Culture21 srl – Gruppo Monti&Taft Ltd
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È possibile far apprezzare ai bambini (e anche ai grandi) Mozart, Schubert, Rossini, la musica classica e il teatro? L’autore Ennio Speranza e il regista Stefano Cioffi hanno pensato ad uno spettacolo i cui protagonisti saranno proprio la musica, il flauto, la magia e i bambini. Te lo suono io il flauto si terrà l’1 dicembre all’Auditorium Parco della Musica di Roma. La storia di uno degli strumenti più dolci, affascinanti e democratici, il flauto, sarà accompagnata dalla musica dal vivo di duecento flautisti.
La voce narrante di questa suggestiva esibizione sarà quella di Valerio Aprea, giovane e brillante attore di teatro, cinema, televisione, che ha recitato in ruoli drammatici, profondi, leggeri e comici, con artisti e registi d’eccezione. Per l’occasione gli abbiamo chiesto cosa ne pensa della musica, del teatro, dei bambini e dei sogni.
Sei la voce di Te lo suono io il flauto, in un reading fantastico sulla storia di questo strumento. Come si mescoleranno, in questo caso, il tuo talento comico, la performance teatrale, la musica e la necessità di coinvolgere i bambini e catturare la loro attenzione?
In realtà non abbiamo ancora stabilito definitivamente ciò che accadrà sul palco nei minimi dettagli. So per il momento che presterò la voce ad un excursus sul flauto e la sua storia, e questo in alternanza con la musica ma anche mescolato ad essa, il tutto cercando anche un modo di interagire con i giovani spettatori, che immagino saranno affascinati dall’insieme di parole e suoni.
Sarà quindi uno spettacolo non tanto di comicità, ma di evocazione e, spero, forte suggestione.
Te lo suono io il flauto è uno spettacolo per tutti, ma con un occhio di riguardo particolare per i bambini. Hai lavorato altre volte a stretto contatto con i più piccoli? Com’è collaborare con loro e recitare per loro?
No, veramente non ho mai recitato davanti a loro. Al limite mi è capitato, in un paio di occasioni, di recitare insieme a loro e, come sempre in questi casi, di rimanere impressionato dalla naturale capacità di recitare molto meglio di me.
Il flauto è uno strumento particolare, democratico, che, per motivi scolastici, un po’ tutti abbiamo avuto l’opportunità di suonare. Partecipando a questo spettacolo ti sei appassionato anche tu allo strumento? E in generale che ruolo ha la musica nella tua vita?
A dire il vero mi sono appassionato allo strumento molto prima di questo spettacolo, più o meno all’età di 9 anni, quando, come tutti credo, lo studiavo a scuola nell’ora di musica (ma è esattamente, tra l’altro, quello che dirò nello spettacolo). Quanto alla musica in generale, bè, ha un ruolo direi congenito forse perché appartenendo ad una famiglia di musicisti classici ne ho conservato l’inclinazione, pur non avendo proseguito studi musicali, comunque approcciati da adolescente. Credo che se non avessi fatto l’attore, avrei fatto il musicista.
Pensi che alcune forme artistiche, considerate di solito elitarie, come la musica classica e il teatro in generale, dovrebbero essere comunicate in modi diversi ai pubblici giovani? Come potrebbero essere attratti nuovi spettatori e ascoltatori?
Temo di sì. Quando fui portato con la scuola al cinema o a teatro a vedere qualcosa, che per fortuna non ricordo più, diciamo ecco che non fu esattamente una folgorazione. E infatti non lo ricordo più. Mentre dovrebbe essere il contrario. È una questione enorme e di difficilissima risoluzione. Diciamo che si dovrebbe essere bravi a selezionare accuratamente ciò che si vuole proporre a dei giovanissimi, pensando davvero che possano essere gli unici colpi a disposizione per andare a segno nella loro sensibilità, nella loro immaginazione e capacità di ricezione. Sprecati quei colpi, si avrà probabilmente una forma di rigetto. Inutile dire che il discorso vale esattamente anche per il pubblico adulto.
In Te lo suono io il flauto si parla anche tanto di magia, di storie, di sogni. E tu da bambino eri un sognatore? Cosa pensavi che saresti diventato “da grande”? E cosa consigli ai sognatori di oggi che vorrebbero intraprendere una carriera come la tua?
Diciamo subito che non rientro nella categoria di quelli che sin da piccoli sognavano di fare l’attore ecc. Non ho mai saputo cosa volessi fare, e anche quando ho iniziato a studiare recitazione ci sono voluti anni e anni perché mi decidessi ad ammettere di fare l’attore. Quello che posso suggerire a questi ‘sognatori’ è di capire più in fretta possibile se hanno davvero le qualità per essere quello che vorrebbero essere e poi di quale tipo siano queste qualità. Perché si può poi essere attori o attrici in vari modi. Tutto sta ad individuare qual è quello più congeniale a se stessi.
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La presentazione annuale della relazione dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni al Parlamento e al Governo si ripropone anno dopo anno come un rito istituzionale, dal quale non si possono certo pretendere fuochi d’artificio e sensazionali rivelazioni.
Spesso, in queste occasioni diviene più rilevante l’aspetto coreografico che quello contenutistico. Storicamente la relazione è stata presentata nella prestigiosa Sala della Lupa della Camera dei Deputati, ma la prima sortita della consiliatura presieduta da un anno da Angelo Marcello Cardani è stata ospitata nella più accogliente Sala della Regina, che beneficia peraltro di un impianto di climatizzazione all’altezza del torrido luglio romano (le precedenti presentazioni della relazione erano divenute famose per il tasso di… sudorazione degli astanti, oltre che per i diffusi sbadigli).
Un antropologo osserverebbe come si tratti di un rito assolutamente… maschile. In barba alle “quote rosa”, si contavano in sala forse una decina di donne su circa duecento presenze, e peraltro si ricordi che tutti i componenti dell’Agcom sono senza dubbio maschi (Antonio Martusciello, Francesco Posterano nella Commissione Servizi e Prodotti; Antonio Preto e Maurizio Dècina nella Commissione Infrastrutture e Reti).
Curiosa presenza di molti “vice”: è intervenuta Marina Sereni, Vice Presidente della Camera (senza la grazia nemmeno di un cenno di giustificazione sull’assenza della Boldrini, che ha così involontariamente alimentato le polemiche su un qual certo suo assenteismo dai lavori parlamentari), il Vice Ministro per lo Sviluppo Economico Antonio Catricalà, il Vice Presidente della Corte Costituzionale Luigi Mazzella… Forse troppi “vice”, per l’economia simbolica di kermesse come questa. Come se Parlamento e Governo prendessero le distanze dai rispettivi ruoli, ed osservassero con distacco Agcom.
In effetti, Parlamento e Governo sono “decision maker” mentre l’Agcom dovrebbe essere un mero “regolatore”. Si tratta però di un regolatore che a fronte dell’assenza del legislatore, si vede costretto ad intervenire come supplente: il caso del regolamento sul diritto d’autore online è sintomatico, così come quello della regolazione del pluralismo elettorale e politico.
Ma anche la “materia” Rai è nelle competenze Agcom, anche soltanto per le linee-guida sull’ormai ridicolo “contratto di servizio” Rai (scaduto da sette mesi). In queste materie (ed altre ancora), il Paese è governato da norme vecchie ed obsolete, ma il Parlamento dormicchia.
La relazione di Cardani, snella (una ventina di pagine, meno di un’ora di lettura), si caratterizza per il tono pacato e molto diplomatico. È come se volesse attenuare la rappresentazione delle criticità del sistema mediale italiano, in primis il gravissimo ritardo nella diffusione della banda larga e nella diffusione della rete come strumento di conoscenza, partecipazione, commercio, imprenditorialità: il 37 % degli italiani non ha mai avuto accesso ad internet!
Si conferma la centralità dei contenuti audiovisivi nella “dieta mediatica”, che assorbono circa due ore delle giornate di ogni italiano, il 42 % dei totali 274 minuti dedicati alla comunicazione (qui omettiamo critiche sulla qualità della fonte).
Pochi e lievi cenni critici. Agcom certifica il calo degli investimenti pubblicitari: – 19 % per l’editoria, – 18 % per la tv, – 13 % l’esterna, – 7 % la radio…
Soltanto il web è in controtendenza, con un + 12 % (ed ha una fetta del 14 % della torta pubblicitaria totale). Basti osservare che editoria ha perso il 14 % del proprio fatturato in un anno soltanto, con un calo di 1 miliardo di euro nei ricavi. Nel 2012, i quotidiani hanno visto calare del 10 % la vendita di copie, e del 19 % i ricavi pubblicitari!
Nel business tv, Sky ha superato Mediaset nel totale dei ricavi, e Rai è terza.
Il business totale del settore delle comunicazioni sarebbe calato dai 65,8 miliardi del 2011 ai 61,5 miliardi del 2012.
Diverte notare come uno dei primi dispacci diramati dall’Ansa sintetizzava la debolezza della Rai nell’offerta su internet: il portale della Bbc è il 5° per utilizzazione (numero accessi) nel Regno Unito, prima di Yahoo, quello della Rai è al 28° posto in classifica. Questa è forse l’unica freccia amara, tra quelle lanciate dal delicato arciere Cardani.
Agcom conferma l’intenzione di emanare un regolamento in materia di diritto d’autore online (lo si attende da anni…), ma ribadisce che semmai il Parlamento decidesse di intervenire, si ritirerà in punta di piedi (anzi, si adeguerà). Tanto l’Autorità sa benissimo che il Parlamento, con l’attuale maggioranza “collosa”, non interverrà.
L’Autorità benedice lo scorporo della rete Telecom Italia (decisione definita addirittura “coraggiosa e innovativa”), ma non più di tanto, perché attende le ulteriori mosse del gruppo di Bernabè e vuole vedere le carte.
Nulla dice Agcom rispetto all’esigenza di stimolare la produzione di contenuti di qualità. Si limita ad un cenno rispetto alle esigenze di verificare eventuali posizioni dominanti all’interno dei singoli mercati del Sic (il duopolio Rai + Mediaset ha l’87 % dei ricavi nel settore della tv gratuita, Sky ha il 78 % nella tv pay…).
Nulla dice rispetto al rischio di dinamiche parassitarie da parte dei “nuovi aggregatori” (Google in primis).
Nulla dice in materia di emittenza radiotelevisiva locale (esiste ancora?!).
Nulla dice rispetto all’occupazione, alla forza-lavoro: come se l’economia del sistema non fosse basata anche sul lavoro, oltre che sul capitale (ci si perdoni la passatista citazione marxiana).
Nulla dice l’Agcom – in sostanza – sul problema centrale, che nemmeno identifica: l’evoluzione del sistema mediale italiano sta producendo continuo impoverimento strutturale e depauperizzazione delle risorse allocate sulla produzione di contenuto (calano gli investimenti, la disoccupazione cresce, il precariato impazza). Vale per l’editoria di qualità, per il cinema, per la musica, per la fiction, eccetera.
L’Autorità non identifica la patologia fondamentale del sistema. La pirateria è un problema importante, ma non il più grave. Cardani si limita a scrivere: “il ruolo della produzione di contenuti non viene meno” (!). Quella che sta… venendo meno, caro Presidente, è la “produzione” stessa di contenuti, non il suo ruolo.
Da segnalare che è intervenuto in sala, con il suo ormai noto look molto “casual”, Roberto Fico, il Presidente della Commissione Parlamentare di Vigilanza Rai (soprannominato, forse con eccessivo entusiasmo, “il mastino” da “Prima Comunicazione”), il cui pensiero crediamo di immaginare, mentre ascoltava le molto molto molto moderate parole di Cardani ed osservava i quattro altri silenti componenti del soviet Agcom schierati in bella mostra sul tavolo di presidenza.
Segnaliamo alcuni dettagli che riteniamo significativi. La relazione non si caratterizza per quella vena poetica e per quelle raffinate citazioni cui ci aveva abituato il past President Corrado Calabrò (ci sono però chicche come l’incipit: “per comprendere la dimensione di un fenomeno sarebbe necessario poter valutare il controfattuale della sua assenza”, sic), si evince che è stata elaborata sotto la guida di un economista e non di un giurista, e ciò è innovativo.
Molti sono i dati citati, ma, da ricercatori, ci preoccupa un po’ la pluralità di fonti utilizzate, con numeri che temiamo possano finire per smentirsi l’un l’altro, per difformità metodologica e contraddittorietà interna: in una nota a piè di pagina, i redattori utilizzano la simpatica formula “ex multis” (come dire, abbiamo colto qua e là), inadeguata per un documento che dovrebbe rappresentare la “summa” (anche scientifica, no?!) in materia.
E preoccupa anche che Cardani utilizzi il termine “consumatori” riferendosi al target finale dell’Autorità. In punta di piedi, ci permettiamo di ricordare al Presidente che l’Agcom ha delle funzioni molto più delicate della consorella Agcm (Garante della Concorrenza e del Mercato): dovrebbe vedere i propri “stakeholder” non nei “consumatori”, bensì nei fruitori, ovvero nei cittadini.Non si tratta di un distinguo semantico marginale.
