Culture21 srl – Gruppo Monti&Taft Ltd
Partita IVA 03068171200 | Codice Fiscale/Numero iscrizione registro imprese di Roma 03068171200
CCIAA R.E.A. RM - 1367791 | Capitale sociale: €10.000 i.v.
FAIMARATHON nasce come passeggiata non competitiva, una “maratona culturale” a tappe che ha come obiettivo principale quello di far riscoprire agli italiani, attraverso itinerari interessanti e curiosi, quanti sorprendenti tesori si nascondano tra i luoghi della loro vita quotidiana.
Nel secondo anno dalla creazione dell’evento la Delegazione FAI di Bologna ha scelto di accompagnare i suoi concittadini in un percorso lungo i portici, riconfermati recentemente nella candidatura a patrimonio dell’umanità presso l’Unesco, per offrire una visione diversa e non scontata di beni che tutti i bolognesi sono forse ormai abituati a godere ma non più ad apprezzare e comprendere.
Claudia Tonelli Rossi, Capo della Delegazione FAI di Bologna tiene in particolar modo a sottolineare il carattere “internazionale” dell’evento di quest’anno: “E’ stata un’esperienza entusiasmante, sia per noi volontari FAI che per tutti coloro che hanno partecipato. Diverse centinaia di “maratoneti” hanno percorso i circa 6 km di portici proposti, unendo al piacere della passeggiata la possibilità di approfondire la conoscenza del bene forse più caratteristico della nostra città.” Ma anche l’esplorazione di un territorio nuovo: questo è stato dimostrato dalla “nutrita partecipazione di cittadini extracomunitari, che hanno effettuato il percorso accompagnati da volontari FAI che hanno illustrato loro le principali caratteristiche dei portici oggetto di visita. Crediamo sinceramente che la conoscenza del territorio in cui si vive e lavora possa accrescere il senso di appartenenza alla comunità”.
La novità del percorso della FAI Marathon di quest’anno è stato l’utilizzo della tecnologia digitale: durante la maratona i partecipanti potevano infatti “leggere” alcune tappe dell’ itinerario fra i portici di Bologna grazie ad un’applicazione per smartphone ed un codice QR (codice a barre bidimensionale, composto da moduli neri disposti all’interno di uno schema di forma quadrata) che applicato fisicamente ad ogni tappa reindirizzava sulla pagina web di “Porticus”, un sito interamente dedicato a tali strutture architettoniche. In questo modo si ricreava l’impressione che i monumenti “parlassero” a chi li visitava, passando loro accanto.
“L’idea di “far parlare i monumenti” ha delle solide radici” ci dice Francesco Ceccarelli, Docente di Storia dell’Architettura dell’Università di Bologna che ha creato il progetto “Porticus”: “basti pensare alla grande tradizione letteraria delle guide che hanno avuto un ruolo fondamentale nel raccontare a generazioni di viaggiatori le città italiane e le loro architetture”.
Oggi l’evoluzione degli strumenti informatici e la diffusione di Internet aprono le porte ad esperienze innovative davvero inimmaginabili fino a pochi anni fa.
“Quando ho cominciato a elaborare il progetto Porticus con i miei studenti, l’idea che ci guidava era quella di provare a mettere in piedi il nucleo sperimentale di un museo della città di nuova concezione, in cui il patrimonio coincide con i monumenti e dove ciò che davvero conta è saperli mettere in rete nel modo più efficace, semplice e interattivo. Alla base di questi ragionamenti c’è la convinzione che il vero museo della città non sia altro che la città stessa e che questa possa raccontarci la sua storia attraverso la sua struttura fisica e architettonica.”
Il progetto è stato lanciato durante l’evento FAI proprio per la specifica caratteristica di strumento in grado di contribuire alla diffusione della conoscenza del patrimonio architettonico storico di una città “la sua forza sta proprio nel perseguire esplicitamente l’obiettivo di diffondere il più possibile i risultati della ricerca a un pubblico molto vasto”; ecco perché il Dipartimento di Architettura dell’Università di Bologna è stato coinvolto dal Comune, assieme alla Fondazione Cineteca e ad altri partners istituzionali in un progetto di ricerca sui portici di Bologna che permetta di elaborare per il prossimo anno un solido dossier su questa peculiarità urbanistica, nell’intento di entrare a far parte della World Heritage list dell’UNESCO.
Ma quanto le nuove tecnologie sono realmente in grado di facilitare la fruizione dei beni artistici e culturali di una città? Il Professor Ceccarelli prevede per il prossimo futuro lo sviluppo di quello che va sotto il nome di “ecosistema digitale”: “una città interattiva, a patto che si riesca a favorire nel migliore dei modi lo sviluppo delle necessarie infrastrutture. Il che significa diffondere il più possibile la rete wi-fi, ma anche favorire l’installazione di strumenti oramai ampiamente usati in diversi contesti urbani e museali come i codici QR che abbiamo impiegato il giorno della FAI Marathon.”
I monumenti ci parlano quindi, basta saperli ascoltare.
Il 28 e 29 agosto si ripeterà a L’Aquila, come ogni anno, il rito della Perdonanza, indetto da Papa Clestino V per la remissione dei peccati: l’indulgenza verrà concessa a tutti coloro che attraverseranno la Porta Santa della Basilica di Santa Maria di Collemaggio.
Solo qualche giorno fa, tuttavia, il sindaco Massimo Cialente aveva annunciato ai cittadini che la splendida chiesa sarebbe rimasta chiusa fino al 2016 per motivi di sicurezza. In questi giorni di festa sarà straordinariamente possibile attraversare solamente la porta consacrata.
La città è costretta dunque a festeggiare la Perdonanza a metà, come del resto sta facendo ormai da quattro anni, dopo il drammatico sisma del 2009.
Il Ministero dei Beni e delle Attività culturali, lo scorso 6 agosto, ha diramato in un comunicato lo stato di avanzamento dei restauri che stanno interessando il centro storico della provincia.
Nella nota si legge: “A poco più di un anno dall’inizio dei primi lavori sono oggi più di sessanta gli aggregati che includono edifici vincolati, nei quali sono stati avviati i cantieri di restauro, su progetti autorizzati dalla Soprintendenza. Ai 37 cantieri già partiti, che procedono a ritmo spedito, si aggiungono quelli appena consegnati o avviati da poco – in particolare tra giugno e luglio, anche a seguito delle ultime approvazioni di contributi disposte dal Comune – per un totale di oltre sessanta cantieri già aperti, corrispondenti alla metà di tutti i progetti finora presentati. Lavori in corso da diversi mesi si incontrano lungo il Corso Vittorio Emanuele e Corso Federico II, dal Castello ai Quattro Cantoni e a S. Bernardino, nelle aree di via Garibaldi, S. Maria Paganica e S. Pietro Coppito, nella zona di piazza Prefettura e del Duomo, fino alla Villa Comunale e a Porta Napoli”.
Passeggiando tra le poche vie percorribili del centro storico si ha infatti l’impressione di trovarsi ancora in un grande cantiere, con gli splendidi palazzi puntellati da un fitto reticolo di impalcature.
Dei 129 progetti presentati, sono 101 quelli autorizzati dalla Soprintendenza, per un contributo pari a 500 milioni di euro. I cantieri avviati sono però 63, di cui 56 nel centro storico. In considerazione di tali dati si comprende come sia per ora in atto solo la metà di quanto promesso e atteso. Resta la speranza che l’attività di restauro non incontri intoppi e che proceda secondo quanto predisposto.
In questi giorni così particolari per L’Aquila, la città sembra vivere sentimenti contrastanti: da un lato c’è la ferita ancora aperta e indelebile di quanto accaduto il 6 aprile del 2009, dall’altro canto si sente forte un desiderio di rinascita e di ritorno alla spensieratezza di un tempo.
Va in questo senso la presentazione della candidatura a patrimonio immateriale UNESCO proprio della Perdonanza Celestiniana, i cui dossier sono stati inoltrati alla Conferenza internazionale lo scorso anno. Per la sua unicità, la consapevolezza del suo valore e l’identificazione della comunità in questa tradizione, ha spiegato Giovanni Puglisi, presidente della Commissione italiana dell’UNESCO, la Perdonanza entrerà a pieno titolo nell’ambita lista nel 2015.
Questo importante traguardo è di certo un segnale importante per gli aquilani, che dimostrano grande voglia di riscatto anche con la candidatura della città a Capitale europea della cultura 2019. Non sappiamo se riusciranno a centrare anche questo secondo ambizioso obiettivo, ma senza dubbio hanno colto l’importanza della cultura per riemergere.
L’Aquila sta tentando del resto di metabolizzare il dramma che ha vissuto, come dimostra anche il progetto “Il Mercato degli Spiriti”, parte del più ampio programma “I Cantieri dell’Immaginario” del MiBac. Le vetrine abbandonate del centro storico, dove purtroppo ancora dominano le crepe e le macerie, sono state utilizzate per mostrare opere d’arte contemporanea realizzate da creativi di provenienze diverse, tutte volte ad indurre gli spettatori a riflettere sul concetto di città, sulla sua importanza ed evoluzione, tanto architettonica, quanto sociale.
L’Associazione Fuoriscala, organizzatrice della rassegna, e il curatore Carlo Mangiolini, invitano perciò ad interrogarsi, a guardare il contesto circostante come un luogo di nuove possibilità, partendo dall’esorcizzare il dolore.
La devastazione di tanti luoghi cari e preziosi ha indotto a riscoprire l’importanza di un patrimonio identitario, attorno a cui ora ci si stringe con dignità per risorgere e tornare a sperare nel futuro.
San Pietroburgo, Russia, 21 giugno 2013, la Merkel chiede a Putin che vengano restituiti alla Germania gli oggetti d’arte sottratti dall’Armata Russa dai territori occupati al termine della Seconda Guerra Mondiale; richiesta che il leader russo respinge.
Come è noto, la vicenda ha inizio durante il viaggio della Merkel in Russia in occasione della apertura della mostra “L’Età del Bronzo in Europa, Europa senza confini” presso l’Hermitage. Ma il fatto non è isolato. Centinaia di opere d’arte, requisite dai soldati sovietici dalla Germania nello stesso periodo, costituiscono motivo di frizione tra i due governi.
Storicamente, il “bottino di guerra” rappresentava l’indennizzo dei conquistatori ai danni dei popoli vinti e veniva condotto in piena legalità attraverso i trattati di armistizio. Si parlava, a questo proposito, di “diritto di saccheggio”.
