le cose tornino più o meno com’erano prima, con un teatro che produce poco e distribuisce molto nell’ambito di un circuito commerciale sostenuto da fondi pubblici, e con processi decisionali che in poco tempo sostituiranno la condivisione assembleare e lo spontaneismo con dei protocolli convenzionali.
Ci saranno novità per il pubblico? Quali?
Per il pubblico le cose cambiano soltanto se cambia la varietà e la qualità della programmazione teatrale, e anche se agli spettacoli si associano sistematicamente ulteriori e più ampie opzioni artistiche. Si tratta di cose che vanno progettate con acutezza e che dipendono dalla capacità di coniugare le strategie gestionali e gli orientamenti artistici.
Ci indichi un aspetto positivo ed uno negativo presenti nello statuto della neonata Fondazione.
Lo Statuto è portatore di un indirizzo politico ben chiaro, e contiene molteplici vincoli e divieti. La sua effettiva caratura si potrà comprendere solo nel corso del tempo, quando cioè le attività di ogni giorno dovranno fare i conti con la rotazione obbligatoria delle cariche sociali, con l’unanimità indispensabile nelle prime due riunioni per ogni decisione, con l’equalizzazione delle posizioni, con il ruolo quasi ancillare delle attività teatrali rispetto alla vocazione politica. E’ uno Statuto ricco di principi molti belli e di intenzioni positive e trasparenti. Lo erano anche le Tavole della Legge.
SIAE e AGIS contestano l’illegalità del Valle. Hanno ragione? Perché?
L’occupazione di uno spazio da parte di persone diverse dai suoi proprietari non può essere definita legale. In momenti complessi come quello che stiamo attraversando lo scontro tra formalismi rigidi e spontaneismi che si giustificano da sé non può sorprendere. Quando le regole del gioco finiscono per mummificare un sistema il desiderio e il bisogno di superarne le strettoie emergono naturaliter. Di norma le rivoluzioni non generano un mondo migliore, ma solo un mondo diverso; ad alcuni appare irrinunciabile, ad altri nefasto, anche questo accade ogni volta.
Ritiene che questo “modello” sia sostenibile a lungo termine? Come?
Un modello non può essere sostenibile o fallimentare, la realtà sì. Lasciamo che la Fondazione cominci a funzionare, e si vedrà quali intuizioni risulteranno praticabili, e quali illusorie. Regole forti possono non piacere, ma se ben concepite possono arginare i problemi generati dalle dinamiche umane; il modello adottato dalla Fondazione combina processi di partecipazione che richiedono grande senso di responsabilità e griglie piuttosto rigide che probabilmente dovranno essere gestite con qualche flessibilità. Solo nel corso degli anni si potrà comprendere la sostenibilità del progetto.
E’ un esperimento replicabile? Se tutti gli spazi occupati seguissero il medesimo iter, cosa accadrebbe?
L’occupazione degli spazi in tutto il mondo è il risultato di molteplici ed eterogenee motivazioni, di solito condivisibili e in alcuni casi addirittura drammatiche. Ma quasi mai è assistita o originata (come sarebbe ragionevole) da una strategia orientata a costruire un reticolo di scelte e azioni che superino il passato evitandone fragilità e sbagli. Che molta comprensibile rabbia serpeggi e si diffonda è nella logica delle cose, dopo due secoli abbondanti di un paradigma aggressivo e frettoloso, la pars destruens è ben chiara.
Discontinuità: è la parola chiave per comprendere l’andamento e l’esito finale delle elezioni per il comune di Roma, nel giugno del 2013. Il risultato ha parlato chiaro. Discontinuità, nei confronti degli anni disastrosi della giunta Alemanno, non votato neanche dagli elettori di centrodestra. Discontinuità, anche verso le ultime esperienze delle giunte di centrosinistra che, pur avendo non avendo fatto male in molti ambiti, sono indissolubilmente legate a una fase storica ormai definitivamente trascorsa.
La candidatura di Ignazio Marino ha rappresentato proprio questo: discontinuità. Un outsider lontano dalle diatribe interne al PD, interno a una cultura di sinistra e disponibile a occuparsi di questioni cruciali della vita cittadina anche schierandosi contro poteri fortemente consolidati.
Sulle politiche culturali, in particolare, il tema della discontinuità ha assunto una rilevanza significativa. Nei fatti, non solo la giunta Alemanno è stata messa duramente sotto accusa, ma lo sono state anche le politiche nazionali dei governi di centrodestra e delle larghe intese che proprio sulla cultura si sono abbattute con una veemenza degna di altre cause.
Roma è stata la città che ha pagato il prezzo più alto di queste scelte. Ma è stata una città che ha reagito, ha tentato di resistere e si è organizzata combattendo questa deriva che tutti sanno poter comportare dei costi altissimi per la partecipazione critica dei cittadini e per la vita democratica.
Oggi vediamo che la stessa forte spinta dal basso che ha portato all’elezione di questa maggioranza al Comune di Roma, si stia tramutando comprensibilmente in una forte pressione in termini di aspettative di cambiamento. A questa pressione se ne aggiungono altre: le difficoltà economiche e finanziarie della crisi attuale; gli attacchi e le polemiche di chi pensava di “contare di più” in una logica vecchia che la giunta attuale non vuole condividere e, naturalmente, le bordate mediatiche di chi è stato abituato a fare sempre il bello e il cattivo tempo nella città. Insomma: c’è di che preoccuparsi e non dormire sonni tranquilli.
La nomina di Flavia Barca alla guida dell’assessorato alla cultura, per molti aspetti ha rappresentato uno degli esiti della spinta alla discontinuità. Sarebbe sbagliato definirla “un tecnico”, nonostante la sua serietà e le sue competenze. Piuttosto si tratta di una “indipendente” saldamente ancorata all’interno di una cultura politica di sinistra con una rete qualificata di contatti nel mondo degli studi e della ricerca, in Italia e all’estero.
Dopo un periodo di assestamento, l’assessore Barca si è impegnata in un’agenda fittissima di incontri con gli operatori del settore. Ora arriva il momento dei segnali concreti anticipati da dichiarazioni di intenti chiari e forti.
Barca vuole cambiare metodi di governo nella cultura a Roma: bandi e concorsi per le nomine e trasparenza nella gestione. Tra non molto sarà la volta della sovrintendenza e la vedremo alla prova.
Vuole valorizzare il patrimonio archeologico e museale. Per questo sembra voglia allargare il campo agli investitori stranieri e privati. Cosa buona solo se la governance pubblica mantiene chiara la definizione di quei beni che sono e devono rimanere comuni e non essere privatizzati. Men che mai svenduti per usi privati, spesso impropri. Servono ai cittadini romani, italiani e di tutto il mondo. Appartengono a loro.
Ha dichiarato di voler implementare le politiche di decentramento coinvolgendo i Municipi e utilizzando il sistema delle biblioteche pubbliche come presidi culturali sui territori. E per questo ha voluto ridisporre dei fondi che Alemanno aveva fatto tagliare.
Si dichiara interessata a valorizzare i talenti sul territorio romano.
Infine, e non in ultima istanza, come ha recente dichiarato a un quotidiano, vuole occuparsi della domanda di cultura devastata in qualità e quantità negli ultimi vent’anni.
Grandi ambizioni. Non certo realizzabili nel ciclo di pochi mesi. Ma non è questo che le si chiede. Le si chiede piuttosto di assumere da subito il ruolo di indirizzo che le compete.
Di non perdersi nel balletto e nelle polemiche in cui sicuramente la costringeranno i media romani che vorranno parlare solo di nomine e di fondi. Insomma le si chiede di decidere.
Nulla potrà essere perfetto. Anche i bandi, in alcuni casi, potrebbero contenere in sé il morbo del disimpegno da parte dell’amministratore pubblico. E i fondi saranno comunque insufficienti. Ma ci sono gli spazi inutilizzati da mettere a disposizione. C’è da dare nuovo ossigeno alla cultura del contemporaneo. C’è da ripensare l’estate romana. C’è da ragionare sulla miriade di piccoli editori e sul circuito delle librerie indipendenti. C’è tanto altro ancora.
A Roma ci sono le risorse umane e intellettuali per costruire un sistema di collaborazioni che valorizzi la città nella direzione del recupero dello spazio pubblico, del bene condiviso secondo una chiara gerarchia di valori. Che sia consapevole che la cultura rappresenti un formidabile volano dell’economia e della vita sociale.
Certamente occorrono idee e progetti e occorre l’Europa. Ma occorre soprattutto costruire un’alleanza con chi in questi anni ha lottato per affermare la centralità delle politiche culturali nella vita della città; con chi opera e ha operato per dare alla gestione dei beni culturali quelle caratteristiche di razionalità, efficienza e trasparenza nella gestione, e quella reputazione necessari per vivere e crescere anche sul piano economico. Insieme sarà possibile farcela.
Gioacchino De Chirico è un giornalista culturale ed esperto di comunicazione
In senso comune, non artistico, per restauro s’intende l’intervento che rimette in efficienza un prodotto dell’attività umana, e in questo caso i restauratori della fontana del Tritone hanno preso troppo a cuore tale principio. Infatti la possente divinità marina sembra uscita ora dallo scalpello dello scultore.
Questo assolutamente è inaccettabile in ambito artistico, una condizione simile farebbe rigirare nella tomba Cesare Brandi, luminare del ‘900 in materia di restauro.
Uno dei principi fondamentali della teoria brandiana recita: “Il restauro deve mirare al ristabilimento dell’opera senza cancellare ogni traccia del passaggio dell’opera d’arte nel tempo.
È l’opera d’arte che condiziona il restauro e non l’opposto.
L’opera infatti ha una valenza storica come prodotto umano realizzato in un certo tempo e luogo”.
In altre parole quando si restaura un’opera d’arte si deve rispettare l’artisticità, il messaggio che ci trasmette e soprattutto il passaggio del tempo su di essa.
Se sono passati quasi 400 anni dalla realizzazione è giusto che gli effetti si vedano perché essi stessi sono diventati parte integrante del monumento.
La patina, cioè quell’azione di invecchiamento naturale che si forma col passare del tempo su di un’opera che si trova in uno spazio aperto deve essere in parte mantenuta e in parte rimossa. Va rimosso solo ciò che impedisce la lettura e mai bisogna arrivare alla crudezza della materia. Esiste un punto oltre il quale il restauro non può andare perché significherebbe cancellare l’azione del tempo che è parte sostanziale e fattore tenuto in considerazione dall’autore nel momento della progettazione.
L’intervento prevedeva la disinfezione della superficie e la rimozione delle particelle biologiche e calcaree, ma qui si è andati ben oltre tale limite riportando in vista la crudezza e il candore del travertino.
Sono contrario ad interventi di restauro così radicali.
Samuel Marcuccio è curatore e critico d’arte
Facciamo finta che il resto del mondo non esista, altrimenti ci mettiamo a singhiozzare subito. Glissiamo con eleganza su una serie di questioni che rivelano piccoli cervelli, grandi vigliaccherie e il consueto non detto ma sottinteso. Nella nostra sempre più triste provincia dell’impero tutto è un gioco di sotterfugi e allusioni, quando non di silenzi imbarazzati. Qualcuno prima o poi si arrabbia davvero.