E, rispetto a questi cittadini, Agcom dovrebbe anche pensare alle funzioni culturali del sistema dei media. Funzioni che sembrano essere completamente ignorate, nella relazione: la parola “cultura” è completamente assente dalla relazione di Cardani (ma anche la parola “emittenti locali”, come se… non esistessero più le radio e tv indipendenti: di grazia, sono deboli e marginalizzate, ma vanno ancora in onda!). In sostanza, viene ignorata completamente la intima relazione tra l’economico ed il semiotico. Ma l’Agcom non dovrebbe vigilare anche su questo?! Sul senso (di società) che l’attuale assetto del sistema mediale produce, che è poi il senso stesso (il più intimo) della democrazia! Sui valori (anche etici!), sulla Weltanschauung che i media stimolano.
Non debbono essere tenuti sott’occhio soltanto la concorrenza ed il pluralismo, ma anche la produzione di senso: la cultura, insomma. Tutto l’approccio della relazione è quantitativo, ma l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni non dovrebbe avere a cuore anche la “qualità”? Come dire?! Il mandato Agcom dura ben sette anni: Cardani e colleghi hanno di fronte qualche anno per un… ravvedimento operoso.
Attendiamo poi di leggere la Relazione vera e propria, ovvero il corposo tomo che, quest’anno, per la prima volta nella storia dell’Agcom, non è stato distribuito ai partecipanti, e non si sa nemmeno se verrà stampato su carta (effetti perversi della “spending review”: è vero che pochi lo leggevano, ma era comunque uno strumento utile).
È comunque disponibile sul sito dell’Autorità (464 pagine: aaargh! abbiamo controllato, anche qui il concetto di “cultura” non è presente, se non nel capitolo dedicato ad alcuni obblighi della Rai: da non crederci…), insieme ad alcune slide di sintesi dei dati (che estrapolano dal tomo un set di interessanti informazioni, ovviamente… tutte soltanto quantitative).
Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult
Si è tenuta giovedì 20 giugno a Roma, in una sala messa a disposizione della Camera dei Deputati, una riunione promossa da MoveOn per rilanciare le loro radicali proposte per una riforma del servizio pubblico radiotelevisivo.
L’invito recitava: “Il sapere è di tutti. Una Rai indipendente al servizio della libertà di informazione. Tavolo di lavoro Parlamento – società civile”. E si leggeva: “Siamo al 57° posto al mondo come libertà di informazione. Costruiamo un servizio pubblico tv prendendo ad esempio i modelli europei più avanzati. Per una Rai senza il totale controllo dei partiti e del governo, con una legge di stampo europeo proposta dalla società civile”.
Il movimento, coordinato dal pugnace Marco Quaranta, ha tra i propri esponenti la ex parlamentare Tana de Zulueta (senatrice dal 1996 al 2001 nelle fila dei Ds, rieletta nel 2001 e passata nel 2004 ai Verdi, nelle cui liste viene rieletta nel 2006), e tra i simpatizzanti l’editorialista de “la Repubblica” Giovanni Valentini e l’ex senatore Vincenzo Vita (che è intervenuto all’incontro ormai come rappresentante di Articolo 21).
Si è trattato di un’occasione interessante soprattutto per cercare di comprendere le idee del neo Presidente della Commissione di Vigilanza Roberto Fico, che ha seguito con attenzione tutti i lavori, e ne ha tracciato le conclusioni. In verità, è forse la prima volta nella nostra esperienza professionale (e forse nella storia della politica televisiva in Italia) che un ruolo istituzionale così importante e delicato viene affidato ad un giovane dai modi assolutamente informali e dal look certamente “casual”.
Sono intervenuti nel dibattito sia operatori del settore noti (l’ex commissario Agcom Nicola D’Angelo, l’ex direttore di Rai Educational Renato Parascandolo, l’ex responsabile cultura di Rifondazione Comunista Sergio Bellucci… da osservare una presenza di molti “ex” ed anche ciò deve stimolare una riflessione su chi è attualmente fuori dalle “istituzioni”) sia ignoti (lavoratori “di base” della Rai, giornalisti non particolarmente famosi…). Si sono ascoltate quindi tesi evolute e storiche (molto appassionato l’intervento veramente fuori dal coro di Corradino Mineo, ex direttore di RaiNews ed attualmente parlamentare del Pd, così come quello di Loris Mazzetti, che ha ricordato la passività di molti a fronte del famigerato “editto bulgaro”), ma anche argomentazioni – come dire?! – ingenue e “semplici”. Complessivamente, si è trattato di una iniziativa stimolante, per quanto non innovativa, se non nella rara occasione di un esponente istituzionale molto dialogico.
Move On ha promosso un “tavolo”, del quale faranno parte politici, tecnici, esponenti della società civile, che intendono impegnarsi per una Rai “dalla parte dei cittadini”.
Sullo scenario, si agitano spettri di varia natura: la prospettiva (parzialmente rientrata) della chiusura del “psb” in Grecia, le curiose valutazioni “economicistiche” della Rai elaborate da Mediobanca (come a segnalare che il “psb” potrebbe andare “sul mercato”), l’audizione del Vice Ministro Catricalà che non ha escluso l’assegnazione del servizio pubblico attraverso una gara, e quindi senza garantire l’esclusiva Rai (una vecchia tesi cara ai liberisti oltranzisti).
Premesso che riteniamo che l’attuale assetto governativo non determinerà alcuna proposta di riforma né della Gasparri, né di altre norme sul sistema dei media (troppo contrapposti sono gli interessi per addivenire ad un compromesso), è prevedibile che la proposta di Move On sia destinata, purtroppo, a restare lettera morta, esattamente come è avvenuto – a suo tempo – con la proposta di legge di Tana De Zulueta.
Ciò non significa che iniziative di provocazione non debbano essere promosse: anzi. Che si gettino nuovi sassi nel vecchio stagno. Prima o poi, forse, qualcosa accadrà. Sarebbe accaduto certamente qualcosa se il Pd avesse seguito la prospettiva Rodotà. L’attuale governo conferma invece una dinamica gelatinosa di consociativismo, allorquando crediamo che il Paese abbia necessità, urgente, di riforme, radicali.
Ricordiamo che il “MoveOn italiano” nasce su ispirazione del movimento americano che ha contribuito alla vittoria di Obama e quindi all’approvazione della nuova riforma sanitaria. Scopo dichiarato del movimento “è promuovere la Democrazia attraverso azioni partecipate al livello locale, nazionale e, insieme ad analoghe reti straniere, internazionale. Vorremmo stimolare la partecipazione tra i cittadini e i partiti, per contribuire – tutti assieme – ad un reale cambiamento delle condizioni politiche e culturali del nostro Paese”. MoveOn vorrebbe una televisione pubblica libera di “fare da cane da guardia ai poteri”.
Tra le tesi di MoveOn:
1. superamento dell’anomalia per la quale l’azionista del servizio pubblico è il Ministero dell’Economia;
2. al posto della Commissione Parlamentare di Vigilanza, costituzione di un Consiglio per le Comunicazioni Audiovisive, composto in maggioranza – 11 su 20 – da esponenti della società civile;
3. il Consiglio nomina i vertici della concessionaria del servizio pubblico (Rai), manager che devono essere selezionati in base a criteri di professionalità, competenza, indipendenza;
4. il Consiglio nomina altresì i componenti dell’Agcom, anche in questo caso garantendo criteri selettivi basati su esigenze di competenza, indipendenza, trasparenza;
5. il Consiglio si pone al servizio degli utenti Rai, stimolando modalità interattive di controllo e valutazione, e garantendo ai cittadini un uso attivo e consapevole dei media del servizio pubblico.
Correlata battaglia è rappresentata dall’esigenza di nuove norme antitrust.
Una petizione può essere firmata sul sito di www.change.org.
Il Presidente Fico si è impegnato a partecipare al “tavolo”, e già questa è una notizia inedita, dato che il Presidente di una Commissione Parlamentare si caratterizza spesso per un ruolo in qualche modo “a-partisan”. Fico invece, evidentemente, intende schierarsi, eccome.
Nelle sue conclusioni Fico ha auspicato di poter essere il Presidente “dell’ultima Commissione di Vigilanza Rai”, ma questo auspicio reca, come sottotesto, il rischio di una scomparsa della Rai (il che è male) e non soltanto del “controllo partitico del servizio pubblico” (il che è bene). Secondo Fico, “la Rai è un patrimonio pubblico che non va smantellato, ma risanato e a cui va dato un nuovo assetto di governo puntando al superamento della stessa Commissione di vigilanza”. Temiamo che il Movimento 5 Stelle, nel tentativo di attuare alcuni dei suoi nobili propositi, potrebbe finire per buttare dalla finestra… anche il bambino, oltre che l’acqua sporca.
Fico ha annunciato che approfitterà del parere che la Commissione è tenuta a manifestare sul nuovo contratto di servizio Rai in gestazione, per convocare audizioni eterodosse: nonostante i funzionari della Commissione gli abbiano segnalato che lui può audire soltanto “dirigenti” della Rai, Fico ha annunciato l’intenzione di non rispettare questa indicazione, e di convocare anche lavoratori Rai… non titolati, ed esponenti della società civile.
Effettivamente, se Fico riuscisse a concretizzare questo intendimento, ne potremmo vedere delle belle!
Temiamo però che il dissidente Fico possa finire per svolgere un ruolo, certamente utile in termini dialettici, ma purtroppo non determinante nell’economia politica complessiva del sistema. Come sta accadendo ai due consiglieri dissidenti in Rai: in effetti, non ci sembra che dalle posizioni “resistenziali” di Colombo e Tobagi stia emergendo alcuna correzione di rotta Rai, ma semplicemente la sacrosanta rivendicazione di un’idea altra di servizio pubblico.
Non è questo che una buona metà degli italiani si attende dalla Rai. O dalla Vigilanza. E non è casuale che i due dissidenti Rai abbiano inviato un messaggio ai promotori dell’iniziativa MoveOn: Benedetta Tobagi e Gherardo Colombo che hanno espresso il loro pieno appoggio ai 5 punti del Manifesto di MoveOn, precisando che di queste proposte c’è bisogno per “l’impatto nefasto della attuale forma di governance sulla vita aziendale”. Tobagi e Colombo sostengono che “le energie dei cittadini e della politica debbano convergere sullo sforzo di riformare quel grande patrimonio collettivo che è il servizio pubblico”, e che non è il caso di “disperdersi in diatribe sulla privatizzazione”. In vista del rinnovo della concessione del servizio pubblico nel 2016, ritengono che “sia necessario sviluppare un dibattito ampio e organizzare una consultazione che coinvolga in maniera seria e strutturata i cittadini”.
L’incontro si è chiuso con l’impegno di avviare il tavolo di lavoro nelle prime settimane di luglio. Attendiamo, fiduciosi, lo sviluppo dell’iniziativa.
Per martedì 2 luglio, intanto, Articolo 21 ha promosso un incontro di riflessione critica, sempre sulle tematiche del servizio pubblico, dalle ore 10 alle ore 14, presso il Cnel (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro): prevedibilmente un dibattito utile… pur ospitato nei saloni di un ente ritenuto inutile dai più (ed immaginiamo cosa ne possa pensare Beppe Grillo).
Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’IsICult – Istituto italiano per l’Industria Culturale
Il 5 giugno si è tenuto a Roma, presso la sede della Regione Lazio, un incontro tra Lidia Ravera, Assessore alla Cultura e Sport e Politiche Giovanili della Giunta Zingaretti (insediatasi a metà marzo), ed una folta rappresentanza delle tante associazioni, professionali ed imprenditoriali, che caratterizzano il “piccolo mondo” degli italici cinematografari. È stata una occasione ghiotta, per chi cerca di comprendere gli orientamenti della eterodossa neo-Assessore (che si è autodefinita una “aliena”, rispetto ai “palazzi della politica”, in un bell’articolo pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 1° giugno scorso). Ravera è stata chiamata alla guida delle politiche culturali della Regione Lazio da Nicola Zingaretti, che ha voluto mettere in atto un’operazione spiazzante, anche perché Ravera, pur ben collocata a sinistra, non è iscritta al Pd, ed è quindi sganciata da dinamiche partitocratiche.
Da osservatori critici – quali siamo, da decenni – della politica culturale, a livello nazionale e locale, abbiamo, fin dai primi giorni, apprezzato la estrema cura comunicazionale (linguistica e semantica) con cui Ravera si è manifestata, in alcune pubbliche occasioni: che fosse un intellettuale ed un’artista, era evidente, ma che riuscisse ad arricchire il “linguaggio della politica” con una forma elegante ed al tempo stesso significativa (significante) è una bella sorpresa. Anche perché si tratta di un bel parlare che sembra riuscire a non cadere in quella qual certa ridondanza retorica che caratterizza invece talvolta un altro eccellente “affabulatore” – politico di professione – qual è Vendola, ad esempio.
