La complessità visiva di The Mill and the Cross è chiara sin dalla scena iniziale. Gli spettatori riconoscono i paesaggi di Pieter Breugel, presenti in tutti i libri di storia dell’arte. O magari brevemente ammirati durante una visita al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Ci sono figure familiari di contadini, fermate per un istante nelle loro attività minimali e criptiche. Figure che, poi, si muovono.
“I mie quadri dovranno raccontare molte storie”, dice il personaggio di Breugel, parlando per sé (e per il regista Lech Majewski) all’inizio del film: “Dev’essere grande abbastanza da contenere tutto. Tutto e tutte le persone – almeno un centinaio”.
Un centinaio almeno, fotografate e inquadrate da vicino e da lontano. Inserite separatamente attraverso effetti visivi nel paesaggio del quadro di Breugel Salita al Calvario con un processo durato, dice Majewski, più di due anni.
The Mill and the Cross non è soltanto una meraviglia da vedere, ma un capolavoro narrativo, che estrae dalla grande tela alcune storie più nitide. Il film racconta la creazione del quadro, un’avvincente dissertazione sulla simbologia di Breugel, attimi di vita nell’Olanda spagnola durante l’Inquisizione, e la Passione. Niente male per un film di 91 minuti.
Breugel aveva disseminato in questo ed altri dipinti centinaia di storie. Majewski ne sceglie un piccolo gruppo e le guarda da vicino, mantenendo sempre una narrazione fluida. La storia più straziante è quella di una giovane coppia: l’uomo è stato picchiato e lasciato morente sulla ruota di tortura. Ma ci sono anche scene della famiglia del pittore, con la giovane moglie che cerca di domare una mandria di ragazzini indisciplinati.
Majewski sorprende il pubblico col personaggio del mugnaio, sorta di personalizzazione di Dio, come spiega Breugel. Le scene del mulino sono tra le più piacevoli del film, ed è bello pensare che Dio si svegli ogni mattina, scuota la grassa moglie con una pacca sulla spalla, e si trascini fino al tavolo della cucina per mangiare un pezzo di pane raffermo prima di iniziare a lavorare.
Il mulino è una storia a sé, una pantagruelica creatura cigolante, in parte meraviglia digitale, in parte vecchio edificio. Il sound design di Majewski rende i tonfi del mulino un elemento vivente della colonna sonora. Il rumore degli zoccoli di legno, il frastuono assordante dei cavalli, le asce dei taglialegna e gli immancabili martelli portano avanti la storia e ne rendono insieme il senso filosofico.
Sebbene ispirato da un testo scolastico, The Mill and the Cross, il film non è verboso, anzi: ad eccezione delle brevi arringhe dei soldati spagnoli, le uniche frasi sono quelle di Breugel (Rutger Hauer), del suo mecenate Jonghelinck (Michael York) e della madre di un condannato (Charlotte Rampling).
La prova del trio è eccellente, poggiata tutta sulle espressioni del viso più che sui dialoghi. Il viso di Hauer, floscio, rugoso e mal rasato, è più significativo che mai. Lo Jonghelinck di York è il ritratto di un uomo inerme che cerca di mantenere la dignità. Rampling è la definizione del dolore.
I vari frammenti del plot si muovono insieme e si intrecciano in una scena di massa nella quale Majewski ricrea il preciso istante del quadro di Breugel, con una meravigliosa cesura – prima che l’azione riprenda.
The Mill and the Cross è l’ottima dimostrazione della visione e delle capacità di Majewski, che ha scritto la sceneggiatura insieme a Michael Francis Gibson, autore del libro ‘The Mill and the Cross – Peter Bruegel’s “Way to Calvary”‘ al quale il film si ispira. Majewski, che ha diretto il film e curato il sound design, si è occupato anche delle riprese (insieme al direttore della fotografia Adam Sikora), del design dei paesaggi e in generale della musica.
La pellicola non è mai troppo vistosa: attrae, diverte ed educa il pubblico, e poi prende gli applausi. Il finale suggerisce agli spettatori che potranno trovare queste storie e molto ancora sulle pareti dei musei e delle gallerie: Majewski è solo entrato, e ha lavorato per noi con l’immaginazione.

