Culture21 srl – Gruppo Monti&Taft Ltd
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È stato presentato ieri mattina a Roma, al Teatro Orione sull’Appia, il volume “Immigrazione. Dossier Statistico 2013”, titolo che si accompagna in copertina, sempre a caratteri cubitali, a “Rapporto Unar. Dalle discriminazioni ai diritti”, realizzato dall’Idos (acronimo che sta per Immigrazione Dossier Statistico) su committenza giustappunto Unar. L’Unar opera nell’ambito del Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Si tratta del primo annuario pubblicato in Italia per la raccolta di dati socio-statistici sui temi dell’immigrazione.
Per chi non conosce l’opera, si tratta di un corposo tomo di poco meno di 500 pagine, che, ormai a cadenza annuale, da oltre un ventennio (fino al 2003 curato dalla Caritas di Roma e poi dal Centro Studi Idos), propone un’interessante analisi, soprattutto quantitativa, della situazione dell’immigrazione in Italia, con molte tabelle e capitoli che affrontano le tematiche migratorie da diverse prospettive: statistiche, economiche, politiche, giuridiche.
Quel che qui vogliamo segnalare (denunciare?!) è che nel tomo, certamente prezioso, non c’è una pagina una dedicata alla cultura, allo spettacolo, alle arti, ai media: eppure i 5,2 milioni di cittadini stranieri regolarmente presenti a fine 2012 sul territorio italiano non sono – si ha ragione di ritenere – soltanto lavoratori e consumatori di beni materiali, ma anche fruitori e finanche autori di cultura. L’incidenza degli stranieri sulla popolazione residente è del 7,4 % del totale nazionale. Gli stranieri iscritti nelle scuole italiani sono poco meno di 800mila, e corrispondono al 9% della popolazione studentesca. I neonati stranieri hanno rappresentato nel 2012 il 15% di tutte le nascita in Italia. Le due comunità più rilevanti in termini quantitativi sono i cittadini del Marocco e dell’Albania, le cui comunità sono formate entrambe da circa 500mila persone; seguono i cinesi, con 300mila, ed è sopra la soglia dei 200mila l’Ucraina.
Il rapporto Idos è uno strumento certamente prezioso, e, in qualche modo, evoca l’ormai mitico rapporto annuale del Censis sulla situazione del Paese (giunto nel 2012 alla 46ª edizione): è indiscutibilmente un testo di riferimento, per chi si interessa di politiche sociali e specificamente di migrazioni. Se si vuole trovare un qualche deficit, va cercato nell’impostazione complessiva (non particolarmente critica, anzi un po’ asettica) e forse nella eccessiva parcellizzazione delle tematiche (75 capitoli!): insomma, sembra mancare una lettura critica sintetica. Una pecca anche nell’impaginazione, troppo classica, con un’architettura grafica che non invita alla lettura: non viene proposto nemmeno un grafico o una visualizzazione. Conferma di questo approccio eccessivamente tradizionale – nella rappresentazione dei dati – s’è registrata anche durante la presentazione del rapporto: la relazione di Pittau non è stata accompagnata da alcuna slide. E, per quanto accurato l’eloquio del “rapporteur”, un rapporto scientifico ha anche necessità di “rappresentazioni” visive sintetiche, e forse anche un po’ d’effetto… Questa mancanza non è compensata da un breve video curato dalla Rai, che ha cercato di estrapolare un set di dati dal rapporto, sullo sfondo di immagini di repertorio (il video sarà online su YouTube da oggi).
Al di là di questi aspetti “coreografici”, perché la presentazione e l’impostazione del volume ci preoccupa?!
Perché in tutti gli interventi, durante le tre ore di presentazione del rapporto, non abbiamo ascoltato alcuna riflessione sulla funzione della cultura come strumento di integrazione sociale, anzi di “interazione sociale” (come si usa ormai nello slang specifico della sociologia delle migrazioni). Eppure, sono proprio i media e la cultura gli strumenti che possono stimolare (o non stimolare) la coesione sociale, e la promozione di visioni plurali della realtà, che combattano esclusione e discriminazione.
Indiscutibilmente i relatori erano tutti di gran qualità e della massima rappresentatività istituzionale: dal Presidente dell’Idos Franco Pittau alla giornalista di Radio Vaticana Maria Dulce Araújo èvora, dalla Capo Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio Ermenegilda Siniscalchi, dal Direttore Generale dell’Unar (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) Marco De Giorgi alla Vice Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali (con delega alle Pari Opportunità) senatrice Maria Cecilia Guerra, per arrivare alla onorevole Ministro per l’Integrazione Cécile Kashetu Kyenge.
Non una parola una dedicata alla cultura.
Va lamentato che non esiste una ricerca sulla fruizione culturale e mediale degli stranieri che vivono in Italia.
Va ricordato che pure esistono testate a stampa in lingua straniera edite in Italia, esistono emittenti radiofoniche e televisive locali che offrono trasmissioni per gli stranieri, esistono scrittori ed anche gruppi artistici – soprattutto in ambito musicale – che si impegnano a fare della cultura uno strumento di condivisione di valori, di integrazione, di coesione, di lotta al disagio, di difesa delle pluralità (ideologiche, religiose, etniche…).
Un esempio ormai divenuto famoso a livello nazionale è l’Orchestra di Piazza Vittorio, ma sono attive in Italia decine e decine di gruppi musicali multietnici, rispetto ai quali non esiste alcuna letteratura scientifica e l’attenzione dei riflettori mediali è quasi inesistente.
Come se la dimensione culturale degli immigrati fosse una variabile minore, marginale, e non invece centrale…
Quel che sembra emergere (confermata anche dall’affollato convegno di presentazione del rapporto Idos) è una sorta di “deriva economicista” del senso dello Stato: tutti gli intervenienti hanno posto l’accento su quanto gli immigrati contribuiscano ormai all’economia nazionale, come produttori di reddito, come imprenditori, come consumatori. Come se questa variabile fosse essa a poter rafforzare (ri-legittimare eticamente?!) il senso dell’intervento pubblico nel settore. Gli immigrati contribuiscono alla ricchezza economica del Paese: “quindi” sono degni di adeguata attenzione.
Diversi intervenienti hanno richiamato la stima Idos secondo la quale il “bilancio costi/benefici per le casse statali” (inteso come delta tra la spesa pubblica per l’immigrazione, da una parte, ed i contributi e le tasse pagate dagli immigrati dall’altra) avrebbe registrato un risultato positivo di ben 1,4 miliardi di euro nel 2012: insomma, rimesse all’estero a parte, gli immigrati contribuiscono anche alla ricchezza degli italiani non stranieri…
Il fenomeno (cioè questa “interpretazione”) mostra inquietanti punti di contatto con il dibattito italiano sulle politiche pubbliche a favore della cultura: ogni tanto, emerge la ricerca alfa o lo studio beta che “contano”, “misurano”, “quantificano” l’economia della cultura: fatturato, addetti, imprese, indotto, moltiplicatori e compagnia cantando… Spesso si tratta di numeri in libertà, stime simpaticamente nasometriche, ma i giornali e gli altri media se le bevono (senza scrupolo), e talvolta anche quotidiani nazionali titolano a piena pagina dati e statistiche (che non sono validate, ma che fanno effetto)! Come dire?! L’economico conta più del semiotico: non ci si sofferma sul “senso” della cultura, ma sulla sua funzione economica.
Sembra venir meno il senso profondamente civile (costituzionale, ci sia consentito) dell’intervento pubblico (e le politiche a favore della cultura non sono differenti, in questo, rispetto alle politiche sociali): se il “settore” di riferimento “pesa” economicamente, allora sembra che cresca il senso del ruolo dello Stato!
Il rapporto viene distribuito gratuitamente a chi lo richiede (www.dossierimmigrazione.it). Essendo finanziato con danari dello Stato, ci sembra una bella decisione: non sempre accade in Italia (si ricorderà peraltro che un articolo del famoso decreto, poi divenuto legge, cosiddetto “Valore cultura” prevede proprio un obbligo a rendere gratuitamente disponibili le ricerche finanziate con danari pubblici).
Da segnalare, per la cronaca, che il rapporto Idos è giunto alla 23ª edizione, ma di fatto sembra trattarsi di una edizione… n° 1. Nato in effetti in ambito confessionale, essendo stato promosso dalla Caritas e dalla Fondazione Migrantes della Conferenza Episcopale Italiana, ma comunque caratterizzato per una bella autonomia ideologica, nel 2013 si è incrinato il rapporto fiduciario tra la Caritas-Migrantes e l’Idos. Nuovo inedito committente è giustappunto l’Unar. A fine maggio 2013, l’Idos (che pure ha sede presso il palazzo che ospita alcuni uffici della Cei), diramava un laconico comunicato stampa: “dobbiamo dirvi con rammarico che, a livello nazionale, non è stato raggiunto un accordo per poter continuare la collaborazione con Caritas e Migrantes”. Di criticità di finanziamento trattasi, sembra leggersi tra le righe.
Il Presidente di Idos Pittau ha liquidato – con grazia – questo passaggio di consegne tra committenti/finanziatori (non avvenuto forse in modo proprio sereno) ricordando un auspicio di don Luigi Di Liegro (fondatore della Caritas Diocesana di Roma), il quale pare teorizzasse che non importa lo status del proponente di una bella idea (privato o pubblico, confessionale o aconfessionale che sia), ma quel che conta è che le buone progettualità vengano sviluppate… Meglio ancora se dallo Stato, che la collettività tutta deve (dovrebbe) rappresentare e tutelare. Verrebbe da commentare, con ecumenica benedizione: “tutto è bene, quel che finisce bene”. E quindi la comunità scientifica è ben lieta che il rapporto sopravviva ai travagli tra finanziatori. Anche se Pittau, ieri mattina, ha fatto comprendere a chiare lettere, con bonomia, che il contratto per l’edizione 2014 l’Unar non l’ha ancora perfezionato.
Non riteniamo che, nel passaggio di committenza, dalla Fondazione Migrantes della Cei all’Unar dell’italico Stato, ci sia stato un salto di qualità: il rapporto era e resta uno strumento di conoscenza importante. Spiace osservare che nell’edizione 2013 non vi sia più quella pur minima attenzione che c’era nel rapporto 2012, che dedicava pagine interessanti alle testate radiotelevisive di immigrati, intitolando efficacemente “Comunicare il diverso”.
Come utilizzano internet gli stranieri che vivono in Italia?!
Che impressione hanno di come la Rai rappresenta la loro immagine?!
Si tratta di quesiti che restano senza risposta. E che pure meritano essere analizzati, perché potrebbero fornirci interpretazioni inedite di stereotipi e cliché, e forse anche strumentazione adeguata per superare le discriminazioni. Che sono frutto di degenerazioni dell’immaginario collettivo. E proprio la cultura e l’arte possono combattere in modo efficace le distorsioni
Una battuta finale sull’apprezzabile autoironia della Ministra Kyenge: ha enfatizzato come le tematiche della migrazione debbano essere affrontate meglio soprattutto dagli operatori scolastici, ed ha raccontato che, in un incontro con studenti di una scuola elementare, si è trovata qualche giorno fa spiazzata alla domanda di un bambino: “ma ministro… il vostro governo ha un programma???”. Una risata convinta s’è elevata dalla platea.
Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult
La rete brulica di corsi di formazione, seminari e workshop volti ad approfondire i temi della responsabilità sociale d’impresa. E’ sufficiente digitare su google le parole chiave csr, corso, master e si apre un nutrito elenco di opportunità, destinate ai professionisti che già operano nel settore, ai dipendenti delle aziende e delle pubbliche amministrazioni o ai giovani appassionati della materia che vorrebbero farne un lavoro. Tra i master più rinomati, quelli promossi dall’Università Bocconi, dall’Università Ca’ Foscari di Venezia e dalla Lumsa di Roma. Questi sono, tuttavia, solo alcuni esempi dell’eccellenza formativa offerta dalle università italiane.
Eppure alcuni dubbi sorgono spontanei. Il sistema formativo, pubblico o privato che sia, non dovrebbe facilitare l’effettivo incontro dell’offerta e della domanda nel mercato del lavoro? E, ancora, siamo sicuri che in una fase storica di recessione, quale quella attuale, le aziende abbiano risorse da investire in responsabilità sociale d’impresa?
I dati relativi ai primi nove mesi del 2012 rilevati dall’Osservatorio su fallimenti, procedure e chiusure di imprese del Cerved Group parlano chiaro: con una media di 200 imprese al giorno che escono dal mercato, per un totale complessivo di 55mila imprese chiuse nel 2012, la crisi è nera e le cifre riferite ai primi sei mesi del 2013 non sono certo più rosee.
Visto il contesto è d’obbligo, dunque, domandarsi quale impresa possa permettersi il lusso di investire in csr? Di certo non le piccole e medie imprese che, a causa della contrazione della liquidità e della stretta al credito praticata dalle banche, stentano ad arrivare alla fine del mese. Tendenzialmente le aziende che investono regolarmente in csr sono piuttosto quelle che possono contare su fatturati consistenti, come rilevato da un’indagine condotta da SWG per l’Osservatorio Socialis su L’impegno sociale delle aziende in Italia, 2012.