Formalmente si tratta di un semplice passaggio di consegne di natura burocratica: il MACRO viene posto sotto le competenze del Dipartimento Cultura del Comune di Roma e sottratto alla giurisdizione della Soprintendenza che ne portava finora la responsabilità. Sostanzialmente siamo di fronte all’ennesimo gioco di prestigio all’italiana: una struttura molteplice, funzionale e bella, oggetto di interesse e di passione da parte di un’audience non soltanto romana, più volte al centro di ipotesi strategiche e gestionali cosmopolite e dinamiche, diventa ufficio periferico della pubblica amministrazione, rinunciando a qualsiasi orientamento culturale (le parole hanno un significato, e non è il caso di indulgere in attribuzioni improprie) e accettando di languire stancamente come spazio espositivo neutrale e asettico. Chi trova i fondi può organizzarci una mostra, o qualsiasi altra cosa che non comporti una spesa da parte dell’amministrazione municipale.
Non cadiamo nella trappola delle colpe: non tocca mai al cronista imbastire processi sommari. Usando un minimo di memoria e di ragionevolezza ci appaiono evidenti le patologie ormai incancrenite che attraversano l’Italia, basti pensare ai centri culturali aperti per ogni dove con spesa milionaria, resuscitando edifici industriali o palazzi pubblici senza un briciolo di indirizzo progettuale; benvenuti nelle nuove cattedrali nel deserto.
Limitando l’autopsia a Roma, troviamo una mappa costellata di spazi notevoli per valore e per estensione nei quali la regola è tirare avanti alla meno peggio, ospitando tutto quello che capita senza alcun costrutto, estendendo progressivamente il periodo silente tra una mostra e l’altra, confidando sul dinamismo di librerie e ristoranti. Come manca il reticolo di legami con il tessuto urbano, così manca del tutto l’imprescindibile connessione con il resto del mondo.
Ad aggravare un quadro davvero desolante sale una nebbia spiacevole fatta di questioni bizantine (fondazione o azienda? Pubblico o privato?), di brividi per il giro di nomine (architetto o storico dell’arte? Conservatore o progressista?) e di sussurri e grida connessi alle parrocchie, ai club o ai circoli cui si appartiene. Sul ponte del Titanic erano più seri.
Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro
Foto di LittleCloudyDreams
“…uno scrittore ha solo due vie: inventare storie o raccontarne di vere”. Scrive così Francesco Pellegrino, nelle note a chiusa del suo lavoro, citando l’autore e sceneggiatore francese, Emmanuel Carrère. La strada scelta da Pellegrino è la seconda: la storia da lui raccontata è una vicenda giudiziaria realmente accaduta e che è stata definita “il furto del secolo”. Due ritratti di Van Gogh, Il Giardiniere e L’Arlesiana, e un’opera di Cézanne, Le Cabanon de Jourdan, una sera come le altre del 19 maggio del 1998, sono state rubate dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma in cui erano esposte. Da quel momento inizia una frenetica azione di intervento di carabinieri e polizia insieme, per ritrovare i tre capolavori e riportarli “a casa” sani e salvi, integri.
La vicenda del furto dei tre quadri dalla GNAM – storica nel panorama dei beni culturali italiani – viene presentata dall’autore in maniera fedele, cronachistica. Lo sviluppo delle indagini è accompagnato dal resoconto delle azioni, delle emozioni, degli slanci e delle paure, degli autori del furto, seguiti a vista dagli investigatori, grazie a intercettazioni ambientali e telefoniche.
Il libro non è solo la narrazione di un gioco di guardie e ladri. Protagonisti sono anche le vittime del sequestro, i quadri scomparsi: l’autore dedica spazio ad una spiegazione storica delle tre opere, contestualizzandole nella vicenda biografica dei grandi maestri, Van Gogh e Cézanne.
È molto interessante leggere in maniera così approfondita di un fatto di tale portata, realmente accaduto. Il testo, poi, potrebbe anche essere considerato fonte storica a pieno titolo, specchio singolare di una parentesi storica dell’arte italiana e della storia intera della nazione.
La lettura a tratti risulta appesantita dall’annotazione delle intercettazioni telefoniche, che spesso appaiono confusionarie o in dialetto romano, e quindi poco scorrevoli. Qualche velleità letteraria in più, in alcuni punti, non avrebbe dato fastidio.
Il romanzo è introdotto da una nota di Walter Veltroni, l’allora Ministro dei Beni e delle Attività Culturali, che ha vissuto in primo piano tutta la vicenda, colorando ancora di più di partecipato realismo il racconto di Pellegrino.
Agli amanti del giallo, dell’intrigo, dei rompicapi investigativi, delle vicende giudiziarie eclatanti. Agli appassionati di storia dell’arte, di museologia, di biografie d’artista.
Ore 22, furto in galleria, di Francesco Pellegrino, Natyvi 2013, 12 euro.
La V° edizione del Festival del Flamenco all’Auditorium Parco della Musica di Roma è stata inaugurata dall’anteprima di FLA-CO-MEN di Israel Galván.
Galván, figlio d’arte – madre, della famiglia de Los Reyes, ‘bailaora’ (ballerina di flamenco) e padre ‘bailaor payo’ (ballerino non gitano) – ha reinterpretato la danza flamenca, grazie alla sua creatività, stimolata dai rapporti fecondi con artisti e coreografi internazionali, e alle contaminazioni con i vari stili di danza contemporanea. L’artista sivigliano rappresenta la perfetta fusione tra la precisione tecnica payo e la dirompente energia emozionale gitana, come da lui stesso dichiarato, essere entrambe le cose gli ha dato maggiore fiducia in se stesso.
Senza mai abbandonarne le radici, ha rivitalizzato la tradizione flamenca (influenzata dalla cultura araba, ebrea e cristiana) inserendola nel panorama coreografico contemporaneo e internazionale, per questo ha conseguito diversi premi sia in Francia che in Spagna.
Fla-co-men è forse, tra i titoli degli spettacoli del coreografo sivigliano, quello che meglio esprime il suo stile: la parola ‘flamenco’ è frammentata nelle sue sillabe e ricomposta in un diverso ordine, fla-co-men.
Potremmo definire lo stile del flamenco di Galván ‘cubista’, squaderna il ‘baile’ (flamenco tradizionale), lascia che sia contagiato da altri stili musicali e coreutici, poi lo ricompone dandogli una diversa fisionomia. Il maestro ‘cantaor’ (cantante) Enrique Morente diceva che nel flamenco si doveva tradurre la tradizione ed essere coscienti del ‘tradimento’ che è sempre implicito in tale operazione. Il ‘montaggio’ coreografico (scomposizione-contaminazione-ricomposizione) è la cifra stilistica e la chiave interpretativa della danza di Israel Galván. Allo stesso tempo quest’ultimo riconduce spesso il flamenco, riconosciuto patrimonio culturale immateriale dell’Umanità dall’UNESCO nel 2010, alla sua purezza originaria, quando era ballo individuale e non era accompagnato da strumenti musicali ma soltanto dai ‘toque de palmas’ (il ritmo del battito delle mani).
In Fla-co-men il corpo statuario di Galván è apparso in controluce sul palco come una star del rock. La musica durante lo spettacolo è stata spesso sottrazione, riduzione a suono e ritmo, accompagnando la libertà espressiva ed emozionale di Israel, oppure densa di riferimenti come alla tarantella, ai tangos, al jazz o a sonorità orientali. La gamma espressiva-emozionale è andata dalla tristezza e malinconia della soleá e seguiriya, alla gioiosità dell’alegría, Già nel primo brano è stato subito riconoscibile il suo stile, il ritmo è nel suo respiro, nel battito delle mani, nel suo corpo usato come uno strumento di percussione. Il suono del sax è diventato un lamento. I suoi movimenti delle braccia spesso evocano movenze del mondo animale, sono puri, precisi, velocissimi. Il basso elettrico ha scandito il ritmo come un pendolo e le braccia di Galván hanno disegnato nell’aria geometriche oscillazioni. Ad un tratto il palcoscenico si è trasformato in arena e il ballerino in un torero.
Il corpo di Galván riesce a vibrare insieme a una campana tibetana. La sua danza sprizza energia, emozioni perfettamente controllate, come le sue impeccabili piroette. Ad un tratto si pone davanti ad un microfono ma è il suo corpo a cantare e non la sua voce, così come davanti ad un leggio è il suo corpo ad eseguire la partitura.
La sua danza ha ipnotizzato il pubblico, che sembra aver assistito in apnea e che generosamente si è prodigato in applausi senza riuscire però ad ottenere un bis dal ballerino ormai a piedi nudi.
Bella la voce del cantaor Tomás de Perrate e l’esecuzione di Antonio Moreno alle percussioni.
Il Festival proseguirà il 10 ottobre con l’anteprima mondiale di Homenaje flamenco a Verdi, interpreti: lo straordinario cantaor Arcángel, la bailaora Patricia Guerrero, con accompagnamento di chitarra, contrabbasso e percussioni; l’11 ottobre sarà la volta della cantante andalusa Carmen Linares insieme al trio formato da Jorge Pardo al sax, Carles Benavent al basso e Tino Di Gerlado alla batteria.
Il concerto prevede l’esecuzione di brani classici e originali su testi dei famosi poeti: Federico Garcia Lorca, Horacio Ferrer e Miguel Hernández; il 12 ottobre, Mercedez Ruiz presenterà: Baile de palabra, confluenza di tradizione e innovazioni, in cui la ballerina andalusa sperimenta nuove coreografie e il 13 ottobre Eva Yerbabuena presenterà: Ay!
Ad arricchire il programma le 32 immagini dei fotografi Pablo Jiménez e Mikel Alonso che illustreranno la festa religiosa che si tiene ogni anno a maggio: El Rocío, piccolo villaggio andaluso di Almonte (Huelva), dove si trova l’immagine della Virgen del Rocío. Oltre cento confraternite dell’Andalusia con i loro vestiti tradizionali, a maggio, si mettono in cammino, con buoi, muli, carri e ogni mezzo per raggiungere La Blanca Paloma, una delle denominazioni della Madonna del Rocío.
1) Per correre una maratona di 5 km non ci vogliono muscoli e allenamento.
2) È obbligatorio sporcarsi, colorarsi, divertirsi senza pensare a cause e conseguenze.
3) Lo scopo non è vincere, ma partecipare.
Sembrerebbero le regole alla rovescia di un mondo incantato dove tutto è possibile e, invece, si tratta delle semplici e reali basi da cui parte l’esperienza The Color Run.
The Color Run è una corsa di 5 km alla quale si può aderire da soli o in gruppo, l’importante è cominciare la corsa vestiti di bianco, per concluderla tra un turbinio di polvere di colori. Non ci sono limiti di età per iscriversi e tutti possono partecipare perché le parole chiave sono benessere, felicità, individui e restituire. Si corre solo per sentirsi bene e vivere un momento felice, non per agonismo, per vincere premi, o per dare prova di prestanza fisica. L’individuo è al centro perché i Color Runners vengono da tutto il mondo per prendere parte a quella che è stata definita anche “la corsa dell’amore”: il rispetto e la gentilezza verso gli altri sono la condicio sine qua non per correre insieme agli altri. Infine, si può restituire un po’ della felicità incamerata attraverso la 5 km più allegra del pianeta, decidendo di donare qualcosa alle onlus che si allacciano all’evento.
Nonostante l’aspetto “charity”, però, per diventare Color Runner è necessario iscriversi e pagare, e The Color Run LLC è un’azienda a scopo di lucro. L’ideatore del progetto è stato Travis Snyder, organizzatore d’eventi dello Utah che pianificò la prima gara podistica da correre solo per divertimento, in Arizona a Phoenix. Era il 2010 e i partecipanti furono 6000. Da quel momento l’idea prese piede e si diffuse in Nord America, Sud America, Asia, Australia e Europa, arrivando a totalizzare 600.000 partecipanti per 50 eventi nel 2012.