Ciò premesso, la Ravera, che ha ereditato un assessorato retto per alcuni anni da Fabiana Santini (il cui curriculum evidenziava al massimo il ruolo di capo della segreteria dell’ex Ministro Scajola) nella Giunta Polverini, ha subito precisato, non appena insediatasi, che avrebbe “studiato”, e che avrebbe anzitutto “ascoltato”… “prendendo appunti” (formula che ribadisce spesso, e che effettivamente corrisponde alla realtà). Ha anche premesso con chiarezza: “la Regione Lazio, e questo Assessorato, non saranno più un bancomat, anche perché il bancomat s’è rotto”.
In estrema sintesi, va ricordato – ai lettori che non vivono a Roma e nel Lazio – che la Giunta Polverini (aprile 2010-marzo 2013) aveva, a sua volta, ereditato dalla Giunta Marrazzo (aprile 2005-ottobre 2009) un notevole livello di interventismo nelle politiche culturali, con particolare attenzione all’audiovisivo: finanziamenti consistenti, sostegno ad iniziative incerte come il Fiction Fest, iniziative promozionali varie.
Il deficit della Giunta Marrazzo va cercato nell’assenza di programmazione, ovvero di un piano strategico organico e di medio periodo: ha prevalso una pluralità di interventi, che è presto degenerata in policentrismo dispersivo, a partire da una assenza di sintonia tra “anime” della stessa giunta: le politiche culturali erano curate da Giulia Rodano (poi divenuta responsabile cultura nazionale dell’Italia dei Valori, ed ormai allontanatasi dalla politica); le politiche comunicazionali erano gestite da Francesco Gesualdi (segretario generale della Regione, già direttore generale di Cinecittà, fiduciario di Marrazzo).
Con una gestazione complessa, la Giunta Polverini ha comunque approvato una legge regionale sul cinema e sull’audiovisivo, che un qualche segno di innovazione ha provocato, a partire dalla denominazione della norma stessa, che, per la prima volta in Italia, ha “accomunato” il cinema e l’audiovisivo (non cinematografico). Sono stati allocati fondi per 15 milioni di euro l’anno, assegnati sulla base di meccanismi “automatici” (in primis, la sensibilità verso il Lazio, in termini di riprese o utilizzazione di risorse professionali in Regione), senza che vi fossero commissioni di esperti che giudicassero la sceneggiatura o il progetto filmico.
Questa legge è controversa: per alcuni, ha consentito una preziosa boccata di ossigeno, a fronte della riduzione della “quota cinema” del nazionale Fondo Unico per lo Spettacolo (che non arriva ormai a nemmeno 100 milioni di euro l’anno); per altri, ha finito per finanziare anche qualche produzione indipendente e qualche giovane autore (e produttore), ma per lo più ha sostenuto i “soliti noti”, ovvero i più ricchi produttori italiani (esemplificativamente, la Cattleya di Riccardo Tozzi e la Palomar di Carlo Degli Esposti). Va rimarcato che non è stata realizzata alcuna analisi valutativa degli effettivi impatti di questa legge, nella “migliore” tradizione dell’assenza di verifiche sull’intervento della mano pubblica nel settore culturale, che riteniamo essere la più grave patologia del sistema italiano. In verità, né l’assessorato affidato a Rodano né l’assessorato affidato a Santini hanno prodotto un rendiconto analitico accurato: il concetto stesso di “bilancio sociale” è ancora fantapolitica, per il nostro Paese.
Come vengono allocate le risorse… perché a favore di “x” piuttosto che di “y” (e questo problema riguarda enormi macchine “mangiasoldi” come gli enti lirici a livello nazionale, ma anche l’ultima delle piccole associazioni culturali del comune più sperduto)… sono domande che restano senza risposte, come il quesito sull’efficacia, in termini di stimolazione del tessuto culturale (estensione del pluralismo, pluralità dei linguaggi, eccetera), degli interventi pubblici. Il concetto di valutazione di impatto così come quello di verifica dell’efficacia sono sconosciuti alla quasi totalità della italica politica culturale.
Sono intervenuti alla riunione (ad inviti), i rappresentati di Slc Cgil, Anica, Agis Lazio, Anem, Anac, Apt, Agpc, 100autori, Cinema e Territorio, Cinecittà Luce, Doc/it, Fidac, Consequenze Network, Sact… Tutti hanno manifestato le proprie lamentazioni, per una crisi grave e diffusa: è emerso uno scenario critico veramente sconfortante. Che la crisi del cinema italiano sia profonda è confermata dalla notizia (diffusa nella stessa giornata dell’iniziativa della Regione Lazio) della sostanziale sospensione delle attività di distribuzione ed acquisizione della mitica Sacher di Nanni Moretti, che ha diramato questo comunicato stampa: “Ormai la situazione del Paese è tale che una distribuzione come la nostra, da sempre orientata alla diffusione di film art house che la gente va sempre meno a vedere e che le tv non acquistano più, si ritrova a lavorare più per filantropia che altro”.
Dopo oltre due ore di interventi, ha tirato le conclusioni l’Assessore, visibilmente affaticata (ha diligentemente preso appunti, come annunciato), ma ben vivace e stimolante, tracciando alcune linee-guida: ha premesso che non ha mai creduto nella dicotomia tra “cultura” ed “industria”, ed ha definito le industrie dell’immaginario come “industrie particolari che producono oggetti delicati” (aggiungendo: “dobbiamo sempre ricordarci il motto: handle with care”); ha lamentato come il nostro Paese, da molti anni, sia sottoposto ad un bombardamento mediatico (televisivo) che ha impoverito le coscienze (“abbiamo consumato roba balorda per decenni”) ed ha determinato una diffusa “desertificazione culturale”; ha sostenuto la necessità di far affluire “aria fresca” in un sistema polveroso e stantio, attraverso la promozione della sperimentazione, della ricerca, dell’innovazione, dei giovani talenti, stimolando le diversità espressive e linguistiche; ha sostenuto a chiare lettere che gli “automatismi” possono anche essere funzionali, ma che debbono essere integrati (corretti) con l’intervento “umano” (per quanto esso possa essere a rischio di soggettività); ha dichiarato che le procedure di finanziamento dovranno prevedere anticipazioni, perché la produzione audiovisiva è processo complesso e costoso, ed è la fase iniziale a dover essere sostenuta con maggiore attenzione; ha enfatizzato la necessità di guardare al territorio regionale, ben oltre Roma, perché è soprattutto “in provincia” che si soffre dell’assenza di strutture di offerta (cinema, teatri, centri culturali…), ovvero si assiste alla morte degli “avanposti dell’alfabetizzazione”; ha annunciato la costituzione di un comitato di qualificati esperti indipendenti (liberi da conflitti di interessi), che procederà ad apportare correzioni “light” alla legge cinema ed audiovisivo, ed a effettuare valutazioni (soggettive!) su cosa debba essere sostenuto, e cosa no, dalla Regione Lazio (“no ai finanziamenti a pioggia… anche perché si corre il rischio di… far piovere sul bagnato”, ha ironizzato); per quanto riguarda la film commission, ha dichiarato a chiare lettere che considera l’esperienza pugliese (e la stima per Vendola si conferma) un caso di eccellenza, anche per quanto riguarda la Apulia Film Commission, diretta dal giovane Silvio Maselli.
Per noi, che pure siamo studiosi critici di politiche culturali da un quarto di secolo, assidui e pazienti frequentatori di ogni iniziativa convegnistica e di dibattito sulla cultura, si è trattato di un’iniziativa assolutamente lodevole: densa, succosa, stimolante.
Le intenzioni dell’Assessora, intellettuale umanista, sono evidenti, commendevoli, condivisibili: innovare, scardinare il modello pre-esistente, rischiare. Abbiamo anche registrato qualche interessante assonanza tra quanto sostenuto dall’Assessore Ravera e quanto annunciato il 23 maggio dal Ministro Bray nella sua relazione di fronte alle Commissioni Cultura di Camera e Senato per la prima volta riunite assieme. L’intervento del neo-Ministro, per lo specifico audiovisivo, è rivoluzionario (almeno sulla carta), sebbene nessun quotidiano abbia colto la novità: ha fatto riferimento al modello francese come “benchmark”, e ciò basti.
Non resta da augurarci che si passi presto dal libro delle belle intenzioni (comunque apprezzabile, anche soltanto dal punto di vista intellettuale e della elaborazione di “policy” auspicata) alla concreta progettualità ed alle conseguenti azioni: normazioni, regolazioni, allocazioni di budget adeguati, deliberazioni amministrative. La Giunta Zingaretti ha certamente una previsione di vita maggiore del Governo Letta, e ciò conforta.
Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’IsICult – Istituto italiano per l’Industria Culturale
Eserciti di carta: come si fa informazione in Italia
il libro analizza lo stato del giornalismo italiano attuale e la sua evoluzione negli ultimi vent’anni. Autori del saggio sono Ferdinando Giugliano editorialista del “Financial Times”, e John Lloyd collaboratore del “Financial Times” e di “Repubblica”, che hanno raccolto diverse interviste con alcuni dei giornalisti professionisti più influenti e conosciuti del nostro paese. Da Enrico Mentana a Giuliano Ferrara, da Eugenio Scalfari a Vittorio Feltri, il libro ripercorre la storia della carta stampata, l’avvento della televisione e il rapporto tra l’informazione e la politica nel nostro paese, dove è nota la mancanza di editori puri.
suddiviso per capitoli, il libro ripercorre le vicende più recenti del panorama giornalistico: dal caso delle dimissioni del direttore dell’Avvenire, alle dieci domande di Repubblica rivolte da Giuseppe D’Avanzo all’allora premier Silvio Berlusconi, all’analisi dello share del Tg1 durante l’era Minzolini. Un saggio denso di dati e contenuti per comprendere come si è evoluto il mondo della professione giornalistica e il suo rapporto con il pubblico- lettori e cogliere anche il senso della profonda crisi che il settore sta attraversando.
ogni capitolo affronta in modo discorsivo l’argomento prescelto, intervallando i dati alle interviste realizzate, rendendo così un saggio informativo molto simile alla forma di un piacevole romanzo.
spesso il punto di vista degli autori del libro traspare troppo chiaramente nella stesura del testo. Sebbene in dati raccolti siano utili e veritieri, tuttavia in alcuni passaggi non sono riportati in modo oggettivo.
interessante il capitolo dedicato all’avvento dei blog, temuti rivali della professione giornalistica, che invece si stanno rivelando sempre più degli alleati preziosi, degni di nota e di credito. Il capitolo narra della nascita di alcuni dei siti di informazione online più famosi come Il Post, Linkiesta, Dagospia e LaVoce.info, quest’ultimo gestito da professori universitari che hanno ottenuto un notevole successo scrivendo notizie economiche spesso tralasciate dalla grande informazione e facendo un lavoro di fact- checking sulle affermazioni dei politici, che nella maggior parte dei casi non venivano mai verificate dai giornalisti stessi.
assidui fruitori di giornali e telegiornali e a quanti non si arrendono ad un’informazione manipolata dalla politica e dagli introiti pubblicitari. Per avere una panoramica più ampia degli episodi che sono avvenuti negli ultimi anni, per comprenderli, a distanza di qualche mese, in modo più definito.
Eserciti di carta: come si fa informazione in Italia, di Ferdinando Giuliano e John Lloyd , Feltrinelli euro 18.
Personaggi grandiosi che hanno fatto la storia, ma prima di tutto uomini come tutti noi, con i loro difetti, passioni, imperfezioni. Come sarebbero Maria Antonietta, Enrico VIII, Elisabetta I se fossero nati nel XXI secolo? Qualche spunto ce lo può fornire la storica inglese Suzannah Lipscomb, la quale ha lavorato tre mesi con un artista per riproporre i ritratti moderni delle personalità incontrate nei libri di scuola. La ricerca è stata commissionata per la realizzazione di una serie televisiva. Ecco il risultato.
È il giorno dell’anno in cui bisogna stare più accorti e sospettosi: il primo Aprile è facile cadere nelle grinfie di qualche burlone desideroso di prendersi gioco di conoscenti ed amici distratti. Se a dare l’annuncio di catastrofi o avvenimenti singolari, tuttavia, sono istituzioni e realtà accreditate, come media o aziende, allora è difficile non cadere nella trappola, soprattutto quando lo scherzo non ricade in questo giorno prefissato.
Nel 1938, durante la trasmissione radiofonica Mercury Theatre on the Air della Cbs (Columbia Broadcasting System) condotta da Orson Welles, venne dato l’annuncio dello sbarco di alcuni alieni sul pianeta terra. Si trattava in realtà della lettura settimanale di uno sceneggiato tratto da un celebre romanzo, il testo in questione era il fantascientifico “La guerra dei mondi”. Nonostante gli avvisi ripetuti all’inizio e alla fine della trasmissione, molti ascoltatori credettero che la notizia fosse vera e si scatenò un putiferio, di cui Welles venne a conoscenza solo il giorno successivo. Una delle burle più riuscite era dunque capitata involontariamente.