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Si è svolta il primo ottobre la prima “Giornata Europea dedicata alle Fondazioni e ai Donatori” promossa da DAFNE, il network che unisce 24 associazioni di fondazioni di diversi Paesi europei in rappresentanza di oltre 6 mila soggetti. Con eventi, incontri e appuntamenti, le fondazioni di ciascun paese hanno unito gli sforzi per promuovere presso il pubblico la conoscenza dell’impegno da loro assunto a beneficio dello sviluppo sociale, economico e culturale della popolazione.
Presenti in numero crescente in tutta Europa, questi soggetti, come messo in evidenza dall’Associazione Italiana Fondazioni e Enti di Erogazione (Assifero), spendono 83 miliardi l’anno per il bene comune, risorse queste che hanno continuato a riversarsi sul territorio anche in un periodo di crisi economica quale quello attuale.
In Italia, la presenza di questi soggetti si caratterizza per il forte radicamento territoriale e per una distribuzione geografica non omogenea, essendo concentrata la gran parte di essi al nord del paese, con la Lombardia a ospitare il maggior numero di soggetti erogatori.
Fonte: Dati in valore assoluto rilavati da Assifero
Se guardando alla forma giuridica appare evidente che, in termini assoluti, il peso delle fondazioni sia pari a poco più del 10%, non si può non mettere in luce come la capacità di erogazione di tali soggetti sia di notevole rilievo.
Per avere un’idea di quanto stiamo affermando, basterà fare riferimento in modo specifico alle fondazioni bancarie, pur non dimenticando il ruolo altrettanto significativo delle fondazioni d’impresa.
Guardando ai dati di bilancio per l’anno 2012 forniti dall’ACRI, l’Associazione che riunisce le Fondazioni bancarie e le Casse di Risparmio presenti sul territorio nazionale, appare immediato il consistente investimento di risorse a beneficio del territorio.
Fonte: Acri
965 milioni di euro che sono stati erogati nel solo 2012, andando a beneficiare in modo prioritario quattro settori d’intervento, ovvero “arte, attività e beni culturali”, ricerca e sviluppo, educazione, istruzione e formazione, assistenza sociale. Analizzando nel dettaglio i dati appare tuttavia chiaro che – ed è questo l’aspetto che ci preme porre in evidenza – un’attenzione particolare da parte delle fondazionibancarie è rivolta al settore della cultura, destinatario del 31% delle erogazioni totali. Il dato appare essere ancor più incisivo – 50% – se si assume un più ampio concetto di cultura, andando a ricomprendere anche i finanziamenti destinati all’istruzione e alla formazione.
Le fondazioni bancarie, dunque, investono risorse nella cultura, che è percepita non solo come un bene da tutelare, ma anche e soprattutto come uno strumento attraverso il quale riattivare l’economia del territorio, promuovere il talento e la creatività giovanile, l’occupazione e l’inclusione sociale.
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In questi giorni è stata presentata a Roma l’indagine che AIB, Associazione Italiana Biblioteche, ha svolto insieme al Centro per il libro e la lettura sulle biblioteche pubbliche degli enti territoriali. I dati che emergono offrono diversi spunti di riflessione e ci consegnano uno scenario abbastanza dinamico nei confronti del quale è ragionevole pensare che si possa intervenire con iniziative mirate che potrebbero permetterci di salvare e valorizzare un patrimonio di decisiva importanza per la cultura nel nostro paese.
Le biblioteche infatti sono dei veri e propri presidi culturali sul territorio e, nella loro peculiarità, godono di un primato assoluto insidiato da nessun’altra iniziativa, né pubblica né privata. Dalla loro attività dipende la lettura del 16% dei libri nel nostro paese, ma sono molto apprezzate anche per i servizi che offrono oltre alle attività di prestito.
Il sistema delle biblioteche pubbliche in Italia non è molto dissimile quantitativamente da quello di altri paesi europei che hanno avuto più a cuore di noi gli investimenti in cultura. Fatta eccezione per il sud, che ancora langue in una carenza di servizi, da cui si distingue solo la Puglia, che proprio nella cultura ha investito molto negli ultimi anni.
La varietà che i sistemi regionali rappresentano, mentre disegna una situazione molto disordinata, ci permette però di fare alcune considerazioni. Salta subito agli occhi, per esempio, come il sistema lombardo, che vanta 1.541 biblioteche, sia frequentato da un numero di utenti abbastanza basso (14.572) in paragone ai sistemi di altre regioni come la Toscana, che a fronte di 371 biblioteche riesce a servire un utenza di quasi 30mila cittadini. Stesse percentuali favorevoli sono rappresentate da Emilia Romagna, Lazio e Trentino Alto Adige.
Si tratta di un segnale da non sottovalutare, che ci porta direttamente all’interno del dibattito che da anni si svolge intorno all’uso e alle funzioni che le biblioteche pubbliche devono avere: non tanto conservazione e prestito, ma soprattutto punto di riferimento per le aggregazioni culturali e fornitura di servizi legati all’informazione. Per far questo però è necessario che le biblioteche si predispongano anche materialmente a questo cambio di funzione. Ma non è facile se consideriamo il punto di partenza attuale: solo il 14,43% delle quasi settemila biblioteche è stato appositamente costruito per questa funzione. Gli altri sono tutti edifici storici, a volte anche tutelati che, nel complesso, offrono comunque uno standard soddisfacente: basti pensare che tutti sono attrezzati per l’accesso degli utenti diversamente abili. Molto meno soddisfacente, invece, è la disponibilità che le biblioteche offrono in termini di orari di apertura. Non solamente perché solo il 7% è aperto anche la sera e il 22% durante il fine settimana, rendendo difficile la frequentazione all’utenza impegnata nei luoghi di lavoro, ma perché, complessivamente, la media delle ore di apertura non supera le 25 ore settimanali.
Gli utenti delle biblioteche sono piuttosto abituali (61,19%), in prevalenza sono adulti (29,32%), bambini (22,07%) e ragazzi (9,70%). Tra gli adulti prevalgono di gran lunga le donne (63,10%) sugli uomini. Di conseguenza i testi prediletti sono principalmente quelli di narrativa e di letteratura per l’infanzia e la prima adolescenza. Molto richiesti però sono anche i volumi che riguardano la storia locale, a conferma di quanto sia sentito il radicamento territoriale di queste istituzioni culturali.
In un contesto così definito, la vera nota dolente è costituita dal drastico ridimensionamento della spesa per l’acquisto delle novità editoriali, ridotta fino al 40% del già contenuto budget previsto negli scorsi anni. In stretta relazione a questo dato c’è la considerazione che non sono poche le biblioteche che utilizzano volontari nella gestione dei propri servizi , quasi il 40%. Ecco così che un sistema abbastanza apprezzato dagli utenti, che si presenta con una diffusione capillare e fa uno sforzo per interpretare al meglio la propria missione, spesso ben oltre, spesso con obiettivi burocraticamente definiti, trova sostegno nella buona volontà dei cittadini e non riceve sponde adeguate nelle politiche pubbliche.
Gioacchino De Chirico è un giornalista ed esperto di comunicazione
In pochi giorni si è consumato il rito annuale della presentazione dei Rapporti sull’economia della cultura nel nostro Paese. Figli di una stirpe blasonata e prolifica, mostrano in modo chiaro il dna dei progenitori: giustificare l’esistenza della cultura non come un’inutile decorazione ma come uno snodo per la crescita del Paese, con metafore tratte dalla chimica organica, dall’ingegneria meccanica, dalla sociologia; dimostrare che la cultura genera una cascata di effetti economici e finanziari sull’economia italiana: il MiBAC aveva azzardato un moltiplicatore di 16, il Rapporto Symbola si limita a 1,7 e nessuno ha il buon senso di ammettere che ogni attività legale genera un impatto sull’economia, che i turisti non sono per forza motivati da intenzioni culturali, che ogni iniziativa, anche se non culturale, riesce ad accrescere il giro d’affari di alberghi e ristoranti; chiedere nuove norme che inseriscano per l’ennesima volta obblighi e divieti, dopo aver già fallito con l’esenzione fiscale per le donazioni, che rimuove un vincolo ma non crea una motivazione, con la creazione dei poli museali autonomi che replicano gli stessi disastri dei musei, uffici periferici delle Soprintendenze, con la trasformazione estetica degli enti lirici in fondazioni, e così di seguito; chiedere, a gran voce, più denaro pubblico e privato, magari introducendo ulteriori normative che predispongono una griglia ma non possono incidere sui vincoli dei bilanci pubblici né sulla volontà delle imprese private.
Così, si racconta che la cultura italiana è importante e rispettata in tutto il mondo (lo sapevamo già); che il benessere degli italiani e le sorti dell’economia possono essere rafforzati dalla cultura (il che è innegabile); che il turismo internazionale va consolidato (lo dicono in tanti, ma evidentemente non hanno mai parlato con un fiorentino o un veneziano); che dentro il regno della cultura hanno piena cittadinanza i creativi (etichetta molto in voga negli anni più recenti usata per includere architetti, chef, ceramisti e sarti). Si indicano possibili percorsi che dovrebbero convincere le organizzazioni culturali a pensare e agire imprenditorialmente, l’economia privata a finanziare progetti culturali, la società a donare qualcosa; obiettivi condivisibili ma tuttora lontani nonostante (o a causa di?) l’inondazione normativa e regolamentare degli ultimi quindici anni. E si fornisce una fotografia dimensionale che, aggregando per categorie attività eterogenee e possibilmente in evoluzione, perde di vista i processi, le dinamiche, le relazioni causali e dunque anche le credibili opportunità che un sistema culturale funzionante potrebbe regalare a sé stesso e alla società italiana. Dire teatro o museo non basta più, sarebbe più utile analizzare la fenomenologia dell’offerta culturale nella sua complessità e nella sua collocazione territoriale negli spazi urbani in pieno fermento.
Il paradosso è che quando i posteri leggeranno la sequenza dei rapporti sull’economia della cultura scopriranno che la cultura italiana è statica e ossessionata dal proprio ruolo istituzionale; che si sente trascurata dal dibattito e dalle imprese; che è rimasta più o meno nello stesso assetto e nelle stesse dimensioni per un paio di decenni; che ogni tanto cerca di attivare strumenti di marketing e di attrazione di nuovi finanziatori. In tutto questo l’unico argomento assente (spesso anche nella realtà) è quello semantico e strategico: di che cosa parliamo quando parliamo di cutura? Esporre dipinti o mettere in scena un’opera come si faceva oltre un secolo fa si può ritenere culturale? O non siamo diventati soltanto un enorme museo a cielo aperto che conserva tutto (anzi lo protegge, presupponendo l’esistenza di una minaccia) senza mai poterne estrarre il valore? Il nume della cultura italiana è Tantalo, che vede ma non tocca, e soprattutto non si può nutrire: vive accanto a un bellissimo frigorifero ma non vuole cucinare il cibo conservato dentro. Sarà vero che con la cultura si mangia, ma forse sarebbe più utile capire chi mangia, come e perché.
Magari potremmo indicare ai posteri alcune cose cruciali: deregolamentare e incentivare, in modo che finalmente l’offerta culturale si assuma qualche responsabilità e senta il dovere di diventare affidabile; selezionare e incoraggiare le risorse umane, abbandonando velocemente la smania bizantina di concorsi, bandi e percorsi formalmente ineccepibili e sostanzialmente opachi e truffaldini, accettando la necessità di negoziati trasparenti e flessibilità strategica; premiare il grado di innovazione sui metodi e sui contenuti di progetti e azioni culturali, in modo da sostenere l’ibridazione con il resto dell’economia e della società; introdurre massicciamente l’arte e la cultura nei percorsi formativi, che oggi le ignorano o le riducono a un elenco di tediose nozioni da imparare a memoria. In sintesi, superare il complesso di Edipo (lo hanno fatto i nostri padri, non c’è motivo di discuterne), l’ansia da prestazione (guardano tutti la tv e solo pochi dotti frequentano i luoghi della cultura), la rimozione psicanalitica (il successo della cultura non è connesso alla sua capacità dialogica ma all’attrazione di masse informi), la nostalgia senile (un tempo le cose andavano meglio, erano tutti colti), la paura della morte (senza soldi pubblici la cultura fallirà). Più che un rapporto, serve il medico dei pazzi.
Lunedì 1 luglio è stato presentato a Roma il Rapporto Annuale di Federculture 2013: “Una strategia per la cultura. Una strategia per il Paese”, da molti atteso come il documento capace di fare il punto sullo stato del sistema culturale italiano. Presenti il sindaco della capitale Ignazio Marino, Lidia Ravera assessore alla cultura della Regione e i ministri Bray e Giovannini.
Come di consueto i dati che descrivono il comparto, fra i quali possiamo citare quelli riguardanti la fruizione culturale, il contributo pubblico al settore, l’apporto dei privati e la spesa per la cultura sostenuta dalle famiglie, non hanno dipinto una situazione positiva. Molte delle cifre e dei rapporti illustrati costituiscono, di fatto, utili strumenti per fare delle riflessioni sulla situazione culturale italiana, delle basi da cui partire per costruire ragionamenti razionali sul settore ed elaborare una strategia di ripresa per il Paese.
Per costruire una progettazione mirata è fondamentale, innanzitutto, prendere atto della realtà complessiva del sistema Paese e non dimenticare che la scarsità di risorse è oramai un dato di fatto, la condizione di base dalla quale dobbiamo partire per pianificare il futuro. Guardare ai dati è importante, ma lo è ancor di più riuscire ad assumere una visione quanto più comprensiva delle dinamiche del settore e dell’economia italiana nel suo complesso.
