Culture21 srl – Gruppo Monti&Taft Ltd
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E’ alle porte la Terza Edizione di Set Up Art Fair il 23-25 gennaio 2015 a Bologna, attesa con grande entusiasmo dato il consolidato successo che hanno avuto le prime due edizioni.
Organizzata presso l’Autostazione di Bologna, la fiera è uno degli appuntamenti (23-25 gennaio) imperdibili nell’ambito della cultura indipendente in Italia. Interverranno relatori di grande spessore nell’ambito internazionale: dai collezionisti ai professionisti del settore al grande pubblico, tutti scelgono Bologna come vetrina dell’arte contemporanea nel mese di gennaio.
Per la terza edizione si annuncia una crescente partecipazione degli espositori, da tutta Italia e dall’estero, sia di gallerie emergenti, a cui è riservato uno spazio dedicato e condizioni agevolate di partecipazione, che di realtà prestigiose e affermate presenti da tempo sul mercato, forte segnale del riconoscimento e della credibilità che SetUp è riuscita rapidamente a ottenere nel settore.
In questo ambito variegato la Monti&Taft partecipa al progetto di arte relazionale “I CONFINI D’EUROPA PER UN’ARTE SENZA CONFINI” a cura di Martina Cavallarin e Scatola bianca. Il piano di lavoro riguarda i temi più urgenti dell’arte contemporanea: l’arte pubblica, la riqualificazione urbana, la legislazione, l’economia nell’arte.
Il senso è quello di concepire questi argomenti con una visione allargata, indirizzando la rotta dell’arte italiana verso quella della comunità europea. A cominciare dalla città d’accoglienza di SetUp, Bologna, ombelico di scambi, etnici, culturali, geografici, antropologici, sociali, economici e piattaforma del piano di lavoro che sviluppa il dialogo.
Parte di questo progetto riguarda la conferenza sull’Economia dell’arte in Italia ed Europa che Stefano Monti presenzierà assieme a Giuseppe Stampone.
Durante questa conferenza si metteranno a confronto le realtà socio-economiche dell’arte contemporanea in Italia e in Europa. Si parlerà di una crescita notevole a livello internazionale dell’arte divenuta terreno fertile d’investimento finanziario e del notevole ritardo che l’Italia sconta su tale fronte.
Un ritardo che deve imputarsi ad un mercato ancora oggi paralizzato da eccessivi vincoli normativi e che sconta la competizione di una legislazione fiscale non uniforme in Europa. Eppure, il soggetto pubblico, così come i privati guardano con crescente interesse all’arte contemporanea come strumento di creazione del valore. In che misura, dunque, l’adeguata gestione di questi processi può impattare sull’economia locale?
Monti&Taft vi aspetta Sabato 24.01.2015 al Set Up Art Fair 2015 a Bologna.
Fino ad un po’ di tempo fa si protestava contro il capitalismo e le multinazionali, possibilmente incatenandosi sotto la sede di un’azienda incriminata. Oggi lo si può fare iscrivendosi ad un social network: Sixth Continent. Il Sesto Continente è quello proposto da Fabrizio Politi, l’ideatore del sito, che si basa su un sistema diverso di commercio. In base ad un algoritmo, il Mo.Mo.Sy. (Moderate Monetary System), si dividono le aziende mondiali in verdi e in rosse, in virtuose e in dannose, in realizzatrici di ricchezza e in produttrici di impoverimento. Calcolando il rapporto tra l’utile netto e il numero dei dipendenti si scopre quali aziende producono un profitto che è in equilibrio con gli utili dei propri dipendenti e del resto della comunità. Le aziende che, invece, sono in rosso (ad esempio Google, Amazon o Ikea), producono un profitto troppo maggiore che genera una concorrenza sleale: in sostanza molta ricchezza nelle mani di pochi, contro ricchezza equamente distribuita.
Entrando a far parte del Sesto Continente si può interagire con il nuovo modello economico a vari livelli. Lo scopo, in ogni caso, è quello di consumare, agevolando, però, i produttori che rispettano un tipo di economia virtuosa.
Si può interagire con il social network a diversi livelli.
1) Semplice cittadino: al momento dell’iscrizione a Sixth Continent si diventa cittadini e si ha accesso all’app gratuita, in versione web e mobile, Mo.Mo.Sy., che permette di vedere quali imprese e quali prodotti sono verdi e quali rossi. Ogni cittadino riceve, inoltre, un Reddito di Cittadinanza assegnato in maniera progressiva e in base alla Nazione di residenza: si tratta di un reddito che deriva dagli acquisti fatti da tutti i cittadini. Il 3% dei proventi di imprese e negozi che aderiscono al Sesto Continente vengono ridistribuiti secondo una serie di regole spiegate a fondo nel sito. Tale reddito, se utilizzato, rientra nella categoria fiscale della Provvigione Indiretta e può essere speso nei negozi affiliati, coprendo fino al 50% dei costi. Inoltre, se si invitano altri amici si ha la possibilità di aumentare il proprio credito.
