valerioapreaÈ possibile far apprezzare ai bambini (e anche ai grandi) Mozart, Schubert, Rossini, la musica classica e il teatro? L’autore Ennio Speranza e il regista Stefano Cioffi hanno pensato ad uno spettacolo i cui protagonisti saranno proprio la musica, il flauto, la magia e i bambini. Te lo suono io il flauto si terrà l’1 dicembre all’Auditorium Parco della Musica di Roma. La storia di uno degli strumenti più dolci, affascinanti e democratici, il flauto, sarà accompagnata dalla musica dal vivo di duecento flautisti.

La voce narrante di questa suggestiva esibizione sarà quella di Valerio Aprea, giovane e brillante attore di teatro, cinema, televisione, che ha recitato in ruoli drammatici, profondi, leggeri e comici, con artisti e registi d’eccezione. Per l’occasione gli abbiamo chiesto cosa ne pensa della musica, del teatro, dei bambini e dei sogni.

 

Sei la voce di Te lo suono io il flauto, in un reading fantastico sulla storia di questo strumento. Come si mescoleranno, in questo caso, il tuo talento comico, la performance teatrale, la musica e la necessità di coinvolgere i bambini e catturare la loro attenzione?

In realtà non abbiamo ancora stabilito definitivamente ciò che accadrà sul palco nei minimi dettagli. So per il momento che presterò la voce ad un excursus sul flauto e la sua storia, e questo in alternanza con la musica ma anche mescolato ad essa, il tutto cercando anche un modo di interagire con i giovani spettatori, che immagino saranno affascinati dall’insieme di parole e suoni.
Sarà quindi uno spettacolo non tanto di comicità, ma di evocazione e, spero, forte suggestione.

 

Te lo suono io il flauto è uno spettacolo per tutti, ma con un occhio di riguardo particolare per i bambini. Hai lavorato altre volte a stretto contatto con i più piccoli? Com’è collaborare con loro e recitare per loro?

No, veramente non ho mai recitato davanti a loro. Al limite mi è capitato, in un paio di occasioni, di recitare insieme a loro e, come sempre in questi casi, di rimanere impressionato dalla naturale capacità di recitare molto meglio di me.

 

Il flauto è uno strumento particolare, democratico, che, per motivi scolastici, un po’ tutti abbiamo avuto l’opportunità di suonare. Partecipando a questo spettacolo ti sei appassionato anche tu allo strumento? E in generale che ruolo ha la musica nella tua vita?

A dire il vero mi sono appassionato allo strumento molto prima di questo spettacolo, più o meno all’età di 9 anni, quando, come tutti credo, lo studiavo a scuola nell’ora di musica (ma è esattamente, tra l’altro, quello che dirò nello spettacolo). Quanto alla musica in generale, bè, ha un ruolo direi congenito forse perché appartenendo ad una famiglia di musicisti classici ne ho conservato l’inclinazione, pur non avendo proseguito studi musicali, comunque approcciati da adolescente. Credo che se non avessi fatto l’attore, avrei fatto il musicista.

 

Pensi che alcune forme artistiche, considerate di solito elitarie, come la musica classica e il teatro in generale, dovrebbero essere comunicate in modi diversi ai pubblici giovani? Come potrebbero essere attratti nuovi spettatori e ascoltatori?

Temo di sì. Quando fui portato con la scuola al cinema o a teatro a vedere qualcosa, che per fortuna non ricordo più, diciamo ecco che non fu esattamente una folgorazione. E infatti non lo ricordo più. Mentre dovrebbe essere il contrario. È una questione enorme e di difficilissima risoluzione. Diciamo che si dovrebbe essere bravi a selezionare accuratamente ciò che si vuole proporre a dei giovanissimi, pensando davvero che possano essere gli unici colpi a disposizione per andare a segno nella loro sensibilità, nella loro immaginazione e capacità di ricezione. Sprecati quei colpi, si avrà probabilmente una forma di rigetto. Inutile dire che il discorso vale esattamente anche per il pubblico adulto.

 

In Te lo suono io il flauto si parla anche tanto di magia, di storie, di sogni. E tu da bambino eri un sognatore? Cosa pensavi che saresti diventato “da grande”? E cosa consigli ai sognatori di oggi che vorrebbero intraprendere una carriera come la tua?

Diciamo subito che non rientro nella categoria di quelli che sin da piccoli sognavano di fare l’attore ecc. Non ho mai saputo cosa volessi fare, e anche quando ho iniziato a studiare recitazione ci sono voluti anni e anni perché mi decidessi ad ammettere di fare l’attore. Quello che posso suggerire a questi ‘sognatori’ è di capire più in fretta possibile se hanno davvero le qualità per essere quello che vorrebbero essere e poi di quale tipo siano queste qualità. Perché si può poi essere attori o attrici in vari modi. Tutto sta ad individuare qual è quello più congeniale a se stessi.

 

TAFTER è mediapartner dell’evento. Scarica qui la riduzione riservata ai nostri lettori!

teatrovallesedeDurante la presentazione delle statistiche sull’attività di spettacolo relative ai primi sei mesi del 2013, il direttore generale della SIAE Gaetano Blandini ha colto l’occasione per parlare di diversi temi scottanti del settore, quali le conseguenze derivanti dalla legge di stabilità, il regolamento dell’Agcom contro la pirateria on line e, immancabile, la spinosa questione del Teatro Valle Occupato, ora trasformato in Fondazione. La SIAE come l’AGIS da sempre ritengono che nel palco capitolino permanga una “situazione di illegalità e di alterazione della concorrenza”, sebbene in molti, tra cui il nostro editorialista Gioacchino De Chirico, abbiano accolto la neonata Fondazione Teatro Valle Bene Comune come un importante traguardo.

Sul tema abbiamo voluto interpellare una voce super partes, rivolgendo alcune domande ad un esperto in materia di economia della cultura, qual è il Professore Michele Trimarchi. Questa la sua analisi sul “fenomeno Valle”.

 

E’ nata la Fondazione Teatro Valle Bene Comune. Cosa è cambiato rispetto a prima?
Dalla fine del modello ETI alla nascita della Fondazione sono cambiate molte cose: lo spiazzamento, l’occupazione, una partecipazione intensa di artisti e di pubblico, un’inedita attenzione intellettuale. La prospettiva, tuttavia, è che le cose tornino più o meno com’erano prima, con un teatro che produce poco e distribuisce molto nell’ambito di un circuito commerciale sostenuto da fondi pubblici, e con processi decisionali che in poco tempo sostituiranno la condivisione assembleare e lo spontaneismo con dei protocolli convenzionali.

 

Ci saranno novità per il pubblico? Quali?
Per il pubblico le cose cambiano soltanto se cambia la varietà e la qualità della programmazione teatrale, e anche se agli spettacoli si associano sistematicamente ulteriori e più ampie opzioni artistiche. Si tratta di cose che vanno progettate con acutezza e che dipendono dalla capacità di coniugare le strategie gestionali e gli orientamenti artistici.

 

Ci indichi un aspetto positivo ed uno negativo presenti nello statuto della neonata Fondazione.
Lo Statuto è portatore di un indirizzo politico ben chiaro, e contiene molteplici vincoli e divieti. La sua effettiva caratura si potrà comprendere solo nel corso del tempo, quando cioè le attività di ogni giorno dovranno fare i conti con la rotazione obbligatoria delle cariche sociali, con l’unanimità indispensabile nelle prime due riunioni per ogni decisione, con l’equalizzazione delle posizioni, con il ruolo quasi ancillare delle attività teatrali rispetto alla vocazione politica. E’ uno Statuto ricco di principi molti belli e di intenzioni positive e trasparenti. Lo erano anche le Tavole della Legge.

 

SIAE e AGIS contestano l’illegalità del Valle. Hanno ragione? Perché?
L’occupazione di uno spazio da parte di persone diverse dai suoi proprietari non può essere definita legale. In momenti complessi come quello che stiamo attraversando lo scontro tra formalismi rigidi e spontaneismi che si giustificano da sé non può sorprendere. Quando le regole del gioco finiscono per mummificare un sistema il desiderio e il bisogno di superarne le strettoie emergono naturaliter. Di norma le rivoluzioni non generano un mondo migliore, ma solo un mondo diverso; ad alcuni appare irrinunciabile, ad altri nefasto, anche questo accade ogni volta.

 

Ritiene che questo “modello” sia sostenibile a lungo termine? Come?
Un modello non può essere sostenibile o fallimentare, la realtà sì. Lasciamo che la Fondazione cominci a funzionare, e si vedrà quali intuizioni risulteranno praticabili, e quali illusorie. Regole forti possono non piacere, ma se ben concepite possono arginare i problemi generati dalle dinamiche umane; il modello adottato dalla Fondazione combina processi di partecipazione che richiedono grande senso di responsabilità e griglie piuttosto rigide che probabilmente dovranno essere gestite con qualche flessibilità. Solo nel corso degli anni si potrà comprendere la sostenibilità del progetto.

 

E’ un esperimento replicabile? Se tutti gli spazi occupati seguissero il medesimo iter, cosa accadrebbe?
L’occupazione degli spazi in tutto il mondo è il risultato di molteplici ed eterogenee motivazioni, di solito condivisibili e in alcuni casi addirittura drammatiche. Ma quasi mai è assistita o originata (come sarebbe ragionevole) da una strategia orientata a costruire un reticolo di scelte e azioni che superino il passato evitandone fragilità e sbagli. Che molta comprensibile rabbia serpeggi e si diffonda è nella logica delle cose, dopo due secoli abbondanti di un paradigma aggressivo e frettoloso, la pars destruens è ben chiara.

 

buiobendaSiamo poco più di trenta, uomini e donne. Ci accoglie Ulla, che nel foyer inizia a raccontarci di come l’Espace sia uno dei luoghi in cui è nato il cinema, a fine Ottocento; anche i Lumiere sono passati da qui. Poi ci guida in un veloce training: inspirare ed espirare, ridire, saltellare e fare boccacce.
Ulla Alasjärvi, fondatrice con il compagno Beppe Bergamasco della Compagnia Sperimentale Drammatica, matura ed energica donna finlandese trapiantata da trent’anni in Italia, ci dice che questo spettacolo ha a che fare con il sogno, quindi ci porge una benda nera e ci invita ad indossarla. A coppie gli attori ci accompagnano all’interno della sala e ci fanno sedere. Lo spettacolo inizia.

Se la parola teatro deriva dal greco theatron, che rimanda all’idea della percezione visiva, qui la precedenza è acquisita dall’udito, dal tatto, dal gusto. Lo spettacolo, ma potremmo chiamarla performance partecipata, dura circa un’ora, anche se dopo pochi minuti bendati semplicemente perdiamo il senso del tempo, insieme a quello della prossimità. Sentiamo gli altri abbastanza vicini, ma non sappiamo esattamente in quale punto ci troviamo del grande salone bianco che è l’Espace e allo stesso modo diventa praticamente impossibile stabilire dove sono gli attori.

Questa “perdita dell’orientamento” è la condizione necessaria alla performance.

Una volta seduti, gli attori passano a consegnarci dei sacchetti di riso come antistress, perché questa condizione innaturale può davvero generare una certa ansia. Quindi iniziano ad alternarsi una serie di “sequenze”: brevi letture, dialoghi intimi, brani musicali e rumori che gli attori eseguono a varie distanze e posizioni da noi “spettatori”. In questo stato è piuttosto difficile rimanere concentrati e ammetto che ad un certo punto mi è venuto sonno. Per ridestare l’attenzione e mantenerci “attivi”, gli attori, quattro in totale, ci girano intorno sussurrandoci alcune frasi nell’orecchio, porgendoci un cioccolatino o una mela, sfiorandoci una spalla.