Se l’essere umano ha cinque sensi, all’uomo del terzo millennio ne bastano due. Rifletteteci: sul tatto non investiamo tanto, anche perché i continui allarmi sanitari degli ultimi decenni ci hanno insegnato a disinfettare (e se possibile coprire le nostre mani), pericolosamente esposte a qualsiasi nuovo contagio; il gusto, per quanto i vari stili slow, vega, macro ci vengano incontro, finiamo generalmente per piegarlo alle logiche ed economie della grande distribuzione che, per evidenti ragioni industriali, tende ad omologare quell’incantevole diversità che la natura ci ha regalato; l’olfatto… esiste ancora? Insomma, tra allergie, raffreddori, sinusiti e via discorrendo, credo che la guerra tra i produttori di fazzoletti e le maison di prodotti odorosi vedano i primi vincere sui secondi, non perché abbiamo smesso di profumarci, anzi, ma semplicemente perché “sentiamo” meno.

La top five se la contendono, dunque, vista e udito. Impossibile dichiarare il vincitore, anche perché il grosso delle sollecitazioni ci arriva in formato audio-video. Certo, però, non è difficile capire che dalla prima Era industriale in avanti, il genere umano non si è risparmiato nella produzione di suoni ed immagini: belle, brutte, originali, copiate, mixate, contaminate, analogiche e digitali. Il motivo è relativamente semplice: i contenuti audio e video sono stati i primi che l’uomo è stato in grado di spostare/trasferire salvaguardandone la forma, sono quelli con i quali gestiamo la parte maggiore della nostra socialità. Infine, connesso con le prime due, dobbiamo considerarne l’archiviabilità: la possibilità di farne memoria e rintracciarli nel tempo.
I geologi ci ricordano che l’uomo, rispetto all’età del Pianeta Terra, è come un ragazzino: impara velocemente, sperimenta, sbaglia e si lagna ad ogni capitombolo. Nell’ansia di giocare con i suoni e le immagini, ha perso di vista il punto di partenza: in particolare il silenzio.
Capita a tutti, anche involontariamente, di trovarsi di tanto in tanti in luoghi davvero privi di suoni e soprattutto di rumori, luoghi in cui quasi sentiamo il nostro cuore battere, il lieve ticchettio dell’orologio, il poetico frusciare del vento tra le foglie.
Per tentare di riconnettere i propri cittadini con quella dimensione di piacere che si ha nell’ascoltare suoni semplici, cogliendone le sfumature, la Provincia di Torino ha inaugurato il progetto Paesaggi sonori con il quale intende instaurare un confronto con chiunque sia interessato al  rapporto tra acustica, rumore, suono, senso dell’udito e tessuto sociale.
La premessa è interessante: combattere l’inquinamento sonoro, non significa solamente ridurre il rumore, bensì si tratta di determinare dei parametri socialmente condivisi e che fissino soglie utili a definire un certo luogo vivibile dal punto di vista fonico.
Per mappare questi luoghi, la Provincia ha suggerito tre denominazioni: oasi sonore, riserve acustiche e  paesaggi sonori tipici della Provincia di Torino.
Della prima fanno parte quei luoghi dove l’ascolto ritrova una dimensione prevalentemente silenziosa o con eventi sonori a bassa intensità. Con i secondi s’intendono aree contraddistinte da suoni fortemente caratterizzati e che quindi non saranno quasi mai aree silenziose. I terzi riguardano quei  luoghi in cui i suoni richiamano immediatamente alla mente una precisa tradizione o condizione ambientale, tipica del territorio torinese.
In epoca di crisi economica globale pare velleitario occuparsi di paesaggi sonori ma proprio in questi frangenti l’attenzione alla breve distanza si fa più forte e, forse più necessaria. D’altra parte molti artisti contemporanei sviluppano da tempo produzioni legate al suono delle cose e delle situazioni reali. Il variegato mondo delle sonorizzazioni, infatti, passa proprio dalla rivalutazione dei microsuoni e dalla possibilità di campionarli, mixarli, modularli.
In Europa non sono molti i centri di catalogazioni dei suoni, se si escludono quelli dei centri di ricerca o dei privati, ma vale la pena di segnalare l’archivio pubblico della British Library che, oltre ad una vastissima collezione di dischi, video e registrazioni radio, conta, nella sezione “wildlife”, oltre centocinquantamila documenti sonori che comprendono animali, pianti, fenomeni atmosferici e umani.
Buon ascolto!