Memori di questo successo, alla BBC escogitarono uno scherzo che ne ricalcò la trama: nel 2008, settant’anni dopo l’equivoco avvenuto alla Cbs, venne annunciato un documentario in cui sarebbe stata presentata e spiegata ai telespettatori una nuova specie di volatili appena scoperta. Già nel 1957 l’accreditata e autorevole televisione britannica aveva cercato di ingannare i suoi ascoltatori, trasmettendo un reportage dedicato agli alberi di spaghetti, una rara coltura presente solo in Svizzera.
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Indubbiamente uno dei posti più confacenti per organizzare uno scherzo è il classico museo delle cere: in qualunque museo voi siate non sarà, infatti, difficile immedesimarvi in una scultura di cera per spaventare gli ignari passanti. Eppure spesso la trappola viene organizzata dalla stessa istituzione museale: quest’anno ci ha pensato il Solomon Guggenheim Museum di New York, che ha annunciato sul web l’avvio di un cantiere per la realizzazione di ulteriori tredici piani in altezza, progetto esplicitato da quattro foto postate sulla pagina Facebook istituzionale. Tutto falso ovviamente.
Infondato come lo stesso annuncio dato da Google riguardo la chiusura di Youtube o l’avvento di Google Olezzo per annusare ed associare gli odori che ci circondano. Nel 2006, invece era stata Wikipedia a comunicare la propria chiusura, una notizia allora ritenuta una divertente burla, ma oggi purtroppo spesso riportata come minaccia concreta.
Non è invece uno scherzo il compleanno del museo virtuale dedicato agli oggetti artistici mai completati o rifiutati: il More, Museum of refused and unrealised art projects, ha compiuto infatti un anno proprio ieri. L’unica notizia reale in mezzo a tante burle ingannevoli che sono rimbalzate nel web durante questo primo aprile.
Per seguirli in diretta dovreste passare in bianco la notte di domenica. Andrà in onda infatti domenica 24 febbraio, a partire dalle 23.00, la cerimonia di premiazione che assegnerà gli Oscar 2013. Mentre attendete, come ogni anno, il responso su chi si aggiudicherà le statuette, ecco quali saranno i vincitori secondo il nostro James Ford
Miglior film
Nominations:
Amour
Argo
Re della terra selvaggia
Django Unchained
Les Misérables
Vita di Pi
Lincoln
Il lato positivo
Zero Dark Thirty
La statuetta dell’Academy: Argo, perchè voglio sperare che non vengano premiate marchette come Les Misérables o polpettoni come Lincoln.
Il white russian di Ford: Re della terra selvaggia, perchè è potenza, passione e bellezza. Ed una poesia su pellicola.
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Miglior attore
Nominations:
Bradley Cooper per Il lato positivo
Daniel Day-Lewis per Lincoln
Hugh Jackman per Les Misérables
Joaquin Phoenix per The Master
Denzel Washington per Flight
La statuetta dell’Academy: Daniel Day Lewis, anche se il suo Lincoln è accademico e stopposo. E troppo statico.
Il white russian di Ford: Joaquin Phoenix, mostruoso nell’altrettanto potente The master. Potrà non stare simpatico a molti, ma resta uno degli attori più dotati della sua generazione.
Migliore attrice
Nominations:
Jessica Chastain per Zero Dark Thirty
Jennifer Lawrence per Il lato positivo
Emmanuelle Riva per Amour
Quvenzhané Wallis per Re della terra selvaggia
Naomi Watts per The Impossible
La statuetta dell’Academy: Jessica Chastain, perchè è il simbolo di una rivincita femminile come lo fu qualche anno fa Kathryn Bigelow.
Il white russian di Ford: Quvenzhané Wallis, perchè è poesia pura come la sua Hushpuppy. Ma anche Jennifer Lawrence non mi starebbe male.
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Miglior attore non protagonista
Nominations:
Alan Arkin per Argo
Robert De Niro per Il lato positivo
Philip Seymour Hoffman per The Master
Tommy Lee Jones per Lincoln
Christoph Waltz per Django Unchained
La statuetta dell’Academy: Philip Seymour Hoffman, perchè è indubbiamente fenomenale.
Il white russian di Ford: Christoph Waltz, perchè è anche più di fenomenale. Quasi divino. Anzi, unchained.
Migliore attrice non protagonista
Nominations:
Amy Adams per The Master
Sally Field per Lincoln
Anne Hathaway per Les Misérables
Helen Hunt per The Sessions – Gli incontri
Jacki Weaver per Il lato positivo
La statuetta dell’Academy: Anne Hathaway, perchè la sua performance in Les Misérables è stata indubbiamente strepitosa.
Il white russian di Ford: Anne Hathaway, perchè anche se la detesto, la sua performance in Les Misérables è stata indubbiamente strepitosa.
Miglior regia
Nominations:
Michael Haneke per Amour
Ang Lee per Vita di Pi
David O. Russell per Il lato positivo
Steven Spielberg per Lincoln
Benh Zeitlin per Re della terra selvaggia
La statuetta dell’Academy: Steven Spielberg, perchè tecnicamente fa spavento e perchè non si possono permettere di ignorarlo.
Il white russian di Ford: Benh Zeitlin, perchè l’avrei data a Tarantino – che non è contemplato – e perchè il suo film è clamoroso.
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Miglior sceneggiatura originale
Nominations:
Amour: Michael Haneke
Django Unchained: Quentin Tarantino
Flight: John Gatins
Moonrise Kingdom – Una fuga d’amore: Wes Anderson, Roman Coppola
Zero Dark Thirty: Mark Boal
La statuetta dell’Academy: Django Unchained, perchè Tarantino non può essere ignorato decisamente con più meriti di Spielberg.
Il white russian di Ford: Zero Dark Thirty, perchè è un film straordinario per tecnica, scrittura e struttura. E il merito va diviso equamente tra regia e script.
Miglior sceneggiatura non originale
Nominations:
Argo: Chris Terrio
Re della terra selvaggia: Lucy Alibar, Benh Zeitlin
Vita di Pi: David Magee
Lincoln: Tony Kushner
Il lato positivo: David O. Russell
La statuetta dell’Academy: Argo, perchè sarà il vero trionfatore della notte degli Oscar.
Il white russian di Ford: Il lato positivo, perchè è l’oustider indie dell’anno, è scritto con empatia e profondità e rappresenta il sentimento ed il “goonie” dei candidati al miglior film.
Miglior film d’animazione
Nominations:
Ribelle – The Brave: Mark Andrews, Brenda Chapman
Frankenweenie: Tim Burton
ParaNorman: Sam Fell, Chris Butler
Pirati! Briganti da strapazzo: Peter Lord
Ralph Spaccatutto: Rich Moore
La statuetta dell’Academy: Brave, perchè la Pixar è una fucina di idee e tecnica impareggiabile.
Il white russian di Ford: Frankenweenie, perchè nonostante adori la Pixar, non posso non celebrare il ritorno del vero Tim Burton.
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Miglior film straniero
Nominations:
Amour (Austria)
Rebelle (Canada)
No (Chile)
En kongelig affære (Denmark)
Kon-Tiki (Norway)
La statuetta dell’Academy: Amour, perchè Haneke deve vincere, altrimenti non avrebbe raccolto tutte le nominations elencate fino ad ora.
Il white russian di Ford: Kon-Tiki, esempio di Cinema intenso, coinvolgente, emozionante e coraggioso.
Miglior fotografia
Nominations:
Anna Karenina: Seamus McGarvey
Django Unchained: Robert Richardson
Vita di Pi: Claudio Miranda
Lincoln: Janusz Kaminski
Skyfall: Roger Deakins
La statuetta dell’Academy: Lincoln, indubbiamente un lavoro senza una sola sbavatura.
Il white russian di Ford: Lincoln, che per quanto noioso sia, resta una pellicola realizzata con maestria quasi insuperabile.
Miglior montaggio
Nominations:
Argo: William Goldenberg
Vita di Pi: Tim Squyres
Lincoln: Michael Kahn
Il lato positivo: Jay Cassidy, Crispin Struthers
Zero Dark Thirty: William Goldenberg, Dylan Tichenor
La statuetta dell’Academy: Argo o Lincoln, giusto per non smentirsi troppo.
Il white russian di Ford: Zero Dark Thirty, con la sua mezzora finale da paura.
Miglior production design
Nominations:
Anna Karenina: Sarah Greenwood, Katie Spencer
Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato: Dan Hennah, Ra Vincent, Simon Bright
Les Misérables: Eve Stewart, Anna Lynch-Robinson
Vita di Pi: David Gropman, Anna Pinnock
Lincoln: Rick Carter, Jim Erickson
La statuetta dell’Academy: Les Misérables, troppo patinato per non essere da Oscar.
Il white russian di Ford: Lo Hobbit, un’epopea strepitosa all’altezza della trilogia de Il signore degli anelli.
Migliori costumi
Nominations:
Anna Karenina: Jacqueline Durran
Les Misérables: Paco Delgado
Lincoln: Joanna Johnston
Biancaneve: Eiko Ishioka
Biancaneve e il cacciatore: Colleen Atwood
La statuetta dell’Academy: Les Misérables, di nuovo troppo patinato per non essere da Oscar.
Il white russian di Ford: Anna Karenina, perchè anche se non l’ho ancora visto, vado sulla fiducia.
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Miglior trucco
Nominations:
Hitchcock: Howard Berger, Peter Montagna, Martin Samuel
Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato: Peter King, Rick Findlater, Tami Lane
Les Misérables: Lisa Westcott, Julie Dartnell
La statuetta dell’Academy: Les Misérables, devo ripetermi!?
Il white russian di Ford: Lo Hobbit. Devo ripetere la ripetizione!?
Miglior colonna sonora
Nominations:
Anna Karenina: Dario Marianelli
Argo: Alexandre Desplat
Vita di Pi: Mychael Danna
Lincoln: John Williams
Skyfall: Thomas Newman
La statuetta dell’Academy: Lincoln, valgono più o meno le stesse ragioni de Les Misérables.
Il white russian di Ford: una qualsiasi delle altre, giusto per non darla vinta a Lincoln.
Miglior canzone
Nominees:
Chasing Ice: J. Ralph(“Before My Time”)
Les Misérables: Alain Boublil, Claude-Michel Schönberg, Herbert Kretzmer(“Suddenly”)
Vita di Pi: Mychael Danna, Bombay Jayshree(“Pi’s Lullaby”)
Skyfall: Adele, Paul Epworth(“Skyfall”)
Ted: Walter Murphy, Seth MacFarlane(“Everybody Needs a Best Friend”)
La statuetta dell’Academy: Skyfall, forse la statuetta più scontata della nottata.
Il white russian di Ford: Skyfall, il talento di Adele è unico, ed il pezzo spacca. Inutile cercare scuse.
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Miglior mixaggio sonoro
Nominations:
Argo: John T. Reitz, Gregg Rudloff, José Antonio García
Les Misérables: Andy Nelson, Mark Paterson, Simon Hayes
Vita di Pi: Ron Bartlett, Doug Hemphill, Drew Kunin
Lincoln: Andy Nelson, Gary Rydstrom, Ron Judkins
Skyfall: Scott Millan, Greg P. Russell, Stuart Wilson
La statuetta dell’Academy: Les Misérables, giusto per non fargli mancare niente.
Il white russian di Ford: Skyfall, giusto per dare contro a Les Misérables e all’Academy.
Miglior montaggio sonoro
Nominations:
Argo: Erik Aadahl, Ethan Van der Ryn
Django Unchained: Wylie Stateman
Vita di Pi: Eugene Gearty, Philip Stockton
Skyfall: Per Hallberg, Karen M. Baker
Zero Dark Thirty: Paul N.J. Ottosson
La statuetta dell’Academy: Skyfall, perchè questi sono gli unici premi cui può ambire.
Il white russian di Ford: Zero Dark Thirty, vale lo stesso discorso fatto per il montaggio video.
Migliori effetti
Nominations:
The Avengers: Janek Sirrs, Jeff White, Guy Williams, Daniel Sudick
Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato: Joe Letteri, Eric Saindon, David Clayton, R. Christopher White
Vita di Pi: Bill Westenhofer, Guillaume Rocheron, Erik De Boer, Donald Elliott
Prometheus: Richard Stammers, Trevor Wood, Charley Henley, Martin Hill
Biancaneve e il cacciatore: Cedric Nicolas-Troyan, Phil Brennan, Neil Corbould, Michael Dawson
La statuetta dell’Academy: Vita di Pi, strepitoso dal punto di vista visivo e penalizzato rispetto ad altre pellicole fatte apposta per l’Academy per quanto riguarda i premi maggiori.
Il white russian di Ford: Lo Hobbit, un tripudio per gli occhi come per il cuore e lo spirito d’avventura.
Miglior documentario
Nominations:
5 Broken Cameras: Emad Burnat, Guy Davidi
The Gatekeepers: Dror Moreh, Philippa Kowarsky, Estelle Fialon
How to Survive a Plague: David France, Howard Gertler
The Invisible War: Kirby Dick, Amy Ziering
Searching for Sugar Man: Malik Bendjelloul, Simon Chinn
La statuetta dell’Academy: non conosco nessuno dei titoli, dunque vado totalmente a caso, The Gatekeepers.
Il white russian di Ford: stesso discorso. 5 broken cameras.
