Culture21 srl – Gruppo Monti&Taft Ltd
Partita IVA 03068171200 | Codice Fiscale/Numero iscrizione registro imprese di Roma 03068171200
CCIAA R.E.A. RM - 1367791 | Capitale sociale: €10.000 i.v.
La rete brulica di corsi di formazione, seminari e workshop volti ad approfondire i temi della responsabilità sociale d’impresa. E’ sufficiente digitare su google le parole chiave csr, corso, master e si apre un nutrito elenco di opportunità, destinate ai professionisti che già operano nel settore, ai dipendenti delle aziende e delle pubbliche amministrazioni o ai giovani appassionati della materia che vorrebbero farne un lavoro. Tra i master più rinomati, quelli promossi dall’Università Bocconi, dall’Università Ca’ Foscari di Venezia e dalla Lumsa di Roma. Questi sono, tuttavia, solo alcuni esempi dell’eccellenza formativa offerta dalle università italiane.
Eppure alcuni dubbi sorgono spontanei. Il sistema formativo, pubblico o privato che sia, non dovrebbe facilitare l’effettivo incontro dell’offerta e della domanda nel mercato del lavoro? E, ancora, siamo sicuri che in una fase storica di recessione, quale quella attuale, le aziende abbiano risorse da investire in responsabilità sociale d’impresa?
I dati relativi ai primi nove mesi del 2012 rilevati dall’Osservatorio su fallimenti, procedure e chiusure di imprese del Cerved Group parlano chiaro: con una media di 200 imprese al giorno che escono dal mercato, per un totale complessivo di 55mila imprese chiuse nel 2012, la crisi è nera e le cifre riferite ai primi sei mesi del 2013 non sono certo più rosee.
Visto il contesto è d’obbligo, dunque, domandarsi quale impresa possa permettersi il lusso di investire in csr? Di certo non le piccole e medie imprese che, a causa della contrazione della liquidità e della stretta al credito praticata dalle banche, stentano ad arrivare alla fine del mese. Tendenzialmente le aziende che investono regolarmente in csr sono piuttosto quelle che possono contare su fatturati consistenti, come rilevato da un’indagine condotta da SWG per l’Osservatorio Socialis su L’impegno sociale delle aziende in Italia, 2012.
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La Stanford University è una delle università più ricche e prestigiose del mondo. A farne un punto di riferimento internazionale, fra le altre cose, è la sua solidissima partnership con la Silicon Valley, il cluster tecnologico che ospita alcune fra le imprese più importanti del mondo, di cui l’università è stata più volte definita la “queen mother”. Fra i colossi tecnologici del Paese non ce n’è uno che non abbia legami profondi con l’ateneo, che ha sapientemente fatto della vocazione all’imprenditorialità il suo biglietto da visita.
Stanford investe nelle idee di business dei suoi studenti, al punto da innescare timori e discussioni sugli incentivi e il potere coercitivo che i suoi docenti sono in grado di esercitare. Si, perché sempre più spesso sono proprio loro, i docenti, i primi investitori delle start-up dei giovani talenti che si formano nelle aule. Tralasciando per un istante le potenziali implicazioni etiche chiamate in causa da alcuni opinionisti, la fiducia e la propensione al rischio che traspaiono dalle dinamiche dell’ateneo devono farci pensare, soprattutto guardando alla realtà universitaria italiana.
Di recente Stanford ha inoltre deciso si investire in StartX, un incubatore fondato nel 2009 da un team di studenti, facendone una diramazione ufficiale, un canale per finanziare le migliori start up universitarie ottenendo come contropartita parte del capitale delle neonate società. Ed è proprio il modello equity oriented a costituire il tratto distintivo dell’operazione, che scegliendo l’entrata in quota – invece di focalizzarsi sullo sfruttamento dei brevetti – fa proprie dinamiche vicine al mondo dei venture capitalist.
Negli ultimi dieci anni anche in Italia gli incubatori e i facilitatori d’impresa hanno iniziato a proliferare e ad oggi possiamo vantare i primi casi di eccellenza anche in ambito universitario. Stiamo parlando di I3P, l’incubatore del Politecnico di Torino, classificato undicesimo fra i migliori business incubator universitari nella graduatoria internazionale dell’UBI, e dell’AlmaCube di Bologna, controllato a metà dall’università e a metà da Unindustria Bologna, un’associazione di imprese.
Se è vero che queste strutture giocano un ruolo cruciale nel settore della S&I – Scienza & Imprenditorialità, costruendo un ponte fra la ricerca scientifica universitaria e la valorizzazione imprenditoriale della conoscenza, non si può non auspicare che presto sperimentazioni di questo tipo inizino ad interessare anche il settore culturale e creativo. Le materie umanistiche colonizzano i curricula di moltissimi atenei italiani, pubblici e privati, e i tempi sono maturi per la sperimentazione di modalità di placement innovative, che rendano più fluidi i confini fra università e impresa.
Dalla creazione di semplici spazi di confronto e fertilizzazione incrociata all’offerta di servizi di incubazione e facilitazione, l’università italiana ha bisogno di cambiare atteggiamento nei confronti dei propri studenti, smettendo di considerarli semplicemente degli iscritti paganti e iniziando a pensare loro come i potenziali partner di domani, interlocutori con cui costruire nuova impresa – cosa di cui il nostro Paese ha tremendamente bisogno, settore culturale in testa.
Abituare gli studenti delle discipline umanistiche e dell’economia della cultura a confrontarsi fin dagli ultimi anni dell’università con progetti ed iniziative imprenditoriali, svolgendo attività di ricerca, ideazione e analisi economica per le imprese attive nel settore può rappresentare un’esperienza chiave per la formazione, la scelta del proprio percorso futuro e l’ingresso nel mondo del lavoro. Università e impresa devono essere protagoniste di un dialogo sempre più stretto e serrato, sperimentare nuove modalità d’incontro e nuove possibili sinergie se vogliamo credere nella ripresa della nostra economia.
I migliori atenei del mondo stanno investendo tempo e risorse nella creazione di business incubator universitari perché nell’economia della conoscenza, le attività tangibili e intangibili svolte da questi soggetti ricoprono un ruolo chiave nel supportare l’imprenditorialità, fornendo alle startup strumenti e conoscenze per affrontare la concorrenza e un fitto network di relazioni, indispensabile per affermarsi con forza sui mercati di oggi. Senza dimenticare che, come insegna il caso di Stanford, il successo delle idee di business degli studenti è il successo dell’ateneo stesso, quando non addirittura una possibile fonte di ricchezza.
Ad oggi in Italia i nuovi imprenditori costituiscono solo il 2,3% della popolazione, contro il 4,2% della popolazione tedesca e il 7,8% di quella americana. Per veder cambiare lo scenario è sicuramente necessario agire su più fronti, ma la trasformazione non può non varcare la soglia dei nostri atenei, ridisegnando le dinamiche di placement e generando una nuova cultura condivisa, che unisca formazione, impresa e ricerca in una sinergia reale e vincente.
Intervista al Dott. Ivan Antognozzi, Project manager Urbino 2019
Qual è l’identità del territorio dalla quale scaturiscono le strategia e il progetto del 2019?
Il centro storico di Urbino è patrimonio UNESCO innanzitutto, e nonostante sia una piccola città di circa 15.000 abitanti, registra una comunità di studenti molto numerosa, che si aggira sui 30.000 ragazzi, la cui presenza raddoppia la popolazione qui residente.
Urbino ha il numero di istituti di formazione più alto al mondo rispetto al numero di abitanti, come l’Università, la Scuola del Libro, l’Accademia di belle arti, la Scuola di giornalismo.
La provincia di Urbino è secondo il rapporto Symbola quella con il più alto numero di imprese creative e culturali d’Italia.
La Regione, le Marche, in cui risiede Urbino, è stata inoltre insignita quest’anno del titolo di Regione Imprenditoriale d’Europa, l’unica in Italia che negli anni abbia ricevuto questo riconoscimento.
Ci sono dunque dei primati ad Urbino che giustificano la sua candidatura e che orientano la strategia del programma culturale di Urbino 2019. Si vuole da qui iniziare per proporre un nuovo Rinascimento, un nuovo modello di sviluppo.
Non è che qui può partire un nuovo Rinascimento contemporaneo semplicemente perché in questi luoghi se n’è avuto uno 500 anni fa, bensì quella fase rivoluzionaria ha prodotto un’eredità che oggi qualifica Urbino nei termini che le ho detto. C’è un filo rosso che connette l’Urbino quattrocentesca ai primati di oggi.
Perché è così straordinaria? In fondo è un piccolo paese. In realtà è perché ha avuto un passato eccezionale che si è sedimentato. Bisogna però dare una scossa a questi fiori all’occhiello, bisogna utilizzarli, sondarli e gestirli in maniera nuova, e la candidatura serve anche a questo: a produrre uno shock in termini di internazionalità per la città.
Quali sono gli asset che la città immette in questo programma?
Per la città l’obbiettivo è quello di riconquistare una centralità culturale in Europa. Le Marche tutte si devono riconoscere in Urbino, affinché diventi un simbolo di appartenenza in cui identificarsi, un faro policentrico di un intero territorio, piccolo anch’esso, con i suoi 1 milione e mezzo circa di abitanti. La città è il punto più alto, una sintesi del patrimonio culturale disseminato nella Regione.