Oggi la situazione è diversa. Già nella Convenzione dell’Aja del 1899 sulle leggi e consuetudini di guerra erano presenti norme per la tutela del patrimonio culturale; ma è la Convenzione dell’Aja del 1907 ad introdurre, per la prima volta, il divieto di saccheggio. Queste due convenzioni vengono spesso citate quando si parla di consuetudini internazionali di restituzione, sebbene non contengano disposizioni in tal senso. Infatti, solo la convenzione dell’Aja del 1954 introduce l’obbligo di restituzione di beni sottratti durante il conflitto bellico, anche se non prevede la sua applicazione a fatti anteriori all’entrata in vigore (7 agosto 1956), risultando quindi inapplicabile ai “bottini di guerra” della Seconda Guerra Mondiale.
Essendo poco probabile la propensione della Russia ad una azione di restituzione volontaria dei beni, la Germania potrebbe invocare l’esistenza della norma consuetudinaria internazionale sulla restituzione, ma si scontrerebbe con la sua difficile applicazione. La soluzione più probabile, in sede diplomatica, potrebbe consistere, come è avvenuto in passato, nell’avvio di una trattativa tra i due Stati che porti alla conclusione di un accordo bilaterale di restituzione, a maggior ragione in un clima internazionale che propende sempre più, sotto l’egida dell’UNESCO, ad attuare politiche di cooperazione internazionale nel campo dei beni culturali.
Silvia Stabile è avvocato esperta in Diritto della Proprietà Intellettuale e Diritto dell’Arte, partner dello Studio Legale Negri-Clementi
Lo scorso 27 giugno si è conclusa a Phnom Penh, in Cambogia, la 37sima riunione UNESCO. In tal sede l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha aggiornato la lista del patrimonio mondiale dell’Umanità prendendo in esame le candidature di beni ambientali e culturali di ogni Paese.
L’Italia ha messo a segno altri tre riconoscimenti: si tratta del vulcano Etna, in Sicilia, delle Ville e Giardini medicei in Toscana, mentre l’Archivio LUCE è entrato nel Registro della Memoria del Mondo.
Per il Bel Paese tuttavia non sono giunti solo onori, ma anche un legittimo richiamo al senso di responsabilità che gli deriva dal fatto di vantare il più grande numero di siti UNESCO, 49 in tutto.
A preoccupare è in particolare la condizione dell’area archeologica di Pompei tanto che dai vertici dell’Organizzazione è stato lanciato un ultimatum volto a ripristinare le ottimali condizioni del sito entro il prossimo 31 dicembre.
La sfida è ardua ma dal Ministero giungono voci ottimiste: Bray rassicura che due dei cinque cantieri previsti sono già stati avviati, il terzo partirà nei prossimi giorni, ma i rimanenti sono bloccati in attesa di verifiche supplementari relative alla trasparenza (considerazione non certo edificante). Secondo il neo ministro entro il 2015 saranno attivi a Pompei 39 cantieri in tutto, ma nel frattempo, gli scioperi dei dipendenti MiBAC avvenuti nei giorni scorsi non consentono previsioni rosee.
Nel sito campano i principali problemi, purtroppo comuni a molti altri luoghi della cultura italiani, sono: carenze strutturali, danneggiamenti, costruzioni abusive, carenza di fondi e mancanza di personale.
Il Progetto Grande Pompei prevede l’impiego di ben 105 milioni di euro, in parte messi a disposizione dall’Unione europea, e alcuni privati, come l’imprenditore Pietro Salini, hanno avanzato l’intenzione di donare denaro per il restauro del sito.
E’ necessario ora non disperdere tali risorse, come purtroppo è accaduto in passato, al fine di avviare quel processo di recupero che già da tempo doveva essere partito. Il piano di manutenzione programmata di Pompei è stato infatti approvato già nel marzo 2012 e, sebbene la sovrintendente Cinquantaquattro assicuri che tra il 2011 e il 2012 sono stati messi in sicurezza “oltre cento punti della città antica”, è bene dare ulteriori segnali.
L’ultimatum dell’UNESCO è in realtà la richiesta, entro la fine dell’anno, di un rapporto sulle attività svolte per la conservazione del sito; il presidente della commissione italiana Giovanni Puglisi chiarisce inoltre che il governo e il ministero sono a conoscenza di tale documento e dunque perfettamente pronti a collaborare.
Il 31 dicembre è tuttavia molto più vicino di quel che sembra e per recuperare la credibilità perduta, anche a livello internazionale, c’è davvero molto da fare e non ci si può certo rilassare sugli allori.
Il successo della mostra in corso al British Museum di Londra, dedicata proprio ai reperti pompeiani, ci ricorda del resto quanta stima verso il nostro patrimonio abbiano all’estero, ma anche la grande responsabilità che l’Italia deve assumersi.
Nel 2007, in occasione del decennale dell’Associazione SiciliAntica, il Presidente della Sede di Acireale Prof. Benintende evidenziava come nel territorio fra il mare Ionio e i fiumi Alcantara e Simeto siano presenti tutte le tipologie che, singolarmente, costituiscono titolo per chiedere all’UNESCO la qualifica di Patrimonio dell’Umanità. Una profetica relazione che vede oggi avverarsi, con l’inserimento dell’Etna nella WHL, l’auspicio che allora espresse SiciliAntica.
In effetti il Mongibello, com’è anche chiamato sin dal periodo della dominazione araba, non è solo il vulcano più attivo del mondo, ma un vero continente culturale nel quale non sono presenti solo testimonianze geologiche, ambientali, vegetali e animali rarissime. Uno scrigno ricchissimo di tutte le testimonianze della cultura materiale delle tante etnie la cui presenza è qui documentata almeno dal quarto millennio avanti
Cristo: questa è l’Etna (nomen omen).
Sembra quasi che terremoti violenti ed eruzioni frequenti, alcune delle quali sviluppatesi dalla sommità sino al mare, abbiano voluto risparmiare aree archeologiche di grande interesse. I resti semisepolti della torre del Filosofo (legata alla leggenda di Empedocle) ad oltre 2900 m s.l.m., le grotte e capanne preistoriche di Tartaraci a 970 metri di altitudine, la città sicula del Mendolito, le terme romane di Santa Venera al Pozzo, fino al tempietto di Capomolini in riva al mare (solo per citarne alcune)sembrano testimoniare quanto sia appropriato l’epiteto di “gigante buono” dato al vulcano. Naturalmente non mancano architetture religiose: la Cuba bizantina di Santa Domenica è forse quella più suggestiva, o militari: i dongioni normanni di Adrano, Paternò e Motta Sant’Anastasia, o, ancora, residenze nobiliari: per tutte il “castello” di Orazio Nelson duca di Bronte.
Ma riteniamo il riconoscimento UNESCO dell’Etna una tappa e non un traguardo: la Sicilia attualmente è la regione con il più alto numero di siti nella lista ed altri se ne aggiungeranno a macchia di leopardo.
Viene, però, spontaneo chiedersi: cosa hanno in più le isole Eolie delle Egadi? Il parco archeologico di Selinunte è meno interessante di quello di Agrigento? I mosaici romani del Tellaro sono artisticamente inferiori a quelli di Piazza Armerina? Il barocco del Val di Noto è più importante delle cattedrali Normanne del Val di Mazara? Da queste considerazioni nasce l’invito che SiciliAntica, da tempo, ha inoltrato alle autorità regionali: proporre l’inserimento della Sicilia – nella sua totalità – nella WHL.
Simona Modeo è Presidente di SiciliAntica
Il jazz, nato come canto identitario degli schiavi nelle piantagioni, caratterizzato dall’improvvisazione, dalla fantasia creativa, dalle poliritmie, è decisamente sinonimo di libertà. Non a caso l’UNESCO ha deciso di proclamare il 30 aprile Giornata Internazionale del Jazz. Questa data, istituita in nome dell’unione tra culture e dell’emancipazione, di cui il jazz è espressione, sarà celebrata in Turchia, ad Istanbul. Il concerto serale vedrà come protagonisti artisti del calibro di John Beasley, George Duke, Al Jarreau, Milton Nascimento, Hugh Masekela, James Genus, Wayne Shorter, Jean-Luc Ponty. Le stelle del jazz contemporaneo si esibiranno nella splendida cornice della chiesa Hagia Irene, oggi museo, parte dello spettacolare palazzo sultanale del Topkapi. Le celebrazioni avranno il loro fulcro a Istanbul, ma coinvolgeranno ogni parte del mondo, interessando i Paesi aderenti all’UNESCO con l’organizzazione di concerti, esibizioni, tributi, workshop, conferenze, tavole rotonde, ma soprattutto momenti didattici per le scuole, le università e i giovani in generale, che consacreranno così l’impegno dell’UNESCO nel farsi veicolo per la promozione della cultura e dell’educazione.
Era il 2001 quando lo Smithsonian National Museum of American History scelse aprile come “Jazz Appriciation Month”, il mese della celebrazione del Jazz. È ad aprile, infatti, che sono nati i maggiori protagonisti del jazz, icone eterne della musica e della creatività: Duke Ellington, Ella Fitzgerald, Gerry Mulligan, Tito Puente, John Levy, Lionel Hampton, Andy Weston. Il 30 aprile rappresenta, quindi, il giorno di chiusura, il culmine di un intero mese nel nome del jazz. “Il jazz è l’espressione dell’armonia e allo stesso tempo della speranza e della libertà”, ha dichiarato Herbie Hancock. Il mitico pianista e compositore jazz, ambasciatore UNESCO per il dialogo interculturale, è a capo dell’organizzazione dell’evento, insieme alla direttrice generale dell’UNESCO, Irina Bokova, in collaborazione con il Thelonius Monk Insititute of Jazz. Lo scopo dell’International Jazz Day è di incoraggiare lo scambio e il dialogo tra culture differenti, educare alla tolleranza, alla comprensione e alla democrazia, lottare contro le discriminazioni razziali e di genere, proporre i giovani come portavoci di un cambiamento sociale in nome dell’uguaglianza. Tutto questo tramite lo strumento portentoso della musica jazz.
Il jazz è stato definito il genere principe dell’improvvisazione e dell’interpretazione, che nasce già come frutto di un melting pot di culture: la tradizione africana e quella americana sono state contaminate dalla caraibica, si sono mescolate a quella latino-americana, hanno subito l’influsso della cultura italiana, francese, spagnola. Le sue origini sono state ricondotte all’affascinante New Orleans, cuore della Lousiana, nella cui ormai celebre Congo Square, ogni domenica, gli schiavi si riunivano per dare spazio alla loro interiorità con i canti, le danze, le musiche della loro cultura. La stessa New Orleans nella quale, nei primi del Novecento, si esibivano musicisti del calibro di Buddy Bolden, definito il padre del jazz. E, infatti, nel 2012, anno della prima edizione della giornata internazionale del jazz, è stata scelta proprio New Orleans per aprire le danze, con un concerto indimenticabile condotto da Herbie Hancock all’alba.