Miglior corto documentario
Nominations:
Inocente: Sean Fine, Andrea Nix
Kings Point: Sari Gilman, Jedd Wider
Mondays at Racine: Cynthia Wade, Robin Honan
Open Heart: Kief Davidson, Cori Shepherd Stern
Redemption: Jon Alpert, Matthew O’Neill
La statuetta dell’Academy: come sopra. Redemption.
Il white russian di Ford: e di nuovo. Open heart.
Miglior corto animato
Nominations:
Adam and Dog: Minkyu Lee
Fresh Guacamole: PES
Head Over Heels: Timothy Reckart, Fodhla Cronin O’Reilly
Paperman: John Kahrs
The Simpsons: The Longest Daycare: David Silverman
La statuetta dell’Academy: ne ho visto solo uno, ma mi basta, e penso anche all’Academy. Paperman.
Il white russian di Ford: Paperman, senza se e senza ma.
Miglior corto
Nominations:
Asad: Bryan Buckley, Mino Jarjoura
Buzkashi Boys: Sam French, Ariel Nasr
Curfew: Shawn Christensen
Dood van een Schaduw: Tom Van Avermaet, Ellen De Waele
Henry: Yan England
La statuetta dell’Academy: mi pare di diventare monotono, rispetto ai premi di cui non conosco nulla e francamente mi interessa poco. Così a occhio l’Academy andrà con Asad.
Disordinate e confusionarie oppure precisamente organizzate nei minimi dettagli. Le stanze dove trascorriamo la gran parte della giornata riflettono il nostro modo di essere, la creatività che più o meno appartiene al nostro lavoro, la familiarità con oggetti e colleghi. La scrivania che sia a casa o in un ufficio tradizionale è il nostro specchio dell’anima e chi meglio di questa riesce a trasmettere a quanti non ci conoscono qual è l’essenza del nostro operato giornaliero, il suo fine e le nostre passioni.
Siete curiosi di conoscere i posti in cui lavorano alcune tra le personalità più influenti nel web o di coloro che fanno parte del team delle società più note e ambite al mondo? A soddisfare la vostra curiosità ci ha pensato Linkedin il social network che mette in collegamento i professionisti e le aziende: il progetto, interessante e divertente, si chiama “Where I work” dedicato a chiunque sia registrato nella community che può aderire caricando una foto esplicativa del proprio ambiente di lavoro e descrivendo le sue attività, l’ambiente che lo circonda, il rapporto con i colleghi e quali sono le caratteristiche che apprezza di più del suo mestiere. Il risultato è un insieme interessante di storie variegate, degli autentici racconti con descrizioni dettagliate degli oggetti che accompagnano le nostre attività quotidiane e degli ambienti che ci circondano.
Sapevate, ad esempio, che la stanza di Arianna Huffigton è molto disordinata, gli oggetti e i libri sono accatastati tra di loro e che lei definisce la sua stanza come una vasca per i pesci, perché affaccia sulla redazione del giornale da dove tutti possono vederla?
Oppure vi siete mai chiesti com’è la scrivania di David Cameron a Downing street? O in che modo lavora una giornalista di Bloomberg television? A questa seconda domanda vi risponderà Trish Regan la quale descrive dettagliatamente la caotica redazione della testata economica: un open space in cui tutti sono circondati non solo da computer ma da almeno quattro monitor in cui visualizzare in tempo reale i social network, le news e gli andamenti borsistici. E dove c’è uno spazio, lì trovano posto le foto di famiglia e i ricordi di ognuno dei redattori.
Molto più ordinato è il “cubo” dove lavora Steve Rubel, Global Strategy alla Edelman, amante della dovuta chiarezza e semplicità, qualità che aiutano lo svolgimento del lavoro senza distrazioni: gli unici oggetti che ornano la sua scrivania sono infatti i ricordi portati con sé nel corso di viaggi, realizzati sempre per motivi di lavoro.
Anche lo stesso team di Linkedin non si è sottratto alla sfida: tra questi Deep Nishar, che ammette senza mezzi termini che l’arredamento del suo luogo di lavoro riflette il suo approccio alle mansioni ed impegni: spazi per pensare liberamente, concentrarsi sul problema, collaborare con il proprio team con cui è bene istaurare un rapporto di fiducia e deleghe. Non a caso nel suo tondo tavolo di legno capeggia la foto di tutti i suoi colleghi.
Anche noi di Tafter abbiamo deciso di cimentarci nell’esperimento: ecco la foto che ritrae dall’alto la nostra grande scrivania composta da un puzzle di quattro tavoli bianchi. Un piccolo open space al centro di Roma all’interno del quale, oltre a condividere i nostri computer, ritagli di giornale, pensieri e spunti per gli articoli da trattare, ogni giorno regnano il buon umore e tanto impegno, conditi da temerarietà e immenso entusiasmo per il nostro lavoro. Tra una conferenza stampa, una notizia e tante ricerche per scrivere articoli, quotidianamente impariamo qualcosa in più su come si porta avanti questo difficile mestiere che è informare in modo corretto e onesto.
Certo forse il nostro ordine, a giudicare dalla quantità di fogli e ritagli di giornali sparsi nei nostri tavoli, dovrebbe decisamente migliorare, ma in fondo ci consoliamo sapendo che il caos è sintomo di creatività!
Lunedì sera a Che tempo che fa è andata in scena una straordinaria pagina culturale. Di quella cultura viva, quella che fa bene all’anima, al cuore e alla bellezza del mondo. Una pagina ricca, una bella “prova”di via d’uscita da questa crisi che ha provocato, tra le altre cose, anche una profonda lacerazione del tessuto sociale. Barenboim e Metha, ospiti di riguardo ma con la semplicità dei veri grandi, hanno planato con ricche parole sopra i nostri pensieri e li hanno depurati dall’inquinamento acustico delle frasi fatte. Scrivete al Governo! Ha esclamato Zubin Metha, una frase molto significativa per riappropriarci dei nostri diritti attraverso l’uso della penna scrivendo pagine nuove attraverso quel diritto alla cultura davvero bene comune.
Contro le storture e le mortificazioni occorre fare leva su una nuova ricompensa sociale per combattere in prima persona la svalutazione delle passioni, delle idee e dei comportamenti. Non più mere diagnosi dei mali ma proposte di cure efficaci. Questo dovrebbe essere il nuovo corso della conoscenza. Più “operai” della cultura e meno “ingegneri” della cultura. Fare cultura comporta lo sporcarsi le mani, agire in luoghi difficili, portare un libro dove non attecchisce. Troppo facili i convegni o le aperture delle mostre. Far capire un quadro, fare entrare nei “luoghi della cultura” chi non è mai entrato, questo sì che è civile! La parte finale dell’intervista – caminetto di Fazio ai due immensi direttori d’orchestra è davvero da incorniciare. La musica in terra di guerra. Musica che fa ricordare ad un popolo sofferente e dimenticato la loro condizione di esseri umani! Sono parole forti quelli di Baremboim. Ma sono parole illuminanti per capire che oggi deve finalmente comprendersi che la cultura rappresenta il grado di evoluzione di un paese, piccolo o grande che sia. Recentemente Giuliano Amato ha affermato che: “qualcuno troverà troppo enfatico che si parli di un nuovo Rinascimento italiano, ovvero di una ricostruzione come quella del dopoguerra, fondata oggi sulla cultura. Può darsi. Ma se troviamo parole e visioni che ci spingono verso un futuro migliore, non c’è proprio nulla di male. Sono meglio, e hanno più fondamento, della rassegnazione, o peggio ancora dell’auto-denigrazione, che non ci aiutano neppure a correggere le nostre mancanze.
Ma soprattutto Giorgio Napolitano con incisiva saggezza ha rammentato: “difendo l’articolo 9 come uno dei principî fondamentali della Repubblica e della Costituzione, come scelta meditata, lungimirante e di sorprendente attualità; anche per come ha saputo abbracciare in due righe tutti gli aspetti essenziali del tema che ancor oggi dibattiamo (e voglio rendere omaggio a quei signori che sapevano scrivere in due righe una norma: sapevano scrivere in italiano le leggi, e innanzitutto la Legge fondamentale). Vogliamo rileggerle, quelle due righe? Cito anche il primo comma, non solo il secondo: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica” – e già questo è un accoppiamento che non dovremmo mai trascurare nei nostri discorsi: cultura e ricerca scientifica e tecnica. L’articolo quindi continua: “[La Repubblica] tutela il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Ebbene, quanto oggi le istituzioni della Repubblica “promuovono” e “tutelano”? Promuovono e tutelano ancora pochissimo, in modo radicalmente insufficiente. Quale peso – ci dobbiamo chiedere, al di là delle proclamazioni – si sta di fatto riconoscendo a quel dettato costituzionale, e dunque ad una corretta visione del rapporto tra cultura e scienza, da una parte, e sviluppo dell’economia e dell’occupazione dall’altra?
Quelle DUE righe già lette alla Scala di Milano dallo stesso Baremboim. Due righe di saggezza costituente. Di una ricostruzione post bellica. Visioni di lungo periodo, senza sofismi o quintali di commi. La chiave è già nella Costituzione. E’ quella la via Maestra da seguire per un paese in crisi di valori, di ripresa e voglia di cambiamento.
In questo quadro anche il Presidente della Repubblica sta dalla parte della cultura: non esito a esprimermi con spirito critico anche nei confronti dei comportamenti dell’attuale governo nel suo complesso, pur conoscendo la sensibilità e l’impegno dei singoli ministri, e non perdendo di vista quel che l’Italia deve al governo del Presidente Mario Monti per un recupero incontestabile di credibilità e di ruolo in Europa e nel mondo. Sappiamo – anche se qui non si tratta di fare i ragionieri, ma di ragionare politicamente: fare i ragionieri e ragionare sono due cose diverse”.
Scriviamo al Governo. Non importa se a questo o al prossimo. Non più ragionieri, ma ragionare politicamente per ripartire dall’art. 9 a pieno titolo tra i principi fondamentali, oggi più che mai. Ecco perché il ragionamento di Baremboim e Metha è tutta un’altra musica!
Che il tema più sentito da parte della società civile in questo primo decennio del 21esimo secolo sia la mancanza di un posto di lavoro sicuro e la possibilità di crearsi un futuro stabile non è una novità. Negli ultimi anni questa problematica da piaga sociale incisiva e preoccupante tuttavia si è trasformata in un’autentica fonte di visibilità, non solo a livello politico ma anche per i mezzi di comunicazione. Se un tema riesce a fare breccia nell’opinione pubblica è sulla bocca di tutti e quindi basta solo citarlo per fare notizia ed attirare l’attenzione. Sembra questo l’atteggiamento assunto nei confronti del disagio giovanile per una disoccupazione dilagante che affonda le speranze della nuova forza lavoro. E così a fronte dei dati del rapporto Employment Outlook 2012 secondo il quale i disoccupati nell’area Ocse sono arrivati ad essere 48milioni e che in Italia hanno raggiunto la soglia del 10% ( per quanto attiene il dato della disoccupazione giovanile il tasso arriva al 30%), alcune iniziative hanno trasformato l’aurea di negatività del fenomeno in una potenziale ricchezza da sfruttare, soprattutto sul piano della comunicazione.
Forse facendo zapping in televisione vi sarete imbattuti nel nuovo reality “The Apprentice”, mandato in onda sul canale Cielo tv. Il format del programma prevede la sfida tra diversi giovani imprenditori che si contendono tra loro il posto di assistente del team manager della Formula1 nonché fondatore del Billionaire Flavio Briatore. Un reality, dunque, volto a valorizzare la figura del self made business man, così diffusa nella mentalità di altri paesi come l’America ma poco perseguita in Italia, dove si predilige, invece, il posto fisso e sicuro. Il format del programma, infatti, ricalca quello dell’omonimo reality già passato nelle televisioni inglesi ed americane, riportando tuttavia alcune peculiarità del tutto italiane: nel modello previsto dalla BBC, ad esempio, i giovani manager si sfidano per portare avanti il proprio progetto imprenditoriale e il vincitore si aggiudica il finanziamento necessario per avviarlo. In Italia il premio, come abbiamo visto, è un po’ differente probabilmente per alzare gli ascolti coinvolgendo il magnate brizzolato. La struttura, dunque, non si equivale del tutto, ma in entrambi i casi i protagonisti sono i giovani e la loro volontà a tutti i costi di crearsi un lavoro che non c’è.
Un altro esempio di quella che può essere definita una spettacolarizzazione della disoccupazione giovanile è l’ultima campagna pubblicitaria del concorso Unemployee of the year, promossa dalla Fondazione Unhate dell’azienda Benetton. A presentare il contest, davanti ad una schiera di giornalisti, è stato lo stesso presidente Alessandro Benetton, il quale ha definito quest’iniziativa, in cui protagonisti assoluti sono i giovani disoccupati, encomiabile e da prendere a modello da parte di altre fondazioni. Il contest si propone di premiare 100 progetti in campo artistico, sociale ed imprenditoriale, creati da giovani senza lavoro di tutto il mondo. I file contenenti le idee dovranno essere caricati sul sito della fondazione e votati dalla community al fine di decretare il 31 ottobre 2012 un vincitore. Un’iniziativa dagli intenti nobili apparentemente, almeno sino alla scoperta del premio finale per i vincitori: non è previsto né un posto di lavoro in Benetton né in nessun altra realtà prossima al progetto presentato. In palio, invece, la Fondazione Unhate offre 5.000 euro in denaro per creare il proprio progetto imprenditoriale: un fondo dunque per avviare una start up.