Credo si possa dire che ciascuno ha “visto” uno spettacolo diverso. Certo non dormivamo, ma l’approssimazione al sogno era così forte che le immagini che si susseguivano nella mente di ciascuno erano il frutto della propria personale fantasia, se non proprio del subconscio.

Terminata la performance e lasciatoci il tempo di adeguare gli occhi alla luce, Ulla ha iniziato a chiederci cos’era accaduto: se ricordavamo i dialoghi e chi li aveva pronunciati (uomo o donna), se avevamo riconosciuta la tal melodia, se avevamo mangiato la mela. Le risposte erano vaghe, ci sentivamo tutti un po’ fuori fase. L’obiettivo, ha spiegato Ulla, era esattamente quello di sottrarre al senso della vista il monopolio della creazione di rappresentazioni, ovvero aiutarci a trovare altri appigli per le nostre immagini mentali.

L’idea di questo progetto è nata qualche anno fa, quando la compagnia ha tenuto un ciclo di laboratori a Palermo e si è trovata a lavorare con due persone ipovedenti. Questo limite ha suggerito la strada per una modalità di lavoro teatrale che, a partire da gesti e soluzioni estremamente pratiche, garantisse un’alta resa rappresentativa. Detto altrimenti: quali azioni possono garantire al pubblico una visione senza la necessità della vista?

Il teatro contemporanea, così come la musica colta e l’arte, tende alla continua rimessa in discussione del proprio linguaggio. Ci chiediamo quindi cosa, come, perché rappresentare. La domanda però è lì da sempre e Cartesio la diceva così: sogno o son desto?

 

ceneandiamoE’ pieno il Palladium; è l’ultima delle tre sere della prima assoluta di “Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni”, nel corso del decimo compleanno di Roma Europa Festival.
C’è un’atmosfera calda, il pubblico, sempre di quella tipologia un po’ “intellettuale” che è tipica di Roma Europa, ha un’età media di una trentina d’anni. Mi colpisce sentire che qualcuno sta tornando a distanza di due giorni, portando altra gente: le aspettative si alzano.
Lo spettacolo, coproduzione Roma Europa e Teatri di Roma, è ispirato al romanzo di Petros Markaris “L’esattore”, legato alla vicenda delle quattro pensionate greche che si sono tolte la vita insieme, dopo l’ennesimo taglio alla loro pensione. Si parte da un’immagine precisa del romanzo, ce lo ripetono gli attori stessi più volte: le quattro donne vengono ritrovate, due distese sul letto, due assopite ciondoloni da una sedia.

Tre sedie, un tavolo ed un fondale nero: i quattro attori non utilizzano altro per ricostruire il viaggio interiore che li ha portati ad immaginarsi il momento prima di quel tragico gesto, per ricostruire la scena della bevuta dei sonniferi mortali, dei pensieri che avranno attraversato la testa di quelle donne mentre all’unisono incastravano negli ultimi attimi vite che probabilmente non le avevano unite in precedenza tra loro, quasi a dire che non c’è bisogno di un passato comune per condividere un obiettivo finale ed estremo come quello che hanno compiuto queste donne.

L’operazione che propongono Deflorian e Tagliarini, insieme con Monica Piseddu e Valentino Villa, è di sfondamento della quarta parete di pirandelliana memoria: raccontano il travaglio dell’attore, il suo percorso verso l’assunzione delle sembianze del personaggio giocando sul non saper fingere.

Su questo doppio gioco ognuno fa il suo monologo: si parte spesso dalle azioni quotidiane, di vita nostra.
C’è la tapparella che si rompe e, andando a comprare delle cinghie di ricambio alla ferramenta di fiducia, si scopre che sta chiudendo ed intere famiglie di commessi si interrogano sul loro futuro, ci sono le bollette che non si riescono a pagare, l’affitto improvvisamente insostenibile.
Il quotidiano che diventa esempio del dramma esistenziale è però raccontato senza mai essere esasperato, il pubblico ride.
I corpi degli attori anticipano le parole, sono la vera forza dello spettacolo: Monica Piseddu sorprende il pubblico quando, con un gesto rapidissimo che parte dalle spalle, passa dal comico racconto dei suoi risvegli improvvisi nella notte a ricalcare precisamente l’immagine del romanzo da cui parte lo spettacolo di una della donne sdraiate.

Quasi senza che il pubblico se ne accorga il tavolo, ultimo degli elementi scenografici a fare il suo ingresso in scena, diventa il tavolo delle quattro donne con quattro bicchieri, la bottiglia di vodka per la certezza della creazione di un cocktail micidiale con i sonniferi, le quattro carte d’identità in ordine e le voci che rileggono il biglietto “ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni. Risparmierete sulle nostre quattro pensioni e vivrete meglio”. Diventa tutto nero, siamo alla ricostruzione della storia, arriva anche l’azione finale di chiusura, netta, inequivocabile: gli attori ricoprono le sedie, diventano nere anche loro, come la tovaglia sul tavolo, come il fondale del palco.

Lo spettacolo finisce, gli attori sono richiamati tre volte, lo spettacolo che avevano dichiarato di non poter fare perché ci si dispera a casa propria – mica a teatro – da soli e non con della gente che ci guarda, ha inchiodato tutti gli spettatori al palco.

Dada Masilo, coreografa e interprete sudafricana, con Swan Lake, in programma al teatro Argentina di Roma fino al 10 novembre, ci ricorda un assunto universale, mai scontato: l’arte, la musica, la danza non hanno età, sesso o razza, ma sono patrimonio dell’umanità. Lo spettacolo è un’ora di contaminazioni culturali, musicali, coreutiche, artistiche, etniche, sessuali che ti fa dimenticare la nazione di appartenenza, il colore della pelle e ti fa sentire abitante del pianeta con la sua danza dionisiaca, gioiosa e seduttiva, che ricorda “La danse” di Henri Matisse del 1910.

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Ma lo spettacolo è dirompente soprattutto per i suoi contenuti. Partendo dai temi di fondo del Lago dei cigni, quali l’amore e l’iniziazione sessuale, Dada Masilo non sdogana solo il tutù ma anche, con delicata sensibilità ed ironia, il tema dell’omosessualità e omofobia: il principe Siegfried non sposerà la prescelta dalla famiglia perché è innamorato di un uomo, il Cigno Nero. Il finale rimane drammatico: è impossibile dimenticare che in Sudafrica l’AIDS è ancora una emergenza.
Il melange di una coreografa, che padroneggia linguaggi contemporanei e internazionali, ha superato il rischioso confronto con uno dei capolavori della danza classica.

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Un altro messaggio di uguaglianza scorre nella scelta dei costumi identici per i 14 danzatori a piedi nudi della Dance Factory di Johannesburg: un tutù bianco per uomini e donne o, come nel finale, veli neri fino alle caviglie e busti nudi. La danza classica, dei bianchi occidentali, è spiegata e illustrata in scena con ironia: i fianchi bloccati, i movimenti ondulatori come le alghe di un lago, quelli controllati con i muscoli in tensione etc. I corpi flessuosi dei danzatori, belli nella loro diversità, vibrano animati dal profondo e ancestrale bisogno di danzare. Dalle posizioni canoniche della danza classica all’improvviso emerge la potenza energica della danza afro, quella tradizionale Zulu sudafricana, e i fianchi e le anche ondeggiano in modo ritmico.
Lo stesso balletto romantico di Tchaikovsky presenta questi contrasti, contrapponendo le danze di corte a quelle dei contadini, e Dada Masilo riesce ad attualizzarne i contenuti con una riuscita operazione di integrazione culturale, coreografica e musicale.
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innamorati“L’arte attoriale è una malattia mentale che solo il palcoscenico può guarire”. E’ scritto sulla bacheca facebook dei Commediomani, la compagnia con età media 21 anni che ha portato in scena al Teatro Ghione di Roma gli Innamorati di Carlo Goldoni, per la regia di Pino Quartullo.
Il teatro è stato fondato e diretto fino al 2005 dall’attrice italiana Ileana Ghione ed oggi, divenuto s.r.l., è diretto da Roberta Blasi e alterna una stagione classica a progetti innovativi con una forte attenzione al sociale.

Quando entriamo è affollato,il pubblico è assolutamente eterogeneo, dagli affezionati del Teatro di una certa età a molti giovani,essendo estremamente giovane la compagnia in scena.
E’ accogliente, con le rifiniture di vernice nera e le poltrone di classico velluto rosso e la piccola cavea creata ad hoc per l’orchestra rende vivace la sala.
L’orchestra è tutta al femminile, si chiamano Le Arzigogole: 9 donne agli archi, al pianoforte e alla chitarra.
Quello che colpisce di questa messa in scena è l’accuratezza sia in scelte come quella della musica dal vivo, sia nei costumi, ottenuti grazie ad un accordo con il Teatro dell’Opera di Roma, di rara raffinatezza grazie a sete rosate e tulli neri, sia nella recitazione dei giovani attori.
Nulla lasciato al caso, impreciso.

La Commedia, che si propone di mischiare in comico soggetto “la passione e il riso dolcemente ”, è stata scritta da Goldoni in seguito ad un soggiorno romano, sulla via del ritorno a Venezia. L’ambientazione è quella di una casa borghese, tenuta dal decaduto Zio Fabrizio che si ritrova a dover badare e a dover far maritare senza dote le due nipoti Flaminia ed Eugenia.

Pino Quartullo dipinge le contraddizioni dell’amore, il tendere verso qualcosa di grande, di assoluto della giovane Eugenia e allo stesso tempo le sue paure, il suo non filtrare la gelosia, il timore di non essere abbastanza, l’estremo bisogno di conferme attraverso la scelta di ripartire il suo ruolo e quello dell’amato Fulgenzio, tra tre attori che agiscono all’unisono ma seguendo vettori diversi. C’è Eugenia che si alza, aggressiva, capricciosa e furiosa con Fulgenzio che ha in scena un’altra sé che invece resta sulla sedia, quasi impaurita. E’sempre solo uno, ma non lo stesso da scena a scena, che parla, che agisce e gli altri si muovono sul palco ad amplificare o a contrastare le azioni di chi parla, a tratti come specchi fedeli, a tratti come riflessi delle contraddizioni interiori.
I personaggi secondari, come lo Zio Fabrizio, che parla in grande e oramai è ridotto in povertà, veste come uno straccione e vende fino all’ultima posata per poter comprare il cibo per cucinare un pranzo da signori, o come i servitori, sono molto caricati, macchiette che non lasciano scampo alla risata del pubblico.

La musica dell’orchestra non è mai invadente e sempre di supporto, di conservazione della dimensione poetica dell’opera.
L’energia in scena non cala mai, cresce proprio con i personaggi secondari, come la serva di Eugenia, Lisetta, che spia i signori dalla cucina insieme al servitore di Fulgenzio: lei seleziona sempre con immancabile acume cosa sia opportuno e non opportuno dire alla propria padrona; lui è guidato da ingenuità, da riverenza incondizionata verso il suo buon padrone.

Apprezzabile e degno di nota anche il lavoro sugli accenti, con Lisetta che parla siciliano e il servitore di Fabrizio con marcato accento nordico, tutti elementi che aiutano a riconoscere i personaggi, a riportarli velocemente al nostro tempo.
Non manca anche l’esplicito raccordo iniziale e finale con i giorni nostri, attraverso un ritorno degli attori nel “personaggio” della compagnia teatrale. I personaggi-reali sono in ansia nell’affrontare La commedia e nel dover fare i conti con la precarietà economica e quella delle relazioni, le stesse fragilità di Eugenia e Fulgenzio, quelle universali dell’amore.

Che anche questa malattia mentale dell’amore si possa curare con il palcoscenico?