La scelta, quest’anno, di Istanbul, è dovuta alla natura poliedrica della città, ponte tra Oriente e Occidente che rappresenta un altro crogiuolo emblematico di razze, culture, religioni, storie. Il programma che interessa la capitale turca, oltre al concerto serale, prevede numerose attività, soprattutto nell’ambito della formazione, che ben introducono a quello che è stato organizzato nel resto del mondo.
In Italia, da Milano a Catania, sono moltissime le manifestazioni preparate per l’occasione: a Bologna sarà l’estro coinvolgente di Matteo Brancaleoni a rendere “swing” l’atmosfera del Bravo Caffè. A Capurso, in Puglia, Carmela Formicola presenterà il suo libro, Quando suonavo il jazz, accompagnata dalle note del basso di Pierluigi Balducci e Vincenzo Maurogiovanni. A Foggia, il Moody Jazz Café ha pensato l’esplorazione del jazz attraverso diversi canali: l’educazione, la letteratura, la storia e la filosofia, la musica, il cinema e la cucina. Diversi gli eventi previsti a Roma: al Teatro Argentina è stato organizzato un imperdibile concerto dello Stefano Di Battista Jazz Quartet, con la partecipazione straordinaria di Enrico Rava e Rita Marcotulli. Sempre a Roma, uno degli storici locali del jazz nostrano e internazionale, l’Alexander Platz Jazz Club, presenterà il nuovo disco del Dario Germani Trio in collaborazione con Max Ionata.
Tiene testa all’Italia la Francia, con una ricca scaletta di eventi musicali da scoprire. Particolarissimo è quello previsto a Les 3 Arts a Parigi: la sezione giovanile dell’associazione mondiale dell’esperanto ha organizzato insieme al Duo KAJ un concerto multiculturale durante il quale i classici del jazz saranno riadattati in lingua esperanto e in altre lingue, con tanto di sottotitoli, a testimoniare il messaggio di fratellanza e comunione che viene dall’esperanto e dal jazz.
Frattanto, dall’altra parte del mondo, in Australia, a Brisbane, per celebrare il jazz si può prendere parte ad una parata per le vie principali della città, ispirata alla New Orleans degli anni d’oro del jazz, seguita da un intero pomeriggio dedicato all’esibizione dei musicisti locali. In Sudafrica, se si è tra i fortunati allievi della Secondary School di Boksburg, è possibile tenere una lezione di musica con alcuni tra i più famosi jazzisti sudafricani. Anche in Giappone, India, Sud America, Russia, Islanda sono in programma proiezioni cinematografiche, workshop, incontri con i bambini, concerti dal vivo.
Insomma, l’International Jazz Day è la prova reale che la potenza della musica distrugge le barriere di ogni tipo, tra qualunque cultura.
Consulta il sito
Il 23 aprile è la giornata mondiale del Libro e del Diritto d’autore.
L’UNESCO decretò nel 1995 tale ricorrenza, motivando la scelta di questa particolare data poiché il 23 aprile 1616 morirono alcuni grandi nomi delle letteratura mondiale: William Shakespeare, Cervantes e Gracilaso de la Vega.
Quest’anno la Giornata mondiale del Libro e del Diritto d’autore giunge dunque al suo 17° anniversario; capofila delle relative iniziative è Bankok, designata Capitale mondiale del Libro 2013 con lo slogan “Read for life”.
L’intento è quello di rendere accessibile a tutti il grande patrimonio letterario mondiale, stimolando e promuovendo la lettura.
Molteplici le iniziative che si terranno in tutte il mondo per celebrare questa giornata.
In Irlanda, Gran Bretagna e Stati Uniti d’America, il 23 aprile si tiene la “World Book Night”: 20 mila volontari distribuiranno 400 mila libri. Ognuno di loro ha scelto infatti 20 titoli che doneranno presso ospedali, carceri, case di riposo, al fine di diffondere l’amore per la lettura.
Nella Spagna catalana il 23 aprile si celebra anche il patrono San Giorgio e per l’occasione le coppie si scambiano doni: le donne regalano libri agli uomini, che contraccambiano con delle rose per una festa coinvolgente, romantica e pittoresca.
A Madrid, invece, si terrà la “Noche de los Libros” cui parteciperanno scrittori, librerie, biblioteche e istituzioni culturali, con oltre 600 appuntamenti in una notte.
In Italia la Giornata mondiale del Libro e del Diritto d’autore si festeggia con tanti appuntamenti.
Dal 23 aprile fino al 31 maggio si terrà la consueta campagna nazionale “Il Maggio dei Libri” promossa dal MiBAC e dall’AIE. Tanti gli eventi che si terranno in tutto il territorio nazionale, con reading, incontri con gli autori, concorsi e tanto altro.
A Bolzano le biblioteche altoatesine promuovono la lettura con l’iniziativa “Un libro ti aspetta”, organizzata dal Dipartimento Cultura italiana della Provincia. Chi il 23 aprile si recherà in biblioteca e prenderà un libro in prestito, ne riceverà uno nuovo in dono.
Il progetto Città Invisibili della Regione Veneto, coinvolgerà in contemporanea 800 classi scolastiche e 40 biblioteche per realizzare in sinergia attività di promozione della lettura. Tra gli obiettivi che l’iniziativa si pone c’è anche quello di proporre una seria riflessione sulle politiche culturali del nostro territorio. Il tutto sarà catalizzato da un Flash Book Mob: l’appuntamento è alle 9,45 di mattina con il proprio libro preferito.
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=h9PirTK9pdo]
A Roma i libri scendono in metro: torna infatti “Pagine Viaggianti”, iniziativa di bookcrossing che coinvolgerà le stazioni Cornelia della metro A e Santa Maria del Soccorso per la linea B. Qui saranno presenti volontari che distribuiranno libri gratuitamente in cambio di latri testi. Medesima iniziativa alla Biblioteca Vaccheria Nardi, presso il Centro culturale Gabriella Ferri e alla Biblioteca Cornelia.
A Termini Imerese, su iniziativa di SiciliAntica, cento panchine cittadine ospiteranno cento libri messi a disposizione dall’Isspe, l’Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici.
Per incentivare la lettura e la familiarità con i libri anche in età infantile, segnaliamo la campagna “Nati per Leggere”, impegnata ad educare non solo i più piccoli, ma soprattutto i genitori, cui si spiega l’importanza della lettura ad alta voce dei racconti ai neonati. Il Punto lettura.Nati per Leggere di Napoli, presso il Museo PAN, organizza per il 23 aprile, alle 16,30, letture per bambini. Ci sarà inoltre lo Scambiolibro, piccola biblioteca con testi adatti ai più piccoli, liberamente fruibili.
[vimeo 16266256 w=400 h=230]
Measuring cultural participation
un breve saggio realizzato dall’Istituto di statistica dell’Unesco insieme ai ricercatori di Fondazione Fitzcarraldo, con l’obiettivo di delineare le cifre della cultura nel mondo, la sua influenza per l’identità dei cittadini e la società nei diversi paesi. Attraverso numerose domande e variegati sondaggi eseguiti di recente, lo studio cerca di rispondere al quesito su quale sia il grado di partecipazione culturale nei peculiari contesti di ogni paese, che siano essi avanzati o in via di sviluppo.
il libro, disponibile in file pdf, riassume, in modo dettagliato ma schematico, i risultati di questa ricerca: il primo capitolo illustra le istruzioni per leggere correttamente il manuale, il secondo capitolo descrive quali sono gli strumenti della partecipazione culturale, nel terzo invece sono elencate le metodologie diffuse per la partecipazione culturale, nell’ultimo capitolo infine ci sono le conclusioni di questo sondaggio internazionale. Tutte le informazioni sono accompagnate da mappe esplicative in cui sono segnalati i luoghi esatti dove sono state poste le domande per la ricerca.
i dati forniti dalla ricerca sono decisamente utili non solo per gli esperti del settore. Capire come si espande la partecipazione ai fenomeni culturali nei diversi paesi e continenti, per performance teatrali, visite a mostre, siti archeologici o eventi tradizionali, aiuta ognuno di noi ad approfondire aspetti peculiari delle società, dell’istruzione e la formazione dei cittadini
poiché la ricerca è stata realizzata da un organismo internazionale, la ricerca è redatta solo in lingua inglese.
interessanti le mappe che dividono i paragrafi: questa cartine rientrano nello stile schematico ed esplicativo che caratterizza l’intero saggio.
professionisti del settore che lavorano nell’amministrazione pubblica o privata, al fine di sfruttare questi dati per organizzare eventi ed iniziative nel proprio paese ed ampliare grazie al loro lavoro la partecipazione dei cittadini ad eventi culturali
http://www.uis.unesco.org/culture/Documents/fcs-handbook-2-cultural-participation-en.pdf
Hegel nelle sue “Lezioni sulla filosofia della storia” nega all’Africa un posto e un ruolo all’interno della cultura affermando che “…essa non è una porzione storica del Mondo; non ha alcun movimento o sviluppo da esibire”: niente di più sbagliato. Come tristemente ci ricorda la cronaca, in Mali, paese dell’Africa occidentale a sud del Sahara afflitto da alcuni mesi da una guerra civile causata da estremisti islamici, sono molti i siti e le opere che rischiano di sparire per sempre o che purtroppo sono già stati colpiti.
In particolare, la città di Timbuctu, caduta nelle mani dei ribelli jihadisti e poi liberata dall’esercito maliano e francese, ha subito gravissimi danni.
Crocevia di diversi popoli già nel Medioevo, quando si trovava al centro delle rotte per il commercio del sale e dell’oro, Timbuctu ha rappresentato un vivace centro di diffusione della religione e della cultura islamica, in cui confluirono molteplici saperi, stili e conoscenze.
L’attacco da parte degli estremisti dello scorso gennaio alla Biblioteca Baba Ahmad, istituita nel 1973 dal Governo del Mali su richiesta dell’Unesco come centro per la conservazione e la ricerca, ha arrecato una profonda ferita all’intero paese e non solo.
Il tesoro culturale conservato a Timbutcu e nei territori vicini comprende circa 300 mila manoscritti risalenti a un periodo compreso tra il XII e il XVI secolo e redatti in lingua araba e nelle lingue locali songhai, tamashek e bambara. I testi abbracciano i temi più svariati dalla filosofia, all’astronomia, dalla musica alla matematica, dalla medicina alla poesia, fino alla sharia, al diritto islamico e ai diritti delle donne. L’intera collezione offre quindi un quadro fondamentale per la comprensione dello sviluppo intellettuale e scientifico dell’Africa, fornendo, attraverso le competenze specialistiche e calligrafiche, una panoramica sul contesto storico della regione.