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C’è da chiedersi se, prima di avviare il contest, alla fondazione abbiano fatto davvero bene i conti: ad esempio, nell’ultimo rapporto sulle start up in Italia, al fine di sostenere il budget indispensabile per le diverse iniziative è stato persino istituito un “Fondo dei Fondi”, in cui far pervenire il maggior numero di finanziamenti privati, proprio in previsione della necessità di un capitale, non di certo esiguo, necessario alla partenza dei progetti.
Il contest Unemployee of the year si prefigge dunque di creare lavoro con investimento minimo, ma anche qualora si riuscisse nell’intento, l’incognita è se, senza ulteriori finanziamenti per il progetto, la neo impresa potrà o meno andare avanti e mantenere quindi stabile il lavoro creato.
Forse la verità è che il tema delle disoccupazione sta diventando troppo “di moda” e che viene usato indistintamente per promuovere iniziative non sempre risolutive. Se realmente l’obiettivo del contest Benetton era quello di garantire un’occupazione, già un primo passo falso è stato quello di reclutare (e quindi anche stipendiare) attori modelli per la campagna pubblicitaria e non chiedere di fare da testimonial agli stessi partecipanti al contest.
Forse un’iniziativa più incisiva per combattere questa piaga e da prendere ad esempio potrebbe essere quella organizzata dal cast dello spettacolo Full Monty che ha aperto un contest pubblico per reclutare attori. Non si tratta di un’audizione aperta a professionisti dello spettacolo o a studenti della scuola di recitazione: il requisito per essere selezionati è quello di aver perso il lavoro nel comparto tecnico- industriale da almeno 24 mesi. Il vincitore finale avrà diritto ad contratto vero e proprio per entrare a far parte del cast e girare l’Italia in tournèe. I protagonisti dello spettacolo saranno Paolo Calabresi, Gianni Fantoni, Sergio Muniz, Paolo Ruffini, Jacopo Sarno, e Pietro Sermonti e l’ambientazione della storia sarà la zona periferica ed industriale di Torino. Un adattamento peculiare nel nostro paese forse non scelto a caso a giudicare dalle cronache sconfortanti che giungono da quest’angolo del Piemonte in questi giorni. Per sostenere l’iter di selezione dovrete sottoporvi ad un colloquio attitudinale, una prova d’improvvisazione e infine verificare le vostre attitudini al canto e alla danza.
Se siete interessati a partecipare questo è il sito internet dello spettacolo e per informazioni dettagliate questi sono i contatti:
Tel: 06.39745568
Secondo i dati pubblicati da Nielsen, il mercato pubblicitario in Italia si è chiuso nel primo semestre del 2012 con un calo del 9,7% rispetto all’anno precedente. Purtroppo la contrazione economica si ripercuote anche nel mondo della pubblicità che sembra non farcela di fronte ad un calo dei consumi e, di conseguenza, di eventuali consumatori.
Tra i canali più in crisi della raccolta pubblicitaria, la stampa quotidiana e i periodici sono tra i più colpiti in negativo registrando rispettivamente un calo del 13% e del 14%, un vero e proprio crollo di inserzionisti nella carta stampata.
Anche la Tv arretra vistosamente con un meno 9% rispetto all’anno precedente. Alla televisione in realtà poteva andare peggio, gli europei di calcio hanno fatto si che la raccolta per questo canale non crollasse definitivamente, mentre la radio conferma il suo trend negativo fermandosi ad un meno 5% , l’andamento verso il basso è registrato anche da parte di canali come Cinema, Outdoor, OOH e Transit. In costante crescita con un più 11% rimane incontrastata la comunicazione attraverso la rete.
A questo calo complessivo si registra soprattutto un ridimensionamento dei settori merceologici che investono di meno in questi canali: l’unico settore a resistere, secondo i dati, è il comparto dedicato al Tempo Libero che incrementa i suoi investimenti del 24%, e il Turismo con quasi l’8% in più, mentre telecomunicazioni, settore automobilistico e alimentari subiscono la crisi e investono meno in promozione.
Insomma il panorama degli investimenti pubblicitari è critico soprattutto nei settori considerati “tradizionali”. Il 2011 si era chiuso non solo in Italia ma anche nel resto dell’Europa con un calo generalizzato rispetto ad altri paesi extraeuropei come per esempio l’America Latina che registra un incremento dell’investimento pubblicitario di oltre 11%.
La crisi economica generalizzata in Italia e nel resto d’Europa si ripercuote su questo mercato e fa sì che le imprese si orientino verso altri canali più innovativi, meno costosi e soprattutto performanti che portano a risultati in termini di ROI più sicuri, e più certi in merito a centramento del target e numero di contatti raggiunti, ma non solo.
Internet, infatti, si piazza al primo posto come canale su cui le imprese investono in pubblicità ma non di certo solo per colpa della crisi economica. Il web è ad oggi non solo il canale più innovativo, ma potenzialmente in grado di offrire il più esteso bacino di consumatori. Perché ad avere in casa un pc, ormai, sono due terzi degli italiani e ad accedervi anche da altri device come tv, tablet, smartphone sono oltre il 66% .
Insomma, il bacino di consumatori sembra essersi spostato, verso il web che offre linfa al mercato pubblicitario poiché le imprese investono in un canale innovativo e fruibile dappertutto che ben si coniuga con obbiettivi di marketing e precisione nella valutazione dei risultati raggiunti . Consentendo oltre a ciò, una penetrazione del target più precisa: di fatto i potenziali consumatori che navigano su internet sono osservati e studiati nelle loro tendenze di scelta e di acquisto.
Non solo, le imprese hanno privilegiato il web e soprattutto i canali 2.0 avvicinandosi così sempre di più al consumatore, intercettando più da vicino i suoi bisogni e realizzando di contro un prodotto che sarà di sicuro interesse perché tagliato sulle sue esigenze.
Le previsioni di chiusura per il 2012 non sono rosee, infatti il mercato pubblicitario secondo le stime di Nielsen chiuderà con un calo complessivo negli investimenti del -5,7%. Per il 2013 è previsto un timido rialzo che si posiziona al 2.9%
In tutto questo panorama, non abbiamo fatto i conti con il mistero di Google che secondo le indiscrezioni, sarebbe pronto ad entrare nel mercato pubblicitario italiano nel settore televisivo; girano voci che sia pronto, addirittura, ad acquistare La7. Questo misterioso “benefattore” che di misterioso ha soprattutto i dati in relazione alla raccolta pubblicitaria che esercita nel territorio italiano, infatti né Nielsen né Audiweb lo monitorano l’andamento nei risultati dei trend non vengono presi in considerazione canali Google e Youtube che insieme, secondo i centri media stimano di possedere più del 50% del mercato digitale. Inoltre la polemica sul colosso americano non tende a placarsi in merito al fatturato e al pagamento delle tasse che avviene non Italia, ma in paradisi fiscali come l’Irlanda e tutto a di scapito dell’economia del nostro paese.
Il piano segreto di Google si prefigge insomma di conquistare il 20% del mercato pubblicitario italiano entro il 2015 superando Rai e raggiungendo Mediaset.
Intanto per quest’anno dovremmo accontentarci di un calo generale degli investimenti in questo settore e sperare in una ripresa nel 2013, stimata al 2,9%, mentre il mistero di Google si infittisce: segnerà le sorti del mercato pubblicitario Italiano? E’ il caso di dire che staremo a guardare…
Chi di voi conosce la serie televisiva Lost? Anche se non l’avete vista (vi siete persi un pezzo della storia delle serie televisive, sappiatelo) sicuramente ne avrete sentito parlare: un aereo che cade, mille vicende folli che si susseguono, un pizzico di fantascienza, mille domande a cui seguono pochissime risposte ed un finale tutto aperto a mille interpretazioni.
Sulla falsa riga di quello che è stato uno dei prodotti televisivi americani più commentato e discusso della storia recente, il web ha sfornato una chicca niente male…e tutta italiana.
Si tratta di “Lost in Google” spassosa web serie interattiva firmata da The Jackal, un gruppo di videomaker indipendente di Napoli che si è voluto mettere alla prova con una parodia d’accezione.
La vicenda parte dall’episodio pilota, la puntata zero che dà origine alla storia e che vede un ignaro Simone Ruzzo cercare la parola “google” sul motore di ricerca omonimo. Impazzito per questa alquanto paradossale ricerca, il sistema produce un immenso crash che risucchia il protagonista all’interno della rete senza possibilità di ritorno.
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Come inizio non è niente male, ma la vera novità sta nell’aspetto interattivo che coinvolge attivamente gli utenti e i fan dei Jackal (che sono davvero molti) nella prosecuzione della storia. Le varie puntate successive, infatti, prendono spunto dai commenti, dai suggerimenti, critiche e idee che gli spettatori scrivono di volta in volta e che i registi decidono poi di utilizzare e di coniugare come meglio credono. Il coinvolgimento è quindi totale e la storia completamente in divenire.
Riuscirà il nostro eroe a ritornare sulla Terra? E cosa si celerà nell’universo segreto della big G?
Avete qualche idea? Non vi resta che connettervi sul sito http://lostingoogle.fanpage.it/e dire la vostra. Se lo spunto è originale, vedrete il vostro nome tra i credit. Provare per credere.
Il teatro in prima serata ha vinto: a confermarlo sono i dati auditel che indicano una netta supremazia dello spettacolo teatrale “Sabato, Domenica e Lunedì” andato in onda nella serata del 1 maggio su Rai uno e che ha superato il 20% di share. Si tratta di un risultato non trascurabile che deve tenere conto di una giornata festiva, in cui le alternative di certo non mancavano.
La commedia di De Filippo, portata in scena davanti alle telecamere da Massimo Ranieri e Monica Guerritore ha fatto breccia nel cuore dei nostalgici della televisione dei primordi, quando la scatola alimentata da un tubo catodico aveva come obiettivo la divulgazione didattico- pedagogica e l’intento di aumentare gli ascolti attraverso programmi d’intrattenimento di scarsa qualità era ancora lontano e sconosciuto a questo palinsesto.
Il tele teatro nasce proprio con l’avvento nei primi anni cinquanta della televisione in Italia, ripercorrendo un’esperienza già maturata nella programmazione francese. All’inizio si tratta solo di riprendere con le telecamere gli spettacoli portati in scena dal vivo e di riportarne le immagini dal palcoscenico al piccolo schermo. Successivamente l’evoluzione delle potenzialità della scatola catodica portarono a rendere autonoma la realizzazione degli spettacoli teatrali per il pubblico televisivo: da una semplice ripresa del palcoscenico si passò ad un vero e proprio adattamento per il piccolo schermo. Il testo teatrale viene inscenato non più nel palcoscenico bensì negli studi televisivi, all’interno dei quali vengono ricostruite scenografie e dove prendono vita i diversi atti.
In un paese come l’Italia del dopoguerra in cui non tutti avevano l’opportunità di frequentare i banchi di scuola e il tasso di alfabetizzazione era piuttosto basso, la televisione, selezionando accuratamente i contenuti dei programmi e divulgando in particolar modo gli spettacoli drammaturgici, adempieva al suo compito didattico mantenendo allo stesso tempo un palinsesto di qualità. La selezione e la raccolta dei programmi da mandare in onda si è rivelata ben presto un’attività superflua tanto che oggi la televisione ha perso questo ruolo didattico, diventando invece nel tempo una “cattiva maestra”.
Il risultato degli ascolti della rappresentazione di De Filippo portata in scena l’altra sera è tuttavia indicativo di una inversione di tendenza degli ultimi anni. Il ciclo delle commedie dedicato ad Eduardo in onda sulla Rai era iniziato il 30 novembre 2010 con “Filumena Marturano” a cui sono seguiti “Napoli milionaria” e “Questi fantasmi”. Proprio da Eduardo era iniziata la stagione delle proiezioni del teatro nel piccolo schermo con il ciclo “Teatro in diretta” (1955-1956) e forse non è un caso che dopo 36 anni di assenza dagli schermi televisivi, l’esperimento è stato portato avanti, partendo proprio dal celebre drammaturgo napoletano e dalle sue commedie in cui la città di Napoli è la protagonista assoluta.
Il risultato ottenuto dimostra infatti una necessità avvertita da parte del grande pubblico di riscoprire una programmazione di qualità e di un desiderio diffuso di poter assistere gratuitamente a questi spettacoli. Una delle ragioni a cui ricondurre questo successo potrebbe essere il costo troppo oneroso degli abbonamenti e degli spettacoli teatrali, non sempre accessibili a tutti, in particolar modo ai giovani (le riduzioni infatti sono riservate solo agli studenti e non sono distribuite in base all’età anagrafica, pertanto una volta terminati gli studi non è più possibile usufruirne).