Oggi più che mai è importante prendere in considerazione anche tutti quei dati che, in genere, tendono a passare inosservati nei contesti in cui si dibattono i tagli alla cultura. Si pensi, per citare un esempio fra tutti, agli oltre 20.000 dipendenti Mibac, una squadra imponente, che ha indubbiamente dei costi ma della quale si denuncia a gran voce la perenne insufficienza.
Il capitale umano è sicuramente una delle armi fondamentali quando si vuole intervenire in un settore come la cultura, che richiede una preparazione approfondita ed eterogenea per progettare interventi forti in termini di rilancio della produttività e di potenziamento degli incentivi diretti e indiretti. E’ un settore che pone la maggioranza dei suoi operatori privati innanzi a situazioni contrattuali critiche, retribuzioni minime e scarsissime possibilità di carriera. E’ un settore che più di altri dovrebbe costruire le sue basi sulla meritocrazia – concetto non astratto, ma costituito da regole in Italia purtroppo sconosciute – la produttività e l’ottimizzazione delle risorse. Forse solo sposando con onestà e decisione questi tre principini la cultura avrà la possibilità di risollevarsi dalla crisi.
Chiedere al pubblico un aumento delle risorse umane comporta una presa di responsabilità. Non sarebbe forse più auspicabile la crescita delle organizzazioni private? Sono del resto destinate ad assumere un ruolo sempre più centrale nel settore e, per questo, dovrebbero essere le principali destinatarie di attenzioni e di agevolazioni fiscali. A loro i finanziamenti interessano anche meno, poiché credono nel mercato.
Stefano Monti è direttore editoriale di Tafter
L’Italia è un paese che si vende da solo. Non è una vanteria ma un’amara constatazione.
Perfino nella crisi dilagante del 2011 il nostro Paese è riuscito a tenere duro e a compensare con arrivi internazionali (soprattutto dai Brics) la decrescita del turismo domestico, ma nel 2012 i segni della flessione si cominciano a fare più evidenti.
E’ una patologia di lungo corso quella italiana, dove la crisi diventa una cartina di tornasole utile a denunciare ciò che è palese: manca una strategia organica tesa a valorizzare e far rendere al meglio il nostro variegato patrimonio naturale e artistico come valida offerta turistica.
Si pensi alle difficoltà (infra)strutturali, ai problemi di regolamentazione, alle continue riforme dell’ENIT, fino alla scarsa modernità di gran parte del comparto.
Solo il 47.9 % delle strutture ricettive (con prevalenza positiva tra gli alberghi e negativa tra le strutture complementari) è dotato di uno strumento che consenta ai clienti di effettuare la prenotazione delle camere direttamente online, quindi di un canale di vendita diretto, relegando spesso il portale al ruolo di semplice vetrina.
Il governo Monti e l’attuale governo Letta sembrano intercettare sulla carta due delle istanze chiave: la strategia e il binomio cultura-turismo.
I super-tecnici avevano elaborato un Piano Strategico Nazionale del Turismo, realizzato sulla base dell’analisi redatta dal Boston Consulting Group, e anche un più operativo Conto Satellite sul Turismo. Il PSNT, al di là della bontà delle analisi compiute dalla consulting convocata, risulta comunque uno strumento da cui avviare una discussione di merito tra tutti gli interlocutori, anche se ex-post.
Il neonato governo di larghissime intese ha invece assegnato al Ministro Massimo Bray il MiBac insieme alla delega al turismo, quasi a sottolineare il doppio filo che lega conservazione e cura a valorizzazione e proposizione dell’immensa ricchezza italiana.
La speranza è che le ottime parole spese dal ministro, tese a unire valori di conoscenza costituzionale del pubblico bene a necessità economiche, non sfocino in una mera catalogazione enciclopedica del possibile, ma si tramutino in una esplicazione delle azioni necessarie.
A tal proposito è interessante quanto posto in evidenza dal 18° Rapporto sul Turismo Italiano, a cura di Mercury e Irat (Istituto di ricerche sulle attività terziarie del Consiglio Nazionale delle Ricerche) a cura di Emilio Becheri e Giulio Maggiore: anche il binomio Turismo e Affari regionali dato in dotazione a Piero Gnudi, sul finire del 2011, aveva una sua forte ragion d’essere ponendo fine ad un troppo protratto gioco delle parti Stato-Regioni che feriva anche il tema turistico.
La logica delle Regioni nel settore è fondamentale per molteplici ragioni, sia costruttive che di studio, a partire dalle differenze territoriali.
Sempre facendo riferimento al Rapporto citato: Veneto, Toscana, Lombardia, Lazio e Trentino raccolgono il 71% della clientela estera, mentre il meridione insieme alle isole intercettano solo l’11,5% degli arrivi e il 13,3% delle presenze, per altro quasi tutti in Sicilia e Campania.
I motivi prevalenti per andare nelle due regioni di punta del sud sono arte e cultura e non come verrebbe spontaneo pensare il sole e il mare. Infatti il turismo balneare nel 2012 ha fatto registrare in tutta la penisola un calo del 10% nelle presenze e del 15% nella spesa e preannuncia un trend negativo nel 2013 che verrà contenuto solo dal turismo balneare di prossimità internazionale nel nord Italia.
Eppure le best practice sono a portata di mano, basti guardare ad alcuni modelli di Spagna e Francia per carpire utili strumenti. Per la consapevolezza di avere materiale e risorse su cui lavorare superiori a entrambi basta guardarsi in casa.
La crisi può essere l’ennesima opportunità di ricostruirsi trovando la propria strada tra strategie, potenzialità e deleghe varie.
C’è un dato rappresentativo della situazione di profondo degrado che attanaglia l’Italia e con essa le persone che qui vivono, studiano, lavorano. O meglio che qui vivevano, perché hanno deciso di trasferirsi altrove; studiavano, perché non hanno più voglia di spendere tempo e denaro per continuare gli studi se a contare non è quasi mai il merito; lavoravano, perché hanno vissuto sulla propria pelle gli effetti di una crisi economica che durerà ancora a lungo.
Un dato che è passato abbastanza inosservato in un momento in cui l’unico problema reale sembra essere l’assenza di un governo, al cui cospetto tutto il resto impallidisce e appare quasi folkloristico alla stregua di una bega tra comuni vicini ma storicamente nemici.
Per gli addetti ai lavori questo dato è l’ennesima conferma di un modus operandi che si è tradotto in un modus vivendi in cui cultura e istruzione continuano a essere degli orpelli decorativi, troppo costosi e difficili da gestire.
Perseverando nella sua convinzione l’Italia è riuscita a conquistare l’ultimo posto in classifica, vedendo finalmente riconosciuti i propri meriti per aver fatto – con tenacia e costanza – tutto quanto fosse in suo potere per rendere il settore culturale sempre meno attrattivo e produttivo.
I dati sulla spesa generale degli stati nel 2011 resi noti dall’ufficio statistico dell’Unione Europea parlano chiaro. Il nostro paese si classifica in ultima posizione per quanto concerne la spesa in cultura, dedicandovi solo 1,1% a fronte di una media del 2,2% dell’Ue a 27; mentre riesce a piazzarsi in penultima posizione (prima della Grecia) per quanto riguarda la spesa in istruzione, con una percentuale pari all’8,5% rispetto al 10,9% della media Ue a 27.
Anche se il Miur chiede una maggiore attenzione nella lettura dei dati, che a suo avviso offrono una visione distorta in quanto tali percentuali sono calcolate al lordo degli interessi che l’Italia paga sul debito pubblico, il nostro resta in ogni caso un triste primato.
Inducendo un progressivo abbassamento del livello culturale della comunità e favorendo la fuga di cervelli verso i paesi esteri, l’Italia rischia di accumulare nel lungo periodo un ulteriore ritardo di sviluppo nei confronti degli altri stati dell’Ue che sarà sempre più difficile colmare.
Vittoria Azzarita è caporedattrice di Tafter Journal
Measuring cultural participation
un breve saggio realizzato dall’Istituto di statistica dell’Unesco insieme ai ricercatori di Fondazione Fitzcarraldo, con l’obiettivo di delineare le cifre della cultura nel mondo, la sua influenza per l’identità dei cittadini e la società nei diversi paesi. Attraverso numerose domande e variegati sondaggi eseguiti di recente, lo studio cerca di rispondere al quesito su quale sia il grado di partecipazione culturale nei peculiari contesti di ogni paese, che siano essi avanzati o in via di sviluppo.
il libro, disponibile in file pdf, riassume, in modo dettagliato ma schematico, i risultati di questa ricerca: il primo capitolo illustra le istruzioni per leggere correttamente il manuale, il secondo capitolo descrive quali sono gli strumenti della partecipazione culturale, nel terzo invece sono elencate le metodologie diffuse per la partecipazione culturale, nell’ultimo capitolo infine ci sono le conclusioni di questo sondaggio internazionale. Tutte le informazioni sono accompagnate da mappe esplicative in cui sono segnalati i luoghi esatti dove sono state poste le domande per la ricerca.
i dati forniti dalla ricerca sono decisamente utili non solo per gli esperti del settore. Capire come si espande la partecipazione ai fenomeni culturali nei diversi paesi e continenti, per performance teatrali, visite a mostre, siti archeologici o eventi tradizionali, aiuta ognuno di noi ad approfondire aspetti peculiari delle società, dell’istruzione e la formazione dei cittadini
poiché la ricerca è stata realizzata da un organismo internazionale, la ricerca è redatta solo in lingua inglese.
interessanti le mappe che dividono i paragrafi: questa cartine rientrano nello stile schematico ed esplicativo che caratterizza l’intero saggio.
professionisti del settore che lavorano nell’amministrazione pubblica o privata, al fine di sfruttare questi dati per organizzare eventi ed iniziative nel proprio paese ed ampliare grazie al loro lavoro la partecipazione dei cittadini ad eventi culturali
http://www.uis.unesco.org/culture/Documents/fcs-handbook-2-cultural-participation-en.pdf
Valorizzare i beni e le attività culturali per generare indotto e occupazione è una delle sfide che l’Italia ha davanti nei prossimi anni. Un’Italia post-industriale può e deve ripartire da una nuova definizione di economia della cultura. I beni culturali possono diventare un motore economico? Diversi paesi europei ci stanno provando. L’Italia ha 51.693 immobili, pari a circa 55 mila chilometri quadrati, ovvero il 18% della superficie del Paese, vincolati per interesse storico (dati MIBAC) e il più ampio patrimonio culturale a livello mondiale con oltre 3.400 musei, circa 2.100 aree e parchi archeologici e 43 siti Unesco. Nonostante ciò, il ritorno economico degli assets culturali sui siti Unesco, mostra come gli Stati Uniti, con la metà dei siti rispetto all’Italia, ci sia un ritorno commerciale pari a 16 volte quello del Belpaese; gli assets culturali di Francia e Regno Unito rappresentano un valore aggiunto tra 4 e 7 volte il nostro con circa due punti percentuali di PIL in più derivanti dal settore.
Il lancio di un piano nazionale che individui ed organizzi le potenzialità territoriali al fine d’incentivare e sviluppare il settore turistico e culturale (che ormai ci vede sorpassati dalla Francia) è ormai un’esigenza inderogabile per dare nuovo slancio all’economia. Intraprendere tale percorso significa dotarsi degli strumenti per avviare un sistema produttivo centrato sulla creatività e l’innovazione e costruire una filiera tecnologicamente avanzata in grado di offrire servizi di qualità. Una efficiente gestione manageriale delle materie prime italiane (patrimonio storico e ambientale) accompagnate ad un’adeguata attenzione al territorio attraverso il lancio di manifestazioni come festival, riproposizioni tradizionali o centri culturali, rappresentano la scintilla per far partire lo sviluppo di una vera e propria industria creativa con un suo indotto in grado di dare fiato all’economia e che sappia rispondere alla domanda di lavoro crescente. Last but not least, è necessario individuare e attrarre i nuovi potenziali stakeholders, pubblici e privati.
A tal fine strumenti quali il marketing territoriale, la progettazione integrata con gli enti locali e la valorizzazione delle potenzialità individuate nel contesto identitario di un territorio potrebbero tradursi in creazione di marchi di “qualità”, una forma di made in Italy intangibile capace di generare ricchezza. Festival e appuntamenti culturali di diverso genere, hanno la potenzialità di attrarre pubblico nazionale e internazionale e generare indotto in territori privi di tessuto industriale ma con potenzialità legate all’industria culturale. È dunque necessario valorizzare: per farlo servono investimenti e una visione politica che definisca risorse e rapporti fra pubblico e privato; infine serve attrarre audience che per partecipare e spendere ha bisogno di lavoro.