Urbino 2019 ha degli obiettivi importanti anche sul piano della macroregione adriatica. Le Marche sono la sede del segretariato permanente delle iniziative adriatico-ioniche. Spacca, il governatore delle Marche, è stato il relatore del parere sulla macroregione adriatica presso il Comitato delle Regioni. Qui hanno sede tre dei quattro network importanti dell’area mediterranea adriatico- ionica: Forum delle Camere di Commercio, Uniadrion e il Forum delle Università.
Le Marche sono dunque legatissime a tutta l’altra sponda dell’Adriatico: basti pensare che il palazzo ducale di Urbino l’ha fatto un dalmata, Luciano Laurana; c’è una civiltà marinara comune che ha caratterizzato l’identità delle Marche, delle altre regioni adriatiche e di quelle sull’altra sponda. In questo contesto storico e contemporaneo, Urbino deve rappresentare la cultura di tutta la Regione nell’area macroadriatica: si presenta perciò come un ponte culturale. Un obiettivo per l’Europa è fornire un modello di sviluppo policentrico, micromega: il piccolo che diventa un contesto ideale per fare grandi cose.
Quali sono le mancanze cui dovrete invece sopperire?
Le mancanze di fatto sono carenze infrastrutturali, le dimensioni ridotte, la trasportistica, ma devono diventare, e non è un esercizio di retorica, punti di forza. Il fatto che Urbino sia piccola, unica candidata a Capitale europea della Cultura di queste dimensioni che ci sia mai stata, o il deficit infrastrutturale, proprio queste mancanze devono connotare il nuovo modello di sviluppo. I suoi punti deboli, sono solo apparenti, perché su quelli si costruiscono i progetti volti alla crescita. Consideriamo che il 40% della popolazione europea vive in città con meno di 50 mila abitanti: Urbino dunque è un importante contesto rappresentativo della realtà europea. Anche le grandi metropoli, del resto, non sono altro che agglomerati di tante piccole città: il modello urbinate, di sviluppo micromega che si vuole proporre, si può ben replicare e conciliare con la dimensione metropolitana.
I flussi economici delle città d’arte riguardano solitamente pochi addetti ai lavori. Il programma relativo alla candidatura intende coinvolgere uno spettro più ampio di operatori economici?
Le Marche e tutto il suo sistema economico partecipano alla candidatura: il progetto si basa sul concetto di “corte aperta”, in maniera fattiva, dove la corte è una dimensione progettuale e operativa, in cui sono concretamente e fisicamente presenti le attività del territorio. Le imprese marchigiane aderiscono alla candidatura, non solo sul fronte finanziario, ma anche partecipando ai progetti previsti.
Cosa rimarrà alla città dopo il titolo di Capitale europea della Cultura?
Tutto il programma di reti per il 2019 dovrebbe sortire un ripensamento dei servizi e delle funzioni della città in maniera permanente. Per il 2019 ci sarà una grande dimensione spettacolare, ma quello che la produce, ciò che conduce ai miglioramenti, invece, rimane. Tutti i processi, le strategie e i progetti legati alla candidatura, si baseranno su strutture permanenti.
Costanza Quatriglio, ha la forza della determinazione dalla sua parte, è tenace, sorridente e non ha paura di dire quello che pensa.
La regista palermitana presenta Fuori Concorso a Venezia “Con il fiato sospeso”. Il film racconta la storia di Stella (Alba Rohrwacher), una studentessa della facoltà di chimica che si sente male a causa delle esposizioni a sostanze tossiche presenti nel laboratorio dove fa la ricercatrice. La sua vicenda si intreccia con il diario di Emanuele (Michele Riondino) un dottorando, morto di tumore, che ha seguito, qualche tempo prima, il suo stesso percorso universitario. La pellicola è un viaggio autentico intrapreso dalla regista dopo aver letto, alla fine del 2008, un articolo sulla chiusura del laboratorio di chimica della Facoltà di farmacia dell’Università di Catania per sospetto inquinamento ambientale. Contemporaneamente viene ritrovato un memoriale scritto da Emanuele in cui denuncia le condizioni insalubri del laboratorio di ricerca.
Oggi si attende la conclusione del processo che vede imputati i vertici della Facoltà. Anni di documentazioni e incontri, hanno dato vita a un suggestivo film, metafora di un paese che manda i suoi figli alla guerra.
Ci racconti il lavoro che avete fatto insieme?
Alba Rohrwacher: Quando Costanza mi ha coinvolto in questo progetto, ho detto subito di sì perché mi sembrava importante che questa storia venisse raccontata. Inizialmente ho sentito una grande responsabilità che nasce da un grande limite e in questo limite ha trovato una forma libera e nuova. Sentivo anche un pudore, un rispetto profondo, per chi quella storia l’aveva vissuta davvero. Abbiamo iniziato a lavorare e, in questi pochissimi giorni, abbiamo girato prima le scene nel laboratorio di ricerca e poi, quando siamo arrivati all’intervista, sapevo che c’era un’onestà, un rispetto vero e che quella intimità poteva uscire dal mio personaggio.
Costanza Quatriglio: Le ho parlato tante volte di quali potevano essere i sentimenti chiave di questa storia. Ho cercato di costruire un percorso insieme ad Alba che le permettesse di fare un’esperienza cui attingere per costruire al meglio il personaggio di Stella. Ti colpisce che questi ragazzi abbiano questa grande passione per lo studio e colpisce questo tradimento gigantesco che è sotto gli occhi di tutti. Quindi, da un lato abbiamo lavorato sui concetti e poi sull’esperienza in laboratorio. Questo esercizio ci ha permesso di creare quel cortocircuito che è alla base di quella relazione privata, intima di cui parlava Alba. Un film di finzione ma girato sulla base di un precipitato di realtà che sulla pellicola diventa potente.
Come attrice c’è una ricerca diversa. Come hai lavorato per interpretare questo ruolo?
A.R.: C’era un testo che aveva scritto Costanza e che poi è diventato nuovo nel momento in cui lei mi faceva le domande e si è arricchito poi di sensazioni, nate con le sequenze girate in laboratorio. Durante l’intervista e le giornate trascorse nei laboratori di ricerca, si è creato qualcosa di molto intimo, tra me, la direttrice della fotografia, Costanza, che era l’intervistatrice, e il fonico. Era come una confessione e non c’era la macchina del cinema a invadere uno spazio.
Si parla molto di Università per i tagli e per i tanti problemi di accesso allo studio. Quando vi siete accostate a questa storia, la morte attraverso lo studio, come vi siete sentite?
C. Q.: Ho considerato questa vicenda esemplare di uno stato dell’arte dell’Italia e del futuro dei ragazzi. Ho trovato ispirazione dal diario di Emanuele, dove denunciava le cose che non funzionavano in quel laboratorio. Non mi interessa più dire se è dimostrabile o no che la sua malattia sia connessa o no a quel laboratorio, quello che mi interessa dire è che, a volte, nell’Università si muore anche psicologicamente. Una morte come metafora del fatto che in questo paese, negli ultimi anni, si è persa completamente l’idea di progettualità del futuro. C’è troppo cinismo, si è persa l’idea di passione e di pietas, perché in questo film c’è anche l’amore per quello che fai e per il prossimo. In Italia oggi esiste solo un’Università verticistica che pubblica, pubblica, pubblica e basta.
A. R.: Questo film racconta anche un altro punto di vista, quello di chi va alla guerra e va verso la morte per una passione. Si, è vero che ci sono dei vertici che ti tradiscono, che ti vogliono schiacciare e ti portano nel baratro della morte, ma c’è anche un esercito che, dalla mattina alla sera, fa della loro vita universitaria una ragione di esistere. Queste generazioni spesso vengono rappresentate come perse, in un luogo smarrito. Invece, nel film, c’è una generazione cosciente e consapevole che cerca di modificare le cose e qualcuno che non permette di cambiarle.
Il film ha un linguaggio diverso, come ti sei trovata?
A. R.: Il film è nato mentre lo facevamo, eravamo coerenti con un sentimento e, per questo motivo, tutto poteva funzionare. Poteva funzionare che io venissi catapultata dentro un gruppo di ricerca vero che mi ha accolta, anche se non aveva mai avuto a che fare con il mezzo cinematografico e, in questo modo, anche l’intervista, prima approcciata con pudore, è diventata naturale. Dicevo sempre a Costanza che questo limite sarebbe diventato la forza del film.
C. Q.: Questa bellissima frase di Alba, mi è stata detta anche dai mie collaboratori che hanno sposato il progetto e lavorato in modo volontario. Ci sono tre cose di cui si parla sempre: la libertà, l’indipendenza e la solitudine. Questo film aveva il pregio della libertà, il privilegio dell’indipendenza, ma ha rischiato il dispiacere della solitudine. Per fortuna non è così: è bastato farlo vedere, le persone se ne sono innamorate e la Mostra del Cinema di Venezia lo ha voluto.
Quale reazione ti aspetti da Venezia?
C. Q.: Mi aspetto rispetto. Non è un “J’accuse” nei confronti dell’Università di Catania, non è un film a tesi, ma pone delle questioni e la principale si racchiude nella frase che il professore dice alla propria allieva: “Quando noi abbiamo incominciato a lavorare in laboratorio non sapevamo che l’amianto e il benzene erano cancerogeni”. Questa è il tema del film, noi viviamo in un paese che non si è mai addestrato al progresso. In Italia c’è la classe dirigente più vecchia d’Europa e se tu lavori e studi con delle categorie concettuali vecchie di sessanta anni, è chiaro che sei sempre ancorato al passato e non pensi mai al futuro. Questa è la vera riflessione.”