2) Manager: si può diventare Marketing Manager di Sixth Content promuovendo l’iniziativa e affiliando negozi e imprese, ottenendo un guadagno per provvigione. Si può anche ricoprire il ruolo di Store Manager che, rispetto al Marketing Manager, ha la possibilità di formulare proposte sulla piattaforma e-commerce.
3) Aziende e Imprese: imprenditori e commercianti (che devono rientrare in area “verde” secondo l’algoritmo Mo.Mo.Sy.) possono decidere di aderire al modello economico del Sesto Continente, pagando al momento dell’affiliazione, in cambio di vantaggi quali l’attrazione di nuovi clienti, la possibilità di rendere competitivi i propri prezzi e di avviare anche un vendita e-commerce tramite la piattaforma.
Se il modello economico di Sixth Continent, magari ulteriormente affinato e implementato, dovesse prendere piede a livello globale, si tratterebbe davvero di una bella risposta, competitiva, alla voracità della multinazionali. In ogni caso è un buono strumento per fare acquisti in maniera più consapevole.
I meccanismi di Sixth Continent non sono immediati. Il social è abbastanza complesso e per sfruttarlo e capirlo al meglio bisogna esplorarlo, studiarlo e navigarci molto su.
In poco più di un mese il social ha totalizzato circa 10.000 cittadini e più di 110.000 like sulla pagina Facebook.
Imprenditori, commercianti, aziende, consumatori, appassionati di finanza ed economia, promotori dello sviluppo sostenibile, detrattori delle multinazionali, idealisti, sognatori.
È stato presentato ieri mattina a Roma, al Teatro Orione sull’Appia, il volume “Immigrazione. Dossier Statistico 2013”, titolo che si accompagna in copertina, sempre a caratteri cubitali, a “Rapporto Unar. Dalle discriminazioni ai diritti”, realizzato dall’Idos (acronimo che sta per Immigrazione Dossier Statistico) su committenza giustappunto Unar. L’Unar opera nell’ambito del Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Si tratta del primo annuario pubblicato in Italia per la raccolta di dati socio-statistici sui temi dell’immigrazione.
Per chi non conosce l’opera, si tratta di un corposo tomo di poco meno di 500 pagine, che, ormai a cadenza annuale, da oltre un ventennio (fino al 2003 curato dalla Caritas di Roma e poi dal Centro Studi Idos), propone un’interessante analisi, soprattutto quantitativa, della situazione dell’immigrazione in Italia, con molte tabelle e capitoli che affrontano le tematiche migratorie da diverse prospettive: statistiche, economiche, politiche, giuridiche.
Quel che qui vogliamo segnalare (denunciare?!) è che nel tomo, certamente prezioso, non c’è una pagina una dedicata alla cultura, allo spettacolo, alle arti, ai media: eppure i 5,2 milioni di cittadini stranieri regolarmente presenti a fine 2012 sul territorio italiano non sono – si ha ragione di ritenere – soltanto lavoratori e consumatori di beni materiali, ma anche fruitori e finanche autori di cultura. L’incidenza degli stranieri sulla popolazione residente è del 7,4 % del totale nazionale. Gli stranieri iscritti nelle scuole italiani sono poco meno di 800mila, e corrispondono al 9% della popolazione studentesca. I neonati stranieri hanno rappresentato nel 2012 il 15% di tutte le nascita in Italia. Le due comunità più rilevanti in termini quantitativi sono i cittadini del Marocco e dell’Albania, le cui comunità sono formate entrambe da circa 500mila persone; seguono i cinesi, con 300mila, ed è sopra la soglia dei 200mila l’Ucraina.
Il rapporto Idos è uno strumento certamente prezioso, e, in qualche modo, evoca l’ormai mitico rapporto annuale del Censis sulla situazione del Paese (giunto nel 2012 alla 46ª edizione): è indiscutibilmente un testo di riferimento, per chi si interessa di politiche sociali e specificamente di migrazioni. Se si vuole trovare un qualche deficit, va cercato nell’impostazione complessiva (non particolarmente critica, anzi un po’ asettica) e forse nella eccessiva parcellizzazione delle tematiche (75 capitoli!): insomma, sembra mancare una lettura critica sintetica. Una pecca anche nell’impaginazione, troppo classica, con un’architettura grafica che non invita alla lettura: non viene proposto nemmeno un grafico o una visualizzazione. Conferma di questo approccio eccessivamente tradizionale – nella rappresentazione dei dati – s’è registrata anche durante la presentazione del rapporto: la relazione di Pittau non è stata accompagnata da alcuna slide. E, per quanto accurato l’eloquio del “rapporteur”, un rapporto scientifico ha anche necessità di “rappresentazioni” visive sintetiche, e forse anche un po’ d’effetto… Questa mancanza non è compensata da un breve video curato dalla Rai, che ha cercato di estrapolare un set di dati dal rapporto, sullo sfondo di immagini di repertorio (il video sarà online su YouTube da oggi).