Sul tema del lavoro va evidenziato come il mercato della cultura in Europa, composto da oltre 41.000 imprese, impieghi direttamente più di 220.500 persone generando un indotto significativo. Tra il 2007 e il 2011 i posti di lavoro creati nell’industria culturale in Italia sono stati 55mila (fonte: Excelsior), un buon segno che ci dice come lo sviluppo del nostro patrimonio culturale può e deve contribuire alla creazione di posti di lavoro. Per confermare il trend positivo dell’industria culturale, l’Italia ha bisogno di un Ministero dei Beni e delle Attività Culturali che venga subito dopo quello dell’Economia, capace di stabilire una linea di sviluppo e la strategia per attuarlo e che non si faccia carico della sola manutenzione dell’enorme patrimonio del Paese. Cercheremo di capire cosa ha in mente il Governo quando parla di liberalizzazione del settore culturale: se si tratterà di una legittima apertura di nuovi spazi alle iniziative e alla gestione dei private o della solita dismissione (Vedi caso Tod’s – Colosseo).
Spesso si pensa che i giovani non siano particolarmente esigenti rispetto la scelta del posto dove trascorrere gli anni dell’università. Esistono, invece, dei canoni fondamentali nel rendere una città più o meno a misura di studente. Tra questi: la sicurezza, un rapporto ragionevole tra costo e qualità della vita, un’offerta di servizi accessibili -come cinema, teatri, luoghi di ritrovo, attività sportive-, la presenza di altri giovani (ancora meglio se internazionali), efficienti infrastrutture urbane, il clima e, ultimo ma sicuramente non meno importante, la qualità delle istituzioni scolastiche. La presenza di atenei prestigiosi, la varietà di corsi di laurea e le possibilità occupazionali per i neo-laureati giocano, ovviamente, un ruolo importante.
Proprio di questi parametri ha tenuto conto il QS (Quacquarelli Symonds), un centro di ricerca internazionale specializzato nell’analisi di informazioni sul mondo universitario e dell’istruzione superiore, per stilare -per la prima volta quest’anno- una classifica delle cinquanta “Best Student Cities”, le città migliori al mondo per studiare.
Tutte le “capitali universitarie” presenti nella classifica -solo per citarne alcune nella top 10 Boston, Melbourne, Vienna, Sidney e Zurigo– offrono agli studenti infrastrutture accademiche eccellenti e generalmente accessibili, trasporti efficienti, molti spazi verdi e una ricca offerta culturale, basti pensare ai musei gratuiti di Londra. Sono inoltre città cosmopolite con importanti centri nella finanza, nelle arti e nei media, fattore che contribuisce a creare quel legame indispensabile tra studio e mondo del lavoro.
Ed ecco allora i risultati della classifica: al primo e secondo posto due città europee, Parigi e Londra. Vediamo alcune loro caratteristiche, nella capitale francese sono presenti ben 16 diverse università, per un numero di studenti che arriva a 1,79 milioni con una percentuale di studenti stranieri del 17%. La seconda classificata vanta invece di 12 poli universitari e di 135,200 studenti con una percentuale di studenti stranieri del 33%.
La prima, e purtroppo unica, città italiana a comparire nella classifica è Milano al 21esimo posto, dove la percentuale di studenti internazionali scende al 5%.
Va comunque precisato che per identificare le città presenti in questo elenco, sono stati imposti dagli studiosi del QS due pre-requisiti. Il primo teneva conto della densità di popolazione, che doveva essere superiore ai 250.000 abitanti, il secondo imponeva che la città fosse patria di almeno due istituti universitari già classificati da QS World University Rankings, la classifica delle migliori università al mondo.
Per questo sembra giusto guardare anche alle città universitarie italiane non presenti, fatta eccezione per Milano, tra le “Best Student Cities”. Secondo Erasmus students network, l’associazione europea il cui scopo è la promozione e il supporto degli scambi internazionali fra studenti, le migliori città in cui studiare in Italia sono Siena, Parma, Bologna e Padova. Centri urbani non troppo grandi ma bene organizzati, con un buon sistema di accoglienza per gli studenti stranieri, ricchi di spazi e strutture per lo studio, di reti wi-fi gratuite, di alloggi universitari e di camere ancora affittabili a prezzi accessibili (si parla di cifre che oscillano tra i 300/400€ al mese).
Sono luoghi che vantano anche di un ricco sistema di interventi rivolti alla valorizzazione della cultura e alla creazione e messa a disposizione di spazi dedicati alla creatività e al tempo libero.
Ovviamente, una città capace di attrarre studenti è una città in grado di attrarre turisti e ricchezza. Quindi, invece che sottolineare i tagli e le limitazioni causate dalla crisi, dall’indebitamento pubblico e dalla disoccupazione, perché non cercare di coniugare l’eccellenza delle istituzioni universitarie italiane con la qualità dei servizi offerti ai cittadini e agli studenti per dare nuovo slancio all’economia del nostro paese?
Potere dell’immagine: quando si tratta di orientare le motivazioni di acquisto, i “repin” sulle bacheche visive di Pinterest sono una vetrina più potente delle condivisioni di opinioni su Facebook. È il risultato di una recente ricerca condotta da BizRate Insights su un campione di 7431 consumatori online, da cui emerge che il 70% degli utenti di Pinterest usa la piattaforma “per trarre ispirazione su cosa acquistare”, contro un 17% che dichiara la stessa abitudine tra gli utenti di Facebook.
Certo, le cifre assolute sono ancora tutte a favore del colosso di Zuckerberg, che continua a detenere saldamente il primato per numero di iscrizioni, ma la tendenza esiste. Ed è rafforzata dalla parallela crescita di Pinterest sul versante del brand engagement, ovvero della capacità di un marchio di creare partecipazione attiva da parte del consumatore: la stessa ricerca infatti rileva che in una progressione ideale del ruolo degli utenti da semplici “osservatori” a “partecipanti”, fino a veri e propri “creatori” di contenuti, Pinterest si piazza decisamente sul versante del massimo coinvolgimento.
Il dato d’altra parte non fa che confermare un principio ormai da qualche tempo ben noto agli addetti ai lavori: l’immagine di marca, oggi, dipende sempre più da parametri social, come appunto la condivisione di stili e gusti che è il vero motore di Pinterest. Ma non solo.
Il meccanismo di fondo alla base di questo processo è infatti più ampio e complesso e rimanda a quella che Michael Fertik, pioniere della web reputation, recentemente intervenuto a Roma durante la terza edizione del Pomilio Blumm – International Communication Summit, ha chiamato “reputation economy”.
“Reputation is bigger than brand”: questo il titolo della lectio tenuta nel corso del summit e la sintesi della sua visione. Secondo Fertik, infatti, già oggi la maggior parte del valore di marca – circa il 75% stando ai dati presentati in anteprima al pubblico del Summit – dipende da dinamiche legate alla reputazione, che ormai rappresenta appunto “un concetto di gran lunga più importante e influente del brand”. “81 delle 150 maggiori aziende statunitensi – ha spiegato il fondatore di Reputation.com – riservano ingenti risorse per la difesa della proprio reputazione sul web, consapevoli che il 97% dei consumatori prima di acquistare un prodotto consulta le recensioni e le opinioni degli altri utenti sul web”.
Alla base, una personalizzazione del concetto di marca, che viene sottoposta a giudizi di natura non solo utilitaristica e commerciale, ma sempre più legati a stili di vita, scelte etiche e responsabilità sociale, secondo un processo di moralizzazione che sta investendo progressivamente anche gli altri social network. Ne è convinto anche Biz Stone, direttore creativo e cofondatore di Twitter, intervenuto in diretta da Los Angeles nel corso dello stesso evento: “Nel prossimo futuro – ha detto – i social media saranno sempre più finalizzati al bene comune e utilizzati per progetti etici, come creazione di engagement, coordinamento tra pari e gestione delle emergenze. Tra qualche anno anzi – ha aggiunto – non ci saranno più social media, perché tutto, oggi, è già mediatico e sociale”. A partire, appunto, dalle esperienze di acquisto.
Tutte le relazioni di fine anno prodotte da autorevoli soggetti come il CNEL o l’ISTAT o la Commissione per i diritti e l’eguaglianza di genere del Parlamento Europeo ci parlano di una condizione femminile di maggiore povertà e minore benessere delle donne rispetto agli uomini.
In questo panorama comunque non edificante della condizione femminile, ora il report del WEF posiziona l’Italia all’ottantesimo posto nella classifica mondiale.
La notizia si completa con un inciso: eravamo al settantaquattresimo posto.
Sappiamo che il nostro paese è coinvolto in una crisi finanziaria, tuttora irrisolta che sta minando le basi della stessa costruzione europea, con la specificità di una nuova recessione che si avvia a metà del 2012 e che condiziona il M.D.L, se pure in modo marginale, anche perché si evolve e si trasforma il sistema produttivo in modo strutturale.
In altre parole, assistiamo ad una stagnazione dell’occupazione maschile e ad una crescita di quella femminile, che però non genera un miglioramento della condizione della donna nell’ambito sociale, economico, istituzionale e politico; anzi, così come emerge dal rapporto del WEF, peggiora.
Infatti siamo di fronte al fenomeno della diminuzione degli “scoraggiati “ (quelli che non si iscrivevano più alle liste di disoccupazione) e che erano in maggiore misura donne, così come i contratti precari o a part-time involontario.
Se a questo si aggiunge la necessità di porre dei vincoli all’espansione della spesa pubblica, ambito nel quale avevamo una rilevante presenza femminile e l’invecchiamento della popolazione accompagnata da l’aumento dell’età pensionabile per le donne, si può ben capire perché la situazione delle italiane è peggiorata: infatti, con la diminuzione degli investimenti nel welfare, si trova schiacciata dall’impegno di cura sia verso i figli che verso i genitori anziani.
La domanda è però d’obbligo, a questo punto: come mai questo non succede negli altri paesi più o meno vicini a noi?
Io credo che la risposta sia nel perdurare nella nostra cultura politica e istituzionale di stereotipi di genere, che impediscono di fatto, al legislatore, o al politico, di fare quelle scelte di valorizzazione delle competenze femminili, ormai così presenti nella nostra società, che non riescono ad emergere e che permetterebbero sia alle donne, ma anche a tutta la società, di risalire la “classifica”.
Francesca Bagni Cipriani è consigliera di parità della Povincia di Roma
La classifica annuale degli ingressi internazionali alle strutture museali reitera una chiara sentenza per il nostro Paese, evidenziando le potenzialità inespresse del patrimonio culturale nazionale, sotto il profilo economico, ma soprattutto sociale.
Quali le ragioni che ci impediscono di scalare le classifiche internazionali dei musei più visitati?
La crisi non ha colpito la sete di cultura. Nel 2011 i visitatori dei nostri musei sono cresciuti di oltre il 7% sfiorando i 40milioni con diretto effetto sui ricavi da servizi e biglietteria. Il record va al polo di Venezia con 7,9 milioni, più 78% sull’anno precedente.
Invero le nostre città d’arte sono i maggiori concorrenti di mostre e musei. Il paese è poi un museo diffuso per non dire polverizzato: 4.739 è il numero di spazi fornito di Federculture, alcuni dormienti e molti, anche oggi nonostante la crisi, in apertura.
Grande è la strada da compiere sul piano dell’orientamento delle politiche culturali, sia nazionali, che integrate a livello territoriale e di singola realtà. Pochi musei sono oggi gestiti con una visione imprenditoriale e adottano strategie di marketing; convergenze operative necessarie ad attrarre e coinvolgere i diversi pubblici, nonché i partner.
Tutto da scoprire è il turismo congressuale che fa i grandi numeri. Ma come intercettarlo se occorre una programmazione almeno triennale, che le istituzioni nostrane non immaginano, strette come sono dalle morse del budget? Sono forse elementi questi sufficienti a spiegare le differenze dei grandi numeri e leggere le opportunità sulle quali lavorare soprattutto in ottica di politiche e sulle quali si eserciterà Pier Luigi Celli, neonominato ai vertici di ENIT.
Ma oggi farei partire la riflessione sul fronte del pubblico delle nostre comunità.
La partecipazione culturale attiva fa bene alla salute come acclara, con il well being index, una recente ricerca IULM per Bracco: riduce tra le altre il rischio di patologie cardiache, i tempi di ospedalizzazione. Un risultato che potrebbe avere un impatto potenzialmente straordinario sul welfare.
Dalla consultazione CNEL dello scorso febbraio sulla qualità del “Benessere equo sostenibile” (BES) che ha interessato 45mila individui, emerge che circa il 78% indica l’arte come fattore da presidiare su un set a dodici dimensioni.
Ma dal recente anticipo nella prima edizione di Art & Tourism a Firenze dei risultati di una nuova indagine di Civita sui consumi culturali in Italia (pubblico sia italiano che straniero) di prossima pubblicazione, emergono diverse categorie comportamentali (i visitatori “mobili”, i “sedentari”, gli “onnivori”, i “compulsivi”) da stimolare, ma soprattutto un folto “non pubblico”.
Nel 2010, sei italiani maggiorenni su dieci non hanno visitato musei, mostre, aree archeologiche. Non si tratta solo della fascia più anziana della popolazione (ultra 64enni), ma in quella adulta “produttiva” tra i 25 e i 44 anni. Un fenomeno rilevato, in particolar modo, tra le donne (meno del 40% va alle mostre), territorialmente più marcato nel Sud e, sorpresa, nel Nord Ovest. Gioca senz’altro lo spazio contenuto riservato all’arte nell’istruzione, in totale controtendenza rispetto agli altri Paesi europei e non solo. Uno per tutti la Francia, con l’introduzione della storia dell’arte ad ogni livello scolastico, grazie a Mitterand.