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Il copione che ha rappresentato le vicende del Teatro Valle a Roma in questi ultimi due anni aveva tutte le caratteristiche per risultare banale, noioso e ripetitivo. E invece ha riservato una bella sorpresa.
Poteva essere solo il tristemente consueto racconto di un’amministrazione pubblica che non sa come comportarsi nel gestire uno dei teatri storici più belli, più antichi e importanti d’Italia. Poteva essere la storia di una protesta che, come in tanti altri luoghi della capitale e nel resto del paese, veniva abbandonata al proprio destino a far da testimonianza in una città distratta. Poteva essere “solo” l’ennesimo danno delle scelte politiche di un certo centro-destra che, nel nostro paese, vede la cultura esclusivamente come un costo (da tagliare) e mai come un investimento da programmare.
E invece non è andata così. Almeno non del tutto. Effettivamente la giunta Alemanno ha fatto di tutto per non affrontare seriamente la questione. Ma non gliene si può fare un torto. Per loro si trattava di ordine pubblico e non di politiche culturali. Nel frattempo però dall’Europa e dal mondo si sono moltiplicati gli attestati di solidarietà con gli occupanti. Grandi attori e grandi compagnie italiane e straniere hanno tenuto spettacoli e stage nel teatro che ha ospitato anche convegni, feste, proiezioni e seminari. Migliaia di euro ogni mese sono stati sottoscritti dai cittadini per sostenere questo sforzo. Centinaia di migliaia le persone che hanno partecipato agli eventi e assistito agli spettacoli. Migliaia gli attori coinvolti in una programmazione, spesso improvvisata, ma che ha segnato significativi e frequenti momenti di valore sia dal punto di vista delle novità che della qualità artistica. Ed è stato questo che ha risvegliato i cittadini dall’indifferenza. Non solo protesta ma soprattutto proposta. Non solo cultura “alta”, che a molti incute ancora qualche (sacrosanto) timore reverenziale, ma anche cultura popolare.
Naturalmente il teatro Valle è stato anche in parte il refugium peccattorum di chi, non riuscendo a prendere atto dei propri limiti, se la prendeva con i limiti degli altri. Ma questo è il (piccolo) prezzo da pagare quando si decide di aprirsi all’esterno non dovendo e non volendo selezionare. Insomma, l’occupazione del Teatro Valle è stato il periodo sabbatico dello spettacolo dal vivo: si sono rimescolate le carte e dalla protesta si è tentato di indicare una via d’uscita, in forma libera e autonoma. Tutto questo a due passi dal Pantheon e da piazza Navona, in un centro storico sempre più “gentrificato”, devoluto al turismo di massa nonostante sia di facile accesso anche per i cittadini romani.
Non era affatto scontato che succedesse: il teatro Valle rappresenta un’esperienza unica e preziosa che non può andare dispersa. Per questo va salutata positivamente la nascita della Fondazione Teatro Valle Bene Comune. Una “nuova istituzione culturale”, come l’hanno definita i promotori, che è riuscita a garantirsi l’adesione di circa 5,000 soci e l’acquisizione di opere d’arte donate dagli artisti per raggiungere la quota di capitale sociale. Finalmente quell’esperienza esce dal cono d’ombra in cui non si poteva distinguere nettamente tra legalità delle norme e atti di forza, per quanto giusti e forse addirittura doverosi. Finalmente possono rasserenarsi gli sguardi corrucciati di chi vedeva il Valle riscuotere successo mentre loro stessi versavano in mille difficoltà per organizzare spettacoli dal vivo dovendosi sobbarcare utenze, costi di gestione, pagamento dei tributi, ecc.
E’ terminata una fase, il primo atto si è compiuto. I protagonisti ora sono inseriti in un nuovo contesto, quella della Giunta Marino, che si è dichiarata disposta al confronto e alla collaborazione, specialmente negli impegni presi formalmente dall’assessore Barca. Sarà efficace la formula della fondazione che molti ritengono essere troppo onerosa? Riusciranno i protagonisti a rendere il Teatro uno spazio veramente aperto, partecipato, attento alla formazione e alle produzioni contemporanee? Oppure si adageranno in una condizione consolatoria e autoreferenziale per l’utile effimero di pochi lontano dal Bene Comune che ha costituito l’obiettivo di una protesta e, per due anni, la pratica della proposta?
Ora non è dato sapere. Certamente le possibilità innovative e le prospettive virtuose non mancano, anche se i dubbi che ancora accompagnano questa esperienza non sono stati del tutto diradati.
Lasciamo fiduciosi che il sipario si alzi di nuovo per il secondo atto.
Gioacchino De Chirico è un giornalista culturale ed esperto di comunicazione
Alle ore 11,00 del 19 luglio di settanta anni fa il cielo di Roma fu squarciato dalle bombe degli alleati americani e il quartiere S. Lorenzo si trasformò in un cimitero di rovine. Venerdì 19 luglio il Municipio III di Roma ricorderà il tragico evento con la proiezione, alle ore 17 e alle 20, di “Io c’ero” del regista Rosario Maria Montesanti, presso il caffè letterario LiberThè, in viale Adriatico 20 (quartiere Montesacro).
Nell’infausto giorno dell‘incendio di Nerone le “fortezze volanti” – 321 bombardieri (B25 e B26) e molti caccia – partirono dagli aeroporti dell’Africa settentrionale alle 7,00 del mattino del 19 luglio e alle 11,00 circa 500 unità degli alleati americani sganciarono 4.000 bombe (circa 1.000 tonnellate) sulla città di Roma. Il bombardamento durò fino al primo pomeriggio, causando circa 3.000 morti e 10.000 feriti nel solo quartiere di San Lorenzo, 40.000 persone rimasero senza tetto e la basilica fu distrutta. La città sacra era stata violentata e deturpata, i vivi erano sepolti sotto le macerie e i morti erano stati catapultati fuori dalle tombe del Verano, i superstiti non dimenticarono più il rumore assordante degli aerei e il fetore di sangue e cadaveri che in quel caldo imperversò per giorni. Un brano di storia ormai noto ma, per non dimenticare, abbiamo voluto saperne di più dal regista di “Io c’ero”.
Come lo definiresti: più un film o un documentario?
In realtà era il numero zero realizzato da me per l’Istituto Luce, un mio progetto, costituito da un preambolo dove si racconta la genesi del bombardamento e soprattutto spiega il perché furono gli americani, e non gli inglesi, a bombardare Roma. Gli inglesi erano esperti in bombardamenti notturni, ma avevano degli aerei che correvano il rischio di essere abbattuti a differenza di quelli americani, che volavano più in alto e quindi erano irraggiungibili per la contraerea italiana. In questa prima parte ci sono delle immagini provenienti da Washington in cui si vede il bombardamento dagli aerei, si vedono i piloti americani che salgono sui veivoli in Tunisia per raggiungere poi lo scalo S. Lorenzo. Avevano lanciato dei volantini, per avvertire la popolazione di tenersi lontano dagli obiettivi militari, che però nottetempo i fascisti tolsero proprio per evitare che la popolazione fosse avvisata. Avrebbe dovuto essere un bombardamento tecnico contro lo scalo, ma questo era inserito nel quartiere; hanno bombardato anche il carcere minorile. Dopo la prima parte in cui si racconta la genesi del bombardamento di 8-9 minuti, ci sono sei testimonianze, qualcuno di loro è già morto purtroppo. Ci sono racconti come quello del barbiere di S. Lorenzo, Bordoni, che ha raccolto nella sua bottega le foto di tutti gli abitanti di S. Lorenzo che sono morti, quello del proprietario del ristorante Pommidoro che ha perso, nel bombardamento, la madre e la sorella per cui, secondo lui, se gli americani hanno forse liberato qualcuno, a lui hanno distrutto la vita. Quindi sono presenti sia materiali di repertorio che testimonianze dirette. Non è in realtà un documentario perché è nato come un programma che avevo progettato per la Rai, doveva essere un numero uno di una serie che poi ha preso un’altra strada. Ho fatto La grande storia, i Misteri del nazismo, e ho ideato una serie di programmi su eventi quale l’Alluvione di Firenze, il Vajont, la Stazione di Bologna, fino al concerto dei Beatles a Milano. Per fortuna ci sono altre emittenti che tengono di più alla cultura e alla memoria storica, sono convinto che conoscere il passato aiuta a vivere il presente e il futuro.
Perché ritieni, ancora oggi, importante parlarne e lasciarne testimonianza? Soltanto per lasciarne una memoria storica o perché pensi che ci siano degli elementi che possano essere attuali ancora oggi?
Oggi, nel 2013, possiamo comunque cogliere alcune analogie: la guerra del tempo era fatta dai tedeschi con i carri-armati oggi c’è una guerra fatta sempre dai tedeschi con lo spread, una guerra finanziaria che ha messo in ginocchio la Grecia. Un’altra analogia con la nostra realtà è che veniamo da vent’anni di ‘regime’, un certo tipo di politica sbagliata. Un’altra analogia è che anche oggi il Papa, Francesco, è sceso tra la gente a Lampedusa, come Pio XII, senza Curia, scese tra la gente dando i propri soldi agli abitanti di S. Lorenzo, soldi della famiglia Pacelli.
Qual’è’ stato il tuo rapporto con questi testimoni?
Non amo fare interviste e mi piacciono i racconti autonomi, mi sono fatto raccontare la loro esperienza. Il più colto e razionale, un preside, è stato quello che poi si è commosso raccontando come gli è morto davanti il suo compagno di banco e amico del cuore. In questi rapporti c’è stato un po’ di tutto: il grande senso storico del barbiere Bordoni, come la grande rabbia del proprietario del ristorante, e la grande commozione del preside.
Cosa è cambiato dopo aver parlato con loro nella tua conoscenza di questo tragico evento?
Fare il regista è un po’ come fare il ‘ladro’. Prima di iniziare mi sono documentato, interpellando alcuni storici, come è mia abitudine nei vari lavori che ho fatto. Io ho vissuto il quartiere di S. Lorenzo da studente universitario e, invece, conoscendo questi anziani che hanno la fotografia di cosa è accaduto, che ti raccontano anche particolari minimi, oggi è un quartiere di cui conosco la storia. Una donna-testimone che abita vicino a Ciampino mi ha raccontato che ogni volta che sente gli aerei che partono, ancora oggi, le viene la pelle d’oca perché il rombo dei motori evoca in lei il bombardamento, la guerra. In “Io c’ero” ci sono le prime immagini del bombardamento girate dagli operatori dal terrazzo di Cinecittà in cui si vede la prima bomba, in lontananza, caduta su S. Lorenzo. Nel 2008 “Io c’ero” è stato già proiettato nella piazza di S. Lorenzo, ma non per una ricorrenza particolare; lo presentò Corrado Augias, con cui ho collaborato e con cui lavoro da quattro anni. Ho fatto con lui i Segreti di Roma, ora ho fatto i Segreti della musica. La versione attuale di “Io c’ero” è stata rivisitata per la televisione ma la Rai non l’ha ritenuta interessante. Quindi, quella che sarà proiettata venerdì, è una versione leggermente diversa legata alla ricorrenza.
Hai realizzato insieme a Storaro e Maurizio Calvesi il dvd “Dentro Caravaggio”, poi quello su Leonardo e quello su Bernini. Puoi parlarmi di quella esperienza?