 

Quanto la creatività abbia a che fare oggi con il web ed internet è cosa ormai risaputa, tanto piu’ quando si parla di specifiche espressioni dell’arte contemporanea come la  video e sound art, che giocoforza dipendono e si perfezionano grazie al crescente sviluppo delle nuove tecnologie e trovano nel mondo virtuale uno spazio idoneo alla loro fruizione.
Molti sono i progetti che, sull’onda di tale sviluppo, sono nati negli ultimi anni; tra quelli rintracciabili nel web citiamo per tutti ART HUB.
Voluto nel  2005 dall’associazione milanese FreUndo– caso più unico che raro di laboratorio autoriale e di ricerca indipendente fondato da Anna Stuart Tovini, Vincenzo Chiarandà ed Emanuele Vecchia– il progetto è stato realizzato grazie al contributo di Fondazione Cariplo nell’ambito di uno specifico bando volto a incentivare la creatività giovanile e ha l’obiettivo di ricostruire un quadro della produzione della creatività contemporanea in Lombardia favorendone la circolazione e ponendosi nello stesso tempo come un osservatorio permanente sulla scena artistica contemporanea  a livello nazionale “connettendo” e mettendo in comunicazione gli artisti che operano nella video e sound art.
In particolare, i principali canali di promozione messi a disposizione nell’ambito di Art Hub sono un  Archivio on line e una webTV per  favorire l’accesso ad un pubblico vasto e allargato delle opere  video-musicali; tutta la tecnologia utilizzata è stata realizzata da freeUnDo e si basa su softwares open source.
L’Archivio ART HUB  si pone come piattaforma per l’accesso organizzato alle opere degli  che artisti hanno concesso l’autorizzazione alla riproduzione integrale o parziale in formato per internet nonché varie informazioni come  schede sugli artisti under 35 , italiani o stranieri, che studiano o lavorano in Italia e schede su tutte le opere presenti in Archivio; queste opere sono visionabili anche  presso la sede milanese dell’associazione freeUnDo.  La  webTV integrata alla piattaforma Art Hub con un player permette all’utente di visualizzare tutte le opere presenti in Archivio associate alle informazioni sui rispettivi autori, condividerle con tutti i social network e soprattutto di creare proprie Playlist di video da condividere con altri utenti.
Inoltre, all’attività permanente di promozione dei giovani artisti attraverso questi canali, ART HUB affianca iniziative temporanee dedicate alla formazione, alla mobilità e allo sviluppo della rete relazionale degli autori presenti in Archivio: Workshop, Laboratori e Residenze all’estero.
Queste ultime, vere e proprie esperienze sul campo, come quelle attivate lo scorso anno in collaborazione con Dena Foundation for Contemporary Art presso il Centre International d’Accueil et d’Echanges des Récollets di Parigi.
Con questa singolare e fruttuosa iniziativa Art Hub ha offerto la  possibilità ad alcuni giovani artisti, selezionati tra quelli partecipanti al workshop estivo, di sperimentare un effettivo contatto con il panorama artistico della città europea ospitante. Il  residente viene  infatti costantemente seguito e introdotto nella conoscenza della scena culturale di Parigi attraverso le numerose occasioni di incontro con addetti ai lavori promosse dalla Fondazione:  oltre alle visite alle mostre in corso, sono state  organizzate giornate di visita agli ateliers dei residenti selezionati (Diego Caglioni, Derek Di Fabio, Francesco Fossati, Gjoke Gojani, Sanja Lasic, Sergio Racanati, Andrea Santuari e Manuel Scano) da parte di curatori, critici e direttori di istituzioni artistiche pubbliche o private che hanno potuto così vederli all’opera, conoscerli e valutarli sul campo.