Le spiegazioni si ritrovano solo parzialmente nella distribuzione territoriale delle offerte culturali. I più giovani sono “distratti” da altri interessi e dichiarano di annoiarsi visitando una mostra o, come i “tecnologici”, trovano inadeguata la comunicazione. Gli “insoddisfatti” sono i più anziani, che rivendicano servizi maggiori.
Prima di contarlo, chiediamoci: quanto conta il pubblico? Oggi più che mai i musei, a prescindere dal loro “contenuto”, debbono fare i conti con un ruolo di piattaforma sociale. Sono capaci di rispondere a bisogni reali, e non auto-referenziali, di reinventarsi con competenze strategiche ed operative per rispondere alle sfide del contesto? Il pubblico è la ragione d’essere, il cliente, realmente centrale e non un incomodo che arriva dopo la programmazione? Come comunicano? La funzione educativa che pare non essere più ancillare è un “buttadentro” di scolaresche per le classifiche e per i finanziamenti o è un elemento biologicamente attivo nella programmazione culturale? Interviene realmente a monte del processo e non il giorno antecedente l’apertura della mostra?
La questione non riguarda fare proseliti per il pareggio del budget dei musei o per l’indotto turistico, per i numeri di una classifica. Un dato che si somma ad altri, come i risultati dei testi Invalsi-Ocse Pisa sulle competenze scolastiche dei giovani, e ci fa pensare che non visitano un museo forse non leggono, ci fa pensare alla loro “cittadinanza” nel presente e al futuro del Paese.
E’ vero, la cultura oggi è al centro del dibattito e si inizia a comprendere che e come sia strettamente correlata alle principali variabili macroeconomiche sulle quali si gioca la partita del futuro, nostra e di quella Europa 2020 –che ora si sente minacciata nei suoi elementi costitutivi-, ma sceglie di riposizionarsi sulla società della conoscenze con le industrie culturali creative.
Dopo aver firmato i Manifesti, scritto e discusso ora occorre far camminare la parola. Ognuno per il proprio “cono di potenza”. In attesa del ripensamento delle politiche pubbliche che non si vede all’orizzonte.
Catterina Seia si occupa di progetti di innovazione sociale a base culturale
Inizia l’anno nuovo e si fanno i bilanci dell’anno appena chiuso. Anche nel mondo della cultura e dei musei.
Mario Resca, direttore generale per la Valorizzazione al Mibac, sottolinea con soddisfazione la recente inversione di tendenza registrata in Italia: nel 2011, infatti, c’è stato un aumento del 9,5 per cento di visitatori rispetto al 2010 e del 16 per cento nel 2010 sul 2009. Naturalmente nella classifica dei musei più visitati al mondo il Louvre (con i suoi oltre 8,7 milioni di visitatori) ci stacca ancora di parecchi milioni se prendiamo a riferimento i musei propriamente detti (gli Uffizi arrivano ad un 1.766.000, record storico per altro raggiunto proprio nel 2011). Il distacco si attenua se prendiamo in considerazione anche le aree archeologiche come il Colosseo che registra 4.500.000 visitatori in un anno.
C’è da sottolineare come il Louvre, oltre a confermarsi testa di serie nelle classifiche mondiali, abbia anche migliorato il proprio risultato salendo da 8,5 milioni a quasi 8,8 milioni di visitatori, grazie soprattutto al forte ritorno del turismo made in USA. Oltretutto il celebre museo è anche in buona compagna con Versailles che tocca quota 6,5 milioni e la cattedrale di Notre Dame a 13,5 milioni.
Grazie ad uno studio condotto dalla rivista Travel + Leisure è possibile scorrere una classifica dei musei più visitati al mondo nel 2011.
Al primo posto si conferma appunto il Louvre che, come abbiamo detto, migliora anche il proprio risultato annuo. Il secondo posto è occupato invece dallo Smithsonian National Air and Space Museum, a Washington, con le sue 8,3 milioni di visite, che ospita la più grande collezione al mondo di velivoli storici e di veicoli spaziali, per un totale di 50.000 pezzi originali: dal velivolo datato 1903 dei fratelli Wright, fino ad un campione di roccia lunare che i visitatori possono toccare. E, dato non banale, l’ingresso è gratuito.
Al terzo gradino del podio troviamo lo Smithsonian National Museum of Natural History, sempre a Washington, con 6.8 milioni di visitatori. Il Museo ospita una grande collezione di fossili di dinosauro, il diamante Hope, e una collezione di circa altri 126 milioni di pezzi. Dal 2008 è inoltre sede della più grande collezione al mondo connessa al mare.
A seguire dal quarto posto in poi, stando alla rivista, troviamo il British Museum di Londra (quasi 5,9 milioni di visitatori ma in discesa di ben due posizioni), il Metropolitan Museum of Art a New York (5,2 milioni di visite all’anno), il Tate Modern a Londra (5 milioni di visitatori, in discesa di due posizioni rispetto al 2010), l’American Museum of Natural History, a New York (5 milioni), la National Gallery, a Londra (4,9 milioni di visite), la National Gallery of Art, a Washington, DC (4,7 milioni di visitatori) e infine i Musei Vaticani, a Roma, con 4,6 milioni di visite all’anno, in discesa di ben 3 posizioni rispetto al settimo posto registrato nel 2010.
In generale possiamo dire che i segnali del settore in Italia sono stati positivi, soprattutto tenendo conto del contesto economico. La speranza non può che essere quella di confermare quanto di buono fatto e di tentare di migliorare i propri risultati scalando magari qualche posizione nella classifica che leggeremo tra 12 mesi.
“Le imprese italiane devono crescere”. E’ questa una tra le frasi più citate nei dibattiti economici in Italia degli ultimi anni. La dimensione media dell’impresa italiana è effettivamente minore rispetto agli altri Paesi Europei e, secondo molti, crescere è divenuto indispensabile per rimanere competitivi nelle filiere internazionali. Per questi motivi, la crescita è considerata una notizia positiva e, non a caso, sono molti gli studi empirici che hanno misurato e valutato la performance delle imprese in base al livello di crescita. Tuttavia, oltre a strategie di crescita vincenti esistono situazioni, documentate, in cui le operazioni di crescita comportano una perdita di valore per le imprese: acquisizioni mal ponderate, investimenti con un eccessivo utilizzo della leva finanziaria e strutture organizzative inadeguate allo sviluppo dimensionale sono aspetti che rischiano di peggiorare la performance dell’impresa.
Inoltre, diversi approcci teorici sottolineano come la crescita rappresenti una fase di “instabilità” nella vita aziendale in cui si possono verificare difficoltà e complessità gestionali. Tuttavia, nonostante la presenza di questi fattori potenzialmente negativi, la crescita è spesso considerata in modo “acritico” un fenomeno unicamente positivo. Alcuni, in risposta a questa osservazione, potrebbero sostenere che la crescita sia di per sé un fatto positivo, alla base dello spirito imprenditoriale e necessaria per aumentare le possibilità di sopravvivenza dell’impresa. Alla luce di tutto ciò diventa rilevante andare oltre a quella che è stata definita da alcuni “growth ideology” (Steffens, Davidsson e Fitzsimmons, 2009) per aumentare la consapevolezza di quali siano le modalità e i fattori che possono tradurre un percorso di crescita in un fatto positivo per la vita di un’impresa.
Il quadro di riferimento
Il tema della crescita delle Piccole e Medie Imprese (d’ora in avanti PMI) è quanto mai attuale soprattutto nel contesto italiano. È noto che il sistema produttivo italiano si caratterizza per una forte presenza di PMI, molto spesso clusterizzate in distretti industriali e specializzate in settori tradizionalmente considerati maturi (Piore e Sabel, 1984; Becattini et al. 2003). Secondo dati Eurostat in Italia il 94,5% delle imprese ha meno di 9 dipendenti, il 4,9% impiega tra i 10 e i 49 dipendenti, lo 0,5% impiega un numero di dipendenti compreso tra 50 e 249, mentre solo lo 0,1% delle imprese ha più di 250 dipendenti.
La forte presenza di PMI è tuttavia un dato comune ai maggiori paesi industrializzati. In Germania e Francia per esempio, le imprese fino a 9 dipendenti rappresentano rispettivamente l’83% e il 92,1% mentre le imprese fino a 49 dipendenti rispettivamente il 97,2% e il 98,7% del totale. Pertanto, ciò che differenzia l’Italia è la forte concentrazione di imprese sotto i 49 dipendenti e in particolare sotto i 9 e la conseguente minore presenza di medie e grandi imprese.
Se intendiamo per medie imprese quelle con un numero di dipendenti compreso tra 50 e 249, l’incidenza in Italia è meno della metà rispetto alla media europea e meno di un quarto rispetto alla sola Germania.
Queste caratteristiche hanno iniziato a manifestare tutti i loro limiti in corrispondenza dell’aumento della competizione internazionale nei settori di specializzazione dell’Italia a partire dagli anni Novanta. È infatti in questo periodo che inizia un percorso caratterizzato dall’abbassamento di molte barriere doganali e un più diffuso utilizzo di nuove tecnologie dell’informazione e delle comunicazione.
La cosiddetta globalizzazione e la diffusione dell’information technology hanno favorito l’emergere della competizione dei paesi in via di sviluppo (che possono contare su una dotazione di risorse a “buon mercato”). Questo ha portato con sé minacce alla posizione competitiva delle imprese dei paesi sviluppati ma anche opportunità di internazionalizzazione, di innovazione e “nuovi” modelli di business anche in settori tradizionalmente considerati maturi (Baden-Fuller, 1994; Camuffo et al. 2008). Le trasformazioni dell’ambiente competitivo hanno creato la necessità di un “nuovo” adattamento delle organizzazioni e delle imprese in particolare. Molte ricerche indicano nell’aumento della dimensione media delle imprese uno dei modi attraverso cui mantenere il fit con l’ambiente esterno (Ufficio Studi Mediobanca e Centro Studi Unioncamere, 2010). I dati sulla dimensione media delle imprese italiane non lasciano dubbi sulla necessità di crescere, tuttavia il tema va affrontato mettendone in luce tutte le sue peculiarità.
Un’ideologia della crescita?
Esistono certamente valide ragioni per crescere e per rendere la crescita un percorso profittevole. Alcune tra queste sono (Sicca, 2001; Davidsson, Steffens e Fitzsimmons, 2009): il raggiungimento di una scala minima efficiente tale per cui dal punto di vista produttivo si possano ottenere dei benefici di costo traducibili in una migliore profittabilità; il raggiungimento di una massa critica tale per cui si possa ottenere una posizione di rilievo nel settore di riferimento; l’aumento del potere contrattuale verso clienti e fornitori; la possibilità tramite processi di internazionalizzazione di allargare il mercato di riferimento; economie di scala, di raggio d’azione, di complementarietà, di integrazione manageriale.
Va tuttavia tenuto conto che la crescita è un fenomeno relativo, multidimensionale e complesso e i cui benefici possono talvolta essere controbilanciati da criticità strategiche e difficoltà manageriali. La crescita è un fenomeno relativo in quanto la dimensione di un’impresa si può ritenere appropriata solo in relazione alle caratteristiche del settore di riferimento. Se il settore è popolato da grandi imprese, presenta bassi tassi di crescita e una tecnologia consolidata e stabile, un’impresa
potrebbe non avere una massa critica sufficiente per competere, seppur “grande” secondo i criteri occupazionali.
La crescita è in secondo luogo un fenomeno multi-dimensionale, influenzato da molti fattori e suscettibile di valutazioni diverse tanto sul significato stesso del termine quanto sul concetto di performance ad essa collegato. Le imprese possono crescere facendo ricorso a risorse proprie, di cui già dispongono (crescita organica o per linee interne), o acquisendo risorse di altre imprese attraverso alleanze o acquisizioni (crescita per linee esterne) (Sicca, 2001). Molto spesso sono diverse le ragioni che spiegano l’una o l’altra scelta. La crescita è in terzo luogo un fenomeno complesso caratterizzato da una pluralità di conseguenze.
Quest’ultimo, tra i temi sollevati, sembra quello di maggiore attualità. La crisi manifestatasi a partire dal 2008 e in particolare le sue conseguenze sull’economia reale e sul credito, hanno contributo a rendere evidenti alcuni effetti della crescita, non sempre adeguatamente sottolineati. La stretta creditizia ha riportato all’attualità il tema degli equilibri patrimoniali e finanziari e quindi quello del finanziamento della crescita. Il lungo periodo di tassi relativamente bassi ha incentivato un ricorso (rivelatosi in molti casi) eccessivo alla leva finanziaria. Il finanziamento dei percorsi di crescita esclusivamente attraverso mezzi di terzi rischia di scardinare gli equilibri patrimoniali e finanziari dell’impresa e impone un ritorno (quasi) immediato degli investimenti effettuati.
Un percorso di crescita sollecita inoltre l’equilibrio organizzativo dell’impresa. La crescita dimensionale (indipendentemente dalle modalità con cui è realizzata) impone un contestuale adattamento dei meccanismi di governance, della struttura organizzativa e dei sistemi operativi. In altre parole l’adattamento verso l’esterno (external fit) va accompagnato da un necessario adattamento interno (internal fit) (Milgrom e Roberts, 1995; Siggelkow e Rivkin, 2005). La crescita dimensionale potrebbe infatti mettere in luce l’inadeguatezza dell’attuale struttura organizzativa, la mancanza di adeguate competenze manageriali (per esempio per la creazione di una funzione finanza o di controllo di gestione), e la necessità di rivedere ruoli e meccanismi di coordinamento interni e verso l’esterno.