Storaro, 4 premi Oscar, raccontava, nel dvd, la luce di Caravaggio per ben 40 minuti. Quando giovane entrò a San Luigi dei Francesi fu colpito dalla Conversione di San Matteo e da lì è iniziato il suo modo di lavorare, rimase folgorato dalla luce di Caravaggio. Come direttore della fotografia si è sempre ispirato a Caravaggio. Quando Coppola lo chiamò per Apocalypse Now Vittorio non capì il perché di quella scelta dal momento che i suoi film intimisti erano piuttosto lontani dalla guerra del Vietnam. Coppola gli disse: mi serve una fotografia caravaggesca, c’è un primo piano di Marlon Brando che deve essere illuminato come se fosse stato dipinto da Caravaggio!
Ogni storia ha bisogno di essere illuminata dalla luce giusta…
E’ partita una sfida che coinvolgerà più di 60 mila persone in sei continenti: non si tratta delle Olimpiadi o dei Mondiali di calcio, bensì di un progetto ambizioso e creativo che ha l’obiettivo di far emergere i nuovi e migliori talenti nell’ambito della filmografia.
The 48 Hour Film Project, questo è il nome dell’iniziativa internazionale, nasce nel 2001 dall’idea visionaria di Mark Ruppert, che tentò appunto di realizzare un film “guardabile” in soli due giorni.
Da questa originale scommessa è emerso il valore del gioco: il tempo ridotto stimola infatti la creatività e lo spirito di squadra, oltre a dar precedenza alla “pratica” piuttosto che alla “teoria”, con risultati spesso sorprendenti.
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Da allora l’esperimento si è ripetuto più e più volte, giungendo a ben oltre 700 competizioni tenutesi nel mondo. The 48 Hour Film Project è infatti itinerante e nel tempo ha interessato sempre più città.
Il concorso arriverà anche in Italia: l’11, il 12 e il 13 ottobre prossimi i filmmaker nostrani sono chiamati a rispondere alla sfida partecipando alla call di Roma. Nella capitale sarà infatti selezionato il team che rappresenterà il nostro Paese alla finale prevista negli USA.
Il premio in palio è di ben 5.000 dollari, ma la vera soddisfazione sarà quella di veder proiettata la propria opera in un parterre davvero d’eccezione, al Festival di Cannes 2014.
Le regole del gioco sono semplici: sarà assegnato un personaggio, materiale scenico e un dialogo che dovranno essere perentoriamente inseriti nel film; ai partecipanti è richiesta la piena autonomia nel comporre ed organizzare il proprio team di lavoro; la deadline è per le 48 ore successive dall’inizio della competizione.
Ogni opera realizzata viene poi proiettata in uno teatro o cinema della città in cui la gara si è tenuta, ma solo quella vincitrice sarà poi presentata alla finale di Filmapalooza a Hollywood.
Questo il miglior film della scorsa edizione: si tratta del corto “Jaques Serres”, realizzato dalla squadra francese Les Productions avec Volontiers of Paris. Direste mai che ci sono voluti solo due giorni di lavoro?
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L’annunciata pedonalizzazione di Via dei Fori Imperiali ha tutte le caratteristiche per essere un punto di svolta sia simbolico che concreto nell’arte di amministrare le città.
Alla notizia che questo sarà il primo provvedimento della nuova giunta comunale, qualche dissenso è stato manifestato da romani proprietari di motori a scoppio, e già si programma un baldanzoso “Mortacci Pride” sul sampietrino imperiale. I ciclisti hanno dichiarato che l’idea di uno zoo tutto per loro piace assai, ma gradirebbero anche percorsi utili, il CAI ha chiesto di adibire la Colonna Traiana a cilindro per il free climbing, i guardoni del Pincio reclamano la selezione di sacerdotesse per il Tempio di Minerva.
I turisti paiono apprezzare questo schiaffo alla modernità in favore del passeggio. Per i più nostalgici del traffico, i venditori abusivi stanno facendo produrre in Cina il nuovo gadget della biga 4×4 che fa brumm brumm. Una certa preoccupazione c’è in chi teme foto mosse per schivare bus, taxi e vari altri mezzi autorizzati, mentre si fotografa il Colosseo. Questi ultimi sono stati tranquillizzati dal Campidoglio che promette un presidio sanitario per gli investiti e una foto gratuita col centurione Alfio Marzio.
Una ‘pedonalizzazione parziale’ sembra poca cosa a prima vista, ma altre città hanno già annunciato che ogni volta che se ne presenteranno le condizioni copieranno l’esempio di Roma Capitale. Mi riferisco in primis a Seoul, Granada, Belo Orizonte, Graceland, tutte concordi nel dichiarare che appena troveranno una strada costruita sopra un parco archeologico, presa in ostaggio da un cantiere della metropolitana e animata da porchettari discendenti in linea vespasiana dai Cesari, la chiuderanno parzialmente al traffico privato.
Le altre metropoli interpellate hanno fatto sapere di non essere pronte a decisioni così drastiche, in quanto tale strada dovrebbero trovare prima il coraggio di costruirla e, una volta fatta, di aprirla al traffico, il ché è davvero troppo anche per le più volenterose.
Samuel Saltafossi è sociologo della complessità
E’ la serata dell’anteprima stampa, ma la fila al botteghino del Globe di Villa Borghese alle 18 è già lunga, sono in vendita alcuni posti sul parterre, e l’attesa è grande perché lo spettacolo segna il ritorno alla regia di Gigi Proietti, perché è proprio “Romeo e Giulietta” che, dieci anni fa, ha sancito l’ingresso imponente del Globe come immancabile appuntamento dell’Estate Romana, e perché la tragedia shakespeariana fa un po’ parte del dna degli spettatori teatrali, e tutti sanno o pensano di sapere la storia, ma la vera scommessa è nel sorprendersi nuovamente vedendola.
E’ proprio Gigi Proietti ad aprire la scena, in pochi minuti che accendono l’entusiasmo del pubblico.
Il Globe è stato inaugurato nel settembre 2003, spuntato nel cuore di Villa Borghese in soli 6 mesi, grazie alla virtuosa unione tra una forte volontà politica del Comune e la messa a disposizione di risorse rese disponibili dalla Fondazione Silvano Toti, per questo regalo alla città di Roma ed ai romani.
Gigi Proietti lascia il palco agli attori sulle parole del prologo della tragedia, la dichiarazione d’intenti al pubblico: “E se ad esso prestar vorrete orecchio pazientemente, noi faremo in modo, con le risorse del nostro mestiere, di sopperire alle manchevolezze dell’angustia di questa nostra scena.”
Nel cast i due giovanissimi Matteo Vignati, nel ruolo di Romeo, e Mimosa Campironi,nelle vesti di Giulietta, sono serviti sulla scena da attori di grande esperienza, come Francesca Ciocchetti, che interpreta la balia e che fa passare il pubblico dalla risata alle lacrime senza mai rubare la scena, ma segnandola ogni volta.
Lo spettacolo parte in abiti moderni, con la banda di Romeo che declama su note rap i versi di Shakespeare e Giulietta che suona rock con un piano elettrico dal balcone affacciato sul palco.
Dalla festa, le cui danze sono accennate da un cammeo in cui gli attori in maschera neutra ballano muovendo solo la testa, sulla classica musica da discoteca, e dall’ineluttabile incontro dei due amanti, si entra invece in ambiente e costumi d’epoca e nel classico della tragedia. Il salto è armonico perché lo spettacolo non perde mai di ritmo e di magnetismo, ma a mente fredda viene da domandarsi se l’osare attraverso la modernità iniziale sia funzionale allo spettacolo o frutto di una manovra che poi non avrebbe retto alla “sacralità” di una storia troppo conosciuta.
La balia e frate Lorenzo sorprendono sempre e incarnano leggerezza e comicità con maestria e precisione nel cogliere esattamente il tempo comico per battute e movimenti, continue le risate del pubblico nelle loro apparizioni.
Il palco diventa campo di battaglia a 360 gradi nei duelli, ben tenuti da Fausto Cabra, nei panni di Mercuzio, che domina con agilità lo spazio, e campo insanguinato fino alla fine con l’ultimo duello tra Romeo e Paride, promesso marito di Giulietta, personaggio sottovalutato in altre messe in scena della storia. E’ toccante il suo monologo finale a Giulietta che promette di andare a visitare ogni giorno alla tomba, e di lucidità disarmante le ultime parole che rivolge a Paride prima di ucciderlo e di uccidersi lui stesso: “Dammi la mano, tu, che, come me, fosti segnato nell’amaro libro della sventura! “.
Romeo e Giulietta si tolgono la vita a distanza di un minuto e i loro corpi si fermano in contatto solo con la testa in un incastro di drammatica plasticità.
Semplice la scenografia eppure sempre chiari e distinti gli ambienti, numerosi gli interventi di personaggi di servizio e comparse per rendere al meglio le scene collettive, come la preparazione degli eventi in casa Capuleti: è il carattere di essenzialità del teatro, fatto da movimenti e parole degli attori, gli unici traghettatori delle emozioni delle anime spettatrice in una storia che non perde il suo fascino e non smette di sorprendere.
All’uscita del pubblico, con cuscini portati da casa per il parterre, in una Villa Borghese un po’ più illuminata dell’anno scorso nei viottoli verso il parcheggio, gli occhi lucidi non mancano.
La stagione del Globe prevede il ritorno di Giulietta e Romeo, dopo le serate teatrali di luglio, nel Balletto di Riccardo Cavallo ad agosto; seguiranno Sogno di una Notte di Mezza Estate, Riccardo III e Re Lear.
Non sappiamo se l’Assessore alla Cultura della Regione Lazio, Lidia Ravera abbia avuto occasione di leggere quel che scrivevamo ieri 2 luglio su Tafter, commentando criticamente la presentazione del rapporto annuale di Federculture, ed intitolando ironicamente con “ancora… parole parole parole” (riferendoci ai bei intendimenti annunciati dai Ministri Bray e Giovannini), ma oggi, mercoledì 3 luglio, l’edizione romana del “Corriere della Sera” pubblica un suo convincente articolo, intitolato “Cultura: abbiamo toccato il fondo, è ora di fare squadra”.
In sostanza, l’assessore Ravera manifesta il proprio sconforto per lo scenario desolante descritto da Federculture, e definisce “lucido e triste” il discorso del presidente Roberto Grossi. Ravera si sofferma sui deficit del sistema scolastico (“insegnanti mal pagati e scarsamente gratificati, programmi vecchi rimodernati in modo ideologico”), cui attribuisce la grande responsabilità di non stimolare la crescita culturale del Paese (“raccontare il presente e immaginare il futuro”).
Propone una prospettiva positiva ed ottimista: “l’era delle chiacchiere è finita”, scrive, ed auspica l’esigenza di “fare squadra” (intendendo Ministero + Regione + Comune), “invece di farsi i dispetti”. L’Assessore scrive, in perfetta sintonia con le tesi pubblicate ieri qui su Tafter: “al disinteresse generale, corrispondono vagoni di chiacchiere”. Ci auguriamo che Ravera possa presto annunciare che il Presidente della Regione Lazio ha deciso di allocare più risorse alla cultura, nell’economia di un piano strategico trasparente ed accurato.
Proprio in queste ore, l’ufficio stampa della Regione Lazio ha diramato una nota del Presidente Nicola Zingaretti, che riportiamo: “Grazie ai 70 milioni di euro che metteremo a disposizione dei Comuni del Lazio per il servizio di trasporto pubblico urbano, scongiuriamo gravissimi disagi per gli utenti dei mezzi su gomma, garantendo il diritto costituzionale alla mobilità, messo a dura prova dai tagli degli scorsi anni decisi dai governi nazionali. Il trasporto pubblico locale è stato considerato, purtroppo, la cenerentola dell’intero sistema dei trasporti ed ha subito tagli drastici con l’accetta nei trasferimenti di risorse alle Regioni, compromettendo un servizio universale. Oggi abbiamo raggiunto un importante traguardo e grazie al reperimento di ulteriori 20 milioni di euro, che si aggiungono ai 50 già messi a bilancio, potremo garantire ai Comuni del Lazio le risorse sufficienti a garantire il trasporto pubblico e a non lasciare, per mancanza di fondi, gli autobus fermi nei depositi”. Questi sono fatti, non parole.