Per una volta non sono stati gli atenei italiani ad analizzare, esaminare, valutare. Il maestro si è trasformato in scolaro e le 133 strutture sparse sul territorio italiano, tra università ed enti di ricerca, sono state oggetto di indagine da parte dell’Anvur, l’Agenzia nazionale di valutazione, nata nel 2006. Ci sono voluti 20 mesi perché 14.770 revisori concludessero la monumentale opera di valutazione che per la prima volta ha messo sotto esame la produttività della ricerca degli atenei italiani (progetto VQR).
Sono state considerate 14 aree scientifiche e per ogni struttura sono stati tenuti in conto 7 indicatori che si riferiscono a fattori come la qualità della ricerca, la capacità di attrarre risorse o l’internazionalizzazione; e altri 8 indicatori relativi, invece, alla capacità di relazione, connessione e valorizzazione del contesto socio-economico.
Per quanto riguarda i 95 atenei italiani, è stata fatta una distinzione in base a grandi, medie, piccole università e la posizione di ciascun ateneo in graduatoria è stato determinato da un valore medio tra tutte le aree considerate. Ai primi posti tra le grandi università figurano: Padova, Milano Bicocca, Verona, Bologna, Pavia. Le prime 5 classificate delle medie università sono state: Trento, Bolzano, Ferrara, Milano San Raffaele, Piemonte Orientale e Venezia Ca’ Foscari. Infine, tra gli atenei più piccoli, spiccano Pisa Sant’Anna, Pisa Normale, Roma Luiss, Trieste Sissa, Roma Biomedico. Se si considerano, invece, le classifiche “tematiche”, per le Scienze matematiche e informatiche abbiamo nell’ordine: Roma La Sapienza, Roma Tor Vergata, Pisa. Per le Scienze economiche e statistiche: Padova, Milano Bocconi, Bologna. Per le Scienze dell’antichità, letterarie, artistiche: Padova, Milano Politecnico e Bologna. Per le Scienze giuridiche: Trento, Padova, Verona.
Come si può ben notare, la vittoria degli atenei del nord su quelli del sud e del centro è quasi schiacciante. Roma La Sapienza, nella classifica generale, è solo al 22° posto e il consiglio nazionale delle ricerche, il CNR, è risultato il grande assente dalle classifiche Anvur. Le Università di Catania e Palermo sono al 30° e al 31° posto, Bari e Cagliari al 26° e 27° posto, mentre risalgono un po’ la china solo Catanzaro, Napoli e Salerno che si attestano più o meno a metà classifica.
Alla luce di ciò, non sono mancate le polemiche, specialmente se si considera che tra i 6,69 miliardi di euro che il Miur ha stanziato per la ricerca nelle università, 540 milioni, cioè il 7%, dovrebbero essere distribuiti in base al merito, ovvero proprio in base ai risultati di questa ricerca. Il Cnr, ad esempio, si giustifica sostenendo che il centro privilegia i rapporti con il mondo delle aziende e l’interdisciplinarità, mentre la valutazione dell’Anvur ha messo in luce gli atenei che si occupano principalmente di ricerca pura. C’è anche da dire, poi, che l’indagine è stata compiuta per gli anni dal 2004 al 2010, escludendo per forza di cose, risultati importanti come quello dell’Istituto nazionale di fisica nucleare che nel 2012 è stato coinvolto nella scoperta del bosone di Higgs.
Certo è che si tratta di un momento significativo e importante per l’università e la ricerca italiana. Il fatto che si parli di questi due settori, a lungo ignorati o deprecati, e che si investano 10 milioni di euro per istituire un agenzia (l’Anvur appunto) che ne monitori lo stato di salute, è sicuramente un passo avanti positivo. Forse il passo successivo, quello di stanziare parte di fondi in base ai risultati di questa classifica, necessita di un altro po’ di rodaggio per essere effettuato. Bisognerebbe prima capire tutte le sfaccettature della ricerca, delle sue applicazioni e della sua produttività. E magari evitare il rischio di affondare ancora di più quegli atenei che sono già in fondo alle classifiche, e che, pur non essendo prestigiosi, garantiscono però una distribuzione democratica dell’accesso al sapere nel nostro Paese.
D’altra parte persino dall’Anvur giunge la necessità di cautela nell’applicare ai risultati della ricerca una distribuzione delle risorse, nonostante l’esito incoraggiante e positivo del loro lavoro: “crediamo che la VQR dispiegherà i suoi effetti benefici nei mesi e negli anni a venire se i suoi risultati saranno studiati nel dettaglio e analizzati con attenzione, e utilizzati dagli organi di governo delle strutture per avviare azioni conseguenti di miglioramento. Un segnale incoraggiante è lo spirito di grande interesse e collaborazione con l’ANVUR delle strutture valutate, per le quali la VQR ha richiesto lavoro e impegno in un momento di grande trasformazione e difficoltà (in particolare per le università)”.
Che l’arte di cucinare non fosse solo una questione di puro caso e libera fantasia, l’aveva già compreso nel 1891 il gastronomo romagnolo Pellegrino Artusi, che pubblicò a sue spese il libro “La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene”. Dopo più di un milione di copie vendute il manuale di cucina è arrivato alla centoundicesima edizione: il concetto che l’arte enogastronomica sia governata da leggi e norme fisico-matematiche ormai è assodato e accertato. Tuttavia se ad accreditare tale teoria è una delle più antiche istituzioni accademiche nel mondo, la prestigiosa università di Harvard, allora la questione si fa seria, come una autorevole lezione accademica. È proprio quello che è avvenuto all’interno dell’università americana: i professori di matematica e fisica hanno tenuto dei seminari culinari, che si sono susseguiti in diverse serate, durante le quali accompagnati da chef d’eccezione, hanno spiegato la chimica degli alimenti, la fisica degli ingredienti, la matematica delle ricette. Dopo una breve introduzione teorica, davanti ad una folla copiosa di studenti accorsi con taccuini per prendere appunti, ogni serata prevede spiegazioni dettagliate dei procedimenti e delle formule grazie all’ausilio di slide, seguiti da dimostrazioni pratiche, con gli chef che improvvisano la ricetta.
Un autentico corso di cucina accademica, condito con la teoria dei numeri e della scienza. Tutte le lezioni sono state registrate e caricate online sul canale Youtube dell’università, dove sono fruibili gratuitamente non solo dagli studenti ma da tutti gli utenti del web. Un esempio di scuola di cucina online di alto livello, che forse dovrebbe essere seguito e sperimentato anche dalle nostre accademie di cucina nostrane, che spesso a causa dei prezzi inaccessibili, sono davvero appannaggio di pochi. Se la cucina è un’arte che dipende dal talento e dalla passione, perché non renderla accessibile a tutti, sfruttando i canali social network e video? Per quanti di voi amano la sicurezza dei numeri e i piaceri del palato, non potete perdervi il canale universitario. Le lezioni caricate sono molte, complete ed interessanti. Scienziati dei fornelli, buon appetito!
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Spesso si pensa che i giovani non siano particolarmente esigenti rispetto la scelta del posto dove trascorrere gli anni dell’università. Esistono, invece, dei canoni fondamentali nel rendere una città più o meno a misura di studente. Tra questi: la sicurezza, un rapporto ragionevole tra costo e qualità della vita, un’offerta di servizi accessibili -come cinema, teatri, luoghi di ritrovo, attività sportive-, la presenza di altri giovani (ancora meglio se internazionali), efficienti infrastrutture urbane, il clima e, ultimo ma sicuramente non meno importante, la qualità delle istituzioni scolastiche. La presenza di atenei prestigiosi, la varietà di corsi di laurea e le possibilità occupazionali per i neo-laureati giocano, ovviamente, un ruolo importante.
Proprio di questi parametri ha tenuto conto il QS (Quacquarelli Symonds), un centro di ricerca internazionale specializzato nell’analisi di informazioni sul mondo universitario e dell’istruzione superiore, per stilare -per la prima volta quest’anno- una classifica delle cinquanta “Best Student Cities”, le città migliori al mondo per studiare.
Tutte le “capitali universitarie” presenti nella classifica -solo per citarne alcune nella top 10 Boston, Melbourne, Vienna, Sidney e Zurigo– offrono agli studenti infrastrutture accademiche eccellenti e generalmente accessibili, trasporti efficienti, molti spazi verdi e una ricca offerta culturale, basti pensare ai musei gratuiti di Londra. Sono inoltre città cosmopolite con importanti centri nella finanza, nelle arti e nei media, fattore che contribuisce a creare quel legame indispensabile tra studio e mondo del lavoro.
Ed ecco allora i risultati della classifica: al primo e secondo posto due città europee, Parigi e Londra. Vediamo alcune loro caratteristiche, nella capitale francese sono presenti ben 16 diverse università, per un numero di studenti che arriva a 1,79 milioni con una percentuale di studenti stranieri del 17%. La seconda classificata vanta invece di 12 poli universitari e di 135,200 studenti con una percentuale di studenti stranieri del 33%.
La prima, e purtroppo unica, città italiana a comparire nella classifica è Milano al 21esimo posto, dove la percentuale di studenti internazionali scende al 5%.
Va comunque precisato che per identificare le città presenti in questo elenco, sono stati imposti dagli studiosi del QS due pre-requisiti. Il primo teneva conto della densità di popolazione, che doveva essere superiore ai 250.000 abitanti, il secondo imponeva che la città fosse patria di almeno due istituti universitari già classificati da QS World University Rankings, la classifica delle migliori università al mondo.