Intervista a Ronald Lewis Facchinetti – ideatore e curatore del progetto Kilohertz

KiloHertz è presente al Fuori Salone del Mobile a Milano con l’obiettivo di creare una nuova filosofia attraverso la quale il design diventa parte integrante dell’esperienza di ascolto. Come nasce il progetto KhZ e quali saranno le principali installazioni con cui il pubblico potrà interagire?
Kilohertz è un progetto che si propone come brand nel quale confluiscono le produzioni artistiche di diversi soggetti, volte all’ascolto della musica attraverso il corpo. Sfruttando infatti la trasmissione delle frequenze sonore con elementi solidi, sarà possibile ascoltare le note a livello tattile e corporeo. Ne sono un esempio il Sound Grass, tappeto dalle sembianze di prato su cui sdraiarsi e recepire le vibrazioni sonore o l’Horta, che ha invece una forma primaria e modulare su cui potersi accomodare. Servendosi di questi elementi è possibile, attraverso le oscillazioni musicali, visualizzare forme e movimenti a livello fisico.

Quali sono le caratteristiche comuni ai protagonisti dell’evento e quali sono state le tappe che hanno portato alla scelta dei vari sound designer e dj coinvolti?
Per Kilohertz la sperimentazione è fondamentale, così i diversi autori musicali e dj sono selezionati ascoltando demo che ci vengono proposti ed inviati o tramite i contatti con le case discografiche. 

Oggi il sound design è un settore in sviluppo in vari campi dell’arte e in generale della cultura. Qual è stato il suo percorso professionale?
Il sound design nasce in realtà dalla contemplazione mistica favorita dal suono, che già veniva praticata in passato. Dal mondo new age e da pratiche meditative vengono molti stimoli di ricerca e ispirazione. E alla base delle creazioni di Kilohertz c’è lo stesso intento meditativo e riflessivo.

Quale tipo di musica o sound ha prediletto per le sue istallazioni?
Sono stati preferiti musiche e sound a basse frequenze, che favoriscono la captazione fisica del suono. Essendo infatti il corpo umano maggiormente composto d’acqua, ha un elevato grado di sensibilità alle onde sonore, che inducono la vibrazione dei liquidi. Le basse frequenze favoriscono chiaramente la meditazione ed il rilassamento, a differenza di quelle alte. Ma come dicevamo la sperimentazione è sempre aperta, tanto che non mancano istallazioni che si rifanno a suoni dell’avanguardia brasiliana (Sambass e NuBossa presso Brasil SA).

In tutti i Suoi progetti, anche precedenti (Container Art, MindCube…), si pone l’accento sulla “fruizione”. Chi è, secondo la Sua idea, il fruitore contemporaneo?
Il ‘fruitore’ di queste istallazioni può essere il musicista e compositore esperto, ma anche il neofita del genere, che viene incuriosito da queste forme artistiche e desidera sperimentarle in prima persona. Ciò che prevale non è tanto il contenuto dell’opera, quanto invece la centralità dello spettatore che con la sua impressione personale trova il senso dell’oggetto.

Per lei la contemplazione estetica è un qualcosa di intimo ed individuale o è possibile che venga sperimentata collettivamente?
E’ fondamentale scindere le due cose. La contemplazione estetica deve essere fondamentalmente individuale, essendo un’esperienza mistica e rivelatrice. Nel container di Container Art, per esempio, è necessario entrarvi singolarmente per saggiarne il contenuto e riflettere. In un secondo momento, come per il mito di Platone, lo spettatore esce dall’isolamento dell’istallazione-grotta, per condividere con gli altri la propria esperienza. Proprio a questo scopo, al fianco di alcune opere sono presenti postazioni su cui è possibile lasciare commenti a caldo.

Le opere da Lei presentate sono in vendita?  A quale mercato sono rivolte queste  creazioni?
I formati delle opere non sono limitati: quello dalle dimensioni più ridotte misura infatti 180×90 cm. Si basano però su tecnologie alla portata di tutti. Questo fa prospettare una futura espansione del mercato dei nostri prodotti che, grazie anche alla collaborazione con altri brand, se supererà il vaglio della critica dell’arte contemporanea, troverà una sua apertura nel mercato di massa. Ciò che conta è comunque educare i fruitori a queste nuove forme artistiche per favorirne la conoscenza e l’espansione anche nella quotidianità, grazie anche alla crescita tecnologica prospettata nei prossimi anni che ne determinerà la semplificazione.