Vorremmo presto leggere di “diritto costituzionale alla cultura”, e di una dotazione budgetaria dell’Assessorato assegnato alla Ravera adeguato alle sfide che la Regione Lazio deve affrontare.
Presidente Zingaretti, ha ragione: “non lasciamo, per mancanza di fondi, gli autobus fermi nei depositi”, e… “non lasciamo fermi, per mancanza di fondi”, gli artisti e i creativi e gli imprenditori della cultura, in teatri e cinema e librerie e sempre più chiusi…
Siamo stanchi, forse anche più di Ravera, di ulteriori “fiumi di parole” (la dotta citazione della canzoncina pop dei Jalisse non sfuggirà ai cultori del post-moderno).
Nel mentre, però, il Ministro Bray tace. E da Rimini, in occasione di Ciné, le Giornate Estive di Cinema, s’eleva oggi la protesta di molte delle associazioni del settore (Anica ed Agis in prima fila), che lamentano il taglio pesantissimo del “tax credit” ed annunciano che “il mondo del cinema è in mobilitazione”.
Al grido “il cinema e l’audiovisivo non vogliono chiudere!”, proclamano lo “stato di agitazione permanente, con un presidio delle sedi del ministero della Cultura”. Si legge nell’appello (dai toni in verità un po’ agitato-sindacalesi): “L’Italia potrebbe essere un grande paese industriale. Ma fa costruire le sue auto a Detroit, fa cucire i suoi vestiti in Cina, smantella la sua siderurgia e la sua chimica. E da oggi vuole che si smetta di produrre cinema! Perché tagliare il Fus e dimezzare il tax credit vuol dire: L’audiovisivo non serve a far crescere l’Italia”.
Attendiamo fatti (budget e progetti), dal Ministro Bray, dal Presidente Zingaretti, dal Sindaco Marino, e da tutti coloro che tanto appassionatamente dichiarano di avere a cuore le sorti del sistema culturale nazionale. Basta con “le vagonate” ed “i fiumi” di parole.
Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult
In queste ore (mercoledì 26 giugno 2013), circola con discreta insistenza, anzi viene accreditata come sicura, l’ipotesi che Flavia Barca, direttrice dell’Istituto di Economia dei Media (Iem) della Fondazione Rosselli (potente fondazione di ricerca, che vanta – per citarne soltanto un paio tra i più noti – Amato e Urbani tra i propri sostenitori), venga nominata dal neo Sindaco di Roma Ignazio Marino come Assessore alla Cultura. La Giunta Marino verrà presentata oggi alle 18 in Campidoglio, ponendo finalmente fine ad una lunga e travagliata gestazione.
Rivolgiamo alla Giunta e specificamente alla neo-Assessora un qualche suggerimento, che peraltro abbiamo già avuto chance di manifestare anche al Sindaco Marino, così come all’Assessore regionale Lidia Ravera. Per quanto riguarda l’assessora regionale alla Cultura (e allo Sport e alle Politiche Giovanili), le sue sortite, nelle ultime settimane, appaiono incoraggianti, rispetto all’esigenza di un “new deal” nelle politiche culturali, che debbono essere centrate più sull’innovazione/sperimentazione che sulla riproduzione/conservazione.
Al Sindaco Marino, suggeriamo di accorpare alla “cultura” (ed alla “comunicazione”, immaginiano) anche le deleghe per il “turismo”, la “moda”, e magari anche l“innovazione”. Ne scriveva su queste colonne (per quanto riguarda turismo e innovazione) Stefano Monti in un articolo del 17 gennaio 2011.
Marino lo farà? Ce lo auguriamo. Il Sindaco ha peraltro prospettato un assessorato dedicato agli “Stili di vita”. Perché no, quindi, un “assessorato alla creatività ed alle industrie culturali”?!
Quel di cui ha necessità la Capitale, così come la Regione, è anzitutto una riflessione radicale e rinnovata sul senso dell’intervento della mano pubblica nel settore culturale. Questa riflessione non può che essere basata su un’analisi critica del sistema culturale (inteso a trecentosessanta gradi, beni ed attività culturali: dai musei alla concertistica, culture “alte” e “basse”, convergenza con il sistema dei media…): domanda ed offerta, ruolo dei privati ed istituzioni pubbliche, tra l’economico, il politico, il semiotico… Senza dimenticare l’interazione tra i livelli dello Stato: Mibac, Regione, Province, Comuni… E vogliamo dimenticare il ruolo ormai fondamentale (e finora mal analizzato) delle Fondazione Bancarie???
Lo stato dell’arte delle conoscenze, a Roma e nel Lazio, è totalmente deficitario.
A differenza di altre Regioni d’Italia (come nel caso dell’Osservatorio Culturale del Piemonte, che proprio il 5 luglio prossimo presenta la propria nuova relazione annuale; si ricorda che è stato costituito nel 1998), a Roma e nel Lazio gli assessorati competenti non dispongono ancora di un dataset adeguato alla delicatezza delle politiche che pure debbono attuare.
Non esiste un’analisi degli investimenti pubblici, della loro efficienza e efficacia, ed il livello di trasparenza della spesa pubblica è modestissimo. Anzi inesistente, fatta salva l’ipotesi di andare a cercare – con approccio poliziesco, oltre che con il lanternino… – tra le pieghe dei criptici bilanci comunali e regionali.
Non è possibile comprendere quanto sia benefico, o meno, l’intervento della “mano pubblica”: si pensi al controverso caso di Musica per Roma, e del suo ruolo di disturbo (secondo gli operatori privati, che arrivarono a rivolgersi all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato) nel “libero mercato” culturale romano… Ma stesso discorso (assenza di analisi valutative) si può fare per Zètema e per il suo intervento nella gestione dei beni culturali, così come per le iniziative festivaliere: perché tanto danaro pubblico al Festival del Cinema di Roma e nemmeno un euro (incredibilmente) all’eccellente MedFilm (almeno nell’edizione 2013, che è la n° 19)?!
Infinite soggettività, simpatie/antipatie, cromie politiche, capitali relazionali, lobby... Tutto è gestito con grande approssimazione.
La “conoscenza” relazionale prevale sulla “conoscenza” tecnica. Della tecnocrazia, nemmeno una traccia.
L’ultimo tentativo di analisi lo si deve alle giunte Rutelli e Veltroni (e si perdoni un cenno… autoreferenziale): si tratta di due ricerche (l’ultima risale al 2008) realizzate dall’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult, che hanno gettato le basi di un “Osservatorio sulla Cultura” a Roma e nel Lazio, fortemente voluto dall’ex Assessore Gianni Borgna (il più longevo d’Italia: 1993-2006), iniziativa che la Giunta Alemanno e la Giunta Polverini hanno poi messo in un cassetto. L’Assessore Umberto Croppi (Comune di Roma) non ha ritenuto di aver necessità di una simile strumentazione, e certamente non manifestò esigenze cognitive di questo tipo l’Assessore Fabiana Santini (Regione Lazio).
Notoriamente, in questo nostro Paese malato, se una iniziativa è stata sostenuta da giunta di cromia avversa, la novella giunta tende a bollare la precedente esperienza, a priori, come partigiana.
Da ricercatore, chi scrive queste note ha maturato l’impressione che spesso l’italico politico/amministratore (sia rosso o nero o bianco o… a pois) giunge alla (perversa) conclusione che “meno si sa, maggiore è il mio margine di discrezionalità”, con buona pace di esigenze di trasparenza ed efficacia. Anche perché, riducendo il livello di conoscenza, si riduce la capacità critica dei… dissidenti e degli… esclusi.
Negli ultimi mesi della Giunta Marrazzo, IsICult aveva proposto all’allora assessore Giulia Rodano la elaborazione di quello che sarebbe stato un primo inedito eccezionale avanguardistico “bilancio sociale” dell’Assessorato alla Cultura, arricchito di dati dettagliati (“chi abbiamo finanziato, perché, quali sono stati i risultati dell’intervento pubblico…”), ma le dimissioni di Marrazzo hanno fatto svanire anche questa prospettiva.
Qualche altro tentativo di analisi (concentrato su Roma piuttosto che sul Lazio) è stato messo in atto da Federculture, qualcosa ha tentato di fare – nello specifico dello spettacolo – la Siae, ma siamo ben lontani dalla disponibilità di strumenti di conoscenza tecnica (si noti, non soltanto di approccio economico: la degenerazione economicista è sempre latente, e va scongiurata) che debbono essere accurati, approfonditi, e soprattutto resi di pubblico dominio: disponibili agli operatori, agli studiosi, e soprattutto agli “stakeholder” finali, cioè i cittadini.
Il risultato attuale qual è? Che Zingaretti e Marino governano, sono costretti – almeno per ora – a governare “a vista”, nasometricamente e spannometricamente, almeno nello specifico della cultura (del resto, taciamo). Ed in questo habitat, finisce per prevalere, quasi inevitabilmente, una logica conservativa-conservatrice, esattamente come avviene, a livello di Stato centrale, per la gestione del Fondo Unico dello Spettacolo, che è il fondo di sostegno alla cultura più chiuso d’Europa.
Il Fus è un fortino inaccessibile: chi è dentro, è dentro, e può sperare di essere risovvenzionato; chi è fuori, fuori resta! Ne ha scritto con efficacia Lucio Zan nel suo saggio del 2009 “Le risorse per lo spettacolo”, per i tipi de il Mulino.
Un esempio concreto del rischio di riproduzione di errori? Settimane fa, le “associazioni storiche” dell’Estate Romana hanno protestato perché il Comune di Roma aveva emanato un bando surreale, nel quale l’entità del finanziamento era rimandato ad un “si vedrà…”.
Eccesso di prudenza, forse, data l’incertezza pre-elettorale, ma anche un’assurdità amministrativa (crediamo che in nessun altro Paese sviluppato si assista a simili buffonate). Le associazioni hanno promosso un incontro di protesta ed hanno richiesto una sovvenzione di almeno 2,5 milioni di euro l’anno. L’allora candidato Marino si è impegnato per almeno un paio di milioni di euro, e, pochi giorni dopo l’insediamento, il Sindaco ha annunciato una dotazione di 1,5 milioni. La domanda è: perché 2,5 o 2 o 1,5 milioni, ovvero 10 o 0 (zero)?! Non è ben dato sapere, se non per… inerzia, o per valutazioni… “spannometriche” appunto.
E che dire dei 3 milioni di euro che Zingaretti, e gli assessori Ravera (Cultura) e Fabiani (Economia) hanno annunciato pochi giorni fa voler assegnare agli esercenti di Roma e del Lazio per accelerare la digitalizzazione dei cinema? Perché 3 o non 2 e non 5? Qualcuno ha analizzato con un minimo di serietà i fabbisogni? No. E lasciamo perdere le possibili necessarie analisi in termini di evoluzione della domanda, di nuovi linguaggi, di effetti dell’offerta culturale sulle “visioni del mondo” (e, quindi, anche sulla politica stessa: qualcosa ne sappiamo, dopo la “mutazione antropologica” provocata dai modelli culturali della televisione berlusconiana, quegli… “stili di vita” evocati da Marino).