Calano le quinte e il pubblico appare carico, pare aver assorbito e ora voler restituire l’energia di questi giovani attori, che hanno davanti una strada certo non semplice, ma che trasmettono la loro carica e determinazione verso il loro sogno artistico, superando a pieni voti la prova Goldoni.

 

miseriaenobiltaAbbiamo trascorso molti anni di indifferenza festaiola confortati o avviliti dalla bieca metafora idrocarburica, inventata per decorare il patrimonio culturale italiano con tanti lustrini che odoravano di denaro. Sappiamo com’è andata a finire, anzi possiamo dire che non è mai cominciata. Poi, mentre saliva imperiosa l’onda catodica ci siamo trovati per le mani le classifiche dell’orgoglio dimensionale, fondate sulla leggenda che attribuisce all’Italia tre quarti (o due terzi, fate voi) del patrimonio culturale mondiale; va ricordato che la cosa è il frutto di un’inferenza sciocca derivante dal dato sui furti d’arte in Europa: se qui rubano tre quarti delle opere rubate nel continente vuol dire che le proporzioni sono queste. Totò, almeno, avrebbe accompagnato l’affermazione con un sorriso beffardo. Adesso, in un lungo periodo di vacche magrissime, è del tutto naturale ricorrere alla metafora gastroenterologica: con la cultura si mangia o si digiuna?

L’equivoco che piace tanto ai giornali genera una disputa tra guelfi (che vorrebbero nostalgicamente un ordine pubblico e sacrale, come quando le truppe papaline spogliavano il Colosseo ma costruivano magnifiche facciate barocche) e ghibellini (che prefigurano una cultura efficiente per iniezioni di denaro privato e una certa disinvoltura nell’uso del patrimonio culturale). Essere di parte giustifica la crociata di entrambe le armate, ma forse drena un pochino la ragionevolezza che magari costruisce meno proclami e rende fertili i dubbi. Andiamo al nocciolo della questione. La cultura esiste per generare reddito? No. Per mantenere in vita un sistema di vincoli e barriere che arginano la barbarie e coccolano gli iniziati? No. Per consentire a un Paese, esausto come il nostro da un esodo massiccio di risorse e talenti, di mostrare qualche muscolo superstite nelle dispute internazionali da barzelletta? No. Per attrarre turisti o sedurre imprenditori stranieri? No.

Certo, può fare più effetto snocciolare cifre che mostrano la dimensione davvero negligibile della spesa italiana per la cultura, degli incassi dei musei e dei teatri, dei ricavi che derivano dalla vendita di servizi culturali, aggiungerei dell’indifferenza conclamata verso la formazione, la ricerca e la circolazione delle idee. La questione è ben più delicata e complessa di un mero confronto dimensionale, come sottolineano in un recentissimo articolo gli economisti Enrico Bertacchini e Pier Luigi Sacco: è vero che spendiamo poco, ma soprattutto spendiamo male; è vero che la cultura attira, ma soprattutto si innerva nei gangli di un’economia dinamica e multiforme. Per farla breve, sarebbe il caso di trasformare il dualismo un po’ becero che contrappone pubblico a privato in un ragionamento strategico sulle alleanze; di ridisegnare le regole del sostegno pubblico spostandone il peso da una pezza pietosa sulle falle di bilancio verso uno scambio per benefici infungibili e di lungo periodo; di riscrivere la mappa delle professioni preferendo l’ibridazione e la flessibilità alle gabbie protettive e disincentivanti di un regime bizantino.

Facciamo un semplice esercizio: se un museo o un teatro possono generare reddito e occupazione, ne generano molto di più un centro commerciale o un villaggio turistico. Non conviene mai usare agromenti che possono essere facilmente girati contro di noi. Proviamo invece a eliminare la cultura dalle nostre mappe urbane: che mondo sarebbe senza cultura? Veloce, funzionale, efficiente e privo di sbavature, forse, ma certamente grigio, ostile, privo di segni della nostra stessa presenza, indifferente a qualsiasi stimolo e incapace di darci quello che ci rende vivi: la rappresentazione del sé, la capacità di ragionare, di indossare un paio d’occhiali critici e poetici, di imparare più di quello che sappiamo insegnare. Ecco il vero impatto della cultura: senso di appartenenza, qualità della vita, relazioni fertili, immaginazione, capacità di inventare scenari nuovi e di attraversare la soglia delle certezze rassicuranti e noiose. Vale la pena che ciascuno metta sul tavolo i propri ingredienti (pubblici e privati, comunitari e individuali). Che poi si possa mangiare, va bene. Ma certamente possiamo star sicuri che con la cultura si trasforma la realtà, si moltiplica il valore delle cose e delle idee, si attiva un metabolismo critico infinito. In una parola con la cultura si cucina.

 

Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro

verdi200Oggi si celebra un compleanno speciale, di quelli che riescono a farci tornare orgogliosi di essere italiani: era il 10 ottobre del 1813 quando a Roncole di Busseto nasceva Giuseppe Fortunino Francesco Verdi, uno dei più grandi compositori del nostro Paese.
Sono trascorsi 200 anni da quella data, e ancora la celebre musica di questo genio delle sette note riesce ad emozionare platee internazionali e intergenerazionali.

La figura di Giuseppe Verdi è inoltre un esempio di talento e di vita che dovremmo sempre tenere a mente.
La sua famiglia di umili origini, il padre oste e la madre filatrice, non gli ha impedito di seguire la propria vocazione, e il giovane, supportato anche dal mecenatismo di Antonio Barezzi, poté dunque ben presto dimostrare il suo talento.
Dopo i primi “anni di galera”, come lui li definiva, in cui lavorava a ritmi incalzanti su commissione per i maggiori teatri europei, seguì il periodo felice con la soprano Giuseppina Strepponi, durante il quale compose la trilogia popolare de “Il Rigoletto”, “Il Trovatore” e “La Traviata”.

Giuseppe Verdi non ebbe tuttavia un ruolo meramente culturale nell’Italia dell’Ottocento, ma ricoprì anche funzioni pubbliche di rilievo: era il periodo risorgimentale, in cui Cavour lo coinvolse nelle questioni politiche del Paese. Fu deputato nel primo Parlamento italiano e nel 1874 divenne poi senatore. Sono questi gli anni de “La Forza del Destino”, del “Don Carlos” e dell’“Aida”. Non lesinò anche attività di beneficenza con l’inaugurazione di un ospedale a Villanova e l’edificazione di una Casa di riposo per musicisti.

Era il 27 gennaio del 1901 quando a Milano, all’età di 87 anni, questo grande artista si spense.

La sua patria ha voluto rendere omaggio al Maestro, con celebrazioni in suo onore.

La Regione Emilia-Romagna ha ideato il Cartellone Verdi200 digitale dove è possibile assistere  in streaming a 12 spettacoli verdiani, realizzati nel corso di tutto il 2013 nei teatri della regione appartenenti alla rete TeatroNet.
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La città di Milano, da oggi 10 ottobre, giorno della nascita di Verdi, al 27 gennaio, data della morte, ha organizzato oltre ottanta eventi. Il Teatro alla Scala ha previsto per questa giornata l’ingresso gratuito con una serata dedicata alla lettura delle lettere di Verdi.
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Il Conservatorio di Musica San Pietro a Majella di Napoli omaggia questo immenso artista con una Notte Bianca, durante la quale, dalle ore 23,00 verranno eseguite tra le più belle pagine del repertorio verdiano, in attesa della diretta streaming del concerto omaggio di Riccardo Muti dal Symphony Center di Chicago, dove dirigerà la Messa da Requiem.

Ma in tutta Italia sono state organizzate delle Notte Verdi durante le quali far risuonare le sue note: “Verdi. L’invenzione del Vero” è un rullo videostorico consegnato a tutti i Comuni e le comunità italiane per colmare di immagini e musiche le piazze e qualsiasi luogo pubblico e d’incontro in omaggio al compositore.

 

 

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La penisola sembra dunque ritrovare oggi quell’unità e spirito patriottico, che ispirò lo stesso Giuseppe Verdi, per festeggiare colui che Mila definì “come il padre” dell’Italia.

valle1Il copione che ha rappresentato le vicende del Teatro Valle a Roma in questi ultimi due anni aveva tutte le caratteristiche per risultare banale, noioso e ripetitivo. E invece ha riservato una bella sorpresa.

Poteva essere solo il tristemente consueto racconto di un’amministrazione pubblica che non sa come comportarsi nel gestire uno dei teatri storici più belli, più antichi e importanti d’Italia. Poteva essere la storia di una protesta che, come in tanti altri luoghi della capitale e nel resto del paese, veniva abbandonata al proprio destino a far da testimonianza in una città distratta. Poteva essere “solo” l’ennesimo danno delle scelte politiche di un certo centro-destra che, nel nostro paese, vede la cultura esclusivamente come un costo (da tagliare) e mai come un investimento da programmare.

E invece non è andata così. Almeno non del tutto. Effettivamente la giunta Alemanno ha fatto di tutto per non affrontare seriamente la questione. Ma non gliene si può fare un torto. Per loro si trattava di ordine pubblico e non di politiche culturali. Nel frattempo però dall’Europa e dal mondo si sono moltiplicati gli attestati di solidarietà con gli occupanti. Grandi attori e grandi compagnie italiane e straniere hanno tenuto spettacoli e stage nel teatro che ha ospitato anche convegni, feste, proiezioni e seminari. Migliaia di euro ogni mese sono stati sottoscritti dai cittadini per sostenere questo sforzo. Centinaia di migliaia le persone che hanno partecipato agli eventi e assistito agli spettacoli. Migliaia gli attori coinvolti in una programmazione, spesso improvvisata, ma che ha segnato significativi e frequenti momenti di valore sia dal punto di vista delle novità che della qualità artistica. Ed è stato questo che ha risvegliato i cittadini dall’indifferenza. Non solo protesta ma soprattutto proposta. Non solo cultura “alta”, che a molti incute ancora qualche (sacrosanto) timore reverenziale, ma anche cultura popolare.

Naturalmente il teatro Valle è stato anche in parte il refugium peccattorum di chi, non riuscendo a prendere atto dei propri limiti, se la prendeva con i limiti degli altri. Ma questo è il (piccolo) prezzo da pagare quando si decide di aprirsi all’esterno non dovendo e non volendo selezionare. Insomma, l’occupazione del Teatro Valle è stato il periodo sabbatico dello spettacolo dal vivo: si sono rimescolate le carte e dalla protesta si è tentato di indicare una via d’uscita, in forma libera e autonoma. Tutto questo a due passi dal Pantheon e da piazza Navona, in un centro storico sempre più “gentrificato”, devoluto al turismo di massa nonostante sia di facile accesso anche per i cittadini romani.

Non era affatto scontato che succedesse: il teatro Valle rappresenta un’esperienza unica e preziosa che non può andare dispersa. Per questo va salutata positivamente la nascita della Fondazione Teatro Valle Bene Comune. Una “nuova istituzione culturale”, come l’hanno definita i promotori, che è riuscita a garantirsi l’adesione di circa 5,000 soci e l’acquisizione di opere d’arte donate dagli artisti per raggiungere la quota di capitale sociale. Finalmente quell’esperienza esce dal cono d’ombra in cui non si poteva distinguere nettamente tra legalità delle norme e atti di forza, per quanto giusti e forse addirittura doverosi. Finalmente possono rasserenarsi gli sguardi corrucciati di chi vedeva il Valle riscuotere successo mentre loro stessi versavano in mille difficoltà per organizzare spettacoli dal vivo dovendosi sobbarcare utenze, costi di gestione, pagamento dei tributi, ecc.