Fortunatamente gran parte delle opere, poco prima che i militanti prendessero il controllo della città, sono state messe in salvo trasportandole in luoghi segreti e sicuri. Gli jihadisti, in fuga di fronte all’avanzata delle truppe alleate francesi e maliane, hanno però dato fuoco alla Biblioteca Baba Ahmad e si stima che circa il 5% del patrimonio sia andato perso, trafugato o distrutto e con esso parte della storia dell’umanità.
Gli antichi manoscritti non sono stati però l’unico bersaglio delle offensive degli estremisti, undici dei sedici mausolei dedicati ai santi musulmani sono stati travolti dalla furia ribelle e con essi anche la Tomba di Askia, gravemente danneggiata. Il monumento dalla spettacolare struttura piramidale, eretto nel 1495 in onore dell’imperatore Askia Mohammed, è un tipico esempio delle tradizionali costruzioni in fango della regione del Sahel.
Già all’inizio della crisi in Mali la tomba di Askia insieme ai manoscritti e ai mausolei erano stati inseriti nella lista del patrimonio mondiale in pericolo dell’Unesco, che si era mostrata particolarmente preoccupata per la difficile situazione, che nel corso dei mesi è andata precipitando. In seguito ai numerosi attacchi alla realtà intellettuale e artistica del paese poche settimane fa l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura ha istituito a Parigi la ”Giornata di sostegno al Mali” alla quale hanno partecipato diversi esperti internazionali tra cui i Ministri della Cultura del Mali e della Francia. Durante l’incontro è stato presentato un “Piano d’azione per la riqualificazione del patrimonio culturale del Mali e la salvaguardia dei manoscritti antichi” per il quale si stima un costo di circa undici milioni di dollari. Gli obiettivi principali del piano sono definiti da tre parole chiave: valorizzazione, protezione e formazione. Valorizzazione del patrimonio devastato dalla guerra civile grazie anche all’aiuto diretto della popolazione locale; protezione dei manoscritti e dei beni scampati alla distruzione; formazione della comunità nei settori della conservazione in modo che i primi due punti possano essere adeguatamente attuati. L’Unesco ha inoltre rinnovato il suo impegno nella tutela e nella cura del patrimonio promettendo il suo appoggio nel restauro e nella ricostruzione degli edifici distrutti o danneggiati e nella lotta contro il traffico illecito dei beni culturali.
La crisi in Mali ha mostrato da un lato la fragilità del patrimonio culturale, ma dall’altro la sua incredibile forza simbolica, evidenza del carattere intrinseco e distintivo di un popolo. Gli attacchi ai manoscritti, ai mausolei o agli altri monumenti non rivelano altro che la volontà di cancellare il passato e la storia maliana e con essa le tracce delle differenze culturali. Se Timbuctu è denominata la “perla del deserto” è come se alcuni degli strati più lucenti e preziosi gli fossero stati portati via, ad essere derubata di un’immensa ricchezza non è solo il Mali o l’Africa, ma l’umanità intera.
Esistono molte eccellenze nel nostro Paese che operano senza che venga riservata loro la dovuta attenzione: un esempio è l’attività portata avanti dal Ministero dei beni culturali in sinergia con i nuclei dei carabinieri subacquei, che collaborano per scoprire e tutelare il grande patrimonio presente sotto le nostre acque, nonostante la spending review metta a dura prova la loro importante missione. Abbiamo perciò voluto dare la parola alla Dott.ssa Annalisa Zarattini, responsabile MiBAC del Servizio di Archeologia Subacquea e al Comandante Renato Solustri del Nucleo Carabinieri Subacquei di Roma.
Ecco come il Comandante Solustri ci ha parlato dell’attività svolta dal suo Nucleo. Nel prossimo articolo dedicato al tema sentiremo invece la voce della Dott.ssa Zarattini.
Comandante Solustri, quando nasce il nucleo subacquei dell’arma e quali sono le funzioni principali che svolge? Quanti nuclei come il vostro esistono oggi in Italia?
La nostra storia inizia nel 1953, quest’anno abbiamo il sessantenario. I subacquei nacquero con due nuclei: quello di Genova e di Napoli per espletare l’esigenza di portare l’attività di polizia giudiziaria anche in ambito subacqueo. Siamo stati i primi al mondo ad avere un organismo di polizia che si occupasse di ricerca di corpi di reato sott’acqua e per questo ci hanno chiamato anche all’estero. Siamo stati dei pionieri in tale ambito.
Il Nucleo di Roma è stato avviato nel 1960 con un barcone adibito ai carabinieri della polizia fluviale sotto il ponte Duca d’Aosta in occasione delle Olimpiadi: la gente che andava allo stadio Olimpico, passando sul ponte, doveva avere un presidio. Da lì il sistema si è evoluto e ora siamo una quarantina di ragazzi in tutta Italia: ci formiamo presso la scuola di istruttori di marina di La Spezia e dal Comsubin (comando subacqueo incursori); dopo sei mesi di scuola veniamo mandati al corso subacquei di Genova e veniamo specializzati in ricerche e refertazione di eventuali corpi di reato. Siamo pochi perché sia le visite mediche che il corso sono molto selettivi.
Eravamo a Roma fino a qualche anno fa in sei e poi siamo arrivati in otto grazie all’arrivo di un infermiere iperbarico, importante per soccorrere gli uomini in caso di incidenti.
A me piace definirci il “braccio bagnato del Maresciallo Rocca”: noi facciamo quello che fa il carabiniere per strada, ma in ambiente marino, lacustre e anche fognario, dato che spesso ci troviamo a fare ricerche anche in questi luoghi. Siamo un po’ dei RIS dell’acqua, che filmano, fotografo e raccolgono reperti per formare il fascicolo dell’indagine. Collaboriamo anche con il Ministero dell’Ambiente per combattere l’inquinamento, con il demanio per indagare su abusi edilizi, compiendo dunque operazioni di diverso tipo. C’è poi un reparto, il TPC (il nucleo Tutela patrimonio dei Carabinieri) che indaga sul trafugamento di opere archeologiche terrestri e noi ci occupiamo di tutela in ambito sottomarino, scandagliando 9.000 chilometri di costa e un mare ricco di reperti, considerato che la nostra penisola è stata la culla della cultura mondiale. Il nostro compito è quello di controllare i siti e di rinvenire anche altri reperti: i bronzi di Riace, del resto, sono stati scoperti proprio a seguito del pedinamento di una persona che si spostava in modo sospetto.
Ai vostri uomini è richiesta una grande specializzazione, ma nonostante l’attività peculiare che svolgete, state subendo tagli ingenti. Che tipo di difficoltà state riscontrando e in che modo le state ovviando?
Nuclei come il nostro ne sono rimasti pochi: fino a due anni fa ce n’erano a Roma, Genova, Napoli, Bari, Trieste, Messina e Cagliari. Poi i tagli della spending review hanno tolto il nucleo di Trieste, lasciando a quello di Genova l’intero Nord-Italia, ma si parla di chiudere anche quello di Napoli, Bari e Messina: noi 13 di Roma dovremo in tal caso gestire tutta l’Italia centro-meridionale con grande disagio per le nostre attività. In tal modo non potremo mai intervenire in modo immediato; ci sono i vigili del fuoco, ma non hanno la possibilità di svolgere compiti di polizia giudiziaria.
Dovremo dunque centellinare i lavori in cui intervenire, con nostro grande dispiacere. I ragazzi dei nuclei chiusi sono stati inoltre reindirizzati nelle centrali territoriali, che non rispondono certo alla loro propensione e preparazione, dopo anni di addestramento e attività subacquea. Il cittadino avrà perciò un disservizio e non un utilità, con perdita inoltre di capitale umano, costato all’amministrazione in formazione, davvero importante: pensare che anche l’Fbi chiede a noi come intervenire nelle ricerche subacquee.
Purtroppo allo Stato italiano non sembra interessare la nostra attività nel campo archeologico: la scoperta dei cinque relitti di Ventotene l’anno scorso, non è stata accolta come ci saremmo aspettati. Con la Dott.ssa Zarattini abbiamo stabilito una sorta di rotta ipotetica dei tempi antichi, quando Giulia, la figlia di Cesare, era stata confinata sull’isola: in tal modo abbiamo intercettato queste navi perfettamente conservate. Con una fondazione americana, disposta ad investire, abbiamo scoperto tali beni. Nella conferenza stampa di presentazione dei rinvenimenti, il MiBAC non c’era, mentre dall’estero chiamavano per poter visitare questi splendidi esemplari di navi romane.
Che tipo di sinergie ci sono con il MiBAC e le Soprintendenze per quel che concerne le attività di archeologia subacquea? Qual è l’ultima operazione di tal genere cui state lavorando?
Il Ministreo dei beni culturali aveva tempo fa un gruppo, lo STAS, il servizio tecnico di archeologia subacquea: visto che per queste attività si appoggiavano sempre a noi, hanno deciso di formare in ogni singola soprintendenza un subacqueo archeologo. Ai corsi tenuti a Giulianova, in Abruzzo, quindici anni fa, abbiamo formato il personale ministeriale per le immersioni, mentre loro ci hanno insegnato come riconoscere i reperti. Poi la cosa è stata interrotta, dopo un incidente sul fiume Velino subito da uno di questi archeologi e da allora si sono avvalsi completamente della nostra collaborazione. Il fatto che la capillarità della nostra presenza andrà a finire per la chiusura dei nuclei di Napoli, Bari e Messina, verrà meno una fetta importante di lavoro culturale, nonostante ci sia questa richiesta da parte delle soprintendenze, che non potranno mai andare a chiedere ad un privato di sopperire a tale attività per costi e autorizzazioni mancanti, come l’iscrizione ad un apposito albo, che noi invece abbiamo.
Per quanto mi riguarda, al fine di colmare queste lacune, stiamo facendo un’opera di sensibilizzazione con i diving, affinché venga rispettato il patrimonio subacqueo: abbiamo perciò coinvolto questi privati dando loro la possibilità di portare gruppi nei siti, ma responsabilizzandoli circa la tutela dei beni stessi, così da avere delle sentinelle private sul territorio, lì dove non possiamo intervenire noi; nel Lazio e in Sicilia, per lo meno, si sta procedendo così. Tali deleghe vengono concesse dalle soprintendenze, ma è uno dei modi attraverso cui poter fronteggiare le nostre mancanze.
L’ultima attività archeologica in cui siamo stati coinvolti riguarda le grotte di Tiberio a Sperlonga dove c’è un museo stupendo. Nelle acque antistanti è stato segnalato un grosso manufatto, talmente imponente che la soprintendente del luogo ci ha chiamato per sondarlo, proprio fuori dalle grotte di Tiberio. D’altronde non possiamo fare ricerche qualora non vi fosse la certezza di trovare qualcosa, per i già citati motivi di spese e costi.