Per questo sembra giusto guardare anche alle città universitarie italiane non presenti, fatta eccezione per Milano, tra le “Best Student Cities”. Secondo Erasmus students network, l’associazione europea il cui scopo è la promozione e il supporto degli scambi internazionali fra studenti, le migliori città in cui studiare in Italia sono Siena, Parma, Bologna e Padova. Centri urbani non troppo grandi ma bene organizzati, con un buon sistema di accoglienza per gli studenti stranieri, ricchi di spazi e strutture per lo studio, di reti wi-fi gratuite, di alloggi universitari e di camere ancora affittabili a prezzi accessibili (si parla di cifre che oscillano tra i 300/400€ al mese).
Sono luoghi che vantano anche di un ricco sistema di interventi rivolti alla valorizzazione della cultura e alla creazione e messa a disposizione di spazi dedicati alla creatività e al tempo libero.
Ovviamente, una città capace di attrarre studenti è una città in grado di attrarre turisti e ricchezza. Quindi, invece che sottolineare i tagli e le limitazioni causate dalla crisi, dall’indebitamento pubblico e dalla disoccupazione, perché non cercare di coniugare l’eccellenza delle istituzioni universitarie italiane con la qualità dei servizi offerti ai cittadini e agli studenti per dare nuovo slancio all’economia del nostro paese?
Negli ultimissimi anni è comparso un termine nuovo nel lessico delle scienze dell’educazione: “ambiente di apprendimento”. Con questa nuova prospettiva si vuole spostare l’enfasi su chi sta imparando, piuttosto che su che cosa si sta imparando. Dare importanza al soggetto significa osservare quali situazioni possono favorire l’apprendimento e significa, soprattutto, dare il giusto rilievo all’ambiente d’interazione. Infatti, il sistema che circonda gli allievi può favorire non solo la concentrazione e la motivazione, ma può rendere l’intera esperienza più coinvolgente e piacevole.
Uno dei problemi principali riguardo gli ambienti formativi attuali è rappresentato dal fatto che, sia la metodologia di insegnamento che la disposizione dello spazio, sembrano essere profondamente radicati su una struttura tipica delle scuole ottocentesche. L’idea centrale, data anche dalla classica disposizione banchi/cattedra, era quella di creare un isolamento dell’insegnante all’interno di uno spazio rigido, gerarchico e autoritario.
Proviamo ora a pensare alle vetuste aule universitarie, uguali da decenni, per non parlare delle classi delle scuole, sicuramente molto simili a quelle dove hanno studiato i nostri nonni e bis nonni. L’impressione entrando nella maggior parte dei contesti educativi del nostro paese, è che il design dei luoghi di apprendimento sia rimasto indietro -e di molto- rispetto ai cambiamenti avvenuti nella nostra società. Questi cambiamenti possono essere riassunti dal crescente successo dell’e-learning, dallo sviluppo dei social network, dei blog, delle videoconferenze e dalle nuove tecnologie di comunicazione. Tali risorse tecnologiche rendono necessario l’utilizzo di un nuovo tipo di design, uno capace di adattarsi alle differenti attività della didattica contemporanea.
Ed effettivamente, alcuni studi recenti propongono una nuova tipologia di aula, il cui arredamento si ispira a contesti differenti da quello scolastico. Ad esempio, l’architetto e autore del libro Learning Environments, Alessandro Biamonti, ha da poco ipotizzato la realizzazione di spazi di apprendimento che seguano la metafora del teatro: con gli allievi seduti ai tavolini davanti ad un palcoscenico. Questo per favorire le nuove modalità partecipative. Secondo altre ricerche, il tipo di mobilio dovrebbe diversificarsi anche a seconda della materia di studio. Suppellettili moderni, con un design essenziale, favorirebbe l’apprendimento di materie scientifiche, mentre un arredamento più complesso, con mobili antichi, lampadari e tappeti creerebbe i presupposti per un migliore studio di materie letterarie. E non dimentichiamoci dei colori! I risultati di uno studio pubblicato qualche tempo fa sulla rivista Science danno un’importanza centrale alla tinteggiatura delle pareti nei luoghi di apprendimento. Colori come il blu stimolerebbero la creatività e la tranquillità, mentre colori come il rosso aiuterebbero l’attenzione e la concentrazione.
In Italia, per ora, queste ultime scoperte non si sono trasformate in veri e propri progetti, anche se molti risultati potrebbero aprire la strada per un’interessante sperimentazione. E allora, il fatto stesso che gli studi esistano e che i risultati comincino a suscitare un certo interesse è sicuramente un primo passo verso quella tanto attesa evoluzione nel mondo dell’apprendimento che il nostro Paese aspetta da anni.
È stata lanciata online stamattina e ora non resta che aspettare per vedere se il suo germe sboccerà. Si tratta della piattaforma Innovitalia.net, istituita da una task force condivisa da Ministero dell’Istruzione e della Ricerca e quello degli Esteri. Un progetto congiunto, che si prefigge di creare una vera e propria community in grado di mettere in contatto tutti i cervelli italiani che risiedono all’estero. Un’autentica agorà telematica il cui obiettivo è quello di creare rete tra i ricercatori e permettere la circolazione e la condivisione delle idee e dei programmi. Il ministro Francesco Profumo, presente stamane alla conferenza stampa assieme al collega Giulio Terzi, la direttrice di Rai Educational Silvia Calandrelli, il presidente di Crowdengineering Gioacchino La Vecchia, il direttore di Wired Carlo Antonelli, ha assicurato ai microfoni di Tafter che non si tratterà di uno strumento di nicchia riservato ai soli ricercatori, dal momento che se rimanesse confinato entro questi limiti il progetto rischierebbe di rivelarsi un fallimento: si tratta invece di un sistema aperto, fruibile da tutti e che gli utenti sono invitati a migliorare attraverso la loro partecipazione
La piattaforma è definita dallo stesso ministro attraverso sei elementi: la valorizzazione della capacità e l’impegno delle persone, l’apertura, la trasparenza, il rispetto dei tempi di realizzazione, l’obiettivo che il nostro paese diventi più semplice per rendere i dati facilmente accessibili, soprattutto al fine di attrarre altre culture ed investimenti, ed infine un’autonomia responsabile e un sistema valido di valutazione.
Non si tratterà di uno spazio limitato ad un forum di discussione, ma di un progetto avanzato che consentirà di mettere a confronto conoscenze, esperienze, da parte di ricercatori e di piccole e medie aziende, la quali spesso non hanno gli strumenti per attingere alle innovazioni sperimentate dagli italiani all’estero.
Basata sul crowdsourcing, in quanto le banche dati e i bandi di ricerca saranno vagliati dalle istituzioni, la piattaforma raccoglierà i contributi apportati dagli utenti che progressivamente ne prenderanno il controllo e ne gestiranno lo sviluppo. L’intento è quello di non mantenere questo progetto sotto il giogo delle istituzioni, ma fare sì che, ingrandendosi in modo autonomo, sia plasmato quotidianamente dalle esigenze della PMI e degli utenti, (che al momento sono solo un centinaio).
Per chiarire lo scopo dell’iniziativa e le reali opportunità offerte da questo strumento, abbiamo rivolto al ministro Profumo alcune domande:
Quali benefici apporterà questo strumento per tutti quei talenti in fuga dal nostro paese per permetterne il rientro?
Ritengo che oggi siamo di fronte ad un una società liquida in cui non bisogna chiedere il permesso di emigrare: le persone decidono di spostarsi per la propria formazione ed ogni volta che si porta avanti un’esperienza del genere, questo è un arricchimento.
Si indubbiamente, ma la situazione è preoccupante nel momento in cui si decide definitivamente di non rientrare, dal momento che il Pil cresce anche grazie al capitale umano e la forza lavoro giovanile è necessaria per questo scopo.
A mio parere non è un elemento negativo che una persona decida di rimanere nel luogo in cui si trova bene e ha deciso di creare la propria vita. Il mondo è cambiato: Io stesso ho vissuto per anni negli Stati Uniti e poi ho deciso di rientrare a casa e pur avendo ricevuto offerte dal oltreoceano in seguito, le ho sempre respinte. Non si può obbligare una persona a tornare a casa. Il fatto di avere un luogo non fisico, come Innovitalia.net, in cui a distanza di chilometri è possibile postare un problema e riceverne risposta può avere degli sviluppi sul piano dell’innovazione e della ricerca notevoli. La ricerca non si fa più rinchiusi nei piccoli laboratori di provincia, ormai è un’attività condivisa.
Tra gli obiettivi, dunque, non c’è quello di richiamare in Italia i ricercatori a tutti i costi ma di fare in modo che questi possano partecipare anche a grandi distanze grazie alla rete.
Se dunque fate parte di quella schiera di ricercatori che non hanno intenzione di ritornare in patria, contribuite allo sviluppo del vostro paese d’origine, registrandovi al sito della piattaforma (partito al momento in versione beta di sperimentazione). Partecipate apportando il vostro capitale umano ed intellettivo anche da lontano perchè, come ha sottolineato il ministro Profumo, nessuno vi obbligherà a tornare.
Dal convegno, organizzato dal centro di ricerca Fo.Cu.S, Sapienza, Università di Roma , sono emersi alcuni temi rilevanti di grande attualità. Dal 1991 al 2011 la popolazione straniera, nel nostro Paese, si è redistribuita a livello territoriale dalle grandi città ai centri di dimensione più contenuta, a partire da quelli con meno di 100 abitanti; il fenomeno è particolarmente rilevante nelle classe di comuni inferiori a 20 mila abitanti (e in quella inferiore a 5 mila) che ha visto passare la presenza straniera dal 35% al 50% a fronte delle città con più di 500 mila abitanti che sono passate dal 34% al 16%.