E’ terminata una fase, il primo atto si è compiuto. I protagonisti ora sono inseriti in un nuovo contesto, quella della Giunta Marino, che si è dichiarata disposta al confronto e alla collaborazione, specialmente negli impegni presi formalmente dall’assessore Barca. Sarà efficace la formula della fondazione che molti ritengono essere troppo onerosa? Riusciranno i protagonisti a rendere il Teatro uno spazio veramente aperto, partecipato, attento alla formazione e alle produzioni contemporanee? Oppure si adageranno in una condizione consolatoria e autoreferenziale per l’utile effimero di pochi lontano dal Bene Comune che ha costituito l’obiettivo di una protesta e, per due anni, la pratica della proposta?

Ora non è dato sapere. Certamente le possibilità innovative e le prospettive virtuose non mancano, anche se i dubbi che ancora accompagnano questa esperienza non sono stati del tutto diradati.

Lasciamo fiduciosi che il sipario si alzi di nuovo per il secondo atto.

 

 

Gioacchino De Chirico è un giornalista culturale ed esperto di comunicazione

carignanoLa grave crisi del sistema delle fondazioni lirico-sinfoniche ha imposto al Governo un intervento di salvataggio, operato con il d.l. “Valore Cultura” n. 91 del 8 agosto 2013, in G.U. 9 agosto 2013. Il provvedimento, accanto ad un incisivo sostegno finanziario alle fondazioni maggiormente bisognose – accompagnato da una rimodulazione forzata dei costi ed una ristrutturazione del debito – impone altresì una revisione della governance delle fondazioni. La materia, fino ad oggi disciplinata dal d.lgs 367/1996 (c.d. Legge Veltroni) ha infatti evidenziato gravi profili di inefficienza sia sotto il profilo dell’adeguatezza del sistema dei controlli, sia, per l’effetto, sotto il profilo dell’efficacia del sistema sanzionatorio.

Il sistema di governance delineato dalla Legge Veltroni
Una corretta interpretazione sistematica della disciplina vigente, confermata dalla prassi assolutamente dominante, evidenzia infatti come l’organo cui il d.lgs. 367/1996 pareva aver formalmente demandato il potere di amministrazione, ossia il Consiglio di amministrazione, abbia in realtà un ruolo del tutto subordinato rispetto al Sovrintendente.
Questi, nel sistema della Legge Veltroni, risulta essere il vero titolare del potere gestorio, là dove gli viene attribuita in via esclusiva la gestione della produzione artistica della fondazione e delle attività? connesse e strumentali: in pratica l’intera attività tipica dell’ente. Il Sovrintendente predispone altresì il bilancio preventivo ed il progetto di bilancio consuntivo e tiene la contabilità della fondazione.

Il Consiglio, per contro, è chiamato unicamente ad approvare la programmazione artistica, il bilancio preventivo ed il bilancio consuntivo, tutti predisposti dal Sovrintendente, senza disporre di un potere propositivo alternativo e senza poter verificare, nel corso dell’esercizio, l’effettivo rispetto delle indicazioni fornite e del vincolo di bilancio.
In sostanza, il diritto vivente, così come risultante anche dagli statuti delle fondazioni, ha modellato un sistema di governance assimilabile al sistema dualistico di matrice tedesca, articolato in un organo di indirizzo (l’Aufsichtsrat, qui rappresentato dal Consiglio di Amministrazione) e l’organo di gestione (il Vorstand, qui rappresentato dal Sovrintendente).

In questo quadro, la confusione tra il piano formale, che attribuisce l’amministrazione della fondazione al Consiglio, e piano sostanziale, che invece vede il Sovrintendente quale unico titolare effettivo del potere gestorio, ha reso sostanzialmente inefficace il sistema di controlli ed il collegato impianto sanzionatorio. Ed infatti, non sono noti in giurisprudenza precedenti relativi all’esercizio di azioni di responsabilità dal Consiglio verso i Sovrintendenti, pur dinanzi a significative perdite patite dalle fondazioni per effetto di gestioni non sempre ineccepibili.

La riforma operata dal d.l. Valore Cultura
Il passaggio dal sistema dettato dal d.lgs. 367/1996 a quello introdotto dal decreto Valore Cultura lascerebbe supporre, ad una prima lettura, un completo stravolgimento del sistema di governance delle fondazioni: gli organi necessari passano da quattro a cinque e, tra questi, scompare il Consiglio di amministrazione, ora sostituito dal Consiglio di indirizzo. La nuova struttura si articola così in cinque organi necessari: il Presidente, il Consiglio di indirizzo, il Sovrintendente, l’Organo monocratico di monitoraggio e il Collegio dei revisori dei conti.
Una riflessione più attenta induce peraltro ad affermare che la nuova normativa, lungi dall’apportare una rivoluzione della disciplina, come era accaduto in occasione del superamento della Legge Corona da parte della Legge Veltroni, si sia limitata piuttosto ad adeguare la forma alla sostanza, liberando il sistema dalle aporie e contraddizioni evidenziate nelle pagine che precedono. Le competenze di ciascun organo risultano delineate con maggior chiarezza rispetto al passato ed è oggi possibile individuare il soggetto titolare del potere gestorio (il Sovrintendente), l’organo di indirizzo (il Consiglio di indirizzo) e gli organi con funzioni di controllo (l’Organo monocratico di monitoraggio ed il Collegio dei revisori).

L’aspetto centrale della riforma del sistema riguarda i rapporti tra il Sovrintendente e il Consiglio di indirizzo.
Il Sovrintendente è oggi espressamente definito “unico organo di gestione”, così superando le incertezze sollevate dalla disciplina previgente. Questi viene nominato dal Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo su proposta del Consiglio di indirizzo e può essere coadiuvato da un direttore artistico e da un direttore amministrativo.
Quanto al Consiglio di indirizzo, l’unica competenza prevista per legge è rappresentata dal potere di proposta al Ministro – apparentemente vincolante – del nominativo del Sovrintendente. Ancora, si soggiunge al comma 17 dell’art. 11, d.l. Valore Cultura, che il Consiglio esercita la proprie funzioni “con l’obbligo di assicurare il pareggio del bilancio”.
Quali siano tali funzioni, tuttavia, non risulta espressamente dalla riforma e occorre procedere pertanto a ricostruire il sistema sulla base delle previsioni della l. 367/1996, nella parte in cui è ancora compatibile con le nuove disposizioni, nonché sulla base dei riferimenti al Consiglio di indirizzo che possono cogliersi indirettamente dalla disciplina degli altri organi.
Deve così ritenersi che il Consiglio di indirizzo, così come in precedenza il Consiglio di amministrazione nel vigore del d.lgs. 367/1996, debba approvare il bilancio preventivo ed il bilancio consuntivo predisposti dal Sovrintendente, là dove nel nostro sistema non è ammesso lo svolgimento di attività gestoria nell’interesse altrui senza un parallelo obbligo di rendicontazione verso il soggetto nel cui interesse l’attività è svolta, ossia i soci fondatori, a loro volta rappresentati dai componenti del Consiglio.
Nascosta, per così dire, tra le pieghe del decreto, l’art. 11, comma 19, attribuisce inoltre al Consiglio la determinazione della pianta organica della fondazione, previa verifica dell’organo di controllo.

Infine, il Consiglio deve poter esprimere delle indicazioni “di indirizzo” al Sovrintendente circa il merito della gestione, con portata vincolante quantomeno con riferimento agli aspetti economici. In difetto, non troverebbe giustificazione la denominazione attribuita all’organo (definito appunto “di indirizzo”), né la responsabilità espressamente prevista a carico dei consiglieri, non potendosi prevedere responsabilità senza potere.
Nella pratica, deve ritenersi che così come già accadeva nel vigore del d.lgs 367/1996, il Sovrintendente debba predisporre annualmente il programma artistico della stagione, unitamente ad una previsione dei costi relativi, da sottoporre all’approvazione del Consiglio di indirizzo. Questo, a sua volta, dovrà valutare la compatibilità del programma della stagione con il bilancio preventivo e la situazione economica, patrimoniale e finanziaria della fondazione, bocciando ogni proposta che non fosse conforme all’obbligo di pareggio di bilancio. Ritengo peraltro che il Consiglio possa altresì bocciare la proposta di programmazione dissentendo sul merito delle scelte artistiche, rimanendo peraltro preclusa la possibilità di apportare alla programmazione modifiche non condivise dal Sovrintendente.

Venendo ora al sistema dei controlli, il decreto Valore Cultura introduce una distinzione tra controllo di legittimità e controllo contabile, già nota alla disciplina delle società azionarie.
Il controllo di legittimità degli atti adottati dall’organo di gestione è affidato all’Organo monocratico di monitoraggio. Questo ha il compito di verificare la sostenibilità economico-finanziaria e la corrispondenza degli atti adottati dall’organo di gestione (il Sovrintendente) con le indicazioni formulate dall’organo di indirizzo (il Consiglio di indirizzo), inviando almeno ogni due mesi una relazione al Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo sull’attività di validazione svolta, secondo un prospetto definito con decreto del Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo.
Il controllo contabile è attribuito al Collegio dei revisori dei conti. Manca tuttavia nel Decreto Valore Cultura qualsiasi riferimento espresso circa le competenze dell’organo che, sulla base di un’interpretazione sistematica, devono essere assimilate a quelle del revisore contabile, oggi previste dal d.lgs. 39/2010. Il Collegio dei revisori deve quindi verificare la correttezza dei documenti contabili predisposti dal Sovrintendente, così fornendo l’ultimo – e fondamentale – elemento necessario al funzionamento del nuovo sistema di governance

Considerazioni di sintesi
Il sistema dettato dal decreto Valore Cultura ha senz’altro razionalizzato la governance delle fondazioni lirico-sinfoniche, oggi finalmente caratterizzata da una chiara separazione di poteri.
Il processo decisionale origina dal Sovrintendente, cui è rimessa la programmazione dell’attività della fondazione, mediante la predisposizione dei piani strategici, industriali e finanziari (cfr. art. 2381 c.c.), preventivamente sottoposti al vaglio di correttezza contabile da parte del Collegio dei revisori e, quindi, all’approvazione vincolante del Consiglio di indirizzo.
L’attività gestoria è invece rimessa alla competenza esclusiva del Sovrintendente ed è soggetta al controllo dell’Organo monocratico di monitoraggio, chiamato a verificare la corrispondenza dei singoli atti gestori posti in essere dal Sovrintendente ai deliberati del Consiglio di indirizzo ed al vincolo di bilancio, dovendo tempestivamente relazionare all’autorità governativa ogni violazione.
Infine, al termine dell’esercizio, il Sovrintendente è chiamato a rendicontare al Consiglio di indirizzo, mediante la predisposizione del progetto di bilancio previamente sottoposto all’esame del Collegio dei revisori, il risultato dell’attività svolta.
Resta da rilevare l’evidente aporia rappresentata dalla previsione contenuta nell’art. 11, comma 17, del d.l. Valore Cultura, che richiama unicamente la responsabilità erariale dei componenti del Consiglio di indirizzo nell’ipotesi di violazione dell’obbligo di pareggio del bilancio.