I percorsi di crescita sono pertanto fonte di incertezza e di “instabilità” organizzative e, alla luce di questo, non è scontato che un percorso di crescita sia associato a effetti positivi sulla performance dell’impresa. Si può quindi dire che crescere è sempre positivo? La risposta a questa domanda non è scontata e non è empiricamente provato che un percorso di crescita comporti un miglioramento delle performance economico-finanziarie.
Sono vari gli autori che evidenziano la mancanza di studi accademici sul legame tra crescita e profittabilità (Steffens, Davidsson e Fitzsimmons 2009; Davidsson, Achtenhagen e Naldi, 2005). Inoltre le poche ricerche empiriche condotte (Cowling,
2004; Roper, 1999; Markman e Gartner, 2002; Levie, 1997; per Cox, Camp e Ensley 2002 e Sexton, Pricer e Nenide 2000 si veda Davidsson, Achtenhagen e Naldi, 2005) non evidenziano risultati univoci sulla relazione tra crescita dimensionale e profittabilità. Per questo motivo “the idea of growing in order to become profitable seems a much more questionable prospect” (Davidsson, Achtenhagen e Naldi, 2005, p.17).
Il numero limitato di ricerche in questo ambito di analisi può essere spiegato dal fatto che pare esistere un’accettazione comune che la crescita sia un aspetto positivo nella vita di un’impresa, tanto che in diversi contributi la crescita stessa viene indicata come parametro di performance di un’impresa. Scrivono Dobbs e Hamilton (2007, p.297): “…The obvious benefit of growth for business owners is that of an increase return on their investment. Growth is typically equated with high performance and therefore owners stand to gain a monetary return from such developments.” E’ proprio l’ovvietà di cui parlano Dobbs e Hamilton che deve essere messa in discussione per poter meglio comprendere quali siano i fattori e le strategie che possono rendere profittevole la crescita.
Sulla relazione tra crescita e performance
Nel mondo accademico è presente un elevato numero di contributi che hanno provato a descrivere vari aspetti della crescita delle imprese e nel corso degli anni sono state utilizzate prospettive teoriche e approcci molto diversi tra loro. Un primo
approccio è dato dai modelli descrittivi, nati a partire dal contributo di Chandler “Strategy and Structure” (1962). L’approccio descrittivo ha prodotto un grande numero di modelli (Steinmetz, 1969; Scott, 1971; Greiner, 1972; Kroeger, 1974; Churchill e Lewis, 1983; Scott e Bruce, 1987; Hanks, 1990) e tuttora ha grande notorietà per le proprie capacità interpretative del fenomeno della crescita. Questo approccio descrive la vita e la crescita di un’impresa come un ciclo o una serie di stadi tipici che si verificano a seguito di crisi o inefficienze altrettanto tipiche.
Tuttavia, con l’avvenuta consapevolezza che la crescita delle PMI è un fenomeno multidimensionale ed eterogeneo, questi modelli hanno ricevuto varie critiche per la loro pretesa di universalismo e determinismo (Grandinetti e Nassimbeni, 2007)
oltre che per la mancanza di evidenze empiriche sottostanti (Dobbs e Hamilton, 2007). Inoltre, essi tendono a focalizzarsi soltanto sulle dinamiche interne e non prestano attenzione all’impatto di fattori esterni di tipo sociale, economico e
ambientale (McMahon, 1998).
Tenendo a mente i limiti di tale approccio, nei modelli sviluppati si evidenzia la possibile presenza di un trade off tra crescita e performance (Steffens, Davidsson, Fitzsimmons, 2009) in quanto intraprendere un percorso di crescita significa andare
incontro a una serie di sfide manageriali o di cosiddetti “growing pains” (Flamholtz e Randle, 1990) che possono rendere negativo l’effetto della crescita sulla performance. In particolare, nei modelli descrittivi i growing pains sono tipicamente
di carattere organizzativo e la crescita viene talvolta interpretata come una fase di instabilità necessaria per permettere all’impresa di evolversi nel tempo: ogni impresa deve crescere adattando la propria struttura organizzativa, diversamente
rischia di non sopravvivere.
Un altro approccio che studia la crescita è l’approccio evolutivo (Nelson e Winter,2002); in questo approccio la crescita di un’impresa è influenzata dalla continua interazione di fattori interni ed esterni. Le teorie evolutive possono essere divise in due gruppi (Costa e Gubitta, 2004): le teorie basate sulla selezione, quali “Population ecology” e le teorie basate sull’adattamento, i cosiddetti “active learning models”. Le teorie basate sulla selezione si concentrano maggiormente sulle forze esterne all’impresa e si basano sulla teoria della “Population ecology” che vede nella crescita una tra le possibili strategie competitive che permettono la sopravvivenza dell’impresa (Hannan e Freeman, 1989).
Al contrario, le teorie basate sull’adattamento, pur partendo dal presupposto che l’evoluzione sia determinata dall’ambiente esterno, superano i meccanismi di selezione naturale attraverso una maggiore enfasi sugli individui e sulle conoscenze degli attori. Per questo motivo in quest’ambito rientrano i cosiddetti “active learning models” (Rantala, 2006) in cui le probabilità di sopravvivenza dell’impresa aumentano al crescere del “knowledge stock” in possesso degli individui. La crescita è quindi legata alla spinta esterna alla sopravvivenza data dall’ambiente ma è profittevole soltanto grazie alla presenza di meccanismi di apprendimento che consentono all’impresa di sviluppare conoscenze e competenze adeguate. In questo contesto si sottolinea l’importanza della “behavioral continuity” (Nelson e Winter, 2002) per ottenere successo nei percorsi di crescita: comportamenti aziendali persistenti, sistematici che prendono la forma di regole e azioni, ovvero routine. Il legame crescita-performance diventa quindi positivo solo se si è in grado di creare delle strutture di apprendimento.
Infine, un ulteriore approccio è quello basato sulla Resource Based View (Wernerfelt, 1984; Barney, 1991) applicata alla crescita delle imprese; questo Alessandro Rossi, Diego Campagnolo approccio ha origine a partire dal lavoro di Penrose del 1959 (Dobbs e Hamilton, 2007, Kor e Mahoney, 2004; Peteraf e Barney, 2003). Secondo Davidsson, Steffens e Fitzsimmons (2009) la logica della RBV indica che le imprese perseguiranno opportunità di crescita in modo tale da aumentare i vantaggi derivanti dalle proprie risorse VHRN (valuable, hard to copy, rare, non substitutable).
Questo lascia spazio alla possibilità che il percorso di crescita non crei valore quando l’impresa non è in possesso di risorse adeguate per crescere o non aumenta i vantaggi delle proprie risorse distintive. Prima di intraprendere un percorso di
crescita le imprese devono quindi sviluppare un vantaggio competitivo basato sull’identificazione e sulla valorizzazione dell’unicità del set di risorse a loro disposizione. In questo senso, “in most situations it is advantageous to let profitability (and the competitive advantage it reflects) be the horse that pulls the growth cart, rather than the other way around” (Davidsson, Steffens e Fitzsimmons, 2009 p. 400).
La crescita: un mezzo non un fine
Nei paragrafi precedenti abbiamo sottolineato l’esistenza di un possibile trade off tra crescita e performance; non sempre crescere è positivo, così come confermato dalla mancanza di evidenze empiriche univoche sul tema. Piuttosto, ciò che sembra
di fondamentale importanza è la comprensione dei fattori critici di successo di un business: fattori di tipo economico, ambientale, “knowledge-based” o “firm-specific” che possono rappresentare la base sulla quale impostare percorsi di crescita.
L’ideologia della crescita è quindi sbagliata per definizione. Ritenere che crescere sia positivo a priori comporta rischi per l’impresa in termini di profittabilità. Questo aspetto deve incentivare le imprese a non sottovalutare i “costi” della crescita in
favore soltanto degli aspetti positivi: mantenere un forte spirito imprenditoriale domandandosi allo stesso tempo come, quando e soprattutto perché crescere.
Intraprendere percorsi di crescita in assenza di un’adeguata pianificazione strategica, di competenze specifiche e di una corretta attenzione alla sostenibilità organizzativa (oltre che patrimoniale e finanziaria) rischia di portare ad un effetto negativo della crescita sulla performance. La crescita è pertanto un mezzo (e non un fine) da inserire in una visione strategica più ampia, consapevole dell’opportunità e/o necessità di aumentare le dimensioni dell’impresa, nell’ottica di ricercare un vantaggio competitivo sostenibile. La crescita è un mezzo da gestire tenendo in considerazione equilibri di tipo organizzativo-gestionale.
La crescita infatti ha carattere imprenditoriale, perché può prendere avvio dall’intuizione dell’imprenditore, ma ha elementi di managerialità che intervengono nella fase (iniziale) di pianificazione, (contestuale) di attuazione e (successiva) di gestione di un’organizzazione più complessa.
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Articolo redatto in collaborazione con Diego Campagnolo
Nota: questo articolo è pubblicato su www.ticonzero.info
Continuo a sognare un’Italia del Sud che riesca a trarre benessere dalle sue miniere inesplorate di natura e cultura. A far soldi con gli agriturismi non con le magliette, con i musei non con le magliette, con i tramonti non con le magliette. Il mondo ci percepisce come il deposito della bellezza e della qualità della vita. Invece noi continuiamo a rinnegare noi stessi, in nome di una visione piccola e frustrata, da eterni Malavoglia incapaci di alzare gli occhi dal seminterrato quotidiano in cui ci siamo autoreclusi, per risvegliare finalmente la meraviglia addormentata che ci circonda da sempre.
Massimo Gramellini
Si comincia questo articolo volutamente in modo inusuale e leggero.
In forma musicale attingendo al genio di Rino Gaetano che sublima il Mezzogiorno e alle immagini evocate da Mango che ci fanno vivere il Mediterraneo e soprattutto ci fanno venire la voglia di andarci.
Le parole di Massimo Gramellini apparse di recente sul “Buongiorno” de “La Stampa” riescono subito a centrare il nucleo del nostro discorso: lo scarso appeal del Sud.
Scarso appeal che è stato puntualmente descritto analiticamente con dovizia di particolari, cifre e statistiche e con autorevole tecnicità dal Dott. Sandro Gattei che ha curato nel Rapporto Svimez 2011 la parte “L’industria turistica: un’opportunità per la crescita dell’economia meridionale”. Nel vi sono tutte le ricette per curare il male dell’inerzia di miopi soggetti che credono al Ponte sullo stretto come unico passaggio a Sud.
Lo scarso appeal che il Mezzogiorno esercita sul turismo internazionale – afferma Gattei – rappresenta quindi l’elemento strutturalmente più debole della domanda turistica nell’area e appare quindi opportuna una analisi più dettagliata. Si va, quindi, via via rafforzando la convinzione che il turismo, per tanti anni tenuto in una posizione marginale nell’ambito della politica meridionalistica, possa in realtà avere, in ragione dello straordinario patrimonio presente nelle regioni meridionali, un ruolo di grande rilievo sulle possibilità di una crescita sostenuta dell’economia dell’area e di una riduzione del divario con il resto del Paese.
L’Italia è il Paese delle creazioni d’arte e delle invenzioni, il Paese degli artisti e dei coniatori d’idee e di parole.
Intanto l’aggettivo “territoriale” designa un insieme di strumenti e di risorse atte a promuovere la valenza e le potenzialità di un territorio che in quanto a patrimonio paesaggistico e artistico ha di per sé un valore intrinseco che va promosso e reso fruibile, un plus valore da reinvestire come prodotto economico.
Ma accostare i concetti economici e quindi di mercato, ai valori inestimabili del patrimonio paesaggistico, artistico, culturale e di risorsa umana di un Paese mal riesce in una realtà così “particolare” come quella che ci appartiene.
E questa breve analisi potrebbe risultare da una sorta di “sentimento del contrario” che si ricava dalla visione attraverso un “cannocchiale” rovesciato che, forse, ci rende la misura di un sistemico ritardo in fatto di “attrattività” territoriale, di raggiungimento delle eccellenze, Marketing territoriale appunto, e competitività del Sistema Sud.
Cominciamo ad osservare allora come attraverso un cannocchiale rovesciato le criticità del nostro sistema di marketing territoriale per comprenderne gli effetti negativi e ricavarne delle strategie d’intervento.
Pur essendo un Paese di miniere inesplorate il Sud si sta avviando verso una deriva della capacità attrattiva degli investimenti interni ed esterni, verso una deriva della sua capacità competitiva che richiede interventi rapidi di
risoluzione verso il sostegno e il rilancio delle politiche economiche e di mercato.
Lo scarso appeal che il Mezzogiorno esercita sui residenti nel Centro-Nord è evidente se si considera che dei 39,7 milioni di residenti centro-settentrionali che nel 2008 hanno deciso di trascorrere le loro vacanze in Italia, solo 6,0 milioni si sono recati nel Sud, pari ad appena il 15,1% (17,5% in termini di presenze).
“C’è un solo modo di dimenticare il tempo (perduto): impiegarlo” sosteneva Charles Baudelaire e il Sistema Italia deve accelerare sugli interventi, agire, impiegare il tempo nella ristrutturazione dei piani d’intervento, nella creazione di sistemi capaci di sinergie coordinate da una governance capace di interfacce e aperta all’interfaccia internazionale.