Flavia Barca conosce queste problematiche: vanta un eccellente curriculum come ricercatrice e chi redige quest’articolo ne è stato ex datore di lavoro prima (tra il 2002 ed il 2003 Barca è stata direttrice dell’IsICult) e poi spietato competitore. Questi suggerimenti sono rivolti quindi in particolare alla neo Assessore, con simpatia finanche imbarazzo. In verità, Barca non ne ha necessità. Queste tematiche sono state oggetto di tante discussione e della comune sconsolata constatazione della diffusa insensibilità dei politici italiani, rispetto ai migliori modelli di valutazione dell’impatto delle politiche pubbliche (vale per il Mibac non meno che per la Rai), procedure che sono routine – da decenni – in Francia, Regno Unito, Germania, finanche Spagna… Addirittura l’Argentina può vantare una pluralità di “osservatori culturali” (anzi, meglio “sulle industrie culturali”!), che l’Italia può soltanto invidiarle.
Qualche critico ha osservato che Flavia Barca, a parte la ricchezza di un cognome familiare partitocraticamente pesante, è “soltanto” una ricercatrice, e non può vantare alcuna esperienza come “amministratore pubblico”: è vero, ma forse questa sua estraneità alle esperienze burocratiche potrebbe paradossalmente rivelarsi un plus e non un minus. Così come ci si augura stia avvenendo con Lidia Ravera, intellettuale umanista prestata alla politica. Se sapranno dotarsi delle adeguate cassette degli attrezzi, sia Ravera sia Barca potranno far sì che la “politica culturale”, in Italia, non resti un pio intendimento, anzi una pura illusione.
Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult
Ieri, 19 giugno 2013, si è tenuta a Roma, nella cornice pomposamente istituzionale della sala che la Camera dei Deputati ha dedicato ad Aldo Moro (non sappiamo quanto l’eterodosso celebrato avrebbe in realtà apprezzato…), una giornata in memoria del più famoso Assessore alla Cultura d’Italia: Renato Nicolini (1942-2012), assessore nelle giunte romane guidate da Giulio Carlo Argan, Luigi Petroselli ed Ugo Vetere (1976-1985).
L’iniziativa, promossa da uno dei cinque figli, Ottavia (che si professa filosofa di professione) e dall’ultima compagna, l’attrice Marilù Prati, ha rappresentato un’occasione stimolante di riflessione, sia sulla politica culturale sia sulla politica italiana tout-court.
Brillante – come sempre – l’intervento di Stefano Rodotà, che ha ricordato come tutta l’esperienza politica e personale di Nicolini rappresenti la lotta al “riduzionismo”, ovvero al tentativo di ridurre la politica ad amministrazione del contingente, a rapporto con “la polizia ed il mercato”, allorquando dovrebbe essere invece continuo invito alla provocazione creativa, alla “fantasia al potere”. Rodotà ha rintracciato nelle teorie e pratiche di Nicolini la radice della sua idea di cultura come “bene comune”.
Il neo eletto Sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha ricordato di aver conosciuto Nicolini quando, allora al Policlinico Gemelli, fu il medico curante di colei che scoprì essere la madre dell’Assessore, e ha ricordato la fascinazione subita nei confronti di un uomo che aveva il dono di essere lieve anche nei momenti di tristezza, con un sorriso sempre un po’ malinconico (atteggiamento che peraltro molto affascinava le donne). Il Sindaco ha approfittato dell’occasione per annunciare che l’edizione 2013 dell’Estate Romana, che era a rischio a causa di un bando surreale emanato negli ultimi giorni della Giunta Alemanno (incredibile caso di bando che si dichiara subordinato all’eventuale – ?! – acquisizione di risorse…), si terrà, avendo reperito le risorse necessarie (almeno 2 milioni di euro, a fronte di una richiesta minima di 2,5 milioni da parte delle cosiddette “associazioni storiche” della manifestazione romana).
Franco Purini, amico e collega del Nicolini architetto sin dai tempi dell’Università, ha ricordato come Renato sia stato interprete di una lettura trasversale di autori che hanno formato la sua poliedrica personalità: da Nietsche a Gramsci a Debord. L’Estate Romana (progetto tutt’altro che “effimero”, se è vero che sopravvive dopo oltre trent’anni: la prima edizione risale al 1977) è in effetti un esempio eccellente di una logica (post-moderna) di ibridazione di linguaggi, di superamento della separazione ideologica tra culture alte e culture basse, nonché l’avanguardistico tentativo di “riappropriazione” della città, di rifondazione urbanistica, di ridefinizione degli spazi della socialità, da parte della cittadinanza.
L’organizzatore culturale Andres Neumann ha evocato l’immagine dello “sciamano”, per rappresentare la capacità di Nicolini di vedere oltre, di cercare di costruire realtà ispirate all’utopia.
Sono poi intervenuti Vincenzo Frustaci, dirigente dell’Archivio Capitolino, e Donato Tamblé, Soprintendente Archivistico per Roma ed il Lazio, che hanno comunicato che la biblioteca e l’archivio personale di Nicolini, messi a disposizione dalla famiglia, sono stati dichiarati proprio il 19 giugno beni di interesse culturale e storico nazionale, e verranno quindi messi a disposizione della collettività.
Infine, va segnalato che è stato pubblicato dalla Camera dei Deputati un libro che raccoglie gli interventi di Nicolini durante la sua attività parlamentare: è stato deputato per 3 legislature (IX, X e XI) ovvero dal 1984 al 1994, prima nelle fila del Pci e nel 1992 come esponente del Pds.
Nonostante il livello qualificatissimo degli interventi e la stimolazione intellettuale provocata, abbiamo percepito una qual certa nebbia farisea nella celebrazione della memoria del Nostro: stupisce molto che nessuno abbia nemmeno fatto cenno a come la “carriera politica” di Nicolini sia stata sostanzialmente interrotta quando nel 1993, in dissenso rispetto al proprio partito, decise di non sostenere la candidatura di Rutelli come possibile Sindaco di Roma, e si candidò con una lista autonoma, denominata “Liberare Roma” (si osservi che lo slogan “liberiamo Roma” è stato peraltro ripreso da Marino nella sua recente campagna elettorale).
Ne scrivo a ragion veduta, perché sono stato il responsabile della comunicazione della sua campagna elettorale, autofinanziata francescanamente: Nicolini ottenne un 8 % dei voti, al ballottaggio fu poi eletto Rutelli, Nicolini frequentò poi per un qualche tempo Rifondazione Comunista, ma mai tornò a ricoprire ruoli, a livello nazionale o locale significativi, se non quando Bassolino Sindaco lo chiamò, per una breve stagione (dal 1994 al 1997), come Assessore alla Cultura di Napoli. Nessuno ha ricordato che nell’estate del 2009 decise di prendere la tessera del Pd e prospettò una candidatura (che autodefinì “creativa e democratica”) alle primarie, cui presto rinunciò, rendendosi conto che aveva contro, ancora una volta, “il partito”.
Ad inizio 2010, aveva pubblicamente sostenuto la necessità delle primarie per la scelta del candidato del centro-sinistra a presidente della Regione Lazio, dichiarando di voler partecipare alle stesse. Poche settimane prima di morire (soffriva da tempo di una terribile malattia), pubblicò su “il Manifesto” (il 28 giugno 2012) un articolo che così iniziava: “Confesso di restarci un po’ male, quando vedo che nessun giornale o gruppo associa a sinistra il mio nome alle ormai prossime elezioni per il sindaco di Roma”. Come dire?! La passione e la tenacia, nonostante le batoste, non l’avevano certo abbandonato.
In sostanza, Nicolini rappresenta la figura di un politico irrituale ed anticonformista, un uomo colto e creativo, un intellettuale umanista, un artista eccentrico, sganciato dalle dinamiche della partitocrazia, vecchia e nuova, tollerato fino a quando non ha superato i “limiti”.
Alessandra Mammì ha intitolato un suo intervento su “l’Espresso” con un efficace “Nicolini, il Grande Escluso”. Spesso emarginato, comunque visto con sospetto dagli apparati vecchi e nuovi. Emarginato in vita e celebrato post-mortem: un po’ come avvenuto per Pasolini (che certamente aveva tratti comuni con Nicolini, entrambi agli antipodi rispetto all’idea di “intellettuale organico”), la “buona società” si rivela spesso abile nel cordoglio, ma non riesce a ben mascherare il respiro di sollievo per essersi liberata di un personaggio scomodo.
La lungimiranza che mostrarono i sindaci (comunisti) Argan, Petroselli e Vetere nei confronti del giovane Nicolini fu un atto di coraggio (soprattutto in considerazione dei tempi), rispetto alla conservazione che spesso caratterizza le macchine burocratiche dei partiti.
Nessuno ha però adeguatamente enfatizzato, nella celebrazione in memoria, la radicale diversità (caratteriale, culturale, arriverei a sostenere antropologica) di Renato rispetto alla gran parte dei “politici di professione”. Era veramente… un diverso!
Tutti hanno poi evocato l’Estate Romana, assurta quasi a dimensione mitica, dimenticando che negli ultimi anni Nicolini aveva assunto una posizione molto critica rispetto alla degenerazione mercantile che la sua idea aveva subito nel corso del tempo.
Si era (si è) esaurita la carica di innovazione e di trasgressione, e l’Estate Romana si è andata via via trasformando in una sorta di inutile bazaar culturale, in un banale supermarket dello spettacolo. Crediamo che questa visione critica di Nicolini verso la sua stessa creatura debba stimolare il Sindaco Marino, al fine di una lettura innovativa del mercato dell’offerta e della domanda culturale capitolina, che ha necessità di nuove invenzioni, nuove provocazioni, nuove trasgressioni.
Non di riprodurre l’esistente, ma osare: sperimentare nuove forme e nuovi linguaggi e… nuovi luoghi finanche. È certamente importante assegnare risorse alle “manifestazioni storiche” dell’Estate Romana (almeno per garantire l’occupazione, verrebbe ad aggiungere!), ma è forse più importante e strategico ragionare sul senso e sulla validità della mera riproposizione di un intervento pubblico che attualmente finisce per riprodurre quel che il mercato è ormai in grado di produrre da solo.
Nessuno, infine, ha ricordato che nonostante si tratti di uno dei concetti che più hanno reso famosa Roma negli ultimi 40 anni in tutto il mondo, incredibilmente non esiste una monografia sull’Estate Romana, né un saggio critico sull’esperienza politica, culturale, artistica di Renato Nicolini.
Quali le ragioni di questa incredibile rimozione??? Di fatto, l’unica pubblicazione è il suo libro di memorie, “Estate Romana 1976-1985. Un effimero lungo nove anni”, ripubblicato l’anno scorso dalla Città del Sole (la prima edizione era stata pubblicata nel 1991 da un editore il cui nome era tutto un programma, Sisifo…). Qualche riflessione storico-critica è contenuta nel nostro contributo al saggio a più mani pubblicato nel 2008 da Donzelli “Capitale di cultura. Quindici anni di politiche a Roma”, scritto con Gianni Borgna, Roberto Grossi, Carlo Fuortes, Franco Ferrarotti, ma quella voleva essere una piccola traccia che purtroppo non ha avuto gli adeguati sviluppi di ricostruzione politica e culturale di una esperienza profonda.