Invero, è stato chiarito che il Consiglio non ha alcun potere gestorio (spettante al Sovrintendente) né di controllo (spettante all’Organo monocratico di monitoraggio) e, conseguentemente, non può essere gravato da responsabilità in relazione alle eventuali perdite d’esercizio, delle quali è unicamente chiamato a prendere atto al momento dell’approvazione del bilancio consuntivo. Le uniche ipotesi di responsabilità del Consiglio riguardano l’eventuale approvazione di un bilancio preventivo che chiuda in perdita, ovvero l’approvazione di una programmazione artistica non conforme al bilancio preventivo che comporti, per l’effetto, la violazione del vincolo di pareggio del bilancio.
Salve le ipotesi sopra descritte relative alla violazione “programmatica” dell’economicità della gestione, l’assetto dei poteri e dei doveri risultante dalla riforma evidenzia come la responsabilità per la violazione in concreto dell’obbligo di pareggio di bilancio debba essere attribuita al Sovrintendente, quale unico titolare del potere gestorio, nonché all’Organo monocratico di monitoraggio, quale titolare del potere-dovere di controllo. Soggetti, questi, incomprensibilmente ignorati dal legislatore che, nel disciplinare le responsabilità, pare aver scordato la portata delle riforme introdotte nella governance delle fondazioni; carenza cui peraltro si potrà auspicabilmente sopperire nella legge di conversione.

emmafilmEmma Dante debutta a Venezia tra gli applausi. Attrice, scrittrice e regista ci presenta Via Castellana Bandiera, primo film italiano in corsa per il Leone d’Oro. Un anno di duro di lavoro, per una suggestiva opera prima.
“È una regista bravissima, è la regista del mio cuore, mi ha insegnato quasi tutto quello che provo a fare, dal teatro al cinema. Credo che il metodo Emma Dante funzioni molto. Fa un lavoro con gli attori duro. La sensazione che si sente è quella di essere guidati da mani sicure e portati all’estremo. E’ qualcosa di irripetibile, riesce a tira fuori dei fantasmi, come se gli attori fossero capaci di evocare qualcosa che non sapevi di avere dentro. E’ sorprendente” così la definisce Alba Rohrwacher.
Via Castellana Bandiera è un western al femminile, un duello tra due donne, caparbie, ostinate. Ognuna con una propria storia, silenziosamente raccontata. Due macchine con due donne a bordo rimangono bloccate in una strettoia di Palermo, nessuna delle due vuole spostarsi e concedere il passo all’altra: Samira (Elena Cotta), albanese, dura come la pietra, Rosa (Emma Dante) perennemente arrabbiata e in crisi con la sua compagna Clara (Alba Rohrwacher). La lotta di sguardi ha inizio mentre il quartiere si anima e circonda, con il proprio vociare, il silenzio delle due sfidanti.

 

Come ti sei trovata dietro la macchina da presa?
Questo film è stato girato secondo il mio metodo: quello teatrale. Lo abbiamo provato tanto con la mia compagnia e con Alba, Elena e gli altri attori. Ho avuto la fortuna di trovare dei grandi collaboratori, c’è una energia molto forte che funziona bene. La squadra è la prima cosa per fare una grande opera. Tutto questo ha funzionato perfettamente”.

 

Perché ha scelto di rappresentare un duello tra due donne?
Due donne che si impuntano, ottuse, tenaci e poi incominciano a sciogliersi. Questo stare di fronte, una all’altra, è un modo per riconoscerci anche se, entrambe, cercano di rimuoverlo. E’ giusto accettare la mostruosità che è anche un po’ la loro verità e quello che non sono riuscite a dirsi fino a quel momento. Il loro carattere si modifica durante la storia.

 

Perché ambientarlo al sud e non al nord?
Palermo è la mia città, quindi parto da una radice comune: la mia lingua, la mia storia, la mia strada e parlo di quello che conosco. E poi non so cosa vuol dire raccontare il Sud. Il Sud è anche parte del Nord, nel senso che è una torretta di osservazione del mondo, per me questo film non è locale. E’ un film che parla di un paese, parla di una comunità e parla di uno stato dell’essere e non di un luogo geografico.

 

Quale metafora si nasconde in Via Castellana Bandiera?
La strada, Via Castellana Bandiera, per me è la via larga del finale e non quella dell’inizio. Per ognuno è quella che vuole, non darsi una soluzione è la cosa migliore. Ognuno fa esperienza di quello che vede. Forse noi non sappiamo più vedere le cose, forse le vediamo distorte, vediamo uno spazio ristretto dove non ci sta più nessuno e ce ne impossessiamo, ma in realtà lo spazio è grande e ce ne sarebbe per tutti. Queste due donne sono di fronte a una donna anziana che ha altri tipi di pensieri, ha un’altra mentalità che, comunque, non giudica. Anche Rosa e Samira sono libere in Via Castellana Bandiera. L’unico impedimento che hanno è questa crisi passeggera che, per fortuna, all’alba sparisce.

 

Un film che ricorda il genere Western. Cosa vedi nel prossimo futuro?
Il cinema di Leone mi ispira in modo potente, è stato un grande. Ho approfondito lo studio di questo genere e ci sono dei momenti nel film in cui emerge chiaramente, anche se non volevo fare un western, ci sono delle citazioni.

 

Via Castellana Bandiera è una via che finisce nel vuoto
Il precipizio della fine della Via, è un precipizio presente ma noi non sentiamo ancora la caduta, sentiamo che siamo un’umanità su un baratro. E’ un momento particolare della nostra storia, in cui non riusciamo neanche a cadere. C’è un’ipotesi di crollo, forse sarebbe più costruttivo cadere e rialzarsi. Credo che nel film ci sia un fermo, uno stallo che assomiglia a quello in cui siamo ora.

 

Cosa si aspetta che succederà dopo Venezia?
Spero che questo film venga rappresentato ovunque e che vada oltre e che non rimanga né in Sicilia, né in Italia e né in Europa. Spero che vada il più lontano possibile e che possa far fare un’esperienza alla gente che lo vede e scateni quel corto circuito che è l’arte.

 

buononuovoC’è del buono e del nuovo, e forse stavolta non per forza il buono non è nuovo e il nuovo non è buono. Il decreto “Valore cultura” contiene molte misure (come le definisce il gergo burocratico ormai privo d’aria) che spaziano da Pompei alle donazioni individuali, dal tax credit al piano industriale (sic) delle fondazioni liriche, dai giovani artisti che finalmente si possono esprimere in alcuni spazi demaniali ad alcune forme di elusione della spending review.

Giudicare il decreto sulla carta è un esercizio che lasciamo volentieri ai non pochi polemisti per vocazione. Carta è e carta rimane finché non se ne comincia l’attuazione, e anche se analoghe esperienze del passato remoto e recente giustificano qualche sospetto il Ministro è appena insediato e già il fatto che prenda per le corna il toro multiforme e capriccioso del sistema culturale italiano va preso come un segno incoraggiante.

Quello che possiamo, anzi che vogliamo, mettere in evidenza è che un intervento del genere, per quanto complesso e variegato, rischia il naufragio nella solita palude dell’emergenza permanente che piace così tanto all’establishment culturale italiano se non viene seguito in modo sistematico e deciso da un ridisegno del sistema stesso, che sopravvive con difficoltà a causa di una normativa obsoleta, ideologica, priva di incentivi e orientata alla conservazione dello status quo.

Inutile dire che mentre lo status quo di alcuni decenni fa è rimasto più o meno invariato (era questo lo scopo del gioco) la società e la cultura che ne rappresenta la più profonda identità si sono evolute, hanno attraversato fasi di dubbio e di desiderio, hanno aperto le loro finestre su un mondo sempre più dinamico e laico. Qui ancora ci si balocca con il dualismo tra pubblico e privato (che anche nei manuali è tema da bar dello sport), con le ubbìe moralistiche di chi si compiace di un assedio di fatto inesistente, con il terrore della barbarie che tenta goffamente di respingere ogni principio di responsabilità e di trasparenza.

Ce n’è abbastanza per aspettarsi finalmente la presa d’atto che l’Ottocento è finito, che i musei non possono essere tuttora uffici periferici del Ministero; che i teatri non perseguono alcun obiettivo strategico; che le relazioni internazionali si limitano ad alcune tournées confidando di fare cassa e di sedurre qualche imprenditore gonzo; che la formazione, l’accesso e lo svolgimento delle professioni culturali è soggetto a regole bizantine e a criteri da corte imperiale; che del pubblico e della società non si occupa praticamente nessuno.

Il progetto Pompei potrà generare risultati interessanti, ma sarebbe il caso di esplicitare le relazioni con la Soprintendenza speciale, che è il frutto del precedente tentativo di rendere decente un sito la cui specialità diluisce pericolosamente nell’opacità. Già la lirica è attraversata da un po’ di anni da onde di commissariamenti. La recente esperienza di Mario Resca, messo lì ad aprire mercati ma del tutto privo di orientamenti e di indirizzi, la dice lunga: il manager non può essere utile se il vertice strategico del Ministero non gli pone le domande giuste. L’attesa del Deus ex Machina potrebbe essere l’ennesimo palliativo che non riesce a frenare il cupio dissolvi della cultura italiana, così convinta di essere unica da non riuscire a diventare normale.

 

Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro

Marcello-Amici-Il-berretto-a-sonagli-1Passato il tramonto sull’Aventino ogni sera, fino al 4 agosto, prende il via Pirandelliana. La cornice è sempre una delle più suggestive, con una luce ed un affaccio che fanno del Chiostro della Basilica di Sant’Alessio un luogo incantato che da solo vale lo spettacolo.

La rassegna, patrocinata da Regione Lazio e Roma Capitale, è giunta alla sua quindicesima edizione. La Bottega delle Maschere, diretta da Marcello Amici, porta in scena il Berretto a sonagli e Pensaci, Giacomino!

Pensaci,Giacomino! è l’opera pirandelliana dedicata alla critica allo stato ed alla sua burocrazia: Marcello Amici, oltre alla regia, interpreta il ruolo di Agostino Toti. Il professor Toti, giunto al termine di una carriera statale poco gratificante dal punto di vista economico, decide di sposare Lillina, giovane ragazza,con la quale si comporterà da padre; vuole assolutamente sposarla in vecchiaia perché lo stato italiano sia costretto a pagarle la pensione dopo la sua morte, vendicandosi così delle frustrazioni dei suoi 34 anni di servizio.

Lillina aspetta un figlio da Giacomino, benvoluto dal professore, che lo accetta tranquillamente a casa dopo le nozze trovandogli anche un lavoro in banca, ma la logica dell’equilibrio proposto dal professore si scontra con i giudizi morali della gente del paese sulla situazione.

Giacomino ne viene letteralmente schiacciato, non li tollera e prova a riscattarsi cancellando Lillina e tentando di ricostruirsi una vita fidanzandosi con un’altra, sottovalutando il professore, che si precipita a casa sua con il figlio Ninì, rappresentato da un pupazzo, per convincerlo prima con il buon ragionamento e poi con minacce a tornare da Lillina.

Il professore non accetta dunque il fallimento del suo piano, il fatto che la forma, il giudizio degli altri, sia per un uomo più importante e insuperabile di un sostanziale miglioramento della propria esistenza (è lui che dà lavoro a Giacomino e che gli consente di poter stare con Lillina).

La scenografia è essenziale e lo spettacolo, in due atti, scorre velocemente. Energici, insieme al protagonista, i giovani attori che interpretano Giacomino e Lillina, mentre troppo deboli le interpretazioni degli altri personaggi. Dal punto di vista artistico lo spettacolo risulta a tratti confuso, meno vivace di altre messe in scena della compagnia, specializzata sull’autore siciliano, come il Sei personaggi in cerca di autore di un paio di anni fa.
Il pubblico alla fine è tiepido e non mancano i commenti un po’ delusi, considerando anche la location in esclusiva alla compagnia per l’Estate Romana e l’altissimo numero di repliche previste.

All’uscita non può mancare l’ultimo sguardo al panorama e in tanti si avviano anche a Piazza dei Cavalieri di Malta per una sbirciatina dalla famosa serratura che mostra il cupolone.

Chissà che il prossimo anno un possibile alternarsi di compagnie e spettacoli ad accompagnare le serate non possa arricchire ulteriormente le serate sull’Aventino.

teatrofranchisingPrendi un calderone di cultura, economia e impresa, mettigli dentro una ciotola di teatro, due cucchiai di marketing, mezza porzione di senso degli affari strategico, mescola tutto insieme e quello che ottieni è il teatro in franchising.