Ritengo comunque che bisogna motivare le persone ad amare il patrimonio: a tal fine andiamo ad incontrare i bambini della scuole e li trovo davvero più attenti degli adulti. Speriamo dunque nelle nuove generazioni affinché si giunga ad una maggiore considerazione delle attività che ruotano attorno ai nostri beni culturali.
Li ammiro i pubblicitari, i creativi, gli sceneggiatori, non demordono e inseguono il cliente senza fermarsi davanti a nulla: mitizzano la sfiga se serve, trasformano il disagio (altrui) in (loro) opportunità, cambiano la semantica dei termini, sorridono a chi annega nel fango sperando così di portargli sollievo. In tempo di crisi i consumatori sono disoccupati e, certo, duro diventa il loro lavoro se il disoccupato gli si deprime, se non spende più per trastulli inutili, rinuncia al prodotto di marca, non aggiorna le app dello smartphone o l’auto, smette pure di farsi lo spritz e di scommettere sui goal dell’Albinoleffe.
Il fatto che un paio di generazioni non comprino come e cosa si è deciso per loro li mette in crisi.
Ecco allora che il genio si accanisce sul disoccupato per evitare di diventarlo lui stesso.
“UNEMPLOYED OF THE YEAR” è la nuova campagna di Benetton per vendere magliette e calzini. In Benetton, ovviamente, non si capacitano del fatto che i disoccupati stiano diventando consumatori imperfetti e preferiscano rattoppare la mutanda piuttosto che comprare l’underwear e considerino i jeans ereditati dal cugino un dono del cielo. Per questa pubblicità hanno preso attori a cui hanno assegnato la parte dei finti disoccupati in completino mistolana e camicetta noironing, e inneggiano alla fortuna di essere a spasso perché così si ha il tempo di partecipare tutti a un concorsino per vincere 5.000 euro, giusto quanto serve a cambiare il guardaroba.
Come il disoccupato sia incastonato nel cuore dei media e nel mirino degli inserzionisti è evidente anche in “THE APPRENTICE”, il nuovo reality in cui Flavio Briatore, improbabile leader senza macchia e senza paura, icona di coloro che hanno finora consumato il presente dei giovani per dare un futuro a se stessi, taglia teste a baldi volontari lampadati che vorrebbero lavorare per lui (e già per questo andrebbero comunque puniti).
Si percepisce la necessità di aver un bel disoccupato tranquillo, pulito, integrato e pettinato, del cui benessere preoccuparsi, disposto a tutto per essere all’altezza di ciò che chi ha pianificato il suo futuro si aspetta da lui, voglioso di essere adottato ma non progettato per essere rispettato.
Sembra opportuna l’istituzione di un cavalierato anche per il non lavoro. Già ne posso immaginare la celebrazione, con Emanule Filiberto che consegna il titolo di Cavaliere del Non Lavoro a Pino da Perugia che si è comprato il Freelander coi soldi della pensione dei nonni e a Sara da Pordenone che ha raggiunto l’invidiabile primato di 30 stage non retribuiti. Sì, del disoccupato ne propongo la nomina da parte dell’Unesco a patrimonio dell’umanità.
Samuel Saltafossi è sociologo della complessità
Rio de Janeiro è diventata il 1° luglio Patrimonio Mondiale nella categoria paesaggio culturale urbano. La domanda, presentata dall’Istituto del Patrimonio Storico e Artistico brasiliano (Iphan), è stata approvata nel corso della riunione del Comitato del Patrimonio Mondiale a San Pietroburgo, Russia.
Secondo il Ministro della Cultura Ana de Hollanda, l’inserimento della città nella lista dei patrimoni mondiali consente la realizzazione di una nuova mappatura del patrimonio culturale locale.
“La novità significa molto per il futuro, però sarebbe impossibile andare avanti con la definizione di politiche culturali senza capire le relazioni tra gli esseri umani e il loro ambiente. Questo risultato ci permetterà di realizzare una nuova mappatura del patrimonio culturale, sostituendo una visione storicistica con una più ampia comprensione del mondo”.
Per il Ministro, “il risultato è la conseguenza di uno studio dettagliato dell’Iphan che ha valutato il modo creativo in cui gli abitanti della città hanno adattato il paesaggio urbano e la tipografia irregolare alle proprie esigenze, inventando nuovi modi di godersi la vita.” D’accordo con il presidente dell’Iphan Luiz Fernando de Almeida, “il paesaggio di Rio rappresenta quello che noi chiamiamo ‘civiltà brasiliana’, con tutte le sue sfide, originalità, contraddizioni e possibilità.”
Secondo l’Iphan, adesso tutta la città sarà valutata in modo da costituire un’azione integrata per la conservazione del suo paesaggio culturale. La scelta di Rio come Patrimonio Mondiale nella categoria paesaggio culturale urbano è stato un meritato riconoscimento. Secondo il Segretario di Turismo dello Stato di Rio de Janeiro Pedro Guimarães “Il titolo, un vero motivo di orgoglio per il popolo brasiliano, riconosce ufficiale l’affettuoso soprannome della città, Città Meravigliosa”.
In collaborazione con il governo dello stato, il comune, la Fondazione Roberto Marinho, l’Iphan ha consegnato all’UNESCO nel settembre 2009 il documento completo della domanda, giustificando il valore universale della città in merito all’interazione tra bellezza naturale e l’intervento umano. Il concetto di paesaggio culturale è stato adottato dall’UNESCO nel 1992 e accolto come una nuova tipologia di riconoscimento culturale. Finora però, i siti riconosciuti a livello mondiale come paesaggio culturale si riferivano soltanto alle zone rurali, giardini storici e altri luoghi di natura simbolica e/o religiosa.
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=OSPG7UVWPGM&w=420&h=315]
Il Brasile ha altri 18 patrimoni culturali e naturali nella lista dell’UNESCO
I beni culturali sono: la città storica di Ouro Preto (1980); il centro storico della città di Olinda (1982); la Missione gesuita del Guaraní, Rovine di São Miguel das Missões (1983); il Santuario di Bom Jesus do Congonhas (1985); il centro storico di Salvador de Bahia (1985); Brasília (1987); il centro storico di São Luís (1997); il centro storico di Diamantina (1999); il centro storico di Goiás (2001); e la Piazza di São Francisco nella città di São Critóvão (2010).
I siti naturali sono: il Parco Nazionale dell’Iguaçu (1986); la Costa dello Scoprimento (1997); il Parco nazionale Serra da Capivara (1998); le Riserve della Foresta Atlantica (1999); il Complesso di conservazione dell’Amazzonia Centrale (2000), il Pantanal (2000); la Chapada dos Veadeiros e il Parco Nazionale di Emas (2001), e le riserve di Fernando de Noronha e Atol das Rocas (2001).
All’origine l’obiettivo era quello di salvare i templi di Abu Simbel in Egitto, edifici risalenti all’epoca faraonica che rischiavano di scomparire per sempre a causa di un’inondazione. Era il 1959 e da questa vicenda in cui i diversi paesi internazionali scesero in campo per la prima volta al fine di collaborare per difendere un pezzo di storia e di patrimonio culturale, ha avuto origine l’istituzione transnazionale che avrebbe preso il nome di Unesco.
Creata con lo scopo di tutelare il patrimonio culturale, artistico e ambientale seriamente minacciato dall’incuria, guerre e fattori naturali, ben presto divenne un punto di riferimento per il mondo intero grazie anche alla stesura e all’approvazione di una “Convenzione per la tutela del patrimonio culturale e naturale” nel 1972, ratificata dai diversi stati mondiali che hanno candidato un sito entro i propri confini (tale convenzione in Italia è divenuta operativa con la legge n 184 del 1977). All’interno di questo trattato sono stati infatti stabiliti anche i criteri che costituiscono i requisiti fondamentali per poter presentare la candidatura di un determinato sito culturale o naturalistico a patrimonio mondiale dell’umanità. All’inizio i requisiti erano solo sei in ambito culturale e quattro nel settore naturalistico, mentre dal 2005 esiste un elenco unico e generale che racchiude dieci punti comuni. Il primo principio cardine per avanzare una candidatura è che il sito deve presentare valori di unicità, universalità e insostituibilità. Questo è l’elenco dei dieci criteri comuni di selezione dei siti che presentano la candidatura:
• Rappresentare un capolavoro del genio creativo umano;
• Esercitare un’influenza notevole per un determinato periodo storico o in campo culturale, per quanto riguarda lo sviluppo architettonico, tecnologico, artistico e paesaggistico;
• Testimoniare una rara tradizione di una cultura o di una civiltà ancora esistenti o scomparse;
• Essere un esempio eminente di un tipo di costruzioni, di architettura o tecnologia significativa per un determinato momento della storia umana;
• Essere un esempio di stanziamento antropico, di terra o di mare, rappresentativo di una cultura o dell’interazione dell’uomo con l’ambiente soprattutto per tutte quelle realtà che divengono vulnerabili per effetto di mutazioni irreversibili;
• Essere direttamente riconducibili ad avvenimenti legati ad idee, opere letterarie o artistiche, credenze religiose oppure racchiudere in sé un significato universale collegabile ai punti precedenti;
• Contenere all’interno del proprio paesaggio e ambiente fenomeni naturali e panorami di eccezionale bellezza;
• Rappresentare il cambiamento del nostro pianeta, i mutamenti, le evoluzioni della crosta terrestre e lo scorrere delle ere geologiche;
• Costituire un esempio dell’evoluzione della vita biologica e dello sviluppo dell’ecosistema terrestre e marino, della nascita della specie animale e vegetale
• Contenere al proprio interno un habitat naturale preservato dove sopravvive una variegata biodiversità e di specie biologiche, comprese quelle contenenti specie minacciate di eccezionale valore dal punto di vista scientifico;
Un insieme di valori validi sia per il patrimonio artistico ed archeologico che per quello naturale e ambientale che è rimasto quindi immutato dalla ratifica della convenzione negli anni settanta. Rimanendo dunque fedele al suo obiettivo originario che era quello di preservare il patrimonio culturale, la lista dei requisiti è stata completata solo per comprendere il patrimonio ambientale.
Nella convezione viene, inoltre, sottolineata l’importanza di selezionare questi luoghi al fine di mantenere il legame dell’uomo con il proprio passato, la propria storia e l’ambiente che lo circonda.