E, a proposito di interfacce, se si vuole permanere nella metafora informatica, il Sistema Sud ha sofferto di una defaillance: lo stacco venutosi a creare tra i vari comparti del Marketing e il “resto del mondo”.
Si pensi che nell’era della Globalizzazione si ha visibilità solo attraverso il successo e il raggiungimento di competenze eccellenti perché proprio su questi fattori, di enorme importanza, debbono configurarsi le scelte di un Paese che deve saper fare sistema. L’economia è capace di attrattività solo se è in grado di essere competitiva sia all’interno che all’esterno; si comprende allora che la competitività non può derivare solo dall’alta professionalità e dalla efficienza degli operatori, ma anche dalla capacità territoriale di fare sistema. Nell’ottica di un new public management…o marketing.
Molti sono stati, in Europa, i Paesi che hanno creato riforme e riorganizzazioni delle loro istituzioni che consentissero la creazione di banche dati telematiche per la circolazione delle informazioni, per creare raccordi organizzativi tra enti locali e statali in un sistema di governance che agisce in collegamento con realtà regionali, sub-regionali e statali che fornisce assistenza, che attua strategie di intervento attraverso un monitoraggio periodico delle situazioni, trasformando indicatori e statistiche in strumenti operativi. Come diceva Keynes “l’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre”. Ma qui si tratta piuttosto di ritardo consapevole o rischio da non correre. Quasi adagiati tra le “scene da un Patrimonio” scene di un film già visto, dove il problema non è tanto la produzione, ma la distribuzione.
Nel processo di globalizzazione, e quindi di apertura alla liberalizzazione e alla competizione dei mercati, l’Italia dei ritardi deve recuperare tempi ed interventi, attuare cambiamenti legislativi e normativi, ottimizzare l’efficienza delle pubbliche amministrazioni e dei servizi, creare infrastrutture fisiche ed informatiche che siano accessibili e collegate, ma soprattutto deve fare sistema nel sistema. Un agire comune e coeso tra pubblico e privato con unificazione degli intenti, individuazione di medesimi obiettivi e messa a punto di strategie operative compartecipate che passino attraverso il sistema della Ricerca e delle Imprese.
Dare gambe ai progetti, immetterli nella realtà delle metropoli e delle aree omogenee, accrescere le capacità del “Marketing oriented” ma anche degli “Export oriented”, compiendo scelte e scegliendo le priorità, sia pure riferite alla posizione geografica che molto influisce sulla capacità attrattiva e che potrebbero essere individuate al Sud, per esempio, per creare posizioni vantaggiose nel Mezzogiorno. Seguendo l’insegnamento Nittiano di sostituire il regno dei mediocri con pochi ma illuminati. Basta vedere la differenza tra le coste della Sicilia e quelle della Romagna. Un mare e una storia senza confronti. Ma vince la Romagna l’incontro di Coppa Italia tra squadre di diversa categoria. E’ il gioco che conta, il buon gioco e non solo giocatori ben pagati, decisamente brocchi.
Il sistema di ospitalità del Mezzogiorno, sia rapportato alla popolazione residente che alla superficie territoriale è assai inferiore a quello del Centro-Nord, nonostante una apprezzabile crescita negli ultimi quindici anni, in particolare nel settore alberghiero. Scarsi sono ancora i bed&breakfast e gli agriturismi, tipologie ricettive che altrove si sono decisamente imposte nel corso degli ultimi anni.
Quindi occorre necessariamente rivalutare il Prodotto attraverso l’immagine e la sua visibilità e la promozione ma in un’ottica di responsabilità condivisa a più livelli, attraverso una leadership diffusa che sappia agire in termini di fiscalità e incentivi, costo del lavoro, benessere economico, servizi, tutto attraverso la lente di ingrandimento della cultura che sa rendere l’immagine della identità e dell’autenticità delle risorse umane e patrimoniali d’Italia.
Nonostante il Mezzogiorno goda di un clima migliore rispetto al resto del Paese, con un periodo estivo più prolungato e con una temperatura che si mantiene considerevolmente superiore a quella delle altre aree, il movimento turistico risulta ampiamente concentrato nei quattro mesi estivi e, per converso, molto ridotto nel resto dell’anno.
Il Mezzogiorno può inoltre contare sulle sue identità locali, in particolare sulla gastronomia e sui prodotti locali (un segmento in continua e costante crescita), sul clima, sulle bellezze naturali, ed anche sulla ospitalità e accoglienza della gente, anche se queste ultime stentano a tradursi in una adeguata professionalità da parte degli addetti al comparto turistico. Nel complesso, comunque, il patrimonio delle tradizioni locali rappresenta un punto di forza per il Mezzogiorno che, se ben gestito e valorizzato, può portare a notevoli vantaggi competitivi.
Sicuramente se si volesse individuare una metodologia d’intervento al primo posto potrebbe trovarsi l’individuazione degli obiettivi con la chiara individuazione dei “soggetti” che si vogliono attrarre; al secondo posto potrebbe essere l’identificazione delle risorse e delle eccellenze; al terzo, ma non per ordine di importanza, la dimensione territoriale con la sua pregnanza naturale, artistica e di risorse umane.
Tutto ciò comporterebbe una coordinazione capillare del sistema, la richiesta di accrescimento degli investimenti che in questa logica non potranno che essere strutturali.
Ma per il SUD dobbiamo abbandonare l’aggettivo “incompiuto” e dimenticare le cose lette già tante volte senza valenza specifica per i problemi reali. Quali? Manca un riferimento che non sembra secondario: quello alle difficoltà e onerosità dei trasporti diretti al SUD! E la scarsa diffusione della conoscenza delle lingue da parte dei giovani che desidererebbero lavorare nel turismo.
I veri viaggiatori del passato e del presente hanno trovato la voglia e le forze e il coraggio per visitare il Sud (vedi viaggio in bicicletta di Bertarelli ma anche inglesi e francesi, che a taormina era diventato sinonimo di turista straniero) perchè ne valeva come ne vale la pena (quel che é rimasto di natura e cultura é ancora eccezionale).
Per fare al contrario il turismo di massa ci vogliono trasporti e infrastrutture e servizi adeguati e poco costosi che non ti rosicchino la durata dello short break ( basta provare ad andare a Matera o a Piazza Armerina o a Ragusa o a Stromboli o anche a Palermo).
Si concorda dunque con le conclusioni di Gattei, per un progetto SUD, quando afferma che “le notevoli risorse naturali, culturali e paesaggistiche del Mezzogiorno non riescono a rappresentare ancora un reale vantaggio competitivo a causa della presenza di forti vincoli che impediscono una piena valorizzazione del territorio. Avere un ingente patrimonio turistico è ovviamente importante, ma non è di per sé sufficiente, come dimostra l’esperienza italiana negli ultimi decenni, a vincere la competizione con le altre aree di destinazione, se esso non viene supportato da adeguati servizi e reti di trasporto che consentano al turista di raggiungere senza grandi disagi il luogo di vacanza prescelto”.
“Ad esempio a me piace il Sud “, avrebbe detto Rino Gaetano. Ecco lo slogan che ci piace sentire. Ad esempio a noi piace il SUD.
Ma il SUD deve dare l’esempio, per essere un esempio, per essere un Progetto credibile.
E allora, volgiamo lo sguardo ad un nuovo management territoriale che contenga strategia, pianificazione e comunicazione “Per Ritornare” nel nuovo Rinascimento. Nel Mezzogiorno, nella centralità del Mediterraneo, da Ricordare. Da Raccontare, da vivere. Anche questo è SUD.
Nella società in cui viviamo la formazione professionale si presenta come uno strumento strategico per soddisfare le svariate esigenze di chi vuole agire nel mondo del lavoro con standard adeguati. Le sfide poste in essere dal mercato del lavoro inducono infatti a ripensare l’attività di formazione come qualcosa di più e di diverso rispetto all’addestramento, inteso come processo di trasferimento e di acquisizione di abilità operative, di accumulo di nozioni. La formazione deve essere capace di dare strumenti flessibili che consentano agli individui di apprendere lungo l’intero corso della vita al fine di migliorare la propria sfera lavorativa, personale e sociale.
Il lifelong learnig, ovvero l’apprendimento continuo, è la risposta alla necessità di dare all’uomo una posizione centrale nella vita economica e sociale: definito dall’Unione Europea come “tutte le attività di apprendimento intraprese nell’arco della vita nell’obiettivo di migliorare la conoscenza, le abilità, le competenze in una prospettiva personale, civica, sociale e lavorativa”, qualifica la formazione come esigenza interiore legata ai propri valori, al bisogno di prendere coscienza delle proprie attitudini e abilità e sviluppare la capacità di interagire positivamente con le altre persone al fine di migliorare le proprie prestazioni professionali e sentirsi attivi anche come cittadini.
In Italia negli ultimi anni la formazione continua ha coinvolto una quota crescente di lavoratori: come i dati ISTAT dimostrano, nel periodo 2004-2008 la partecipazione alle attività di formazione continua registra un trend positivo pari ad oltre 10 punti percentuali. Nel 2009 a causa della crisi economica la partecipazione è diminuita (-13%) e la formazione continua ha orientato la sua offerta formativa verso i lavoratori in situazione critica, proponendo programmi di aggiornamento e riqualificazione.
Chi decide di frequentare un corso di formazione? Secondo i dati ISTAT, a partecipare ai corsi sono soprattutto gli individui occupati, di età compresa tra i 35 e i 54 anni, che frequentano attività di formazione promosse dalle imprese o comunque attivate ai fini dell’esercizio dell’attività professionale. Le donne esprimono una maggiore propensione alla partecipazione rispetto agli uomini: per loro la formazione rappresenta spesso l’unico vantaggio competitivo in grado di ridurre le barriere d’ingresso e i rischi di uscita dal mercato del lavoro. Alle motivazioni di carattere professionale si affiancano poi scelte personali riguardanti la possibilità di coltivare i propri interessi e conoscere nuove persone.
Frequentare un corso di formazione è particolarmente utile in ambito lavorativo perchè permette di ampliare le conoscenze in vista di un miglioramento della posizione lavorativa; sviluppare le competenze può essere considerata la prima, essenziale, condizione per crescere in autonomia e accrescere il proprio ruolo. Tuttavia, ottenere dei benefici concreti è più difficile: esiste, infatti, un forte divario tra aspettative e benefici effettivi della formazione. Tale divario apre interrogativi sulle modalità di raccordo tra formazione e mondo del lavoro, con particolare riferimento ai temi della valorizzazione e del riconoscimento delle competenze acquisite, delle modalità di carriera, della capacità del sistema produttivo di assorbire l’aumento di capitale umano. Un problema da affrontare considerando sia gli strumenti legislativi che regolano la partecipazione dei lavoratori alle attività formative sia strumenti che migliorino le condizioni economiche e la qualità del lavoro.
Fonti:
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ISTAT Statistiche in breve 2008, La partecipazione degli adulti ad attività formative
ISFOL, Indagine INDACO-Lavoratori Indagine sulla conoscenza 2009
Introduzione
Ogni giorno milioni di record e di dati vengono memorizzati: le nostre transazioni bancarie, il biglietto autostradale, l’accesso al server di posta elettronica e tanto altro ancora. Gran parte di loro finiscono in database aziendali per essere conservati e forse, ripresi ed analizzati quando un giorno un manager deciderà che sulla base di quei dati potranno essere prese decisioni importanti, che se ne potranno ricavare informazioni interessanti e indispensabili per l’azienda, per anticipare il mercato ed essere competitivi.
Questo continuo registrare tende a generare un overload informativo. Esplorare ed analizzare il vasto volume di dati diventa sempre più complesso e difficile.
A questo proposito ci viene in aiuto il data mining con tutte le sue tecniche, i modelli di regressione e tanti altri modelli matematico/statistici che ci spiegano la dipendenza tra le variabili. Ci spiegano che se domani abbasseremo dell’ 1 % il prezzo del nostro prodotto allora con buona probabilità la domanda aumenterà del TOT %.
L’analisi dei dati rappresenta l’unica via per la creazione di conoscenza e per la presa di decisioni importanti sulla base di essi, che fino a quando resteranno rinchiusi nei loro contenitori, fino al momento che non verranno mostrate le relazioni e le regole che li governano in maniera “leggibile” e comprensibile, non potranno essere utilizzati.
Un fattore da non sottovalutare è sicuramente il tempo in cui le decisioni vengono prese, non è infatti solo la qualità dell’informazione a fare la differenza, ma anche il tempo in cui se ne viene in possesso e quindi rapidi tempi di analisi del dato diventano sicuramente un fattore di successo. Spesso complicati modelli matematico/statistici vengono abbandonati proprio alla ricerca di una lettura dell’informazione più rapida. Si cerca di considerare la totalità dei dati e di evitare lo sforzo ed il tempo necessari allo studio, al calcolo ed all’analisi di indicatori statistici di sintesi. Questo porta a volte ad una analisi meno attenta e di peggiore qualità, che può sicuramente migliorare con una preventiva selezione dei dati e mediante l’utilizzo delle tecniche adatte.