Le piccole città, dunque, costituiscono importanti luoghi di insediamento dei migranti oltre a rappresentare contesti quantitativi importanti per il Paese: su 8.094 comuni quelli con meno di 20 mila abitanti rappresentano ben il 93,6%, al cui interno la stima dei comuni con patrimonio storico, che accolgono il 47% della popolazione straniera residente in Italia, si attesta sull’88%. Altro dato rilevante è la superficie territoriale ricoperta da questa classe di comuni che arriva all’83%.
Una realtà quindi, che seppur frammentata e diversamente articolata, va tenuta in forte considerazione sia dal punto di vista delle risorse che può offrire per lo sviluppo del Paese sia da quello della tutela e della salvaguardia necessarie perché questi territori minori continuino a esercitare il ruolo di presidio che stanno progressivamente perdendo. I migranti possono costituire una risorsa importante in queste situazioni così diverse l’una d’altra nel cui contesto non è possibile rintracciare modelli prevalenti, per la ricchezza dei patrimoni, la diversità della storia, le tracce dello sviluppo.
La ricerca che Fo.Cu.S ha condotto su alcuni comuni del Lazio (diversamente localizzati rispetto all’area metropolitana: Rocca di Papa, Zagarolo, Magliano Sabina, Blera, Corchiano, Borgo Hermada, Unione Comuni Alta Sabina) ha evidenziato in queste realtà percentuali di migranti in incremento che coesistono con popolazione autoctona anch’essa in incremento. Si tratta di realtà in qualche modo attrattive, nel cui contesto si sono generate nuove forme di convivenza, con caratteristiche di mobilità (connesse ai migranti e ai trasferimenti della popolazione autoctona), che le amministrazioni si trovano a “governare” cercando di coniugare politiche di recupero con politiche sociali, che spesso nella realtà registrano forti sconnessioni.
Un alloggio a basso costo, una dimensione di vita che spesso ricorda quella dei paesi di origine, a volte un lavoro nelle vicinanze, il richiamo di famigliari e conoscenti, attraggono i migranti in questi luoghi, dove la loro presenza riattiva l’uso del patrimonio , sostiene le attività economiche e consente il permanere della popolazione autoctona con i servizi alla persona.
Le varie esperienze italiane (Colle di Val d’Elsa, Cava de’ Tirreni, Magliano Sabina) e straniere (Spagna e Svizzera) presentate al convegno hanno confermato i risultati salienti della ricerca di Fo.Cu.S, evidenziando l’importanza della partecipazione nelle politiche di accompagnamento sociale, dell’attenzione da rivolgere ai singoli individui, del progetto “generale” che richiede, in questo momento di crisi, innovazione negli strumenti amministrativi e fiscali, nella promozione delle attività (in particolare culturali), nell’offerta di territori di qualità da rivolgere a turismi selezionati.
Per approfondire l’argomento leggi anche l’articolo su Focus e ascolta le interviste a Manuela Ricci e Ginevra de Maio pubblicati qui.
Poter esporre una laurea nel salotto buono sta diventando un vero diritto, paragonabile al poter posteggiare in doppia fila o rifarsi glutei e pettorali.
Persone normali e Vip rincorrono il possesso del pezzo di carta come e più dell’ultimo modello di IPad. Per averla vale tutto, come in certe arti estreme di combattimento.
Le vicissitudini del Trota che si è laureato a sua insaputa in un prestigioso ateneo albanese prima ancora di conseguire il diploma superiore vanno oltre qualsiasi possibile sceneggiatura del filone cinesociologico sommamente espresso da Bombolo, er Monnezza e dalla professoressa Fenech.
Il presidente ungherese Pal Schmitt si è dimesso per aver copiato la tesi, qualcosa di simile è capitato al ministro tedesco zu Guttenberg, e ora anche l’AD di Yahoo, Thompson, lascia la poltrona per una millantata laurea in informatica.
Insomma, per avere una laurea si fa di tutto, incluso usare la Mastercard. E perché poi? Per padroneggiare i congiuntivi? Per fare piacere a papà? Per avere più chance nel trovare lavoro?
No, i congiuntivi rimangono irrisolti, Almalaurea poi certifica che la laurea non aumenta la possibilità di occupazione né il salario di ingresso nelle aziende, papà è già stracontento se non spacci anfetamine.
La laurea piace perché la laurea è per sempre.
Lo è più di un diamante presto destinato al Banco dei Pegni, è cento volte più duratura di un matrimonio o di una storia d’amore, di un fido in banca, di un’amicizia, di una casa ipotecabile, di una fede politica.
Nessuno (se è vera) te la toglie, in nessuna condizione di ricchezza o povertà. Ecco allora che diventa l’ultimo baluardo alla precarietà. La laurea non si presta, non stinge, neppure diventa obsoleta. Nel nord Italia garantisce il titolo di ‘dottore’ e nel centro-sud quello di ‘professore’ (perché ‘dottore’ non si nega a nessuno).
Insomma, per un popolo senza certezze, la laurea è come la coperta per Linus. Peccato che in un mondo di adulti non si possa vivere nei fumetti pensando pure di essere dei supereroi.
Samuel Saltafossi è sociologo della complessità
Sono trascorsi 25 anni da quando i primi ragazzi ormai ultracinquantenni hanno intrapreso l’esperienza dell’Erasmus, il programma di scambi culturali tra atenei europei.
Nato nel 1987, questo progetto di mobilità è cresciuto nel tempo per numeri e università coinvolte, ma raggiunto il traguardo del quarto di secolo, si studiano le modalità per farlo evolvere.
Dall’anno del suo lancio, l’Erasmus ha interessato circa due milioni di studenti e ha contribuito, oltre ad ampliare la formazione dei ragazzi partecipanti, a diffondere una cultura europea.
Secondo quanto riferito dall’attuale commissaria dell’istruzione, Androulla Vassiliou, l’obiettivo di sostenere 3 milioni di studenti sarà probabilmente raggiunto per l’anno accademico 2012-2013, e il traguardo che ci si porrà in futuro sarà ancor più ambizioso qualora si approvi il bilancio da 19 miliardi di euro per il periodo 2014-2020, rispetto all’attuale dotazione da 8 miliardi.
Proprio in occasione di questo venticinquesimo anniversario è stata inoltre firmata a Copenaghen una convenzione in dieci punti tra cui spicca l’intenzione di uniformare i titoli di studio all’interno dell’Unione europea e quella di creare un “Erasmus for all” che travalichi i confini comunitari e si apra ad ogni Paese.
Certo è che in tutti questi anni l’Erasmus è diventato per tanti ex-studenti un ricordo importante del loro periodo universitario, che ha contribuito al raggiungimento della maturità personale e ad una più ampia apertura mentale. Questo ‘mito’ accademico ha poi visto persino la consacrazione in ambito cinematografico con il film ambientato a Barcellona “L’appartamento spagnolo”, dove studenti di diverse nazionalità si trovano a convivere grazie al progetto Erasmus.
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Proprio la Spagna è al top tra le destinazioni preferite dagli aderenti al programma, seguita da Francia e Regno Unito. Sempre il Paese iberico è al vertice della classifica in numero di ragazzi che hanno usufruito delle borse di studio Erasmus, staccando di netto i colleghi francesi, tedeschi e inglesi.Tra le università italiane preferite dagli stranieri c’è la Alma Mater di Bologna, quarta nella classifica generale, cui segue La Sapienza di Roma al nono posto e l’Università di Firenze al dodicesimo.
Intanto a Torino, dal 1° all’8 giugno prossimi, fervono i preparativi per l’Erasmus Day live, il primo “festival europeo universitario” che con concerti, mostre ed incontri, intende convogliare tutti gli atenei e gli studenti coinvolti nel programma europeo attivo ormai dal 1987.
Si sono ridotte drasticamente da 25 ad 11mila le domande di riscatto degli anni di laurea ai fini del calcolo pensionistico presentate all’Inps nel 2011. La causa scatenante di questo trend negativo, secondo il presidente dell’istituto nazionale di previdenza sociale, Antonio Mastarpasqua, sarebbe stata l’intenzione manifestata da parte del governo lo scorso agosto di non prendere più in considerazione gli anni riscattati per anticipare la pensione. Dichiarazioni che avevano certamente creato confusione e sconforto in quanti avevano temuto di veder sfumare non solo l’uscita dal mondo del lavoro, ma anche i soldi investiti per raggiungere anticipatamente questo traguardo.
A questa preoccupazione si era aggiunta, inoltre, la demoralizzazione di non vedersi riconosciuti anni di sacrifici passati sui libri e di sentirsi considerati “da meno” rispetto a tutti coloro che i sacrifici invece li hanno vissuti parallelamente nel mondo del lavoro.
Per quanto questo paventato rischio non si sia infine concretizzato, indubbiamente ha influito notevolmente sul calo delle domande di riscatto. Tuttavia una tale flessione che ha raggiunto un trend negativo del 55% non può avere un’unica giustificazione.