Ad oggi tuttavia è necessario forse chiedersi se i valori e i criteri del secolo scorso siano ancora validi o esaustivi per delineare questa lista di beni preziosi. Se lo scopo è quello di non perdere il legame con il nostro passato come si potrà trasmettere alle generazioni di domani lo sviluppo di una società sempre più incentrata e basata sul mondo 2.0 e sulle nuove tecnologie? La questione è stata affrontata per la prima volta già nel 2003, quando è stata ratificata la convenzione del’Unesco per i beni immateriali, all’interno della quale viene riconosciuto il know-how e la conoscenza come patrimonio inestimabile da tramandare. Ad essa, tuttavia, non è seguita una lista universale a livello internazionale di requisiti oggettivi e, secondo quanto recita la convenzione, ogni Stato indipendentemente può inviare un proprio elenco di “conoscenze, consuetudini e tradizioni” che vuole iscrivere nella lista. Tra questi forse alcuni si ricorderanno che un paio d’anni fa fece discutere la promozione tra i beni immateriali della dieta mediterranea. Un esempio di come in questo caso stabilire dei criteri universali e oggettivi sia più complicato rispetto alla classificazione dei classici monumenti ed ecosistemi ambientali. Per quanto attiene il patrimonio immateriale entra in gioco infatti il fattore soggettivo che porta ogni stato a considerare il proprio sapere indispensabile e significativo da trasmettere alle generazioni future: ognuno considera il proprio patrimonio di conoscenze e tradizioni inestimabile.
È questo forse il punto di partenza da chiarire: cosa si intende per patrimonio immateriale e quali sono realmente le tradizioni necessarie che si devono trasmettere alle nuove generazioni? Con quale forma di passato si vorranno realmente confrontare i nostri figli e quale passato vorranno preservare? Una riflessione in tal senso oggi potrebbe portare ad una selezione e ad una valutazione a priori, affinché non tutto venga considerato in maniera indistinta qualcosa da salvaguardare e venga invece mantenuto quel concetto di unicità e valore di una determinata consuetudine e conoscenza, fondamentale per ascrivere un bene nella lista Unesco.
La Costiera Amalfitana rappresenta uno degli scorci più suggestivi del Sud Italia con i suoi panorami mozzafiato, i suoi sapori agrumati e le vie scoscese che portano al mare.
Non a caso, infatti, tutta la Costiera è stata dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO nel 1997.
Una gita fuori porta durante il weekend di Pasqua e Pasquetta rappresenta il momento ideale per visitare i principali paesini che si stagliano sulla Costiera e apprezzare a pieno le suggestioni primaverili.
Tafter vi porterà quindi alla scoperta di 5 destinazioni d’eccezione, con itinerari, consigli su cosa visitare, come arrivare e dove soggiornare, per una Pasqua e Pasquetta all’insegna della cultura, del relax e del divertimento.
Gli itinerari che vi proponiamo possono essere realizzati contemporaneamente nello stesso soggiorno, spostandosi in auto. In alternativa, potrete decidere di effettuare un tour organizzato e di tenere i nostri articoli come fonte preziosa di consigli utili.
Il tour della Costiera Amalfitana da Napoli include minibus privato, autista in lingua inglese, visita guidata di Sorrento e Sant’Agata dei due Golfi, pranzo, e tour guidato di Amalfi o Positano e si può prenotare comodante sul nostro servizio certificato Tafter Shop
Altrimenti, se volete visitare una fabbrica di limoncello ed abbandonarvi alle prelibatezze gastronomiche della Costiera, qui troverete un altro tour da non perdere.
Ultima opzione per un tour indimenticabile: la costiera amalfitana in Vespa! La brezza marina e gli scorci incantati di questi meravigliosi paesini arroccati sul mare non potranno che lasciare un segno indelebile nel vostro cuore!
Sorrento, Amalfi, Positano, Ravello e Vietri…stiamo arrivando…
“Per essere lungimiranti bisognerebbe immaginare e favorire un’emulsione di praticità e sapienza capaci di sollevarci dalla decadenza e di condurci all’oraziana aurea mediocritas . La Costituzione pone cultura, ricerca e patrimonio paesaggistico, storico e artistico fra le priorità della vita patria e pertanto al di sopra di ogni altro fare. Eppure i ministeri che curano ambiente, patrimonio culturale e turismo sono sempre stati in coda agli altri e fra i più colpiti dai tagli, mentre permangono i privilegi della casta, la grandeur di 131 caccia bombardieri ultracari e i privilegi tributari della Chiesa. Quale trasversale contraddizione! “
Il Prof. Andrea Carandini offre ogni volta interessanti spazi di riflessione in merito allo sviluppo culturale del Paese che stimolano una necessaria disamina. Nel recente articolo apparso sul Corriere della Sera del 13 gennaio il Presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali analizza dettagliatamente alcune modalità per ritrovare il primato della cultura anche in tempi di recessione.
Spetta ad un governo come questo affrontare il problema posto, non tanto in generale ma come si pone oggi in Italia, dove cultura e turismo compongono il settore che ha meglio retto la crisi. Del resto è difficile ancora identificare il concetto di cultura da molti considerato superfluo e dunque da tagliare, mentre invece lo stesso, per le ragioni appena esposte, deve avere un posto d’onore quale comparto necessario e vitale per lo sviluppo economico della nazione o semplicemente per fronteggiarne il declino.
Afferma oculatamente Sergio Ricossa che “????????? in greco e oeconomia in latino significarono “norme per la buona amministrazione della casa”. E già l’etimologia rivela il primo vizio della scienza economica: di preferenza non occuparsi del reale, di quel che è, ma dell’ideale, di quel che dovrebbe essere; tendere verso una scienza normativa e rischiare di non essere una scienza affatto; a quel che è vero o falso anteporre quel che è bene o male, buono o cattivo, giusto o ingiusto”. La “casa italiana” possiede tanti tesori che debbono essere bene amministrati, attraverso lo strumento dell’economia della cultura.
Per comprendere il nesso cultura ed economia basti pensare che Adam Smith scrisse di musica, pittura, danza e poesia, mentre John Keynes fu attivamente coinvolto nell’istituzione dell’Arts Council of Great Britain, il principale supporto pubblico alle arti in quel paese fino ad oggi.
Se davvero “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione, allora, come ha più volte ribadito il Presidente della repubblica Giorgio Napolitano, «è necessario e vitale sostenere la cultura».
Necessario e vitale perché l’arte e la cultura hanno sviluppato, fin dai tempi del Grand Tour, il turismo in Italia. Grazie alla ricchezza di siti culturali, distribuiti su tutto il territorio nazionale, si sono attivati enormi flussi di visitatori con un vantaggio per l’economia locale e nazionale, conferendo alla nostra Nazione una connotazione unica al mondo che ci ha fatto considerare il “BelPaese”.
Se fino a diversi anni fa l’Italia occupava una posizione leader assoluta nel turismo culturale, negli ultimi tempi si stanno perdendo notevoli posizioni e punti PIL in maniera precipitosa e preoccupante. La competitività sul mercato di destinazioni più originali con un marketing territoriale moderno ed efficace, ha evidenziato una rilevante mancanza di managerialità nella gestione dei territori, malgrado le nostre universali ricchezze, che forse ci salveranno dal naufragio. E questo a parere di chi scrive non è un dato trascurabile e sul quale riflettere.
Ne consegue che l’immagine della Destinazione Italia, anche dal punto di vista del target cultura, necessita certamente di un concreto e nuovo“Rinascimento”.Investire in cultura rende sempre; in materia di cultura non si parla mai di spese, ma di investimenti. Investimento per il futuro. Patrimonio per il futuro. “In quali condizioni lasceremo questi bene al globo noi che siamo stati il gioiello dell’universo?” La gestione e la valorizzazione di un vasto e importante patrimonio culturale come quello italiano impone dunque un’attenta politica culturale di stampo aziendalistico, una ricerca continua di un punto di equilibrio tra tutela e sviluppo economico, tra valorizzazione del bene e attenzione a non “consumarlo”, tra conservazione dell’arte antica e promozione di quella contemporanea.
Al settore della cultura va poco più dello 0,20% del bilancio dello Stato: in Europa la media è decisamente più alta; i beni culturali continuano ad avere valore in sé, sia esso educativo, sociale e artistico.
La funzione della tutela resta fondamentale ed è prerogativa dello Stato, come irrinunciabile è il ruolo delle sovrintendenze, di cui alcuni hanno, però, criticato alcuni aspetti ottocenteschi e arretrati. Occorre davvero coniugare passato e presente per programmare il futuro. Dalla sovrintendenze alle “nuove tendenze”. Questo nuovo atteggiamento potrebbe far superare l’ ostacolo al miglioramento e al possibile allargamento dell’offerta culturale. Soprattutto se la scelta di ricorrere al mercato e di adottare modelli di gestione imprenditoriale resta solo un’opzione normativa e puramente formale e non entra concretamente nelle logiche operative dei settori dei beni culturali. Che le scelte propendano per il pubblico o per il privato, restano in ogni caso due problemi:occorrono risorse, spesso ingenti; e capacità di gestire in modo efficiente, non solo per garantire la conservazione, ma anche per assicurare la più ampia fruibilità dei beni e
sviluppare turismo e indotto.
L’Italia ha 45 siti considerati dall’Unesco patrimonio universale dell’umanità, realtà che devono diventare fruibili per tutti e la cui tutela e valorizzazione dovrebbe passare soprattutto attraverso le istituzioni. Non è solo un problema di risorse ma di capacita’ ; il che dimostra come il tema vero sia in realtà la poco manageriale gestione delle risorse a disposizione. Il caso Pompei, un abbandono di cui molto si è discusso, viene letto non come una questione di risorse, ma come un fallimento di anni di gestione poco accurata e inefficiente. Ma tante “Pompei” ci sono e ci sono state in Italia. E forse ci saranno. Come il Colosseo che perde pezzi a colpi di incuria e di pastoie burocratiche, in merito alla possibilità di un neo mecenatismo.
Ecco perché si concorda con Carandini quando afferma “non è venuto il momento di studiare il contributo dei privati alla gestione del patrimonio pubblico immobile al fine utilizzarlo per conservarlo e comunicarlo?”
Ma perché dobbiamo salvare e non curare? Perché non riusciamo a capire che la Cultura può davvero salvare il Paese per il suo Valore?