Gianluca Cassandra, direttore del Teatro Moderno di Latina, è il cuoco di questo nuovo piatto da presentare al sistema teatrale italiano, un piatto che può avere un retrogusto amaro, o che può risultare gustosissimo. Quello che il giovane uomo di cultura e d’affari propone è una formula che permetta a imprenditori, a start up, o a produttori di iniziare un business col teatro per ragazzi. “Negli ultimi anni – ha spiegato Gianluca Cassandra – la crisi del sistema teatrale italiano, aggravata dalla riduzione sia del Fondo Unico dello Spettacolo che del sostegno che possono garantire gli Enti Locali […] ha fatto sì che sul versante della produzione, le grandi compagnie e i teatri hanno cercato di minimizzare il rischio, ovvero hanno spinto le loro produzioni e programmazioni verso spettacoli più sicuri, garantiti dai soliti nomi e dalle solite idee in cartellone. Questo atteggiamento è destinato a non pagare e le imprese teatrali, se vogliono garantirsi un futuro, dovranno allargare i loro orizzonti culturali per conquistare nuove fette di mercato… Tutto questo mi ha portato a inventare Che Spettacolo Ragazzi! Ho messo a punto i mezzi con i quali i teatri potranno affrontare il presente ed il futuro panorama culturale costruendosi solide basi artistiche ed economiche. Come? Costruendosi la loro stagione scegliendo tra spettacoli e servizi ideati ad hoc, avendo chiari i costi e i guadagni con un solo piccolo investimento. Una rivoluzione”.

Che spettacolo ragazzi! – prodotto dell’azienda di Cassandra, Art About, che produce e distribuisce eventi – mette a disposizione un cartellone di spettacoli suddivisi in base a fasce d’età o grado di istruzione scolastica, da acquistare con l’investimento minimo di 1000 euro. Gli spettacoli sono tenuti dalla compagnia “Teatro del Beau” di Simone Fioravanti e Santa Spena. Il pacchetto offerto al cliente comprende la produzione di 4 spettacoli e una consulenza sul business plan, oltre che ad eventuali servizi aggiuntivi a scelta: service audio/luci, sito web dedicato, servizio di pubblicistica e affissione.

Il vantaggio di questo sistema di “franchising senza vincoli” risiede nel ridurre al minimo gli eventuali rischi del cliente, che non incorre in penali nel caso lo spettacolo programmato non dovesse riuscire ad andare in scena. Il franchising del teatro permette, infatti, di abbattere i costi fissi, non prevede l’apertura di un negozio, o la necessità di ordini minimi. Al cliente è lasciata principalmente la responsabilità della comunicazione con gli eventi.

Forse i puristi del settore potrebbero storcere il naso davanti a questo accostamento così audace tra teatro e guadagno: sulla homepage del sito di Che spettacolo ragazzi! si legge a carattere cubitali “Guadagna con il teatro. 1. Scegli il tuo cartellone. 2. Investi un minimo di 1000 euro. 3. Guadagna il triplo”.  In realtà, il sistema teatrale italiano, come la gran parte dell’intero settore culturale, ha bisogno di uno svecchiamento radicale che consenta l’ingresso al suo interno di un certa forma mentis imprenditoriale che non lo svilisca, ma al contrario lo potenzi e lo valorizzi.
D’altra parte l’idea alla base di Che spettacolo ragazzi! è tutt’altro che puramente mercificatoria: attraverso il teatro in franchising si guadagna sì, ma l’intento è anche quello di rendere il teatro non un luogo dove si vive un evento one shot, ma un’abitudine, un luogo di ritrovo e di formazione, che vada a costituire l’identità culturale del territorio nel quale opera.

Mimosa-Capironi-Matteo-Vignati_960E’ la serata dell’anteprima stampa, ma la fila al botteghino del Globe di Villa Borghese alle 18 è già lunga, sono in vendita alcuni posti sul parterre, e l’attesa è grande perché lo spettacolo segna il ritorno alla regia di Gigi Proietti, perché è proprio “Romeo e Giulietta” che, dieci anni fa, ha sancito l’ingresso imponente del Globe come immancabile appuntamento dell’Estate Romana, e perché la tragedia shakespeariana fa un po’ parte del dna degli spettatori teatrali, e tutti sanno o pensano di sapere la storia, ma la vera scommessa è nel sorprendersi nuovamente vedendola.

E’ proprio Gigi Proietti ad aprire la scena, in pochi minuti che accendono l’entusiasmo del pubblico.

Il Globe è stato inaugurato nel settembre 2003, spuntato nel cuore di Villa Borghese in soli 6 mesi, grazie alla virtuosa unione tra una forte volontà politica del Comune e la messa a disposizione di risorse rese disponibili dalla Fondazione Silvano Toti, per questo regalo alla città di Roma ed ai romani.

Gigi Proietti lascia il palco agli attori sulle parole del prologo della tragedia, la dichiarazione d’intenti al pubblico: “E se ad esso prestar vorrete orecchio pazientemente, noi faremo in modo, con le risorse del nostro mestiere, di sopperire alle manchevolezze dell’angustia di questa nostra scena.”

Nel cast i due giovanissimi Matteo Vignati, nel ruolo di Romeo, e Mimosa Campironi,nelle vesti di Giulietta, sono serviti sulla scena da attori di grande esperienza, come Francesca Ciocchetti, che interpreta la balia e che fa passare il pubblico dalla risata alle lacrime senza mai rubare la scena, ma segnandola ogni volta.

Lo spettacolo parte in abiti moderni, con la banda di Romeo che declama su note rap i versi di Shakespeare e Giulietta che suona rock con un piano elettrico dal balcone affacciato sul palco.

Dalla festa, le cui danze sono accennate da un cammeo in cui gli attori in maschera neutra ballano muovendo solo la testa, sulla classica musica da discoteca, e dall’ineluttabile incontro dei due amanti, si entra invece in ambiente e costumi d’epoca e nel classico della tragedia. Il salto è armonico perché lo spettacolo non perde mai di ritmo e di magnetismo, ma a mente fredda viene da domandarsi se l’osare attraverso la modernità iniziale sia funzionale allo spettacolo o frutto di una manovra che poi non avrebbe retto alla “sacralità” di una storia troppo conosciuta.

La balia e frate Lorenzo sorprendono sempre e incarnano leggerezza e comicità con maestria e precisione nel cogliere esattamente il tempo comico per battute e movimenti, continue le risate del pubblico nelle loro apparizioni.

Il palco diventa campo di battaglia a 360 gradi nei duelli, ben tenuti da Fausto Cabra, nei panni di Mercuzio, che domina con agilità lo spazio, e campo insanguinato fino alla fine con l’ultimo duello tra Romeo e Paride, promesso marito di Giulietta, personaggio sottovalutato in altre messe in scena della storia. E’ toccante il suo monologo finale a Giulietta che promette di andare a visitare ogni giorno alla tomba, e di lucidità disarmante le ultime parole che rivolge a Paride prima di ucciderlo e di uccidersi lui stesso: “Dammi la mano, tu, che, come me, fosti segnato nell’amaro libro della sventura! “.

Romeo e Giulietta si tolgono la vita a distanza di un minuto e i loro corpi si fermano in contatto solo con la testa in un incastro di drammatica plasticità.

Semplice la scenografia eppure sempre chiari e distinti gli ambienti, numerosi gli interventi di personaggi di servizio e comparse per rendere al meglio le scene collettive, come la preparazione degli eventi in casa Capuleti: è il carattere di essenzialità del teatro, fatto da movimenti e parole degli attori, gli unici traghettatori delle emozioni delle anime spettatrice in una storia che non perde il suo fascino e non smette di sorprendere.

All’uscita del pubblico, con cuscini portati da casa per il parterre, in una Villa Borghese un po’ più illuminata dell’anno scorso nei viottoli verso il parcheggio, gli occhi lucidi non mancano.

La stagione del Globe prevede il ritorno di Giulietta e Romeo, dopo le serate teatrali di luglio, nel Balletto di Riccardo Cavallo ad agosto; seguiranno Sogno di una Notte di Mezza Estate, Riccardo III e Re Lear.

 

balloinmaschScoppia la polemica per “Un ballo in maschera” trasformato dal regista Michieletto in festa elettorale con tanto di prostitute e faccendiere. Volano insulti tra le fazioni e cresce la tentazione di bandire le messe in scena innovative. Che fare?

Non è compito di queste poche righe giudicare una regia d’opera o darsi al delicato mestiere della critica musicale. Ma quando le dispute da loggione finiscono sulla stampa per la loro insolita veemenza, forse qualche pensiero può emergere. L’opera è teatro musicale, si può reggere soltanto se la musica, la parola e il gesto camminano insieme e si rafforzano a vicenda.

E’ vero che, nel sistema tendenzialmente mummificato della lirica italiana sulle cui sorti pesano le barriere sindacali, gli interessi delle agenzie, l’ignavia del legislatore, la compiacenza del governo e ogni tanto la nostalgia dei loggionisti, si finisce spesso per preferire interpretazioni musicali e messe in scena piuttosto obsolete e ogni tanto anche carnevalesche; è altrettanto vero che la risposta a questa lettura gozzaniana tende spesso a esplorare le aree scomposte e patetiche dell’eccesso, tentando di épater le bourgeois con mezzucci da avanspettacolo, dalla Harley Davidson di Compare Turiddu (un bel po’ di anni fa a Taormina) agli abiti da escort stradale della povera Amelia (qualche giorno fa alla Scala).

Il punto dolente non risiede nella scelta di ambientare un’opera in tempi diversi dall’originale, sono per fortuna molti i casi – pur discussi e contestati – in cui il regista e il direttore si parlano e costruiscono insieme una lettura strategica dell’opera: “Così fan tutte” diretta da Harding e messa in scena da Chéreau a Aix-en-Provence qualche anno fa sceglie una rarefazione elegante, sottrae spazio agli orpelli scenici e mette l’accento sulle dinamiche sentimentali, tanto nello spartito quanto sulle tavole del palcoscenico. Così va bene. Può piacere o meno, ma è il frutto di una scelta circostanziata e poco interessata agli effetti speciali. “Die Zauberflöte” messa in scena da Peter Brook, così come “La Bohème” a Vigliena firmata da Francesco Saponaro riducono l’organico a un pianoforte, ma lasciano che voci, gesti ed espressioni rispettino del tutto l’intenzione del compositore.

Sono decine gli esempi di regie non convenzionali e al tempo stesso intelligenti e pertinenti. Dario Fo fa giocare Figaro e Almaviva con una carriola di giocattoli, Ugo Gregoretti trasforma Belcore in un vigilante rissoso, Claudio Desderi (baritono e direttore) mette in scena “Le nozze di Figaro” con due poltrone e basta. E la cosa funziona magnificamente. Certo, bisogna evitare effetti a buon mercato, a questo penseranno sovrintendenti e direttori artistici. Ma connettere l’opera con la società contemporanea aiuta a pensare, toccando i nostri nervi scoperti e mostrando quanto l’opera sia attuale e feroce, nonostante la musealizzazione che la aggredisce quotidianamente.

Il morbo è sempre quello: pensare che il pubblico sia in fondo ignorante e passivo, quindi, o lo si addormenta con messe in scena soporifere e già previste, o lo si elettrizza con lenoni, barattieri e femine da conio (come avrebbe detto il padre Dante). Il fatto è che mentre si litiga tra loggione e proscenio, ci si continua a dividere in guelfi e ghibellini anche sulle sublimi finzioni dell’opera, combattendo la solita guerra scema tra culture e nazioni, l’opera lirica sta per esalare l’ultimo respiro, melodrammaticamente. Gli effetti speciali servono a poco; forse basterebbe rileggere le partiture per comprenderne a fondo la potenza: orchestre asciutte, cantanti giovani e capaci di recitare davvero, direttori curiosi e registi acuti non mancano. Sono le fondazioni a dover diventare adulte.