Riscattare la laurea innanzitutto è un costo, spesso molto elevato. Prima si avviano le pratiche e meno onerose sono le somme che bisogna versare all’istituto di previdenza ( la cifra può essere inoltre rateizzata senza interessi aggiuntivi e può essere detratta dal reddito). A secondo che vengano avviate da neolaureati o da neo assunti nel modo del lavoro, le pratiche per il riscatto prevedono un minimo di cinquemila euro da versare per ogni anno riscattato: pertanto, per una laurea specialistica di cinque anni la spesa totale ammonterebbe a venticinquemila euro. Una cifra cospicua a cui non viene più associata la garanzia di una pensione altrettanto remunerativa. I giovani che si affacciano oggi nel mondo del lavoro sono consapevoli, infatti, non solo dell’assenza di tutele contrattuali, ma anche di una incertezza generalizzata per le proprie prospettive future: la pensione viene considerata un traguardo decisamente aleatorio e non sufficiente a coprire le esigenze minime della vita quotidiana. Quanti ragazzi temono che i contributi versati non verranno mai corrisposti o che l’uscita dal mondo del lavoro venga ritardata a tal punto da sembrare quasi irraggiungibile?
Sul sito dell’Inps è disponibile una tabella in cui sono riportate le cifre esemplificative dei costi complessivi, sicuramente non incoraggianti in un momento come questo in cui le prospettive future dei giovani non sono rassicuranti.
La sfiducia generalizzata nell’investimento negli studi universitari per raggiungere un livello occupazionale superiore è legata anche al valore legale del titolo universitario. Il dibattito in merito si è riacceso all’inizio di quest’anno quando l’attuale governo tecnico ha deciso di riportare in auge una passata diatriba che attiene non solo la qualità e il livello giuridico del cosiddetto “pezzo di carta”, bensì l’intero sistema di valutazione e di classificazione delle università italiane.
Si concluderà proprio oggi la consultazione pubblica avviata dal Miur per il valore legale del titolo di studio. E in attesa dei risultati definitivi, le prime anticipazioni non sembrano lasciare spazio a dubbi. La maggioranza degli utenti che ha partecipato al sondaggio ritiene che il titolo di studio rappresenti ancora un “valore aggiunto” per l’ingresso nel mondo del lavoro, in particolar modo per l’accesso nell’ambito della pubblica amministrazione. In questi anni, infatti, si sono scontrati sulla questione due opposti schieramenti: da un lato chi continua a difendere lo status del titolo di studio universitario e il suo peso per l’accesso ai concorsi pubblici; dall’altro invece chi ne chiede l’abolizione, rimarcando lo scarso criterio oggettivo nella valutazione di tali titoli, a causa della mancanza di un controllo di qualità altrettanto oggettivo per le università italiane. In sostanza, viene messa in dubbio l’uguaglianza e l’equiparazione delle lauree conferite dagli ottanta atenei italiani abilitati. Questo livellamento indiscriminato per l’ingresso nei concorsi pubblici non incentiverebbe le università ad investire nelle docenze di qualità, né sarebbe utile per le famiglie nella selezione degli istituti maggiormente formativi e utili per l’ingresso nel mondo del lavoro. Tuttavia è necessario considerare le conseguenze di questo annullamento generale del titolo: qualora non vi fosse alcuna differenza tra diploma e laurea, il giovane intenzionato a proseguire gli studi verrebbe demotivato nel proseguire la propria formazione. Inoltre, sebbene non ci sia un criterio di valutazione oggettivo per la classificazione degli atenei, bisogna riconoscere che il livello di preparazione fornito dalle università italiane sia nettamente superiore a quello europeo. A confermare questo dato sono i numerosi giovani italiani che, grazie alla propria preparazione, riescono con facilità a trovare il lavoro per il quale hanno studiato all’estero, proprio in ragione delle competenze acquisite in patria.
Queste considerazioni dovrebbero far riflettere: probabilmente il problema non consiste nell’abolizione o meno del valore legale, bensì nella espulsione dall’elenco delle università abilitate di tutti quegli istituti che ne abbassano il livello qualitativo. Nel momento in cui il titolo di laurea perdesse il suo valore, accanto alla sfiducia e al calo dei riscatti degli anni universitari per il calcolo pensionistico, quale incoraggiamento avrebbero i giovani nel proseguire la propria formazione?
Parte oggi sul sito del MIUR la consultazione pubblica relativa al mantenimento o meno del valore legale dei titoli di studio: 15 domande cui rispondere per decretare se diplomi, lauree e titoli specialistici vari debbano essere tenuti in considerazione per accedere alle professioni e al pubblico impiego.
Per far valere la propria opinione al riguardo il questionario dovrà essere compilato entro il 24 aprile, dopo di che si tireranno le somme.
La questione era già all’ordine del giorno del Consiglio dei Ministri dello scorso 27 gennaio, quando Mario Monti, citando Einaudi, dichiarò che “quei pezzi di carta che si chiamano diplomi di laurea, valgono meno della carta su cui sono scritti”: le premesse già allora lasciavano intuire in che direzione si tendeva. La mancata condivisione di tale posizione ha però indotto il Presidente del Consiglio, di concerto con il Ministro dell’istruzione Profumo, a coinvolgere nel dibattito la più vasta platea possibile.
Di qui il questionario on line compilabile previo rilascio dei propri dati, che danno accesso ad un username e password indispensabili per fornire le proprie risposte.
Tra le informazioni da rilasciare per registrarsi ci sono il titolo di studio e la professione, utili evidentemente a profilare gli interessati alla questione.
Il Ministero dichiara del resto che “gli interlocutori privilegiati sono quindi i singoli cittadini che operano nei settori dell’istruzione, della formazione, delle professioni e, più in generale, nel mondo del lavoro, pubblico e privato”.
Per fornire tutte le risposte si stima che occorra all’incirca un’ora, poiché vi sono termini tecnici la cui comprensione è facilitata attraverso dettagliate definizioni.
L’obiettivo ultimo di questo referendum virtuale è comunque quello di porre definitivamente ordine in materia di valore legale dei titoli di studio per quel che concerne l’accesso alle professioni regolamentate e al pubblico impiego. Ciò significa che dai risultati che emergeranno si stabilirà in futuro se i titoli scolastici daranno diritto ad un maggior punteggio nei concorsi per posti pubblici, così come per l’iscrizione ad un Albo professionale.
Tale modalità di coinvolgimento popolare è inoltre secondo il MIUR un esperimento utile per testare il “livello di apprezzamento degli utenti, al fine di orientare la programmazione di consultazioni future sulle effettive esigenze, aspettative e richieste dei cittadini”; la scelta di procedere in tal maniera risponderebbe poi ad esigenze di trasparenza, accessibilità e si andrebbe ad allineare ad una pratica già diffusa nel resto d’Europa.
Il tema è comunque molto delicato, in un momento in cui l’occupazione è in netto calo come la fiducia nella formazione scolastica: si conta infatti che le iscrizioni universitarie stiano scemando di anno in anno, mentre il tasso di disoccupazione registra delle forti impennate. La decisione che verrà presa in merito al valore legale dei titoli di studio avrà quindi conseguenze decisive su ciascuno di questi aspetti: stavolta la parola passa ai cittadini.
Era il novembre del 1975. Entravo per la prima volta nelle aule di Via Tiburtina, per seguire la lezione di Fisica Nucleare del Prof. Sebastiano Sciuti, allievo e amico di Ettore Majorana che, durante quella prima emozionante lezione, ci parlò di qualcosa di inaspettato, che mi trafisse, come il raggio di sole di Quasimodo: la possibilità di utilizzare tecniche avanzate, anche di derivazione nucleare, per eseguire analisi non invasive su opere d’arte.
Ma non è stata subito sera; da allora sono passati quasi quarant’anni.
Gli scienziati, che si sono dedicati a sviluppare tecniche quale quella impiegata dai valenti Carabinieri del RIS, hanno faticato più a vincere le diffidenze umanistiche che a studiare e realizzare sistemi di misura che, tanto per cambiare, hanno visto l’Italia all’avanguardia nella ricerca e in retroguardia nelle applicazioni.
Finalmente ora tutto sembra cambiato: allievi di Sciuti hanno corsi di Laurea che insegnano agli studenti a eseguire queste misure e stanno nascendo operatori qualificati che affiancano storici dell’arte ed esperti vari, evitando loro il rischio di gravi errori di attribuzione, supportandoli nelle loro deduzioni con prove oggettive.
C’è chi si è attrezzato con strumenti portatili per eseguire rapidamente misure in loco, con il fine di assicurare, all’acquirente di un’opera d’arte, che sta prendendo in carico proprio l’opera acquistata, già sottoposta ad analisi di autenticità, e non una copia sostituita all’ultimo momento.
Clamoroso! Chissà se il Professore lo sa.
Valerio Lombardi è un ingegnere nucleare e Responsabile dei progetti HERITAGE (Studio di nuovi modelli per la Valorizzazione e Salvaguardia di Beni Culturali) e SARCH (Realizzazione di un Automa per la configurazione ingegnerizzata di Salvaguardie commisurate alle fragilità dei siti archeologici e agli impatti degli eventi organizzati nel loro ambito)
L’Orlando Furioso e la sua traduzione in immagini
Si tratta di un sito web ideato dal Centro per l’elaborazione informatica dei testi e immagini della Scuola Normale di Pisa dove è stata archiviata tutta la tradizione delle immagini e degli apparati iconografici contenuti nelle prime edizioni cinquecentesche del Poema L’Orlando Furioso.
Sintetico, dinamico ed esaustivo: la consultazione delle immagini è facile grazie ad una pratica catalogazione per categorie che hanno la funzione di chiave di ricerca: i documenti sono consultabili, per edizione, per canto, per tipologia (illustrazioni, allegorie), per criteri specifici (scene/episodi, personaggi, ambientazioni, luoghi, oggetti). I corredi iconografici sono tratti da sei edizioni del poema: Nicolò d’Aristotile detto Zoppino, Venezia, 1536 ; Gabriel Giolito de’ Ferrari, Venezia, 1542; Giovanni Andrea Valvassore detto Guadagnino, Venezia, 1553; Vincenzo Valgrisi, Venezia, 1556 ; Francesco de Franceschi Senese e compagni, Venezia, 1584.