Nelle prossime settimane il numero dei siti britannici appartenenti alla World Heritage List dell’UNESCO potrebbe subire una preoccupante riduzione a causa del probabile declassamento della Torre di Londra dallo status di patrimonio mondiale dell’umanità, titolo che detiene dal 1988. Le ragioni della retrocessione vanno ricercate nel dannoso impatto che le nuove costruzioni architettoniche, dallo Shard di Renzo Piano al Doon Street Tower, producono sull’integrità visiva di quartieri storici come London Bridge e Lambeth. L’ambizioso progetto del “maestro della leggerezza” sembra in questa occasione non trovare possibilità di dialogo con la realtà storica del luogo e finisce per comprometterne il valore universale. Lo Shard rappresenta l’ultimo esito della ricerca tecnologica ed architettonica di Renzo Piano, per il quale progettare è ancora una della più grandi avventure possibili, sospesa tra coraggio della modernità e prudenza della tradizione. Tuttavia la mirabile struttura cristallina di vetro e acciaio, con i suoi 66 piani e 310 metri di altezza, non convince i funzionari dell’UNESCO che ne dichiarano l’influenza negativa sullo skyline londinese. La sua costruzione terminerà nel 2012, anno in cui lo stesso complesso di Westminster Palace potrebbe trovarsi nell’orbita del declassamento a causa del grattacielo di 43 piani previsto nell’area sud-ovest della città. In attesa del verdetto finale degli ispettori UNESCO rispetto allo status della Torre di Londra, è interessante analizzare le circostanze che in passato hanno determinato il declassamento definitivo della città di Dresda e della riserva dell’orice d’Arabia nel deserto dell’Oman.
Il caso di Dresda, la “Firenze dell’Elba” rappresenta un precedente storico per gli eventi che oggi pongono Londra al centro del dibattito culturale poiché la ragione chiave della retrocessione fu un intervento architettonico che stravolse l’identità del luogo. Infatti tra il 2004 e il 2006 Dresda e valle dell’Elba furono inserite nella World Heritage List come parti integranti della stessa area geografica, urbana e rurale. Tuttavia nel 2009, il comitato dell’ONU fu costretto a cancellarle a causa della costruzione di un moderno ponte di quattro corsie che attraversava il fiume a pochi chilometri dal centro storico, trasformandone inevitabilmente l’originalità. Circostanze differenti spiegano il declassamento della riserva naturale e faunistica d’orice d’Arabia che, per scelta del governo Oman, subì la progressiva riduzione degli spazi e delle specie. Dal 1982 al 2007 gli esemplari diminuirono del 90%, parallela fu la revoca del loro status privilegiato. Attualmente sulla stessa linea si colloca la proposta dello IUCN d’inserire la biosfera Rio Platano in Honduras e la foresta tropicale di Sumatra in Indonesia nella World Heritage List in Danger. Alla lista, che oggi comprende 35 iscritti, potrebbero aggiungersi ben presto nuovi candidati come Mont Saint Michel in Francia, che rischia di essere deturpata dall’istallazione di vasti impianti eolici; ed i siti archeologici di Villa Adriana e Villa d’Este a Tivoli, minacciati dalla proposta di apertura di una vicina discarica. In attesa di nuovi sviluppi, è essenziale sottolineare che ogni tipo di relazione che coinvolge individuo ed ambiente non debba prescindere della salvaguardia del patrimonio preesistente.
Tra gli obiettivi dell’UNESCO c’è la promozione della pace e la tutela della diversità culturale. La recente ammissione della Palestina tra i suoi membri è stato un gesto in tal senso, non da tutti recepito.
Questo è quel sembra ricordarci Mauro Biani con la sua vignetta.
Scopri le altre vignette di Mauro Biani su http://maurobiani.splinder.com/
A una settimana dall’ammissione della Palestina come membro a pieno titolo dell’dell’organizzazione intergovernativa per l’Educazione, la Scienza e la Cultura -UNESCO – la querelle palestinese sembra aver lasciato in ombra il valore simbolico di un simile riconoscimento.
La tempesta scatenata da Stati Uniti e Israele, la divisione delle diplomazie internazionali, e gli interessi ideologici ed economici che si muovono sullo scacchiere globale, sono stati i protagonisti dell’informazione pubblica mondiale, senza lasciare spazio alcuno a riflessioni di carattere intellettuale, motivate dalla considerazione dell’organismo autore della decisione, un’organizzazione per sua natura inclusiva, alimentata da un’ambizione di pace e di valori comuni, che rinviene nel dialogo tra i popoli la via privilegiata per uno sviluppo duraturo, e che pertanto si propone di contribuire all’affermarsi di una comunicazione capace di superare i confini della religione, dell’ideologia e della cultura propri di ogni Paese.
La Conferenza Generale si è aperta lo scorso 25 ottobre con la volontà di improntare l’esercizio biennale 2012-2013 all’insegna del dialogo interculturale e interreligioso, un messaggio rivolto ai giovani, soprattutto attraverso lo strumento educativo, la cui pianificazione vuole effettuarsi con lo scopo di ridurre i rischi dei conflitti e delle catastrofi. È questa la strada che l’Unesco intende percorrere per contribuire a costruire una cultura della pace per un sviluppo globale duraturo.
Così, il peso di una scelta che tutti hanno tentato dapprima di scongiurare e infine di differire, è stato con fermezza sopportato dall’Unesco, nonostante gli ammonimenti intimidatori di Stati Uniti e Israele, voci che da sempre accusano l’organizzazione associata Onu di seguire una linea “terzomondista”.
Tuttavia, neppure le minacce di sicure ritorsioni USA in termini di budget hanno sortito l’effetto sperato: i 2/3 dei membri presenti e votanti alla Conferenza Generale necessari per l’ammissione della Palestina all’Unesco sono stati raggiunti, dimostrando con ciò come gran parte della comunità internazionale desideri che i palestinesi siano liberi in un loro Stato sovrano.
A votare a favore, soprattutto la porzione di mondo “che cresce”: a parte Russia e Paesi Arabi, la Cina, l’India e il Brasile hanno espresso il loro deciso sì; contrari, ovviamente, Israele e Stati Uniti, seguiti dal Canada. L’Europa continua a non essere compatta, così, mentre schierate ai due poli Francia e Germania hanno con convinzione sostenuto rispettivamente il loro appoggio e il loro sfavore, la Gran Bretagna e l’Italia hanno preferito astenersi, laddove il voto degli astenuti valeva come quello dei non presenti, e quindi non computato ai fini del raggiungimento del quorum. Un’incapacità di intercettare gli indirizzi globali? L’Italia, e l’Europa intera, hanno compreso il valore simbolico di una simile ammissione?
L’Unesco, prima agenzia ONU ad aver messo in agenda e votato a favore del riconoscimento dell’esistenza di uno Stato di Palestina, ha in tal modo spianato la strada alla domanda di riconoscimento avanzata da Abu Mazen lo scorso 23 settembre all’Organizzazione delle Nazioni Unite. È ovviamente questo il traguardo che i palestinesi ambiscono a conseguire, e lo sanno bene Stati Uniti ed Israele, le cui politiche di ostracismo mirano appunto ad evitare un simile risultato.
Ma facciamo il punto. Quante possibilità ci sono che il Palazzo di Vetro di New York voti a favore della domanda palestinese? Nessuna, ovviamente, essendo interdetta l’ammissione di un qualsiasi nuovo membro con il veto di anche un solo Stato permanente, quali sono appunto gli Stati Uniti. E abbiamo la certezza che tale facoltà verrà prontamente sfruttata. E allora? La decisione verrà delegata all’Assemblea Generale Onu, la quale verosimilmente non faticherà a raggiungere i 2/3 dei voti favorevoli, in tal modo modificando lo status della Palestina da entità osservatrice a Stato non membro – alla stessa stregua del Vaticano.
Se l’esito del voto sembra certo, non così le conseguenze dei dibatti che già infiammano la comunità internazionale: gli Stati Uniti rischiano con le loro posizioni risolute di esiliarsi ad una condizione di isolamento rispetto agli altri grandi attori economici mondiali?
Senza contare che la stessa crociata di tagli ai finanziamenti intrapresa contro l’Unesco avrà ripercussioni negative su importanti progetti sostenuti dall’organizzazione, primi tra tutti quelli avviati in Afghanistan, dove gli USA hanno tutto l’interesse ad uno sviluppo economico e sociale duraturo, ma anche quelli relativi alla diffusione della conoscenza dell’Olocausto, essendo l’UNESCO l’unica agenzia ONU che dispone di un mandato per promuovere nel mondo l’educazione relativa a questo doloroso evento.
La Palestina non comparirà ancora sulle cartine geografiche, e probabilmente verranno inasprite le politiche di occupazione dei territori oggetto degli accordi del ’67, ma il valore diplomatico di un simile riconoscimento attiva un effetto domino di conseguenze positive, innanzitutto di tipo pratico, non essendo trascurabile la sottrazione di importanti siti oggetto di disputa tra palestinesi ed israeliani in termini di valore culturale, quali il Parco Archeologico di Tell Balata a Naplouse, il monumentale palazzo Qasr Hisham e i suoi mosaici, la Chiesa della Natività e il Museo Riwaja a Betlemme, ma soprattutto di significato ideologico, che conseguono dal riconoscimento di questo primo pilastro della lotta per l’indipendenza e tendono a dotare finalmente il popolo palestinese di un suolo in cui poter radicare la propria identità culturale, per la prima volta nella storia di questa terra disunita e sconvolta dalla guerra, in maniera non violenta.
Il Consorzio del Parco Geominerario Storico e Ambientale della Sardegna ha rischiato di chiudere i battenti per la seconda volta.
Il 3 settembre 2011 la Commissione Bilancio del Senato ha approvato l’emendamento del Partito Democratico, che esclude la soppressione del Parco Geominerario, togliendolo dal novero degli “enti inutili” e garantendogli in questo modo il finanziamento sottoscritto dal Ministero dell’Ambiente al momento della sua istituzione.
Nelle intenzioni dei suoi promotori, il Parco doveva farsi carico della salvaguardia del patrimonio geologico circoscritto al suo interno e accogliere al tempo stesso l’eredità dell’intensa attività mineraria del Sulcis Iglesiente, ovvero gestire la riconversione culturale nata dalla più importante esperienza minerario/industriale sarda.
In effetti la cronistoria della sua nascita è il manifesto di un’esigenza territoriale forte, di un volere popolare ostinato che ha lottato per il suo riconoscimento.
È il 1996, dietro l’ambizioso disegno di dare vita al Parco si muove la struttura operativa dell’Ente Minerario Sardo (Emsa) guidato al tempo dal Presidente Giampiero Pinna.
L’occasione si presenta nel 1997 a Parigi, dove si svolge la Conferenza Generale dell`UNESCO.
Convinti dell’unicità geologica e ambientale dei territori designati, i promotori del Parco lavorano a un dossier esplicativo con la proposta di inserire il Parco Geominerario, Storico e Ambientale della Sardegna nella rete mondiale dei Geositi/Geoparchi quale primo esempio emblematico di rilevanza internazionale. La proposta è presentata dalla Regione Autonoma della Sardegna, tramite la Commissione Nazionale Italiana UNESCO ed il Governo Italiano. Viene accolta favorevolmente e nel 1998 è sottoscritta a Parigi la dichiarazione ufficiale di riconoscimento. Il 30 settembre, alla presenza delle massime autorità dell’UNESCO e del Governo italiano, si sottoscrive la “Carta di Cagliari”. Il Parco ottiene quindi il patrocinio morale dell’UNESCO ma non è ancora ufficialmente istituito poichè non ha finanziamenti per divenire operativo, questo ruolo spetta al Governo.