Nonostante questa nota positiva non bisogna sottovalutare che l’emozione di assistere ad uno spettacolo dal vivo, dove il pathos e l’interpretazione degli attori riescono a coinvolgere e trasportare maggiormente lo spettatore all’interno delle vicende raccontate sul palco, difficilmente potrà essere sostituita dal format del teatro televisivo.
Dopo questo successo di ascolti forse è lecito sperare che la televisione ritrovi nuovamente il suo ruolo di veicolo e mezzo di divulgazione della cultura a basso costo, cercando di far breccia in quanti oggi non possono permettersi i costi onerosi delle sale teatrali. Tale riscontro di pubblico per ora non sembra essere passato inosservato e l’attore Massimo Ranieri ha confermato l’intenzione di proseguire questo progetto portando in onda un ciclo di rappresentazioni di Luigi Pirandello. Che sia un ritorno al ruolo della televisione dei primordi e alla diffusione della cultura per tutte le tasche?
I media, è risaputo, possono condizionare notevolmente la nostra percezione dei fatti e, in generale della realtà. È partendo da questo lapalissiano assunto che MInorities STERotypes on MEDIA, in collaborazione con il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale dell’Università la Sapienza di Roma, il Centro d’ascolto dell’Informazione Radiotelevisiva e il supporto di Open Society Foundation, ha deciso di coordinare una ricerca volta a stabilire quale fosse la rappresentazione data dai mezzi d’informazione sulle minoranze sociali. Per minoranze sociali vengono intesi gli immigrati, i gruppi con diversi orientamenti sessuali e alcune figure poste ai margini della società come tossicodipendenti, detenuti ecc…
Il monitoraggio effettuato, che ha coperto un lasso di tempo di 11 mesi, da luglio 2010 a giugno 2011, è stato condotto 24 ore su 24, 7 giorni su 7 su tutti i notiziari e le trasmissioni di attualità e approfondimento in onda in tv e in radio per un totale di 1940 prodotti (304 televisivi e 1636 radiofonici).
Il risultato del progetto vede gli immigrati aggiudicarsi il primato di maggiore presenza sui media (58,6% dei casi), seguiti, anche se a lunga distanza, da gay, lesbiche e transessuali che invece catalizzano l’attenzione dei media per il 13,8% dei casi selezionati. Più in basso troviamo invece le minoranze religiose (13,2%), quelle etno-culturali e linguistiche (11,3%) mentre fanalino di coda, con solo il 2,6% dei casi, i tossicodipendenti e i detenuti.
Alle indicazioni sulla quantità dei casi analizzati e dei loro soggetti segue nel progetto un’attenta analisi della qualità dell’informazione data.
Le minoranze sono infatti, nella stragrande maggioranza dei casi, accomunati ad eventi di cronaca nera o a vicende giudiziarie: questo comporta inevitabilmente dei parallelismi, non sempre appropriati, che gettano ombre sui soggetti interessati istigando la discriminazione anziché la coesione.
La strategia della paura nell’informazione giornalistica ( ma anche politica) è da anni infatti usata, spesso in maniera strumentale, per attecchire sul telespettatore, catturare la sua attenzione, di fatto impaurendolo.
“Se il presupposto è falso, anche la percezione che viene propagandata è falsa”, dichiara l’europarlamentare Emma Bonino che ha partecipato alla tavola rotonda di presentazione della ricerca assieme a Mario Morcellini, Direttore del Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale e Gianni Betto, Direttore del centro d’ascolto dell’Informazione Radiotelevisiva.
Il vero obiettivo della ricerca, viene precisato, non è tanto quello di esibire uno studio della questione, bensì quello di fornire un primo valido strumento che permetta alle minoranze di esprimersi, di partecipare attivamente alla vita cittadina diventando così da oggetto dell’informazione a soggetto mediatico.
Bocciate dunque sia radio che tv? Non proprio. La ricerca mette in luce come i fatti sociali vengano raccontati con maggior rigore nei programmi radiofonici, mezzo più adeguato e attento nella trattazione delle tematiche in oggetto.
“Il problema è che oggi il termine minoranza è sempre visto in un’ottica negativa – spiega Luigi Manconi, presidente dell’Associazione “A buon diritto” – , percezione causata dalla dittatura delle maggioranze. E dalla cattiva informazione, che rende le persone più cattive.”
Dall’ultimo rapporto ISTAT sugli immigrati in Italia (2010), i cittadini stranieri residenti in Italia sono 4.235.059, circa il 7% della popolazione totale. Non sono stimabili con altrettanta precisione gli omosessuali o ancora coloro che professano altre religioni ma tentare di razionalizzare le informazioni assorbite dai media, uscendo dal luogo comune del diverso=nemico, potrebbe aiutarci a vivere in un mondo più aperto e democratico.
Nessuna tensione agiografica si riscontra nelle serie tv internazionali prodotte e messe in onda nel 2011 su grandi dinastie come quella dei Borgia e dei Kennedy. Si tratta di tre opere di lunga serialità The Borgias, Borgia e The Kennedys differenti per temi, stili e punti vista, nate per intrattenere un pubblico internazionale, con casting di altissimo livello e showrunner pluripremiati di grande fama. Partiamo dal Conclave del 1492 che vede protagonista Rodrigo Borgia, al secolo Papa Alessandro VI, intorno alle cui vicende ruotano entrambe le serie dedicate alla famiglia catalana che con i Colonna, gli Orsini e i Farnese si spartisce l’Italia del ‘500. Le due serie, prodotte rispettivamente in Canada (in coproduzione con Irlanda e Ungheria) per il canale Showtime e in Francia e Germania per Canal Plus/ZDF, sembrano essere nate contemporaneamente nelle menti dei rispettivi creatori (Neil Jordan per l’americana The Borgias e Tom Fontana per l’europea Borgia) senza essere a conoscenza l’una dell’esistenza dell’atra e portando all’attenzione del pubblico la storia della grande dinastia. Non senza polemiche sulle ricostruzioni storiche, tra gli europei che garantiscono un alto livello di fedeltà ai testi latini dell’epoca (i primi due episodi della serie sono già andati in onda in Italia su Sky Cinema) e i nord americani che si proclamano incomparabilmente superiori (vedi il blog sul mini sito della serie) almeno nelle ricostruzioni scenografiche e i costumi e che, a quanto pare, fanno un massiccio uso di sesso e violenza. L’epica è tornata di moda o quantomeno il genere biopic è ufficialmente riconosciuto come traino anche per i grandi network internazionali tra le cui recenti produzioni ricordiamo Camelot e Spartacus della Starz, Game of Thrones di HBO o The Tudors di Showtime. Nel 2010 anche Sky Italia aveva annunciato l’avvio di una grande co-produzione con BBC e Kudos Film&TV sulla famiglia De’ Medici di cui ancora ad oggi sembra non esserci traccia, il cui avvio produttivo è probabilmente stato posticipato a causa dell’uscita delle due versioni televisive sui Borgia. Ma avvicinandoci a storie dei giorni nostri vediamo spuntare nei palinsesti di A&E Television Netwotk, proprietario del canale History Channel, la serie in otto puntate dedicata alla famiglia Kennedy che però una volta completata e poco prima della messa in onda negli Stati Uniti (prevista per la primavera 2011) decide di ritirare The Kennedys perché, nonostante l’altissimo livello produttive e interpretativo, non rappresenta il brand di History. Si scatenano così le voci di una controversia legale tra AETN e i legali degli eredi Kennedy i quali già dopo aver letto una delle prime stesure della sceneggiatura l’avevano definita vendicativa e maligna e la serie è così costretta ad andare a riempire gli slot della tv via cavo ReelzChannel e in onda in Italia su History e a breve anche su La7. Ci domandiamo dunque quale sia la reale versione dei fatti e se sia possibile realizzare opere senza subire pressioni e influenze dalle parti coinvolte e se un giorno non troppo lontano sarà possibile accendere la tv e godersi una serie – senza censura – sulla famiglia Murdoch. Ai posteri l’ardua sentenza.
Abiti, location, menu, e tanto altro ancora sono le preoccupazioni che sempre più sposi affidano al wedding planner, professione dalle origini anglosassoni che si sta affermando anche in Italia, dove il nome di Enzo Miccio è garanzia di matrimoni da sogno. A lui abbiamo dunque chiesto di parlarci di questa nuova attività, che sembra riscuotere molto successo.
Può raccontarci brevemente la sua storia professionale? Come è diventato wedding planner?
La mia attività non è del tutto casuale. Fin da ragazzino amavo organizzare feste e ricevere amici in casa. Questa passione mi è stata trasmessa sicuramente dai genitori: la mia è stata sempre una famiglia molto ‘festaiola’. Poi ho organizzato il matrimonio di una mia cara amica e da lì è partito quasi per gioco quella che è diventata la mia professione. Ho dovuto ideare molte cose, proprio perché in passato ancora non esistevano grandi professionisti in questo campo, ma ci si poteva ispirare solo ai modelli americani e anglosassoni. Ho fatto mie molte idee e ho creato uno stile che potesse essere unico per un giorno magico come quello del matrimonio, divenendo un riferimento.
Poi nel 2005 è arrivata la televisione che ha contribuito alla diffusione di questa professione.
Chi sono i suoi clienti tipo?
I clienti sono di diverso genere. Solitamente si tratta di professionisti che hanno poco tempo e vogliono un matrimonio ricercato. In generale si tratta comunque di persone che danno molta importanza all’evento e quindi investono molto in quel giorno. Hanno dunque bisogno di avere alle spalle un consulente che li possa seguire in ogni passo. Ogni persona che si rivolge a me ha comunque aspettative molto importanti e si rivela perciò un cliente molto esigente.
Quale è stata la richiesta più bizzarra che Le hanno rivolto?
Non ho ricevuto richieste bizzarre, poiché i miei matrimoni sono tutti dai toni sobri e comunque eleganti. Si rimane nello stile classico, soprattutto nel rispetto di quanto si sta celebrando. Le cose bizzarre non rientrano proprio nei miei canoni.
In una situazione non proprio rosea per l’economia italiana, come spiega il successo di questa nuova professione? E come quella del mercato che ruota attorno a questo evento?
Diciamo che l’economia legata al matrimonio è quella che ha subito e che tuttora subisce meno la crisi. Nonostante la situazione, la gente si sposa ugualmente, anche se probabilmente facendo più attenzione al portafoglio. Per tante persone il matrimonio è l’evento della vita, quello con la ‘e’ maiuscola, che si attende da anni e non si ha nessuna intenzione di rinunciarvi. Si investe non solo dal punto di vista economico, ma anche emozionale, perciò la crisi può intaccare solo in parte questo settore.
Intorno al mondo del matrimonio esiste poi un vasto universo che dà lavoro a tantissime persone, in diversi ambiti. A questi si è aggiunta poi la professione del wedding planner, consacrato grazie anche alla diffusione mediatica, perché prima di allora questa figura era alquanto poco conosciuta o c’era comunque una certa diffidenza nei suoi confronti. Grazie al programma televisivo è stato chiarito il ruolo svolto dal consulente di matrimoni e in cosa consiste il suo lavoro.
La floristica, la moda, l’artigianato, l’enogastronomia, il galateo, sono solo alcuni dei settori con cui un wedding planner ha a che fare. Che consigli darebbe a chi intende intraprendere tale carriera? C’è un percorso formativo che può indicare?
Ci sono tantissimi corsi nati negli ultimi anni. Io stesso ho intrapreso un programma di approfondimento degli argomenti con il mio corso full immersion di una settimana, ma come il mio ce ne sono molti altri in tutta Italia. C’è da dire però che non si può pensare dopo appena un settimana di essere un wedding planner diplomato: l’esperienza è fondamentale. Alla base deve esserci una buona preparazione personale, che non viene tanto dai banchi di scuola, ma da un’educazione, un background, dal proprio gusto, che non si apprende da nessuna parte. Le doti che deve avere un wedding planner sono molte, tra cui la creatività, che non si può certo imparare: il creativo nasce creativo; si possono affinare i gusti, si può apprendere come abbinare i colori, ma il talento è qualcosa di innato che hai o non hai. Non voglio dire che la formazione non serva, anzi, è importantissima anche per seguire la propria predisposizione.
L’organizzatore di eventi e il wedding planner sono professioni simili. Può dirci in cosa le due figure si differenziano?
C’è un po’ di confusione qui in Italia tra l’organizzatore dell’evento e il designer dell’evento: il primo pianifica, coordina e armonizza tutti i fornitori, mentre il secondo si occupa della creatività e dell’aspetto estetico del matrimonio. In America la distinzione è netta, ma può succedere che le due figure convivano nella stessa persona, come nel mio caso. Io ad esempio nasco come wedding design, sebbene mi occupi anche dell’organizzazione e della logistica insieme alla scenografia, all’allestimento, al table design, alla grafica e a molto altro ancora.