 

Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro

tweetornotUna delle grandi sfide di oggi, per la cultura, è attrarre nuovo pubblico presso i suoi spazi. E’ una missione che coinvolge musei, teatri e fondazioni. La cultura si trova oggi a combattere con l’immagine elitaria che per troppi anni, in diversi contesti, l’ha caratterizzata e con gli stereotipi che la descrivono come astrusa, slegata dal presente, forse un po’ noiosa.
Mai come oggi è fondamentale per i centri culturali impegnarsi nell’ampliamento della fruizione e promuovere nuove modalità di relazione e confronto con il proprio pubblico. Un settore che, oltreoceano, sembra aver fatto propri questi obbiettivi è quello delle performing arts, con riferimento particolare all’opera e al teatro.

Dalla fine del 2011, infatti, gli Stati Uniti hanno visto sorgere ed affermarsi un nuovo trend nel panorama delle live performance, che vede l’ingresso trionfale dei social network nelle sale teatrali. I mobile devices, il cui utilizzo durante lo spettacolo ha sempre costituito un tabù, vengono oggi reinterpretati quali strumenti per rendere la cultura interattiva, coinvolgere il pubblico in recensioni in tempo reale e sperimentare il passaparola digitale quale nuovo strumento di marketing.
Primo fra tutti Twitter, che con i suoi 140 caratteri e le sue dinamiche virali ben si presta ad essere impiegato per le recensioni spot. Dal Providence Performing Art Center all’Huffington Theater di Boston, dal Public Theater di New York al Kravis Center for the Performing Arts di Palm Beach in Florida, l’applicazione dei social network al mondo dello spettacolo e della fruizione si è ampiamente diffusa, dando vita ad una serie di esperienze interessanti.

Il Kravis Center di Palm Beach ha completato quest’anno la sua seconda stagione di Tweet Seats, un’iniziativa che ha visto come ospite speciale alle prove generali degli spettacoli un gruppo selezionato di utenti molto attivi sul noto social network. Approfittando della possibilità di fruire gratuitamente della prova, gli utenti hanno animato vere e proprie tweet session, diffondendo sulla rete le loro impressioni e i loro commenti sullo spettacolo.
Il centro ha dato la possibilità di twittare prima e dopo la prova e nel corso degli intervalli ha organizzato le Tweet Suite, delle situazioni in cui al pubblico era permesso di accedere ad un’area appositamente pensata, nella quale godere di un rinfresco e mettere in carica, in caso di necessità, il proprio cellulare.
Sempre il Kravis Center, verso la fine del 2012 ha deciso di testare le potenzialità di un altro strumento social, ospitando un Insta-meetup: nel contesto dello spettacolo The Nutcracker alcuni partecipanti sono stati invitati dietro le quinte per scattare una serie di foto con i propri mobile device e postarle poi su Instagram.

Il Providence Performing Art Center ha visto invece gli stessi membri del cast impegnarsi nel live tweeting e contrapporsi al pubblico in sala in uno scambio di botta e risposta sugli spettacoli. Boston, dal canto suo, presso l’Huffington Theater ha proposto le Twitter mission, nel contesto delle quali gli operatori culturali del teatro erano a disposizione per rispondere a sessioni di domande e risposte, proiettate su grandi schermi collocati nella lobby del teatro.

Sul versante italiano spicca l’iniziativa della Scala di Milano, che a partire dal 7 dicembre 2011, in occasione della prima che vedeva rappresentato il Don Giovanni di Mozart, ha istituito le dirette Twitter e Youtube, che ad oggi ha piacere di considerare una vera e propria “tradizione digitale”. La sperimentazione con il mondo social si è progressivamente evoluta fino a comprendere un team di “twittatori aggiunti”, composto da blogger e giornalisti, che da apposite sedute si aggiungono al canale ufficiale nel corso delle principali rappresentazioni, e veri e propri contest su argomento musicale, con in palio posti gratuiti alle prove generali.

Con il 2013 si prepara a scendere in campo anche l’Arena di Verona, che per il centenario del suo Festival Lirico ha deciso di proporre i Tweet Seats: una serie di posti selezionati, con un’ottima visuale, saranno resi disponibili per gli attivissimi del social network al modico prezzo di dieci euro. In questo modo, prenotando i biglietti speciali attraverso il web, il pubblico interessato potrà recensire in diretta gli spettacoli, comunicando impressioni ed emozioni in 140 caratteri.

L’obbiettivo dichiarato è quello di attrarre i target più giovani, digitali ed iperconnessi, coinvolgendoli in nuove modalità di fruizione, interattive e coinvolgenti. Una bella innovazione per queste istituzioni storiche, che a quanto pare hanno deciso di non restare indifferenti all’evolvere delle forme di comunicazione. La Scala ad oggi può vantare degli ottimi risultati, il suo profilo twitter conta più di 50.000 follower e quello Facebook più di 112.000. Quale accoglienza riserverà il pubblico dell’arena a questa nuova modalità di fruizione? Ma soprattutto, che effetto avranno le decisione dei due teatri sugli altri attori dell’universo lirico italiano? Saranno da stimolo per la sperimentazione di nuove proposte? E’ presto per dirlo, ma staremo a vedere.

 

sottostelleIl calendario e le temperature ci ricordano che l’estate è vicina. Per tutti coloro che, vuoi per impegni lavorativi, vuoi per doveri familiari, o magari per la crisi rimarranno in città, non tutto è perduto: la bella stagione porterà anche negli spazi urbani il divertimento che le è consono.

Da nord a sud tante le rassegne estive che animeranno le nostre calde giornate e serate cittadine, con musei aperti, spettacoli teatrali, musica e cinema sotto le stelle.

Ecco i principali appuntamenti da segnare in agenda.

TORINO

Concerti, spettacoli, incontri, mostre, cinema, musica nel parco, sport, creatività e tanto altro ancora tra gli ingredienti della Bella Estate di Torino 2013.

Anche quest’anno la Città presenta un ricco calendario di eventi e manifestazioni capaci di conquistare chiunque: dagli amanti della musica e del teatro, agli appassionati d’arte e degli incontri con gli autori, agli interessati al tirar tardi in cerca di momenti di svago e relax.

Nei mesi di giugno, luglio e agosto, alle proposte di musica, arte e spettacolo, si alterneranno momenti di incontro e svago programmati per un pubblico ampio e variegato e con una particolare attenzione al target giovanile. Ritorna, infatti, il Torino Young City, un progetto ‘con e per i giovani’ di cui loro sono i protagonisti, da vivere con eventi, appuntamenti, spettacoli, laboratori, aperitivi a cielo aperto e tanta musica di alto livello.
Grazie alla collaborazione tra tutti gli enti territoriali e le migliori organizzazioni locali, piccole e grandi, formali e informali, Torino sceglie proprio l’estate per aprirsi al mondo e mostrare il suo lato più fresco, innovativo e dinamico.
Con il Festival Beethoven – realizzato dalla Fondazione per la Cultura Torino grazie al contributo di Intesa Sanpaolo e Iren Energia – Torino dedica una settimana – dal 24 al 30 giugno – all’opera del grande compositore tedesco. In quei giorni, piazza San Carlo, salotto del capoluogo piemontese, ospiterà un fitto calendario di concerti, incontri e approfondimenti interamente gratuiti con lo scopo di avvicinare un numero sempre maggiore di persone all’ascolto della musica classica e sinfonica. Sette serate gratuite di grande musica realizzate dall’Orchestra sinfonica Nazionale della RAI e dall’Orchestra Filarmonica di Torino affiancata da giovani affermati interpreti.
A luglio, nel Cortile d’Onore di Palazzo Reale, prenderà il via la seconda edizione del ciclo di incontri ‘Oltre i limiti’. Ospiti nazionali e internazionali provenienti dal mondo dello sport, dell’arte e della cultura si incontreranno per discutere e confrontarsi sui significato di ‘limite’ e sulle strategie che si mettono in atto per superarlo.
Questi sono solo alcuni dei tantissimi appuntamenti che saranno ospitati nelle cornici più scenografiche della città: dai giardini alle aree verdi, dalle ville ai musei della città, dal Teatro Romano ai cortili dei palazzi storici, dalle Residenze Sabaude agli spazi post industriali come i nuovi Cantieri OGR e la ex Manifattura Tabacchi, dalle Case del Quartiere alle vie e piazze delle Circoscrizioni.
La guida con il programma della Bella Estate di Torino 2013 è disponibile nei punti informativi della città e sul sito del Comune.

 

VENEZIA

Se trascorrerete i prossimi mesi in laguna, sappiate che ad attendervi è il coloratissimo Carnevale d’Estate 2013 che si terrà dal 22 giugno al 15 ottobre su iniziativa di PromoLido, dell’associazione culturale internazionale “Mario Del Monaco” e della Municipalità.

Il 20 e 21 luglio l’appuntamento è invece con la tradizione: si terrà infatti la Festa del Redentore, con lo spettacolare evento pirotecnico che illuminerà la Serenissima, mentre il 1° settembre da non perdere la Regata Storica.

Al Parco San Giuliano di Mestre si è aperto invece l’Estate Village 2013, che fino al 14 luglio proporrà appuntamenti,incontri e occasioni.

 

BOLOGNA

Da giugno a settembre la città di Piazza Grande offrirà a cittadini e turisti i molteplici appuntamenti all’interno di Bé Bologna Estate, tra teatro, musica, danza e performance.
Per i cinefili segnaliamo invece “Sotto le Stelle del Cinema”, che dal 21 giugno al 30 luglio alternerà a Piazza Maggiore pellicole storiche restaurate.

 

FIRENZE

Durante il periodo estivo, dal giugno a settembre, l’“Estate Fiorentina” propone un ricco programma di eventi culturali.
Un invito aperto a tutti coloro che vogliano confrontarsi nel campo dell’arte, del teatro, del cinema e della poesia con passione e sincerità, per restituire a Firenze quel ruolo di centro culturale che a lungo ha scolpito la storia fiorentina.
Colonna portante del progetto sarà, come nelle edizioni precedenti, la riscoperta e la rivalutazione di aree desuete, dimenticate ormai da tempo tra il sottobosco della maestosa foresta architettonica fiorentina in attesa di essere riscoperte.

 

ROMA

Nella capitale sono numerosi gli appuntamenti che rinfrescheranno l’estate. Dalle serate cabaret “Che Tajo” organizzate da “All’ombra del Colosseo”, che si terranno dal 20 giugno all’8 settemebre, mentre con “Lungo il Tevere” da Piazza Trilussa a Porta Portese, con mostre, serate danzanti e bancarelle. Aprono inoltre i consueti “villaggi”: dal Gay Village al Roma Vintage, fino ai ritmi caraibici del Soylatino.

Nel corso dell’intera stagione estiva un fitto calendario di appuntamenti coinvolgerà tutta la Capitale, dal centro alle periferie, con un’attenzione particolare ai luoghi dove è più forte il disagio sociale.
Tra gli eventi di spicco, le grandi kermesse musicali che da sempre richiamano migliaia di persone, come Rock in Roma, che ospita i grandi nomi della musica nazionale e internazionale (da Max Gazzé a Mark Knopfler, dai Deep Purple a Daniele Silvestri); la storica rassegna jazz di Villa Celimontana; Roma Live Festival, che quest’anno sarà dedicata in particolare alla cultura elettronica e la XX edizione di Roma incontra il Mondo, nella quale si esibiranno tra gli altri gli Almamegretta e i Kings of Convenience.
Sul palco del Centrale Live del Foro Italico spazio alla musica e al teatro, con le performance di Massimo Ranieri, Carlos Santana, Sting, i Morcheeba e Pino Daniele and Friends.
Ampia la scelta anche per gli appassionati del grande schermo grazie a manifestazioni importanti come il Medfilm Festival – la rassegna di cinema internazionale più longeva di Roma e del Lazio, con 80 film tra lungometraggi, cortometraggi e documentari e 40 Paesi partecipanti – e alle tradizionali arene cittadine, che offrono sotto le stelle le migliori pellicole della passata stagione.
Per la danza torna la storica rassegna romana Invito alla Danza, divenuta riferimento stabile per ballerini e appassionati italiani e internazionali.
La XX edizione de I Solisti del Teatro vedrà artisti del calibro di Licia Maglietta, Manuela Kustermann e Alessandro Haber dare vita a spettacoli di grande pregio.
A completare l’offerta, il Festival internazionale di Letteratura e cultura Ebraica, che promuove il dialogo e il confronto tra culture diverse.

La Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma arricchisce il programma dell’estate romana promuovendo il calendario di eventi dal titolo Dai Fori all’Appia antica. Mentre proseguono le visite guidate notturne all’anfiteatro Flavio – La luna sul Colosseo ogni giovedì e sabato -, lo Stadio Palatino, il cuore della Roma antica, accoglie il ciclo di letture Analogie. Incontri con sei scrittori. In uno dei giardini del palazzo dell’imperatore Domiziano, sei scrittori leggono racconti e testi o propongono riflessioni nate per analogia tra i temi sui quali si fonda la loro esperienza letteraria e poetica e un’opera esposta nella mostra in corso al Foro romano e al Palatino: Post-classici. La ripresa dell’antico nell’arte contemporanea italiana, a cura di Vincenzo Trione. Sull’Appia antica intanto ritorna per la seconda edizione Dal tramonto all’Appia, denso programma di musica, danza, proiezioni, mostre e letture che si articola tra Capo di Bove, il mausoleo di Cecilia Metella, il Castrum Caetani e l’area della chiesa medievale di San Nicola.

La luna sul Colosseo
Tutti i giovedì e sabato visite guidate in italiano e in inglese dalle 20.20 a mezzanotte

Analogie. Incontri con sei scrittori (Alessandro Bergonzoni – Walter Siti – Nadia Fusini – Valeria Parrella – Massimo Recalcati – Marco Belpoliti)
il 2 – 3 – 4 e il 9 – 10 -11 luglio alle 19.30 – www.postclassici.it ; http://archeoroma.beniculturali.it

Dal tramonto all’Appia
il 5 – 6 -7 luglio dalle ore 18.00 a mezzanotte 

 

 

 

Nel corso delle prossime settimane saranno rese note anche le rassegne estive organizzate in altre città.

Tieniti aggiornato su TAFTER su tutti gli eventi e gli appuntamenti dell’estate 2013.

teatropiazzaDimenticate il pesante e polveroso sipario rosso, la  platea, i palchetti, galleria e piccionaia: oggi il teatro si fa in casa, per strada, persino sui mezzi pubblici delle grandi metropoli. Spettacoli nelle piazze, tra monumenti di un antico passato, itineranti attraverso le vie di piccoli borghi, riscuotono sempre un grande successo e richiamano un folto pubblico, non soltanto tra gli addetti ai lavori.
Ad un primo sguardo distratto può sembrare una tendenza del nuovo millennio, in realtà la liberazione dell’arte drammatica dalla sua cornice tradizionale è stata alla base delle innumerevoli sperimentazioni del teatro del Novecento.
Ma se in passato si è trattato di necessità intellettuali o di azioni dimostrative di protesta contro il mondo borghese del teatro tradizionale, le soluzioni oggi elaborate hanno più l’aspetto di stratagemmi attira-pubblico, in un Paese in cui la crisi sembra accanirsi soprattutto sulla cultura.
Per questo, oggi, salendo su un autobus può capitare di imbattersi in una rappresentazione in abiti settecenteschi  di “L’avaro” di Molière, come è accaduto nel 2007 ai frequentatori dei mezzi ATAC di Roma. Questa originale iniziativa della Compagnia InControscena, trasformando il semplice cittadino in spettatore, per quanto involontario, ha avuto certamente il merito di attirare il grande pubblico, soprattutto quello delle periferie, verso il mondo del teatro.
Stupire lo spettatore con location sempre più fuori dall’ordinario sembra essere diventato l’espediente più adottato dalle compagnie italiane. Non bisogna sottovalutare i costi di affitto delle sale, spesso troppo elevati per giovani compagnie amatoriali in erba. D’altronde si sa, necessità fa virtù e la crisi aguzza l’ingegno. Via quindi alle soluzioni più creative per riportare la gente a teatro.
E quale metodo migliore di avvicinare il cittadino medio alla terza arte se non quello di portare lo spettacolo direttamente a casa sua? Questa l’idea alla base del Teatro d’appartamento, un fenomeno nato decenni fa ma che oggi sta prendendo sempre più piede in molte regioni italiane (come il Festival In&Out – La cultura in Condominio a Bologna o la rassegna Luoghi Comuni di Como).
Il concetto è semplice: lo spazio privato di un salotto, una cucina o una camera da letto diventa palcoscenico ideale di una rappresentazione in cui la finzione si mescola con la vita reale. Le distanze tra attore e fruitore si accorciano drasticamente, l’intimità dell’ambiente costringe ad un’attenzione reciproca totale, ad una contatto impossibile ed impensabile negli spazi immensi dei teatri tradizionali.
Agli antipodi rispetto al teatro fatto in casa sono gli spettacoli itineranti, diffusi in tutta Italia e ormai divenuti un appuntamento imperdibile del Carnevale di Venezia. In questa occasione il pubblico viene guidato dal Codega (un narratore armato di lanterna) per le calli e i vicoli della laguna alla scoperta dei segreti della città. Ma qualsiasi borgo medievale può trasformarsi, durante la bella stagione, complice il clima mite, in un teatro a cielo aperto.
Al di fuori dell’ambiente rassicurante delle quinte sceniche regna suprema la casualità: ogni performance è necessariamente diversa dalla precedente e per questo irripetibile.
La forza di rappresentazioni come queste si trova soprattutto nella capacità di abbattere quello che in gergo teatrale viene definito la quarta parete, l’invisibile cortina che divide il mondo degli attori dal pubblico. La sfida per l’interprete è sapersi adattare ad ambienti sempre nuovi, che siano essi piccoli quanto un tinello o vasti come Piazza San Marco.
A voler essere sinceri, la ricerca artistica non è propriamente figlia della crisi economica che scuote il mondo dal 2008, ma della necessità per ogni forma d’arte, sia essa figurativa o performativa, di rinnovarsi continuamente per non rischiare lo stagnamento e di conseguenza la morte. È interessante però notare come in questi ultimi anni iniziative del genere si siano moltiplicate e sembrano intenzionate a restare.

ecocultAncora “lettere aperte” ed “appelli”, questa volta per la cultura a Roma. Il sistema culturale italiano sta vivendo una strana stagione di appelli e postulazioni di varia natura, da parte delle più variegate associazioni e lobby. Manca soltanto un appello del Ministro dei Beni e delle Attività Culturali al Presidente del Consiglio! Auguriamoci non si debba arrivare a questo, anche se forse sarà necessario: si pensi alla minaccia di dimissioni della Ministro per l’Istruzione Carrozza, a fronte del prospettato ulteriore rischio di tagli budgetari…

Abbiamo già scritto su queste colonne (si rimanda “La pletora di “appelli” del mondo culturale alle istituzioni sorde?!” del 20 maggio) che si tratta di un fenomeno strano, ma certamente sintomatico della profondità e gravità della crisi che attanaglia tutti o quasi i settori delle industrie culturali e creative (non si odono grida di lamento da parte dell’alta moda).

Agli appelli di respiro nazionale, si sono affiancati tra il 5 e il 6 giugno, due lamentazioni e perorazioni focalizzate su Roma (nelle more dell’imminente elezione del nuovo Sindaco), manifestate rispettivamente da Federculture – Fondo Ambiente Italiano – Italia Nostra, e Confcommercio – Agis Anec Lazio – Cna Cultura e Spettacolo – Buonacultura.

Nello stimolante incontro tenutosi mercoledì 5 al Palaexpò (intitolato: “Roma: non c’è economia senza cultura”), un Andrea Carandini (Presidente del Fai dopo le dimissioni della Borletti Buitoni, elevata a Sottosegretario al Mibac, seppur ancora in attesa di deleghe, e… dal 13 maggio si legge sul suo blog) particolarmente estroso ha richiesto insieme a Roberto Grossi (Presidente Federculture) e Marco Parini (Presidente Italia Nostra) che il futuro Sindaco di Roma assegni all’Assessore alla Cultura (che includa il Turismo) anche il ruolo di Vice-Sindaco, al fine di coordinare multi-settorialmente le politiche a favore della cultura.

Chi scrive queste note è intervenuto lamentando l’assenza di sistemi informativi trasparenti (e quindi di rendicontazione) sui finanziamenti pubblici alla cultura, dal livello nazionale al livello locale, e Carandini ha colto la palla al balzo per teorizzare in modo ironico come sia proprio questo deficit “informazionale” – patologia tipica della politica culturale italiana – a consentire al politico di turno una gestione discrezionale ed episodica, paradossalmente “privata” e comunque soggettiva, che facilmente degenera in clientelismo. “Meno si sa (ovvero meno si fa sapere agli stakeholder e alla cittadinanza), meglio si governa (in modalità aumme-aumme)”.

L’incontro promosso l’indomani da Confcommercio ed altre associazioni (intitolato “La cultura per Roma, Roma per la cultura”) ha evidenziato dati preoccupanti (di fonte Siae, si ha ragione di ritenere, per quanto non citata) relativi al calo di consumi culturali a Roma, nel raffronto tra il primo semestre del 2012 e corrispondente periodo dell’anno precedente. A livello complessivo settoriale (cinema, teatro, musica…), il totale dei biglietti venduti è calato dell’8 % e la spesa del pubblico del 20%: in particolare, gli spettacoli di lirica e di commedia musicale registrano un calo del 40 % degli spettatori e di oltre il 50 % nella spesa del pubblico.

Questa fotografia conferma lo stato di crisi diffuso: è indispensabile un intervento pubblico consistente e rapido, e la promozione deve essere la prima leva su cui agire per ristimolare i consumi. Crediamo che nell’economia del nuovo “contratto di servizio” tra Rai e Governo (la cui gestazione sembra essersi congelata nel passaggio di consegne tra Passera e Zanonato), debba essere introdotta una misura emergenziale: va attribuita a Rai una funzione trainante come strumento promozionale al servizio dell’industria culturale italiana, attraverso rubriche, rotocalchi, programmi specifici (da non trasmettere… su Rai 3 in terza serata), e finanche con una sensibilità da manifestare nelle scalette dei tg di massimo ascolto. Un impegno non oneroso per Rai, ma che richiede un cambio di rotta editoriale: indispensabile per salvare il salvabile dei molti dissanguati settori della cultura nazionale. Il Ministro dello Sviluppo Economico, Flavio Zanonato, durante un’audizione in commissione alla Camera, ha affermato il 5 giugno che il contratto di servizio Rai 2013-2015 “sarà una grande occasione di novità e discontinuità rispetto al passato”. Ha precisato: “Un testo importante che dovrà essere innovativo, ovvero capace di rispondere alle crescenti richieste del pubblico in termini di interattività, crossmedialità, inclusione, pluralismo, senza mai rinunciare alla qualità dell’offerta culturale”. Alla luce dell’annuncio del Ministro, una riflessione seria sulla “qualità dell’offerta culturale” (attuale e potenziale) della Rai, e soprattutto sul ruolo possibile della televisione pubblica per il rilancio del sistema culturale italiano, appare opportuna.

 

 

Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’IsICult – Istituto italiano per l’Industria Culturale