Il 5 novembre 2000 è protesta. Giampiero Pinna occupa la galleria Villamarina. Intorno a quest’avvenimento nasce spontaneamente una mobilitazione popolare di sostegno: le comunità locali vogliono il Parco.
Il 16 ottobre del 2001 il Ministro per l’Ambiente Altero Matteoli firma così il Decreto Istitutivo del Parco Geominerario Storico Ambientale della Sardegna. In breve tempo il Parco entra a far parte della rete globale ed europea dei Geoparks, (GGN e EGN) due prestigiose istituzioni internazionale nate rispettivamente nel 2000 e nel 2004. Si tratta di network che operano sotto l’egida dell’UNESCO (Division of earth sciences), con l’obiettivo di interpretare le politiche di conservazione e valorizzazione del patrimonio geologico in un sistema di azioni integrate e finalizzate alla tutela delle risorse ambientali e allo sviluppo economico dei territori, principalmente attraverso lo sviluppo del turismo geologico.
In buona sostanza un Geopark dovrebbe garantire la retta gestione dei territori e delle infrastrutture che contiene, promuovere attività educative e sostenere le imprese locali. È dunque un organismo glocal, di forte ispirazione internazionale e di radicato impianto locale.
Quale migliore soluzione per un ente contraddistinto da un patrimonio geologico e ambientale di raro interesse e da monumentali reperti di archeologia industriale?
Niente di tutto ciò è stato però realizzato.
Il Parco è oggi un ente commissariato, non ha una pianta organica ed è retto dall’immobilismo più imbarazzante per un istituzione di quel calibro.
Prima il Ministero ha messo a rischio la sua esistenza, poi l’UNESCO – che si riserva di monitorare periodicamente l’attività dei Geoparks – l’ha ammonito col ”cartellino giallo”: l’ente ha ora due anni di tempo per rispettare i parametri previsti dalla Rete dei Geoparks, pena la revoca del riconoscimento.
L’ente è salvo per ora, ma a che futuro va incontro?
Ancora una volta è il territorio a ribellarsi. La protesta nasce in seno alla Consulta delle Associazioni del Consorzio del Parco Geominerario Storico e Ambientale della Sardegna, ovvero l’organismo attraverso cui i cittadini, organizzati nelle diverse associazioni, possono partecipare attivamente alle scelte e alle attività del Parco.
Da quasi 3 settimane i rappresentanti delle 52 associazioni che formano la Consulta sono in stato di presidio permanente a Cagliari, in Villa Devoto (sede della presidenza della Giunta Regionale Sarda), per chiedere l’immediata attuazione della riforma del Consorzio. Un riforma che permetta di nominare un Presidente, bandire i concorsi per assumere personale qualificato e adeguare le attività dell’ente allo standard dei Geoparks europei.
Ma perché si protesta contro la Regione sarda?
Ecco cosa ne pensa il coordinatore della Consulta Giampiero Pinna.
Non è la prima volta che dà inizio o partecipa ad azioni così evidenti per il Parco, in che contesto politico e culturale ci troviamo oggi?
Ci troviamo in un contesto di degrado e indifferenza rispetto al patrimonio che possediamo, patrimonio che potrebbe diventare vettore di sviluppo fondamentale per il territorio e i giovani. E invece non si creano opportunità perché i fattori che veramente contano vengono trascurati.
In cosa consiste la Riforma e cosa rappresenterebbe per l’Ente Parco?
La Riforma rappresenta la rimozione di tutti quei condizionamenti che hanno ostacolato il funzionamento del Parco: dalla pletoricità del consiglio direttivo, ai meccanismi di vigilanza, dai freni all’attività amministrativa a quelli relativi al bilancio consuntivo e preventivo. Con la riforma si potrebbe finalmente contare su una pianta organica e predisporre una programmazione utilizzando i fondi messi a disposizione dal Ministero, cosa che attualmente avviene in maniera solo parziale, con residui altissimi.
Cosa c’entra tutto questo con la Regione autonoma della Sardegna, perché siete qui a protestare?
La riforma passa attraverso la revisione dello Statuto del Parco e l’adeguamento delle relative modifiche apportate. Deve essere approvata dal Commissario straordinario e dalla Comunità del Parco [organo di indirizzo, di programmazione e di controllo del consorzio del Parco, formata dai comuni e le province interessate nel perimetro del Parco e le Università di Cagliari e Sassari] e deve essere resa attuativa dal Ministero dell’Ambiente e dalla Regione. Questo è mancato. L’indifferenza del Presidente della Regione Ugo Cappellacci è sorprendente: in 3 anni non ha trovato il tempo di siglare l’intesa col Ministero, attraverso cui, come detto, si attua la riforma.
Lei è stato anche Commissario straordinario del Parco [2006-2009]. Il nostro sembra essere in realtà il paese dei commissariamenti. Che idea si è fatto di questa modus operandi all’italiana?
Il Commissario agisce con un provvedimento straordinario, attraverso cui si fanno atti di gestione straordinaria, che vanno realizzati in tempi brevi, poi si riprende il corso normale e istituzionale delle cose. Quando ero Commissario la riforma era stata approvata dalla Comunità del Parco, nel 2007, ma l’intesa non è stata siglata [al tempo il Presidente della Regione era Renato Soru] perché si vive di personalismi e non si riesce a completare gli iter amministrativi in corso.
Gli accordi con l’Unesco presuppongono che il Parco promuova il territorio entro un’ottica sostenibile, in termini di sfruttamento delle risorse e crescita. Qual è la vostra progettualità a proposito?
La stessa progettualità che, in grande misura, è stata già espressa negli scorsi anni. Sono state indicate delle direttive quali: recuper, tutela e valorizzazione dei siti, in funzione di una nuova proposta geo-turistica e di una conseguente rinascita economica dei territori. Queste proposte erano/sono rivolte alle piccole imprese, all’artigianato e all’agricoltura biologica.
In che modo il Parco potrebbe quindi funzionare come volano di sviluppo economico culturale partecipato dalle Comunità locali?
Il recupero e la gestione dei siti, su cui era impostata la progettualità operativa del parco, è stata supportata da uno studio socio-economico del territorio [svolto in collaborazione con Cirem Sezione Crenos- Centro ricerche economiche nord-sud] che si articola in 3 azioni:
– piano di comunicazione;
– piano di marketing internazionale;
– animazione economica.
Tutto ciò è funzionale a promuovere e stimolare le iniziative locali, nei confronti delle quali si era pensato inizialmente, quando eravamo convinti che la riforma potesse diventare operativa, ad un finanziamento di 300.000 Euro. Uno degli esempi più emblematici è il capraio di Canal Grande, inserito nel programma di finanziamento affinché riconvertisse il suo ovile, fatto di lamiera, in una struttura realizzata con materiali ecosostenibili. Il supporto economico era naturalmente rivolto anche alle strutture ricettive diffuse lungo i sentieri escursionistici e allo sviluppo di tutte le attività culturali che rispondessero a critieri di sostenibilità e sviluppo. Senza tralasciare la creazione di una pannellistica a carettere didattico disposta sempre lungo i sentieri e adeguata agli standard dei Geoparks.
Che ruolo potrebbe giocare il Parco per una Sardegna in crisi?
Potrebbe contribuire a far rinascere queste aree, oramai depresse dopo la chiusura delle miniere, e valorizzare il patrimonio con le iniziative di cui si parlava. Non servono voli pindarici per ottenere risultati, basta vedere quello che fanno gli altri grossi bacini minerari europei, che sono approdati nel network dei Geoparks dopo di noi e che, con le loro attività, hanno riqualificato quelle zone e rilanciato l’economia, sfruttando positivamente cultura industriale e ambiente.
Il mio sguardo è rivolto soprattutto ai giovani: ci sono infatti giovani professionisti che potrebbero realizzare gli stessi risultati, ma sono tagliati fuori perché l’ente non è operativo come dovrebbe. Questo dequalifica il Parco.
Quanto rimarrete qui?
Speriamo il meno possibile, ma il tanto necessario perché la riforma venga attuata. Anche la Comunità del Parco vuole la Riforma: il 17 ottobre si sono riuniti e hanno indicato un parere positivo a riguardo. Questo è un buon segno, perché i sindaci e le istituzioni locali sono cellule vive della nostra società.
La lotta prosegue e le domande sono tante: è possibile che lo sviluppo culturale in Italia sia sempre impastoiato da dinamiche politiche? Perché il concetto che la cultura genera economia non viene capito? “Noi continuiamo il presidio ma siamo convinti che il Parco sia dei giovani, noi abbiamo già la pensione”… aggiunge Enrico Pintus, segretario tesoriere della Consulta. A noi giovani spetta trarne le conclusioni.
Il primo criterio per essere accolto nel patrimonio UNESCO è di rappresentare un capolavoro dell’ingegno creativo umano: sarà quindi sembrato naturale candidare Wikipedia per questo riconoscimento.
Come piattaforma collaborativa può persino essere vista come la somma dell’ingegno di tutti coloro che contribuiscono al suo aggiornamento, dunque, con una interpretazione particolarmente olistica, assurgere al monumentale traguardo di esprimere il sapere dell’umanità nella sua accezione più trascendente.
Tra i molti, un aspetto di particolare interesse per apprezzare il valore di Wikipedia, è la sua immanente incompletezza ed intrinseca contraddittorietà, proprietà sublimi comuni anche alla logica matematica.
L’incompletezza risulta dall’impossibilità di concludere l’opera racchiudendo una visione statica e dogmatica, invece si offre flessibile alla revisione purché suffragata da autorevoli fonti. Ed è proprio sull’autorevolezza delle fonti che nasce la natura contraddittoria in quanto, essendo per costituzione blandamente gerarchica, permette di ospitare un pluralismo di qualità senza mai imporre una prospettiva prevaricatrice.
Anche per preservare questa neutralità ambidestra, il modello di business è basato su donazioni al fine di evitare il giogo finanziario, tuttavia ne sancisce uno dei principali punti critici per la sua sussistenza in un mercato dominato da modelli – percepiti gratuiti per l’utente – come la pubblicità.
Rimane da sperare che Wikipedia non venga annoverata nel Heritage Unesco in forza del criterio di testimonianza di una cultura scomparsa!
Gabriele Morano è esperto in new media e mobile entertainment