È sicuramente uno strumento comodo ed utile per gli studiosi della tradizione testuale ed iconografica del poema. Si può infatti risalire all’immagine conoscendo il canto di riferimento o semplicemente il nome del personaggio di interesse e ricercarlo nella pratica banca dati. Le immagini sono ben definite e chiare e ci trasportano nell’immaginario del lettore del cinquecento per aiutarci a capire come l’atmosfera fantastica del poema veniva recepita dal pubblico dell’epoca. La potenza visiva delle immagini non solo coadiuvava la lettura del testo ma ne aumentò con il tempo la capacità commerciale e ne rese celebri alcuni spezzoni.
Un utile strumento di lavoro per gli esperti ma anche un interessante sito da consultare per quanti amano il poema dell’Ariosto e perdersi nelle sue avventure. Un progetto che dovrebbe essere ampliato anche ad altri poemi o scritti famosi dell’antichità e che ancora oggi sono assiduamente letti e studiati come la Divina Commedia di Dante Alighieri o l’Iliade e l’Odissea di Omero. La struttura del sito molto agevole, esaustiva e valida può essere un ottimo modo per veicolare i contenuti del testo dell’Ariosto e renderli accessibili anche a chi non è molto dedito alla lettura di testi antichi. Con lo stesso principio che valeva nei tempi passati spesso infatti un’immagine può essere molto più incisiva di un testo e può invogliare nuovi utenti ad avvicinarsi a questo libro.
Un progetto di questa importanza, se poco pubblicizzato, rischia di essere conosciuto solo all’interno della cerchia degli specialisti della letteratura italiana o utenti con particolare interesse per la materia. Inoltre sarebbe auspicabile un ampliamento delle potenzialità del formato di questo sito che potrebbe essere applicato anche su altri testi della tradizione letteraria.
A tutti gli amanti della letteratura ma anche a studiosi del potere dell’immagine come mezzo di comunicazione, disciplina attuale perché legata ai mezzi di comunicazione di massa, ma nata in realtà nel medioevo con i primi codici miniati redatti proprio per trasmettere più agevolmente la tradizione dei testi ritenuti più importanti.
http://www.ctl.sns.it/furioso/apps_v3/mastro_furioso/intro.phtml
ideato da Lina Bolzoni, docente e ricercatrice di letteratura italiana presso la Scuola Normale di Pisa e progettato dal Centro per l’elaborazione informatica dei testi e immagini nella tradizione letteraria.
“Una scadenza molto attesa” così Giuseppe Zaccaria, rettore dell’Università di Padova, apre la conferenza stampa di presentazione del progetto Volunia, un nuovo motore di ricerca tutto italiano, ideato e sviluppato da un equipe di programmatori informatici guidati da Massimo Marchiori, professore associato dell’ateneo veneto.
Tutto, durante la conferenza, ha il sapore della sfida: un team di soli italiani che, in barba ai cervelli in fuga decidono di non trasferirsi nella Silicon Valley ma di rimanere nel Belpaese rimanendo però, in fase di presentazione mondiale, bloccati da guasti tecnici che non permettono a Massimo Malchiori di iniziare in pompa magna la sua presentazione poiché non supportato dal proiettore di immagini. Insomma, una presentazione mondiale un po’ offuscata da alcuni disguidi, ma pur sempre un evento da non perdere.
L’introduzione al progetto sembra paventare grandi algoritmi e formule semantiche, poiché ancora tutti si aspettano che Volunia sia a) un motore di ricerca che sfrutti la comprensione semantica (Marchiori è infatti uno dei principali studiosi mondiali di web semantico) b) l’alternativa italiana al colosso Google.
Dopo i primi 10 minuti, si chiarisce però subito che a) Volunia non è un motore di ricerca semantico, b) non ci pensa nemmeno a sfidare un colosso in termini di numeri, personale, server e ricerca tecnologica come Google.
Ma allora, cos’è Volunia?
E’ essenzialmente un motore di ricerca, quello sì, che sfrutta un algoritmo simile a quello di Google, ma che, a dispetto dei suoi simili, comprende, tramite una barra applicazioni, (attivabile o meno) anche un aspetto social.
La novità sta nel coordinare informazioni e vita sociale, poiché il risultato della nostra ricerca non comprenderà solo testo, bensì anche un’icona che ci segnalerà quante persone sono connesse in quel momento a quel dato sito, dandoci quindi l’opportunità, qualora registrati, di intraprendere una conversazione in una chat su pagina.
Il presupposto alla base dell’applicativo è che internet non è un luogo per macchine ma per persone.
Sicuramente vero, anche se a prima vista tutte le azioni appaiono troppo macchinose da eseguire senza prima averci preso un pò la mano.
Marchiori ricorre spesso, durante la conferenza, alla similitudine con le galline: proprio come volatili fino ad oggi stipati in gabbie, anche gli utenti con Volunia potranno sentirsi liberi di scorazzare per il web, senza per forza doversi connettere a siti come Facebook o Ttwitter per conoscersi.
Seek and Meet è infatti lo slogan: 12 lingue e la possibilità di effettuare veri e propri “voli pindarici” tra pagine oppure tra diversi livelli della stessa pagina.
Già pronto in versione mobile e tablet, Volunia sarà per il momento aperto alla sperimentazione solo per coloro che vorranno registrarsi dopodiché, a breve, partiranno gli accessi liberi.
Imbarazzato, alla collega che le pone la domanda “Ci sono donne nel team di Volunia?” Marchiori risponde che “no, l’informatica è ancora roba da uomini”.
Non per affossare l’idea, lo slancio e la proposta, da donna sarei portata a rispondere “…e l’informatica è ancora roba da americani”.
Però apprezziamo lo spirito e vediamo se Volunia rivoluzionerà il mondo dei motori di ricerca e/o quello dei social network: tanti auguri!
Approfondimenti:
www.volunia.com
Il valore legale delle lauree non va eliminato, ma soltanto ridimensionato. Le regole della Comunità europea già ora prevedono il riconoscimento reciproco dei titoli dei vari paesi, e l’accesso alle professioni, soltanto in presenza di precise condizioni. Si tratta di attribuire valore legale soltanto ai titoli che soddisfano queste condizioni.
Di fatto il valore legale della laurea dovrebbe assumere il significato di garanzia del possesso di requisiti minimi di conoscenza in un certo ambito disciplinare funzionale ad assicurare, da un lato, uguaglianza nelle possibilità di accesso alle professioni regolamentate per legge e alle posizioni dirigenziali nella Pubblica Amministrazione e, dall’altro, a garantire la qualità minima del servizio che tali professionisti forniscono ai cittadini. Non si ritiene che il mercato “da solo” possa dare adeguate garanzie di qualità nella selezione dei funzionari degli uffici pubblici. D’altra parte nel privato il problema non sussiste, in quanto le aziende private già ora sanno come operare liberamente le necessarie selezioni.
I corsi di laurea dei vari atenei saranno soggetti ad una procedura di accreditamento (L. 240/2010) da parte di un organismo nazionale (ANVUR) che valuterà l’esistenza di risorse (personale e strutture) e di contenuti culturali minimi. Solo i corsi accreditati rilascerebbero un titolo avente valore legale. Questo dovrebbe però limitarsi al possesso del titolo in sé, senza estendersi al voto di laurea, che potrebbe altrimenti avvantaggiare ingiustamente gli atenei meno esigenti.
Delle proposte del Governo Monti apprezziamo quindi la eliminazione del valore del voto di laurea e anche l’allargamento delle discipline richieste per accedere ai concorsi pubblici. Ci convince poco invece la proposta di attribuire alle certificazioni di qualità dell’ANVUR un peso diretto da far valere nei concorsi: la valutazione della qualità della preparazione dei candidati è meglio lasciarla al giudizio delle commissioni di concorso.
Paolo Gianni è Presidente della Commissione Sindacale del Comitato Nazionale Universitario
A luglio, l’Università di Oxford ha lanciato un appello sul Times UK: cercasi volontari per tradurre online i papiri di Ossirinco, un vastissimo patrimonio documentario – ad oggi conservato al British Museum – scoperto alla fine dell’800 e tutt’ora in fase di traduzione e pubblicazione.
Visto il numero insufficiente di studiosi e ricercatori di archeologia, l’università inglese ha pensato a questo interessante stratagemma per velocizzare la traduzione dei due milioni di papiri conservati.
Sul sito del progetto – AncientLives.org – c’è a disposizione tutto il necessario: spiegazione del progetto, scansione dei papiri, software specifico per il riconoscimento dei caratteri.
E non è assolutamente necessario sapere il greco, lingua in cui i papiri sono scritti, per dare il proprio contributo: un apposito sistema di riconoscimento ottico identifica i caratteri e suggerisce la lettera dell’alfabeto arabo corrispondente, che il volontario dovrà semplicemente trascrivere.
A pochi giorni dal lancio dell’appello, l’Università di Oxford ha caricato sul sito AncientLives un primo gruppo di circa 200.000 papiri, e il primo feedback è stato positivo: pare si sia recuperata parte di un vangelo apocrifo databile al terzo secolo.
Anche se può sembrarlo, il progetto di trascrizione dei papiri è tutt’altro che un gioco per novelli Indiana Jones: si tratta di una soluzione poco costosa per chi ha in mano la gestione dell’operazione e per nulla remunerativa per chi presta il suo operato, ed è allo stesso tempo un interessante esempio di cooperazione per la diffusione del sapere e della cultura.