1- Dati e informazioni – Alla ricerca del vantaggio competitivo
In ogni attività di produzione il valore viene di solito misurato confrontando quello dei prodotti in entrata ed uscita sul mercato. Nel caso della produzione delle informazioni risulta molto più difficile dare un valore di mercato agli input ed agli
output.
Bill Inmon (2004), colui che è considerato il padre del datawarehousing1 sostiene che i primi costi da considerare sono sicuramente i costi per megabyte di dati potenzialmente registrabili. Tuttavia dietro ogni megabyte di dati accumulati esiste una vera e propria catena di linee di comunicazione, controllers, macchine e persone che rendono i costi molto più alti e difficile da valutare. Egli suggerisce di valutare l’ influenza che questi potrebbero avere sul processo decisionale ed evitare di stoccare quelli che non servono. Quando questo non è possibile sarebbe almeno opportuno classificarli in attivamente usati o meno in modo tale da rendere migliori e più accessibili le unità dove sono stoccati quelli più utilizzati e preservare risorse a favore di questi.
Bisogna considerare che i costi di storage comportano delle economie di scala, sicuramente dotare un impianto della struttura per registrarli costa molto di più rispetto al farla crescere in termini di megabyte, e quindi di dati accumulabili, nel tempo. In altre parole se si dispone già di un buon impianto, aumentare la capacità di storage comporta solo l’acquisto di ulteriori supporti per immagazinare gli stessi.
Tali costi inoltre hanno visto un forte calo negli ultimi anni. Questa situazione porta ad accumulare i dati per un ipotetico utilizzo futuro senza fare alcuna considerazione, nella scelta tra i dati da conservare o meno si tende sempre più al “let’s just save everything”.
Molte organizzazioni tendono a voler calcorare i ritorni dei loro investimenti “informatici”, tuttavia non si tratta di un calcolo così immediato, non si tratta infatti di abbassare costi e/o aumentare ricavi, ma di ritorni in termini di conoscenza aziendale, che può portare a benefici indiretti e quindi più difficili da considerare.
ll vantaggio competitivo è quindi sicuramente da andare a ricercare non nell’accumulo di dati, ma negli strumenti che da questi sono in grado di estrapolare informazioni che migliorano la performance decisionale (Kass 2009).
2 – I compiti del data mining
Il data mining può essere visto come il processo di esplorazione ed analisi di un’ampia mole di dati al fine di scoprire modelli e regole significativi. In altre parole un insieme di tecniche adottate per estrarre informazioni da una ampia mole di dati grezzi.
I suoi compiti principali sono:
• Classificazione
• Stima
• Previsione
• Raggruppamento per affinità o regole di associazione
• Clustering
• Descrizione e visualizzazione
Mentre i primi tre compiti possono essere considerati attività di data mining diretto, atti a spiegare una specifica variabile sulla base dei dati disponibili, gli altri tre sono esempi di data mining indiretto, volti a stabilire delle relazioni tra tutte le variabili in gioco nel modello.
2.1 – Il data mining in sintesi
Con la classificazione si assegna a degli oggetti (nel nostro caso i record del database) una determinata “classe”, un esempio potrebbe essere l’assegnazione ad ogni record cliente di un codice che ci identifica quelli a basso, medio ed alto reddito. Si tratta quindi di classificare gli oggetti sulla base di valori di variabili conosciute.
Quando si parla di stima invece si cerca di assegnare dei valori a variabili non conosciute sulla base di un modello con in input informazioni recuperate dalla base dati. Ad esempio una banca decide o meno se concedere un mutuo a tasso agevolato ad un cliente in base ad una stima, all’assegnazione di un punteggio calcolato in modo probabilistico. Questo approccio consente di ordinare i record in base al valore assegnato. Si ricorre infatti a questa tecnica quando si vuole individuare dei valori di soglia, al di sotto o al di sopra dei quali dar luogo a determinate azioni.
A differenza delle due precedenti tecniche la previsione non esamina i record solamente per spiegare fatti già avvenuti, anche se può essere assimilata alle due precedenti, essa mira a spiegare comportamenti futuri. I dati storici servono quindi in questo caso a costruire un modello che spieghi il comportamento osservato e così formulare ipotesi per quello futuro.
Il raggruppamento per affinità o regole di associazione viene utilizzato per stabilire quali oggetti o voci possono abbinarsi, l’esempio classico è stabilire quali prodotti si trovano insieme in un carrello al supermercato. La grande distribuzione utilizza queste tecniche per stabilire la distribuzione dei prodotti sugli scaffali o nei cataloghi per far sì che gli articoli che di solito vengono acquistati insieme si trovino il più vicino possibile.
Il clustering rappresenta la segmentazione di un gruppo eterogeneo di osservazioni, ad esempio di clienti, in sottogruppi omogenei al loro interno (cluster). Esso differisce dalla classificazione in quanto in questo caso non si fa riferimento a classi predefinite, inoltre l’appartenenza ad un gruppo non equivale ad una classificazione, ma sta al data miner stabilire il significato dell’appartenenza o meno ad un gruppo. E’ il gruppo che viene esaminato ed è di questo che si cerca di comprendere il significato. Un insieme di acquirenti di particolari prodotti possono ad esempio rivelare l’appartenenza a differenti sottoculture, ci si potrebbe chiedere verso quale tipo di promozione i clienti potrebbero rivelarsi più ricettivi, in tal modo invece di cercare una risposta valida per tutti ci si propone di stabilire quale promozione potrebbe interessare in modo maggiore ciascun gruppo.
Infine la descrizione e visualizzazione rappresentano delle tecniche “alternative” di data mining. Anche se a volte non è facile ottenere una visualizzazione significativa per descrivere un database complesso, un quadro chiaro della situazione può essere molto più efficace di numerose regole di associazione, a volte risulta molto più immediato ricavare informazioni da dati visivi (Berry e Linoff 2002).
Il data miner in alcuni casi è alla ricerca di qualcosa che non è intuitivo ma, al contrario è controintuitivo (più l’informazione si discosta dall’ovvio più è grande il suo valore potenziale). Il segreto è cercare di leggere un quadro di insieme, seguire un percorso di analisi non preconfigurato e combinare le conoscenze e la creatività umana con la grande capacità di memoria e visualizzazione del computer.
2.2 – Benefici del visual data mining
Le tecniche di visual data mining sono efficaci in quanto includono l’ essere umano nel processo di esplorazione e combinano la sua conoscenza, creatività e flessibilità con l’ enorme capacità computazionale e di storage degli attuali computer.
La sua idea di base è quella di mostrare i dati in forma visuale (o grafica) permettendo al data miner di “entrare” nei dati, trarre delle conclusioni e direttamente interagirci. I suoi principali vantaggi sono i seguenti:
1. Permette più facilmente di trattare dati sporchi e disomogenei;
2. E’ intuitivo e non richiede la comprensione di complessi algoritmi e modelli
matematici o statistici;
3. Permette di ottenere direttamente dei feedback sull’analisi che si sta
affrontando.
Di solito l’ esplorazione dei dati prevede tre step: “overview”, “zoom e filtraggio” e “drill-down” (inteso come la richiesta di maggiori dettagli). In primis si cerca quindi di ottenere una overview dei dati per poi focalizzarsi su una porzione interessante, filtrandoli e zoomandoli, cercando così di visualizzare solo quelle caratteristiche che più interessano. Infine ottenere maggiori dettagli.
Quando si gestiscono enormi quantità di dati è fondamentale ottenere prima di tutto una visione del quadro di insieme, una presentazione dei dati altamente compressa, che permette all’utente di ottenere una visione “dall’alto” del fenomeno considerato, dopo questo passaggio si analizza il particolare.
Una tecnica molto utilizzata è quella di dare la possibilità all’utente di ottenere visualizzazioni multiple, ovvero dopo una visione dell’insieme si offre la possibilità di conservare visualizzazioni di differenti porzioni di dati o con differenti livelli di dettaglio, così da permettergli di effettuare confronti diretti senza dover sforzare eccessivamente la memoria (Keim 2002). Sicuramente di questi ed altri fattori si dorebbe avere grande considerazione in riguardo al possibile design di una reportistica efficace dal punto di vista decisionale.
3 – Alla ricerca del giusto design
Il datawarehousing ed il data mining hanno dato ai decisori aziendali la possibilità di usufruire di una serie di strumenti per immagazzinare, ritrovare ed analizzare i dati contenuti in enormi database, questo grazie allo sviluppo di query che gli permettono di visualizzare enormi quantità di dati. Tuttavia massimizzare le performance dell’utente in questo scenario resta ancora un campo tutto da scoprire.
Nel disegnare queste query, il seguire un approccio più o meno “visuale” di reporting può infatti migliorare le performance decisionali in alcuni casi.
Storicamente sono esistite due principali alternative per quanto riguarda il design delle query, quello tradizionale, basato sul testo, e quello più moderno che tende ad un approccio non solo testuale ma anche visuale. Elemento centrale di questo secondo è che permette più facilmente all’utente di limitare la mole e ampiezza dei dati visualizzati. Le tecniche moderne infatti hanno la peculiarità di essere interattive ed includere rappresentazioni grafiche e non solo testuali. In questo modo danno la possibilità di applicare filtri ai dati e riaggiustare i criteri della query durante l’esplorazione, permettendo all’utente di seguire dei sentieri mentali ed applicare direttamente le loro percezioni, ricevendo così direttamente dei feedback.
Le due variabili fondamentali nella presa di decisione sono l’accuratezza della decisione ed il tempo impiegato per prenderla.
E’ stato dimostrato che quando ci si confronta con un compito decisionale di bassa complessità (sia in termini di dati da analizzare che di possibili alternative decisionali) le query testuali permettono all’ utente di ottenere una performance migliore sia in termini di qualità della decisione che di tempo impiegato, viceversa nel caso di fenomeni più complessi da indagare.
Quando infatti le informazioni sono poche e l’ attività di decisione è meno complessa, allora un numero di soluzioni fattibili può essere rappresentato simultaneamente, permettendo una comparazione diretta tra di queste ed evitando
di dover effettuare invece dei confronti mentali che aumentano la difficoltà cognitiva. L’ interfaccia visuale infatti non sempre rende possibile la visualizzazione simultanea di dati con alto dettaglio, offre invece i dettagli solo a richiesta dell’utente. Per tale motivo ogni possibile soluzione deve essere necessariamente visualizzata indipendentemente e processata mentalmente. Per tali motivi quando il task decisionale è poco complesso è preferibile adottare un approccio testuale e non i più moderni approcci “interattivi” di analisi. Quando invece il task decisionale è complesso ed i dati da analizzare simultaneamente sono troppi, ci sarebbe da effettuare uno sforzo cognitivo troppo grande per confrontare tutte le situazioni, con un approccio testuale si tenderebbe ad adottare delle strategie di semplificazioni cognitive, che farebbero non solo incrementare il tempo di analisi, ma anche peggiorare l’ accuratezza e quindi portare a decisioni di peggiore qualità.
Per evitare questo problema si può far sì che l’utente possa focalizzarsi sugli attributi più salienti e filtrare via i dettagli non rilevanti per l’analisi, dandogli inoltre la possibilità di costruire, navigando, dei sentieri mentali che meglio lo aiutano non solo ad analizzare le possibili soluzioni, ma anche a meglio ricordarle per un successivo confronto mentale o visivo. In questo modo egli può ottenere direttamente dei feedback, visualizzare il mutare del sistema al variare dei singoli paramentri e così comprendere le regole che lo governano (Speier e Morris 2003).
Conclusioni
L’informazione rappresenta oggi una delle risorse fondamentali ed indispensabile per un’azienda che vuole mantenere il proprio vantaggio competitivo. Spesso esse devono essere ricavate da enormi database di dati grezzi, che trasformano il manager aziendale in un vero e proprio data miner alla ricerca di informazioni preziose per il business. Cercare, scegliere ed analizzare i dati giusti per trarne informazioni è un compito di notevole difficoltà. Il data mining, insieme alle moderne tecniche di querying possono dare un eccellente contributo in questa direzione.
Lo scenario cui si fa riferimento, la mole di dati, la complessità del task decisionale, giocano un ruolo cruciale nel disegno di una query, particolarmente quando le potenziali soluzioni ed i dati da analizzare rischiano di portare l’utente a navigare in un mare di dati a volte ingannevoli e che potrebbe portare a decisioni errate.
NOTE
1 Per datawarehousing si intende un particolare database di grandi dimensioni impiegato nel processo decisionale, che considera l’azienda nella sua unità ed acquisisce dati dai vari sistemi informatici utilizzati.
BIBLIOGRAFIA
BERRY M. J. A. E LINOFF G. S., 2002. Data Mining, Apogeo Editore, pp. 27-47.
INMON, B. 2004. The cost of storage Inmon. DM Review, 14: 50-51.
KASS, S. 2009. Information Lifecycle Management. Infonomics, AIIM Guide to ECM,
pp. 66-69.
KEIM, D. A., 2002. Information Visualization and Visual Data Mining, IEEE transaction on Visualization and Computer Graphics, Volume 8, Issue 1, pp. 1 – 8.
SPEIER, C. E MORRIS M. G. 2003. The influence of Query Interface Design on Decision Making Performance, MIS Quarterly, Vol. 27, No. 3 (Sep., 2003), pp. 397-423
Nota: questo articolo è pubblicato su www.ticonzero.info
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Gabriele Morano è esperto in new media e mobile entertainment