Alcuni Comuni italiani hanno messo a disposizioni luoghi storici e di interesse culturale per celebrare matrimoni. Pensiamo a Verona con il balcone di Giulietta o a Bologna che ha recentemente aperto per le nozze le sale dei musei civici, contribuendo a rinvigorire le casse comunali. Ha mai organizzato un matrimonio all’interno di sale di questo tipo? Tale scelta complica il lavoro del wedding planner o lo facilita? Crede che tali iniziative possano riscontrare esiti positivi?
Ho già organizzato matrimonio in questo tipo di location, come musei, teatri d’opera e ville di interesse storico. Ci sono molti divieti e restrizioni come i permessi, la sicurezza, gli orari, non si può forare, incollare, inchiodare. Non è possibile in tanti di questi posti utilizzare ad esempio la fiamma, perciò l’utilizzo delle candele non è consentito, limitando l’effetto scenico per la sera, come anche per il catering, non è possibile ricorrere ai fuochi per la cucina. La soddisfazione tuttavia è certamente molta: organizzare un matrimonio nel ridotto di un teatro, tra sale storiche e opere d’arte è sicuramente altamente gratificante.
Ho appena organizzato un grande matrimonio in un palazzo storico di Bologna e questa serata ha contribuito certamente al rilancio dell’edificio. Queste occasioni possono ricordare agli italiani che esiste un patrimonio storico e culturale, ai molti sconosciuto: molti degli invitati bolognesi al matrimonio non conoscevano ad esempio questo palazzo storico della loro città.
I fondi ricavati dalla messa a disposizioni di tali location potrebbero inoltre essere impiegati per il ripristino e il restauro di questi beni.
Lei è attualmente in tv sul canale Real Time, di cui è diventato forse il personaggio di punta. Come è giunto in tv? Quali potrebbero essere gli sviluppi di questo percorso mediatico?
Sono arrivato in televisione per puro caso. Non nasco certo come personaggio televisivo, sono un professionista che fa matrimoni. Quando Magnolia sei anni fa stava cercando nuovi protagonisti per i suoi format, ha trovato me. A quel punto il professionista è andato in video; il successo del programma televisivo è dato proprio da questo: il pubblico capisce che si tratta di un vero esperto che tramite programmi televisivi come “Wedding Planner” o “Ma come ti vesti?” diffonde un messaggio, anche se in chiave simpatica o ironica, per cui il lavoro dell’organizzare matrimoni è un’attività di grande responsabilità e fatica, oltre che di precisione, molto impegnativa e stressante direi. Si tratta insomma di un professionista che ha la possibilità di mandare in onda il suo lavoro.
Per il momento ho un contratto in esclusiva con la Discovery.
Ha recentemente prestato il suo volto alla campagna pubblicitaria della lista nozze Unieuro. Come nasce questa collaborazione? Ritiene che il suo nome possa diventare un brand per il settore?
Diciamo che nel mio settore sono abbastanza riconosciuto e riconoscibile, quindi anche la collaborazione con Unieuro non è stata del tutto casuale: a loro è piaciuto il mio stile, la mia freschezza, la mia ironia. Ero inizialmente scettico quando mi hanno contattato, poiché si tratta di un grande magazzino con uno stile diverso dal mio, mentre io cerco di realizzare dei matrimoni “tagliati su misura”, ma alla fine la nostra unione è stata un grande successo. Una collaborazione con un grande store come Unieuro può infatti aprire le porte anche a tante persone che mi seguono e vogliono, perché no, a casa loro, un prodotto firmato Enzo Miccio per Unieuro. E’ stata una scelta simpatica e carina, sia nella campagna televisiva che nella grafica, in cui comunque è stato mantenuto il mio stile.
Come definirebbe in poche parole il suo stile?
Io sono un d’antan, non sono una persona alla moda, benché mi occupi di moda. Sono molto legato alla tradizione, un po’ d’altri tempi, con uno stile ricco di contrasti. Se parliamo di moda, non seguo mai i dettagli delle passerelle, mi piace sempre fare miei i capi, come può ben vedere anche in televisione. Ho il mio stile che è assolutamente riconoscibile e personale.
Per quel che riguarda il resto, m’ispiro al calore di casa mia, da ciò che mi piace, dai miei viaggi, dalle mie grandi passioni come il teatro, l’arte, la lettura. Il mio stile è la ‘summa’ di un percorso di vita che dura da quarant’anni: posso ormai dire di sapere finalmente cosa mi piace.
Gli “incumbent” muovono sempre piccoli passi misurati quando si avventurano nell’inesplorato mondo dell’innovazione: non stupisce quindi l’accordo tra RAI e Sony per trasformare Internet in un gigantesco mangianastri per la TV.
Se il 3D non rappresenta che un adeguamento alla percezione naturale – come il colore nelle pellicole – l’integrazione con la rete è, al momento, il più promettente catalizzatore di innovazione per questo media. Tuttavia i semi di questa rivoluzione vanno probabilmente ricercati in sconosciute start-up, che sapranno cogliere l’essenza di questa opportunità.
Va comunque identificato un segnale importante in questo progetto apparentemente banale: riversare la propria memoria su un media ne sancisce l’affermazione storica. Dal papiro ai blu-ray, ogni trascrizione ha definito un’epoca aggiungendo una caratteristica unica che ha ampliato la portata dell’informazione veicolata.
Internet, dai molti considerata come lo strumento dell’immediatezza, dell’ “here & now”, è anche e soprattutto un formidabile archivio della memoria. Con i progetti di digitalizzazione del patrimonio culturale mondiale, molti guidati da Google, la rete si sta trasformando nel depositario dell’intero scibile umano, offrendo una democratizzazione della cultura paragonabile unicamente all’invenzione della stampa.
Tutto questo però ha un prezzo, ossia la progressiva scomparsa dell’oblio nel quale far affondare le opere infelici che permetteva di lasciare di un’epoca solo il meglio, facendolo emergere dagli acquitrini della mediocrità.
Gabriele Morano è esperto in new media e mobile entertainment
Si sta completando il passaggio di tutta Italia al digitale terrestre (le ultime regioni interessate saranno, nel 2012, Calabria e Sicilia) ed è già cambiato lo scenario dei palinsesti e l’offerta mediatica della cara, vecchia tv. E’ infatti aumentato di cinque volte il numero dei canali gratuiti visibili agli spettatori, con un conseguente spezzettamento dell’audience che frena i picchi di share delle principali emittenti nazionali. Gli ascolti del gruppo Discovery con Real Time, quelli del gruppo Disney con i bouquet di canali dedicati ai più piccoli e Fox con le serie televisive e i programmi di intrattenimento, stanno infatti raggiungendo quote superiori all’1%, cifre che fanno ipotizzare la nascita di un nuovo polo audiovisivo dopo la sempiterna dominazione Rai-Mediaset.
Un duro colpo che andrebbe ad infliggere un quadro già di per sé critico dopo l’annuncio da parte del Ministro per lo Sviluppo Economico con delega alle Comunicazioni, Paolo Romani, del bando di gara per l’assegnazione delle frequenze del digitale terrestre ancora libere che sarà finalmente spedito a Bruxelles dopo mesi di rimandi.
Ritardi dovuti soprattutto alla cosiddetta questione “Sky”, che ha ottenuto dall’Unione Europea il “nulla osta” per la partecipazione alla gara, con la sola condizione di non poter offrire canali a pagamento per i primi cinque anni dall’assegnazione delle frequenze.
In gara ci sono cinque nuovi multiplex (dispositivi in grado cioè di ospitare sulla stessa frequenza fino a sei, sette canali diversi) divisi in due lotti: uno riservato a chi già possiede multiplex (Rai, Mediaset e Telecom), l’altro riservato alle nuove entranti (Sky, PrimaTV, Gruppo Espresso con ReteA e Rete Capri).
E se Mediaset, Telecom Italia e PrimaTV si scagliano contro il colosso Murdoch, l’Associazione delle tv locali si avventa contro Mediaset per intraprendere una vera e propria battaglia legale affinché si assicuri la sopravvivenza delle realtà audiovisive più piccole.
Le piccole emittenti regionali, avendo difficoltà a riempire tutta la banda, hanno infatti deciso di affittare a prezzi competitivi parte di queste frequenze a emittenti con copertura nazionale ( è questo il caso del canale per ragazzi K2, ad esempio), riaprendo il mercato e assicurando il totale sfruttamento del multiplex. Questa nuova strategia di business non è però stata accolta con plauso dalle grandi emittenti nazionali: con la legge di Stabilità 2011 (legge 13 dicembre 2010 n 220), infatti, si conferisce al Ministero dello Sviluppo Economico (quindi al Governo, che vede come presidente il proprietario di Mediaset) “il potere assoluto di definire obblighi e regole” in materia. E una regola è già arrivata con l’ordine per le tv locali di dedicarsi “esclusivamente alla promozione delle culture regionali e locali”, azione impossibile da compiere considerate le possibilità economiche delle piccole emittenti che già faticano a riempire i palinsesti con repliche e televendite visti gli elevati costi di produzione.
Ma se le frequenze non vengono sfruttate, lo Stato ha il dovere di chiederle indietro, rimettendole di nuovo in gara.
Maurizio Giunco, presidente dell’Associazione tv locali, annuncia che la protesta contro questa decisione sarà imponente e prevede la messa in onda di numerosi spot televisivi contro coloro che cercano di uccidere il mercato, eliminando tutti i possibili competitori.
Gina Nieri, consigliere d’amministrazione Mediaset sostiene che “il regolamento non esiste ancora e che, sui suoi contenuti, Mediaset non c’entra”.
Fatto sta che, come qualcuno ha già notato, le tv locali stanno ora facendo quello che Fininvest fece nei primi anni ’80 quando, con cassette e registrazioni, riuscì a scalfire il monopolio Rai. Perché, come affermava Machiavelli, “tutti li tempi tornano, li uomini sono sempre li medesimi”…
Dalla televisione alla retevisione
L’idea che Internet@TV, il nuovo saggio di Luca Tomassini, si propone di soddisfare è quella di affrontare gli aspetti dell’industria televisiva degli ultimi vent’anni.
L’autore apre il proprio libro con una citazione, risalente a trent’anni fa, di Ennio Flaiano il quale prevedeva che in futuro, quindi il nostro presente, non sarebbero state la famiglia e la scuola a formare gli italiani, ma la televisione. Ad oggi però tale mezzo di comunicazione risulta essere un “medium stanco” che necessita di vitalità per contribuire alla formazione e all’arricchimento dell’essere umano.
L’autore pone l’attenzione sulle nuove tecnologie digitali e sulla convergenza fra TV ed Internet, che, per coloro che si sono occupati da sempre di televisione, ha provocato una situazione di grande incertezza portandoli ad interrogarsi sul proprio futuro. Il panorama dell’industria delle comunicazioni modificandosi nel tempo si è però anche arricchito di nuove occasioni e contaminazioni tra i diversi media; infatti, le nuove modalità di distribuzione dei contenuti, broadcasting, broadband e web casting, non sono altro che un’unica evoluzione che si sviluppa su binari paralleli.
Tomassini procede così nell’analisi della “mediamorfosi” della televisione; cioè di trasformazioni somiglianti a vere e proprie metamorfosi, definite così dallo studioso statunitense Roger Fidler nel 1994.
Nel tempo si è passati dalla televisione unica, la cui visione rappresentava un’esperienza simile a quella che si vive partecipando ad un evento e che dedicava ad ogni serata un genere specifico, alla rivoluzione dei contenuti nei primi anni Novanta, considerati dagli studiosi “l’età dell’abbondanza”.
Da quel momento è bastato poco ad arrivare ai contenuti digitali, alle piattaforme alternative e ai modelli a pagamento. Con l’inizio del nuovo millennio inoltre, si è andato perdendo il confine tra televisione e web non riuscendo più a distinguere se fosse stata la TV ad entrare nel web o se fosse Internet ad aver pervaso la realtà televisiva. Alla luce dei nuovi mezzi di comunicazione sono nati quindi nuovo modelli di business: la visione free, i contenuti ad-supported fino ad arrivare ai video online e alla diffusione della pubblicità sulle pagine web.
L’autore prosegue la trattazione ampliando l’analisi al mercato straniero: il Regno Unito ha lanciato una nuova iniziativa, il Project Canvas, una joint venture composta da BBC, ITV, Channel 4, Five, Bt, Talk Talk e Arqiva che mira a definire standard tecnici condivisi per portare contenuti e servizi Internet direttamente sul televisore tramite ricevitori ibridi. La Francia invece ha creato una legge, la HADOPI, che prevede la sospensione della connessione a Internet per gli utenti che utilizzano ripetutamente servizi Peer-to-Peer per il download illegale di contenuti protetti da copyright.
A seguito di tali casi Tommasini immagina, infine, la TV del futuro come ibridazione tra broadcast e broadband. Quest’ultima frontiera prevederà diverse modalità di fruizione a seconda che si abbia a che fare con un terminale, un telefonino, un televisore o una console. Per riuscire a comprendere ciò che accadrà in futuro basta quindi “restare connessi”.
Internet@TV
Dalla televisione alla rete visione
Luca Tomassini
Franco Angeli Editore € 15,00
ISBN: 9788856825428