Dal 2005 la Comunità Europea promuove le attività di Kaleidoscope, rete di eccellenza che connette 91 Università e Centri di ricerca di 24 paesi fra Europa e Canada, con l’obiettivo di sondare le potenzialità del technology enhanced learning, l’educazione potenziata dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Ict).
Peculiare in Kaleidoscope è l’impostazione di “community”; di una rete che fa incontrare scienze sociali, informatiche e della formazione: un interesse centrale risiede, del resto, nelle ricerche integrate e trasversali, per le quali è possibile proporre iniziative di ricerca dedicate. La struttura delle attività si articola negli Ert (European Research Team), che si concentrano su precise sfide di ricerca.
Ad esempio, l’Università di Siena coordina l’Ert che si occupa della produzione di formati educativi, al quale partecipano le Università di Barcellona, Atene, Bristol e Limerick. Il concetto di format educativo riconosce il superamento del tradizionale “programma” della lezione, che non permette la personalizzazione né le modifiche in itinere dei contenuti. Ne consegue la proposta di nuovi format, originariamente mutuati da quelli diffusi in tv o alla radio. L’obiettivo è creare una scatola degli attrezzi dinamica, grazie alla quale insegnanti, progettisti e ricercatori possano elaborare nuove modalità di insegnamento.
Ma cosa succede quando questa impostazione viene applicata alla musica? L’impegno congiunto del Centro musicale fiorentino Tempo Reale, delle Università di Siena e Limerick e di sei classi della scuola elementare “Kassel” di Firenze ha dato vita a un progetto sperimentale finora unico nel suo genere. Presupposto alla base, la consapevolezza che le tradizionali metodologie di insegnamento della musica siano troppo lineari e prevedibili, basate da sempre sulla rigorosa esecuzione più che sulla valorizzazione della creatività individuale. Il risultato di un simile approccio rischia di demotivare anche studenti dotati di una innata predisposizione alla creazione musicale.
Il programma di Alfabetizzazione Musicale con le Nuove Tecnologie si propone di presentare ai discenti i parametri che definiscono musica e suoni, insegnare a riconoscere le modalità attraverso cui i suoni si trasformano e sviluppare l’attitudine alla composizione. Strumenti del progetto, la mediazione del computer e l’impostazione narrativa delle trame educative. Con l’auspicio di condurre a un approccio alla musica più istintivo e personale.

Filippo Fanò è un ricercatore dell’ERT Produzione di formati educativi, e unisce le due anime del ricercatore e del musicista. Stefano Luca è il principale ispiratore e coordinatore del corso di Alfabetizzazione Musicale del centro fiorentino Tempo Reale. Ecco cosa ci raccontano del progetto.

Potreste descriverci brevemente una lezione-tipo di Alfabetizzazione Musicale?
F.F. Il corso si basa su un numero variabile di attività, ognuna delle quali è ritagliata attorno a degli obiettivi educativi come la comprensione dei parametri che definiscono i suoni, la trasformazione degli stessi e l’acquisizione di alcuni principi compositivi. Solitamente una lezione si articola in 3-4 momenti principali: introduzione, esplorazione, manipolazione/creazione, riascolto collettivo. La prima e l’ultima sono le fasi in cui pressoché tutta la classe ascolta, commenta e discute in modo condiviso, assieme agli educato