Mentre il Sindaco lasciava la Sala Aldo Moro, scusandosi per la necessità di tornare in Campidoglio per perfezionare la gestazione della Giunta, qualcuno ha simpaticamente urlato: “Sindaco, ci dia un Nicolini assessore!”. Magari fosse. Avrà Marino il coraggio necessario per affidare l’incarico ad una persona lontana dai poteri forti (anche del sistema culturale romano) e soprattutto fuori dal coro, per dare voce (e palcoscenici) alle infinità diversità che Roma ancora non riesce ad esprimere?! Ce lo auguriamo.
Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’IsICult – Istituto italiano per l’Industria Culturale
Nata nel 1976 da un’idea del francese Joel Cohen per festeggiare il solstizio d’estate, la Festa della Musica è un festival musicale che “esplode” il 21 Giugno in tutto il mondo, con l’intento di promuovere la pratica dell’arte musicale ad ogni livello, in qualsiasi forma di espressione, stile, genere e tradizione.
Tafter vi propone una serie di eventi che si svolgono in varie città d’Italia.
ROMA
La Festa Europea della Musica di Roma è l’evento di apertura dell’ Estate Romana: la kermesse musicale del Solstizio d’Estate che regala oltre 200 concerti completamente gratuiti, di tutti i generi musicali, sull’intero territorio della città. La manifestazione è aperta a tutti: musicisti dilettanti e professionisti, istituzioni musicali, Accademie di cultura, case discografiche, riviste, scuole di musica e, più in generale, a chiunque abbia un progetto musicale o voglia semplicemente mettere a disposizione degli spazi per concerti. La partecipazione alla Festa da parte dei musicisti è completamente gratuita ed il pubblico accede liberamente ai concerti, secondo quanto stabilito dalla Carta internazionale cui si attengono le capitali europee aderenti al circuito della festa.
L’intera città, dal centro alla periferia, è coinvolta nella manifestazione. La FESTA coinvolge piazze famose, Chiese prestigiose, luoghi storici e palazzi nobiliari, cortili e chiostri, giardini e parchi, nonché sedi di Istituzioni pubbliche e private, musei ed aree archeologiche, ma anche botteghe artigiane, sale da the e centri culturali, hotel e librerie, pub e locali di musica dal vivo. L’interesse suscitato dalla collocazione dei concerti in luoghi di particolare interesse storico-artistico, ha allargato la partecipazione ad un pubblico non soltanto musicale, curioso di “vedere” quanto di ascoltare il concerto. La scorsa edizione della Festa ha visto la partecipazione di circa 600 artisti che si sono esibiti in 85 locations e fatto registrare 250.000 presenze.
Consulta qui tutto il programma della Festa della Musica 2013 a Roma
MILANO
La Festa della Musica Milano giunge quest’anno alla sua sesta edizione: 3 giorni di musica in un parco pubblico urbano ad ingresso libero, 3 punti bar, aree ristoro, Yoga e Healing area e due attrezzatissimi stage. Dopo il grande successo della scorsa edizione (15.000 presenze in 3 giorni), artisti italiani e internazionali si esibiranno per una manifestazione musicale dedicata alle sonorità elettroniche più d’avanguardia, con la partecipazione di oltre 50 artisti.
Il tutto verrà supportato dall’eccellente qualità del sound system e dalle performance di laser, light show e proiezioni visual. Graditissimo partner tecnico per quest’anno, Yamaha, che curerà il secondo stage della manifestazione al Chiosco Caluga.
Durante i giorni dell’evento, l’area verde del Parco diventerà un suggestivo palcoscenico per una manifestazione all’insegna del variegato e multiforme universo della musica Elettronica e delle arti digitali con spettacolari performance di laser e light show, proiezioni visual e led wall.
Il programma musicale prevede il coinvolgimento di importanti artisti internazionali ma anche delle maggiori crew del territorio milanese, per sostenere e rilanciare il sound italiano e i dj che lo rappresentano, proponendo differenti generi e stili: Electro, House, Techno, Deep House, Tech House.
Con il passare degli anni la Festa della Musica si sta affermando come un punto di riferimento per la città di Milano, senza discriminazione di gusti o generi musicali, inserendosi così tra le maggiori realtà musicali internazionali.
Questa la pagina FB ufficiale della Festa della Musica 2013 a Milano
TORINO
Torna anche quest’anno la Festa della Musica a Torino. Venerdi 21 Giugno 2013 il Quadrilatero Romano RIsuona dalle 17 alle 24 grazie a 130 esibizioni, per un totale di oltre 700 musicisti sparsi fra i 24 punti spettacolo..e a partire dalle 23 al Bunker di Via Paganini RI bolle il fermento creativo della musica elettronica!
Se ascoltare non ti basta, il comune di Torino ha organizzato delle lezioni di musica: al Punto Music Pass, con solo 1 euro, si potranno seguire corsi di musica ed imparare a suonare uno strumento.
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Per festeggiare il solstizio d’estate, il 21 giugno, l’associazione Mercanti di note organizza anche quest’anno una grande notte di concerti gratuiti per le vie di Torino. Prima di scendere in strada, quattro incontri introducono all’universo musica. Il primo appuntamento è dedicato al modello didattico musicale di origine venezuelana El Sistema. Con Luigi Ratclif, Presidente Gai – Giovani Artisti Italiani, Sabina Colonna Preti, Presidente ONLUS Pequenas Huellas, Responsabile El Sistema per il Piemonte. Emanuele Romagnoli, Presidente Associazione Mercanti di Note, associazione organizzatrice della Festa della Musica di Torino. Modera Pablo Cappellato di Radio 110.
Il metodo Abreu, chiamato anche El Sistema, è un modello didattico musicale, ideato e promosso in Venezuela da Josè Antonio Abreu, che consiste in un sistema di educazione musicale pubblica, diffusa e capillare, con accesso gratuito e libero per bambini e ragazzi di tutti i ceti sociali. Attraverso l’intervento di diversi soggetti responsabili dello sviluppo del sistema di istruzione musicale all’interno del nostro territorio analizzeremo come il sistema proposto in Venezuela si stia diffondendo anche all’interno del nostro territorio e di quali positive ricadute sociali stia avendo.
Scarica il programma della Festa della Musica 2013 a Torino
SIRACUSA
La Festa della musica raggiunge anche Siracusa che la rende ancora più tecnologica: un sistema diffuso di wi-fi gratuito per tutta la città e un’app aiuteranno il pubblico ad orientarsi tra i tenati appuntamenti previsti.
Grazie alla collaborazione con Eventually, durante la Festa della Musica si potrà ottenere un programma aggiornato con tutte le band e gli eventi.
Eventually è attualmente distribuito solo su iPhone su AppStore ed è possibile scaricarlo GRATIS direttamente da qui
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Pagina FB della Festa della Musica 2013 a Siracusa
PARMA
Anche quest’anno la città di Parma è pronta a ospitare la Festa della Musica e intende farlo cogliendo a pieno lo spirito della festa con un calendario ricco di appuntamenti, concerti e live set che, dalla mattina di venerdì 21 giugno, animeranno le piazze, i giardini e le strade cittadine fino alla mezzanotte.
Oltre 50 i concerti che vedranno esibirsi, ogni mezz’ora, gruppi musicali di ogni genere, in una continua contaminazione di suoni, in alcuni degli spazi e delle piazze più suggestive di Parma, tra cui i Portici dell’Ospedale Vecchio, Piazzale della Pace, Piazza Ghiaia, il Giardino dei Burattini, Piazza Cesare Battisti e Palazzetto Eucherio Sanvitale. Inoltre Strada Imbriani dalle 18 alle 20 ospiterà un laboratorio aperto a tutti coloro i quali vorranno esibirsi con propri strumenti, voce e presenza.
Mostra sui generis ideata dal Museo Galileo – Istituto e Museo di Storia della Scienza di Firenze, in collaborazione con il Max-Planck-Institut für Wissenschaftsgeschichte di Berlino e con il contributo dell’Assessorato Regionale dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana e della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei. L’esposizione è divisa in due filoni principali: il contributo di Archimede allo sviluppo delle scienze in età ellenistica e i codici manoscritti contenenti le opere dello scienziato, che proprio nel 1400, grazie alla riscoperta di dotti umanisti, furono tradotti in latino e ripresero a circolare.
Il percorso espositivo, suddiviso in otto sezioni, inizia con un nucleo di reperti archeologici, ricostruzioni e applicazioni multimediali che servono a ripercorrere la grandiosità e lo splendore di Siracusa nel III a.C. e la sua importanza nel bacino Mediterraneo, il cui contraltare, sulla sponda opposta, era la mitica Alessandria d’Egitto.
Siracusa possedeva già nel V secolo a.C. uno dei più grandi teatri del mondo greco, con 67 ordini di gradini. Ierone II donò a Tolomeo la splendida Syrakousia, nave del 235 a.C. lunga 87 m. e larga 18 m., straordinariamente sfarzosa, con pavimenti in mosaico. Continui sono gli scambi scientifici con Alessandria, per esempio con il responsabile della sua straordinaria Biblioteca, Eratostene di Cirene, cui si deve il calcolo della circonferenza della terra, mentre Aristarco elaborò, nella metà del III a.C., un’ipotesi eliocentrica.
In mostra è esposto l’orologio solare e la vasca da bagno in terracotta dell’epoca. Sono presenti molti reperti del Museo Archeologico Regionale Paolo Orsi, tra cui alcuni gioielli di straordinaria lavorazione. In particolare un video ci consente di ammirare l’ingrandimento di un orecchino con pendente ad aquila, esposto alla mostra, di cui solo in tal modo è possibile vederne la fitta e delicatissima trama. Molti i busti con ritratti di personaggi famosi, filosofi e oratori.
Alla morte di Ierone II, Siracusa si alleò con Cartagine e Archimede perse la vita a causa di un soldato romano durante l’assedio della città siciliana. Anche la civiltà islamica gli tributò onori e commentò alcune sue opere, per non parlare di grandi scienziati come Leonardo e Galileo.
In mostra sono esposti i modelli delle opere a lui attribuite, come la vite senza fine con cui era facile tirare in secca le navi (da cui la frase: “datemi un punto d’appoggio e solleverò la Terra”), le macchine da difesa – specchi ustori per incendiare le navi nemiche e ganci con cui arpionarle-, orologi ad acqua, l’abaco con cui effettuare i calcoli con i grandi numeri, fino alla dimostrazione dello spostamento di una quantità di acqua proporzionale al peso della massa immersa, scoperta a cui la leggenda riferisce l’esclamazione: “Eureka!”.
Molti sono gli aneddoti riferiti alla concentrazione assoluta con cui Archimede lavorava, tanto da dimenticarsi di mangiare, curare la propria persona, fino a rifiutarsi, perché impegnato nello studio della geometria, di seguire il soldato romano che lo uccise nel 212 a.C.
Al piano più alto della mostra troviamo la sezione didattica, dove l’acqua inserita nei contenitori in vetro rende evidente come il volume di un cilindro con base uguale a quella di un cono e al diametro di una sfera è la somma di quello della sfera (2/3) più quello del cono (1/3). Istruttivi i modelli delle leve: è visibile che una leva è in equilibrio quando i pesi sono inversamente proporzionali alla distanze dal fulcro.
L’allestimento multimediale della mostra si rivela un arricchimento importante e integra le opere esposte, mentre la disposizione dei reperti, soprattutto nella prima parte, in vetrine cui è possibile girare intorno, ma in spazi ristretti, spesso crea difficoltà ai visitatori.
Il concetto di rete, si sa, è troppo spesso dimenticato nel mondo culturale del nostro Paese, e l’improvvisazione teatrale non fa eccezione.