Nei papiri, rinvenuti a Ossirinco, in Egitto, da due filologi dell’Università di Oxford nel 1896, sono contenuti trascrizioni di poeti greci come Pindaro, Eschilo, Soflocle e Euripide, diagrammi di Euclide, e una parte del testo delle Elleniche di Ossirinco, una narrazione delle vicende storiche della Grecia in età peloponnesiaca, nonché due testi – chiamati Vangeli di Ossirinco – che riportano passaggi della vita di Gesù Cristo ancora più dettagliati e originali dei già conosciuti Vangeli apocrifi.
La gran parte dei papiri, dopo un secolo dal loro ritrovamento, è però ancora da esaminare, e quello che manca è il personale addetto, il tempo e – ancora una volta – il denaro.
Il progetto AncientLives parte da questi presupposti e si basa sul concetto di cultura condivisa, proponendo di rendere il contributo volontario parte definente di una delle scoperte che arricchiscono il patrimonio storico, archeologico e culturale dell’umanità.
E se da una parte questi valori sono il fondamento della diffusione del sapere e della passione che rende la conoscenza fruibile a tutti, dall’altra sorgono alcuni legittimi interrogativi.
“L’unione che fa la forza” è sicuramente un valore aggiunto, specie in questo contesto, ma sorge spontaneo chiedersi se non sia il caso di restringere il campo dell’offerta agli studenti di lettere, di storia, di archeologia, o ai ricercatori addetti, in modo da mettere sul campo volontari competenti e sicuramente interessati, dando rilievo a chi ogni giorno studia e si applica per raggiungere le proprie aspirazioni professionali.
Il lavoro svolto verrebbe così valorizzato, e sarebbero valorizzate anche le figure di coloro che studiano e si applicano per fare dell’archeologia in senso lato un lavoro.
D’altro canto, rimarrebbe però un operato volontario, e quindi si scadrebbe nuovamente nella faticosa diatriba che vede i giovani studenti e i ricercatori prestare le proprie competenze a un sistema che non dà riconoscimenti economici.
Quindi meglio lasciare le cose come stanno e dare la possibilità a chiunque abbia un pò di buona volontà di improvvisarsi archeologo per diffondere e promuovere il ricchissimo patrimonio contenuto nei papiri di Ossirinco.
Diamo la possibilità all’appello lanciato dall’Università di Oxford di essere sì uno stimolo per l’applicazione di semplici tecniche che possono accelerare la fruizione dei contenuti dei papiri, e facciamo sì che sia anche un esempio di “soluzione alternativa” in un momento in cui la cultura e le professioni ad essa connesse vivono anni di profonda crisi.
I volontari di oggi dovrebbero poter essere gli archeologi di domani e questo non è garantito, se possibili posti di lavoro vengono modificati in attività volontaria online.
Piuttosto che continuare a procrastinare la traduzione e la pubblicazione di contenuti preziosi, meglio darsi da fare contando su chi ha voglia di mettere a disposizione il proprio tempo e la propria curiosità per quello che, non dimentichiamocelo, è comunque un bene culturale che merita di essere alla portata di tutti.
Si è svolto ieri mattina il Convegno “Parlando di valorizzazione culturale” all’Istituto Luigi Sturzo di Roma, organizzato in occasione dell’apertura della nuova sede della biblioteca di Palazzo Baldassini. Un tavolo di concertazione e di riflessione sulle principali tematiche culturali che hanno spaziato dalla valorizzazione alle nuove tecnologie, dall’educazione alla responsabilità sociale d’impresa. Protagonisti sono stati Mario Resca, direttore generale per la valorizzazione del patrimonio culturale del MiBAC, Mark Crawley, Direttore della sezione “Widening Participation and Progression” dell’Università delle Arti di Londra, Jackie McManus, Capo del “Widening Participation and Progression” dell’Università delle Arti di Londra, Carolina Botti, Direttore centrale di Arcus Spa, Marcello Smarrelli della Fondazione Ermanno Casoli, Ida Linzalone, segretario generale della Fondazione Vodafone e Barbara Tieri, responsabile del progetto “Palazzo Baldassini, Infrastruttura della Conoscenza” per l’Istituto Sturzo.
Un tavola rotonda in cui si sono delineati i percorsi intrapresi dai vari enti che per l’occasione erano stati invitati e in cui si è cercato di mettere il luce l’importanza della cultura come strumento di conoscenza. Ne è scaturita una discussione sicuramente interessante, anche se a volte molto incentrata sul passato e sulle iniziative realizzate anziché proiettata verso il futuro, magari con una spinta propositiva che avesse tenuto conto del bagaglio accumulato per avanzare poi però a delineare le strade future per una sempre migliore e attenta valorizzazione del patrimonio culturale.
Mario Resca ha fornito alla platea i dati sulle variazioni percentuali degli introiti per i musei, che hanno fatto registrare un aumento dei visitatori del 15% nel 2010 rispetto al 2009, ottenuto grazie anche alle audaci campagne di comunicazioni pensate dal Ministero (da “Se non lo visiti te lo portiamo via”, riferito al Colosseo e ad altri beni del paese, a “l’Arte ti fa gli auguri” per le entrate gratis nel giorno del proprio compleanno) e alle aperture straordinarie e gratuite distribuite nel corso dell’anno per avvicinare il pubblico meno abituato alla fruizione culturale alla visita museale.
Tra gli ammirevoli progetti della Fondazione Vodafone e quelli della Fondazione Ermanno Casoli, si sono distinti, forse anche per la loro partecipazione attenta e composta, i due ospiti internazionali, impegnati nel progetto di formazione culturale delle classi svantaggiate composte in Gran Bretagna dai neri, gli asiatici e i giovani appartenenti alla cosiddetta “working class”. University of Arts of London è infatti una delle poche strutture europee a prevedere dei sussidi per i giovani “ai margini” della società che insegna, tramite le arti pittoriche, performative, il design e la creatività in generale a cercare una via di riscatto sociale in cui ad essere protagonista è la multiculturalità intesa come scambio di idee e cooperazione.
Interessati dalle loro iniziative, che coinvolgono le principali istituzioni museali britanniche, abbiamo rivolto a Mark Crawley e a Jackie McManus un paio di domande che potessero fornirci ulteriori informazioni sul loro progetto e sulle finalità perseguite dall’Università:
Molti ragazzi ritengono la cultura poco attraente e rinunciano a visitare gallerie o musei frequentemente perché l’ingresso ha un costo che non tutti possono permettersi. Come si può rendere la cultura veramente accessibile a tutti e in che modo le istituzioni possono partecipare attivamente nella comunicazione e alla formazione delle nuove generazioni?
M.C: penso che uno dei traguardi più importanti raggiunti dalle istituzioni britanniche è stato quello di dare la possibilità, da 10 anni ormai, di entrare gratuitamente in quasi tutti i musei e le gallerie statali del Regno Unito. Questo ha portato naturalmente ad un grande aumento del numero di visitatori ma nel contempo ha permesso al mercato di darsi da fare, tramite i servizi aggiuntivi ad esempio.
J.M: Mi sembra inconcepibile il fatto che se non sono abbiente non posso andare al museo ad ammirare un’opera d’arte. Questa è un’idea abbastanza vecchia di cultura e di mercato culturale. Si può fare economia, come diceva anche Mark, offrendo dei servizi come visite guidate, audio guide in diverse lingue, affitto di spazi polifunzionali per vivere il museo o la galleria anche fuori dagli orari canonici, ristoranti, bar, negozi di design, proiezioni educative sempre all’interno dello spazio museale che magari coinvolgano i giovani in attività utili a comprendere l’arte. Per questo si potrebbe essere disposti a pagare, ma non si dovrebbe pagare un biglietto d’ingresso.
In che modo riuscite a far integrare e a far interagire studenti con radici culturali molto diverse fra loro?
J.M: Accentuando le loro differenze culturali, facendole diventare un valore, per loro e per gli altri. I nostri programmi favoriscono la cooperazione proprio per evitare che diverse culture vengano stereotipate o etichettate in base al comune modo di pensare. Lasciamo liberi i ragazzi di esprimere la loro cultura, di manifestarla o no, in base al proprio carattere o alle proprie attitudini. Italiani, africani, cinesi, tedeschi, indiani traggono dalle loro esperienze quotidiane ispirazione sia per i loro progetti professionali sia per il proprio percorso di vita personale.
Pensate che i corsi e i modelli proposti nella vostra Università e grazie al NALN (National Arts Learning Network) potrebbero essere riproposti in un contesto culturale come quello italiano?
M.C: Certo, sarebbe auspicabile: in fondo, permettere alle persone più svantaggiate di fruire della cultura o imparare qualcosa tramite la cultura non è poi una cosa molto difficile da realizzare. Bisognerebbe istituire dei fondi appositi affinché tutti possano avere gli stessi mezzi senza alcuna discriminazione e questo potrebbe essere non facile economicamente parlando all’inizio. Ma ci sono molti enti impegnati in questo ambito e, se il progetto è meritevole non ci dovrebbero essere molte complicazioni.
J.M: Siamo a Roma da 12 ore e la prima cosa che sono stata in grado di apprezzare è stata questa immersione totale nella cultura, nella storia, nell’arte che si respira in ogni strada, palazzo o chiesa del centro storico. Avete una città senza tempo, una cultura senza tempo…siete molto più avvantaggiati in questo rispetto a molti paesi europei.