Lelio Camilleri, titolare del corso di Musica Elettronica presso il Conservatorio G.B. Martini di Bologna, nelle pagine del suo ultimo libro affronta le questioni inerenti le modalità di manipolazione del suono, ed il rapporto che intercorre tra suono e comunicazione, mettendone in evidenza le rilevanti implicazioni sulla sfera cognitiva e percettiva. I suoni che accompagnano determinate immagini divengono fondamentali nell’interpretazione e nell’attribuzione di significati, che mutano non solo al variare del tipo di suoni associati a quelle stesse immagini, ma anche in relazione alla loro presenza/assenza.
Come suggerisce l’autore, guardare un filmato, esplorare un sito internet, interagire con il proprio videogioco preferito, restituisce effetti emotivi diversi a seconda della presenza oppure dell’assenza di un accompagnamento sonoro.
Oltre ad una interazione di tipo empatico, a cui si assiste quando vi è una stretta relazione tra la musica e le immagini inserite in uno stesso contesto, esiste anche una interazione di tipo anempatico, la quale attraverso l’apparente indifferenza che lega il contenuto delle immagini e l’articolazione musicale, tende ad accrescere ancora di più il valore aggiunto che il sonoro apporta alla sequenza visiva. Ne deriva, quindi, che “il suono condiziona il messaggio e serve per orientare la comprensione delle immagini”.
I suoni possono svolgere, anche, una rilevante funzione simbolica nella trasmissione della propria identità agli altri, in ambienti in cui la scelta di una suoneria per il proprio cellulare può essere interpretata come “un mezzo per comunicare se stessi e organizzare, mediante il suono, una parte dei propri rapporti sociali”.
L’intreccio tra la componente sonora e quella visiva costituisce, poi, uno dei campi d’azione privilegiati dell’arte contemporanea, dove si assiste ad una produzione sempre crescente di installazioni audio-visive, che giocano proprio con le infinite possibilità di combinazione di questi due elementi.
Il libro di Camilleri si sofferma anche sulla descrizione ed investigazione di queste nuove forme di contaminazioni sinestetiche, da cui derivano prodotti come le installazioni sonore, o concetti come l’arredo sonoro ed il sound design. Il che equivale ad affermare che “la nostra vita è pervasa dal suono, sia esso naturale o artificiale”.

Il peso del suono
Forme d’uso del sonoro ai fini comunicativi
Apogeo 2005 euro 15
ISBN 978-88-503-2396-4

Gli autori sono Giuliano Gaia, specializzato in siti web culturali, responsabile comunicazione di una web agency milanese, si sveglia ogni giorno con Radio 24 e si addormenta con l’iPod nelle orecchie, cosa che sconsiglia vivamente ai lettori. E Stefania Boiano che ha girato il mondo e la rete. Ora è a Londra, lavora al Design dei siti web della rivista scientifica Nature, ma non dimentica il suo primo amore radiofonico di napoletana DOC: Radio Kiss Kiss.

Gli esperti intervistati nel libro sono Antonio Dini (Giornalista e blogger, è nato a Firenze nel 1969 e da sedici anni usa solo Apple. Gli abbiamo chiesto di scrivere un capitolo sul podcasting e il Mac, a patto che lo scrivesse con un PC. Ha preferito scriverlo a penna. antoniodini.blogspot.com), Pendodeliri (di lui si sa solo che si chiama Antonio, che ogni giorno viaggia sulla SS 148 Pontina, che ha realizzato uno dei podcast di più grande successo in Italia, e che prima o poi tornerà tra noi con qualche altra nuova, brillante idea. pendodeliri.splinder.com), Valerio Di Giampietro (Sarà perché è un ingegnere elettronico, sarà perché lavora nell’informatica da 20 anni, ma la sua precisione e cura per i dettagli sono proverbiali nel mondo del podcast, tanto che il suo “Notizie Digitali” è uno dei più seguiti e apprezzati della rete. www.audiocast.it), Paolo Attivissimo (si autodefinisce “farneticante e borioso grafomane, divulgatore informatico, giornalista e cacciatore di bufale”. Noi lo definiamo uno dei chiacchieroni più efficaci della rete. www.attivissimo.net), Marta Cagnola (la voce che ogni sera fa sognare di cinema su Radio24. Un passato in televisione, un presente alla radio e nei blog, un futuro nei podcast? www.microbloggiallo.it) e Matteo Merzagora (Giornalista scientifico appassionato di radio, vive a Parigi ma non rinuncia a far sentire la sua voce anche in Italia. E’ il nostro ponte con il podcasting europeo. www.scienceonair.org).

Il Tuo podcast
Stefania Boiano, Giuliano Gaia
Edizioni FAG 2006 euro 9,90
ISBN 8882335305