Là dove all’estero esistono luoghi dedicati ai diversi generi teatrali e tutte le realtà improvvisative hanno uno spazio fisico di base per poi portare avanti autonomamente i propri progetti ovunque, in Italia questo concetto pare quasi avveniristico e le potenzialità di un’operazione simile sono probabilmente percepite come compromessi troppo costosi da raggiungere per un mondo che non perde comunque il suo fascino.
In Italia le associazioni e le compagnie di improvvisazione sono innumerevoli: è frequente trovare improvvisatori dell’una in spettacoli di un’altra, ma si tratta quasi sempre di collaborazioni occasionali oppure legate a singole serate o brevi festival e, nonostante sia facile imbattersi in spettacoli affollati e di altissima qualità artistica, allo stesso tempo non si può non notare che tutte le realtà non agiscono in maniera sistemica e secondo obiettivi comuni per far decollare “il genere”.
Prevale infatti un forte legame con la realtà territoriale locale delle singole compagnie, mentre all’estero esistono veri e propri poli specializzati che fanno da “cornice” alle singole realtà o leghe nazionali.
E’ difficile trovare una definizione univoca di improvvisazione teatrale. Se da una parte è facilmente intuibile che ricadono in questo mondo tutti quegli spettacoli, quei format che non prevedono un testo scritto, una trama, dall’altra parte l’evoluzione della disciplina rende non finito e in continua espansione l’insieme dei format che lo compongono.
Alcuni sono figli del theater sport: si tratta spesso di forme short, con gli attori divisi in squadre, come nel match d’improvvisazione teatrale, dove l’improvvisazione assume forma di sfida tra attori e in una serata si possono vedere anche decine di brevi storie; altri spettacoli sono invece long form narrative, in cui un gruppo di attori costruisce insieme una storia unica.
Due le costanti e le fondamenta universali: la partecipazione del pubblico e la collaborazione tra gli attori anche nei format competitivi.
Il pubblico può essere chiamato a votare, a fornire input come l’ambiente dove si svolgerà la storia, una parola con cui chiudere o cominciare la storia, a scegliere il protagonista; la collaborazione è la linfa necessaria perchè la storia o le storie hanno come imprescindibile fonte di partenza la relazione tra gli improvvisatori, quella che si crea nel momento in cui si incontrano, sul palco, quello che si genera dall’istantanea commistione delle loro idee e delle emozioni dei loro personaggi.
Roma, capitale anche per numero di vivaci realtà associative attive nell’improvvisazione,generatesi soprattutto negli ultimi anni, le vede ora entrate a pieno regime, dinamiche officine di nuovi format, che operano anche attraverso collaborazioni con artisti e compagnie straniere.
E’ il caso di Assetto Teatro, che presenterà il 21 e 22 giugno,oltre ai saggi dei propri allievi, anche il nuovo format della sua “Cantina”, vero e proprio gruppo e luogo di sperimentazione, elaborato insieme all’argentino Omar Galvan.
La Fonderia delle Arti ospita invece oggi (24 maggio) l’ultima serata con i Bugiardini, compagnia nata nel 2008 che festeggia i suoi 5 anni di vita e dopo tre settimane di “improvvisazione anche degli spettacoli” (hanno 4 format e per tre venerdì è stato estratto alla presenza del pubblico) stasera va in scena con un nuovo format, su cui la rete non offre anteprime.
La compagnia, formatasi anche presso centri internazionali di improvvisazione come il Second City di Chicago e il Loose Moose Theatre di Calgary, proporrà il prossimo agosto per la prima volta anche un Silent Movie improvvisato, al Fringe Festival di Edimburgo ad agosto 2013.
Le occasioni dunque per esperti e appassionati del genere, in questi giorni di attesa dell’estate romana, non mancano…buon divertimento!
Sull’improvvisazione teatrale leggi anche “Gli effetti collaterali dell’improvvisazione” e “Match teatrali con pantofola volante“, il racconto di due neofite alle prese con un match
L’arte contemporanea, proiettata verso una progressiva astrazione, sembra alienarsi sempre di più dal reale, eppure le sculture di Louise Berliawsky Nevelson (Pereyaslav, Kiev 1899 – New York 1988) ci raccontano la sua esistenza di artista-donna: “Gli uomini non lavorano in questo modo, diventano troppo attaccati, troppo impegnati nel mestiere o nella tecnica… Il mio lavoro è delicato… La vera forma è delicata. In esso c’è tutta la mia vita, e tutta la mia vita è al femminile”.
Questa retrospettiva ripercorre mirabilmente, con le oltre settanta opere esposte presso il Museo Fondazione Roma nella sede di Palazzo Sciarra, il percorso artistico di Lady Lou, che ha attraversato il secolo scorso con una passione per l’arte iniziata già a nove anni (alla domanda su cosa avrebbe fatto da grande, rispose: “Sarò un’artista. No, voglio fare lo scultore, non voglio che il colore mi aiuti”) e una determinazione ineguagliabile: “Se tu sai ciò che possiedi sai che non c’è nessuno sulla terra che può distoglierti da questo”. La prima metà del secolo non deve essere stata facile per una donna di origine russa, ebrea, emigrante (smise di parlare per sei mesi a seguito della partenza del padre e lo raggiunse negli Stati Uniti nel 1905), divorziata (sposò nel 1920 Charles Nevelson da cui si separò dopo una decina di anni e da cui ebbe un figlio) e artista (studiò canto, teatro, danza, frequentò l’Art Students League e i corsi di Hans Hofmann).
Del suo primo periodo di artista (1930-33) troviamo in mostra i disegni, semplici linee che indicano
il volume della figura femminile, padroneggiando lo spazio. I suoi viaggi in Europa la mettono in contatto con il cubismo, l’arte africana e Picasso – delle cui opere, nonostante il rifiuto per ogni etichetta, dichiarerà l’influenza – e quelli in Messico e Guatemala con l’arte precolombiana e indoamericana. La linea quale elemento arcaico, nelle sue prime sculture, risente della collaborazione a New York con Diego Rivera e Frida Kahlo. Le prime sale ospitano le opere in nero (“Quando mi sono innamorata del nero, per me conteneva tutti i colori”), degli anni ’50 e ’60, realizzate con legni trovati in strada. In questi assemblages si legge la vita di Louise: i recuperi lignei, la cassetta da carpentiere, ovvero il riferimento al padre Isaac, taglialegna, commerciante di legname e carpentiere e al nonno che in Russia possedeva boschi e legname; il periodo del nero (nigredo) è, non a caso, successivo alla morte del padre (1946), a quella del suo gallerista Nierendorf (1947) e alla crisi depressiva che colpì Louise.
Nella quinta sala contrastano alcune opere in bianco (albedo): Dawn’s Host e Columns from Dawn’s Wedding Feast, due totem a tema nuziale del 1959. La trasmutazione della materia, la metamorfosi degli oggetti, non poteva che concludersi – al termine del percorso espositivo – con l’ultima fase alchemica: l’oro (“Volevo dimostrare che il legno recuperato nella strada può essere oro”), The Golden Pearl (1962) e Royal Winds (1960) sono i risultati dell’opus artistico della sciamana Louise. Ma il riferimento all’oro dell’arte sacra e delle icone russe sembra ineludibile.
Il filo conduttore delle opere di Louise è il tempo, la memoria. Il passato, il recupero dell’objet trouvé (i ready-made, Kurt Schwitters, Duchamp); il presente, l’assemblaggio di un vissuto intimo di cui l’artista distilla la poesia, che riordina, a partire dal 1955, in spazi precisi, teatri della memoria disposti in cassette di legno, tabernacoli o secrétaire, e che armonizza attraverso l’omogeneizzazione cromatica di contenuti e contenitori (nero, bianco e oro) e l’equilibrio di vuoti e pieni, una scrittura fatta di ombre (“Architetto dell’Ombra” era una definizione che le piaceva); infine il futuro della nuova vita artistica data agli oggetti, oltre quella per cui erano stati creati, i nuovi materiali, i metalli, per le monumentali installazioni di cui in mostra è possibile vedere alcune foto e video (Sky Tree, 1977, in acciaio dipinto di nero, a San Francisco, Embarcadero Center). Autocreazione di se stessa la ricordiamo, oltre che per la sue sculture, non solo per la bellezza, i foulard, le ciglia finte e i vestiti eccentrici, ma soprattutto per il suo sguardo intelligente e volitivo.
Foto
– Louise Nevelson, ca. 1979 / Basil Langton, photographer.
Louise Nevelson papers, Archives of American Art, Smithsonian Institution
– Louise Nevelson – Royal Tide III, 1960
Legno dipinto nero
202 x 153 x 41 cm
Louisiana Museum of Modern Art, Humlebaek
© Louise Nevelson by SIAE 2013
– Louise Nevelson – Column from Dawn?s Wedding Feast, 1959
Legno dipinto bianco, cm 239,4 x 45,7 x 45,7
Column from Dawn?s Wedding, 1959
Legno dipinto bianco cm 239,7 x 27,9 x 27,9
The Menil collection, Houston
© Louise Nevelson by SIAE 2013
L’8 maggio munitevi di tante buone idee, creatività, senso artistico e …di un lenzuolo. Sì, avete capito bene: un lenzuolo. Sarà la tela bianca attraverso cui comunicare al mondo i vostri pensieri, sotto forma d’arte.
L’appuntamento è alle 17,30 sul Ponte della Musica a Roma, sopra la struttura pedonale e ciclabile in acciaio e cemento armato, che sormonta il quartiere Flaminio della Capitale dal 31 maggio 2011, data della sua inaugurazione.
Foto di Mario Proto
A dare appuntamento è Y.E.A – Young Explorer Agency, agenzia romana di coworking, che punta non solo alla condivisione di spazi tra giovani impegnati nella cultura, ma anche nello scambio delle loro professionalità. Tale soggetto è l’ideatore di questa iniziativa che si presenta come performance artistica collettiva, avente una valenza sociale.
Il progetto si chiama infatti L.A.N.D – L’Arte Non Dorme e, come si evince dal nome, intende rappresentare un’occasione per cittadini e artisti di far sentire la propria voce, sebbene in maniera insolita.
I partecipanti dovranno infatti esprimere le loro riflessioni colorando i già citati lenzuoli bianchi. Il progetto si basa infatti sul concetto del ready made, consistente nel ripensamento e ricontestualizzazione di oggetti d’uso quotidiano che, se avulsi dal loro normale impiego, possono tramutarsi in strumenti importanti di arte e comunicazione.
I temi su cui si è invitati a pronunciarsi sono tre:
– la trasformazione dello spazio urbano;
– idee, speranze e strumenti per il rinnovamento della società;
– Italia 250. Dove ti vedi?
In questo modo l’evento vuole attrarre l’attenzione dell’opinione pubblica, restituendo la voce a coloro che vivono per primi la città e che intendono lavorare insieme per migliorare la qualità della loro vita e degli spazi urbani abitati.
Tutti i partecipanti a L.A.N.D esporranno infatti i loro lenzuoli sorreggendoli in prima persona, dal Ponte della Musica e per tutta la lunghezza di Via Guido Reni, la strada che conduce al Museo MAXXI, accompagnati da esibizioni, flash mob e spettacoli musicali e teatrali, offerti da associazioni e gruppi coinvolti.
Trattandosi di una manifestazione collettiva, tutti sono infatti invitati. Per partecipare basta scrivere a info@yea-contest.it specificando il nome del gruppo, il numero dei componenti e il tema scelto. Per curiosare nel “dietro le quinte” dell’evento è possibile invece visitare la pagina facebook di YEA-contest, dove non mancheranno foto e testimonianze dei preparativi per LAND.