Al di là di questi aspetti “coreografici”, perché la presentazione e l’impostazione del volume ci preoccupa?!
Perché in tutti gli interventi, durante le tre ore di presentazione del rapporto, non abbiamo ascoltato alcuna riflessione sulla funzione della cultura come strumento di integrazione sociale, anzi di “interazione sociale” (come si usa ormai nello slang specifico della sociologia delle migrazioni). Eppure, sono proprio i media e la cultura gli strumenti che possono stimolare (o non stimolare) la coesione sociale, e la promozione di visioni plurali della realtà, che combattano esclusione e discriminazione.
Indiscutibilmente i relatori erano tutti di gran qualità e della massima rappresentatività istituzionale: dal Presidente dell’Idos Franco Pittau alla giornalista di Radio Vaticana Maria Dulce Araújo èvora, dalla Capo Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio Ermenegilda Siniscalchi, dal Direttore Generale dell’Unar (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) Marco De Giorgi alla Vice Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali (con delega alle Pari Opportunità) senatrice Maria Cecilia Guerra, per arrivare alla onorevole Ministro per l’Integrazione Cécile Kashetu Kyenge.
Non una parola una dedicata alla cultura.
Va lamentato che non esiste una ricerca sulla fruizione culturale e mediale degli stranieri che vivono in Italia.
Va ricordato che pure esistono testate a stampa in lingua straniera edite in Italia, esistono emittenti radiofoniche e televisive locali che offrono trasmissioni per gli stranieri, esistono scrittori ed anche gruppi artistici – soprattutto in ambito musicale – che si impegnano a fare della cultura uno strumento di condivisione di valori, di integrazione, di coesione, di lotta al disagio, di difesa delle pluralità (ideologiche, religiose, etniche…).
Un esempio ormai divenuto famoso a livello nazionale è l’Orchestra di Piazza Vittorio, ma sono attive in Italia decine e decine di gruppi musicali multietnici, rispetto ai quali non esiste alcuna letteratura scientifica e l’attenzione dei riflettori mediali è quasi inesistente.
Come se la dimensione culturale degli immigrati fosse una variabile minore, marginale, e non invece centrale…
Quel che sembra emergere (confermata anche dall’affollato convegno di presentazione del rapporto Idos) è una sorta di “deriva economicista” del senso dello Stato: tutti gli intervenienti hanno posto l’accento su quanto gli immigrati contribuiscano ormai all’economia nazionale, come produttori di reddito, come imprenditori, come consumatori. Come se questa variabile fosse essa a poter rafforzare (ri-legittimare eticamente?!) il senso dell’intervento pubblico nel settore. Gli immigrati contribuiscono alla ricchezza economica del Paese: “quindi” sono degni di adeguata attenzione.
Diversi intervenienti hanno richiamato la stima Idos secondo la quale il “bilancio costi/benefici per le casse statali” (inteso come delta tra la spesa pubblica per l’immigrazione, da una parte, ed i contributi e le tasse pagate dagli immigrati dall’altra) avrebbe registrato un risultato positivo di ben 1,4 miliardi di euro nel 2012: insomma, rimesse all’estero a parte, gli immigrati contribuiscono anche alla ricchezza degli italiani non stranieri…
Il fenomeno (cioè questa “interpretazione”) mostra inquietanti punti di contatto con il dibattito italiano sulle politiche pubbliche a favore della cultura: ogni tanto, emerge la ricerca alfa o lo studio beta che “contano”, “misurano”, “quantificano” l’economia della cultura: fatturato, addetti, imprese, indotto, moltiplicatori e compagnia cantando… Spesso si tratta di numeri in libertà, stime simpaticamente nasometriche, ma i giornali e gli altri media se le bevono (senza scrupolo), e talvolta anche quotidiani nazionali titolano a piena pagina dati e statistiche (che non sono validate, ma che fanno effetto)! Come dire?! L’economico conta più del semiotico: non ci si sofferma sul “senso” della cultura, ma sulla sua funzione economica.
Sembra venir meno il senso profondamente civile (costituzionale, ci sia consentito) dell’intervento pubblico (e le politiche a favore della cultura non sono differenti, in questo, rispetto alle politiche sociali): se il “settore” di riferimento “pesa” economicamente, allora sembra che cresca il senso del ruolo dello Stato!
Il rapporto viene distribuito gratuitamente a chi lo richiede (www.dossierimmigrazione.it). Essendo finanziato con danari dello Stato, ci sembra una bella decisione: non sempre accade in Italia (si ricorderà peraltro che un articolo del famoso decreto, poi divenuto legge, cosiddetto “Valore cultura” prevede proprio un obbligo a rendere gratuitamente disponibili le ricerche finanziate con danari pubblici).
Da segnalare, per la cronaca, che il rapporto Idos è giunto alla 23ª edizione, ma di fatto sembra trattarsi di una edizione… n° 1. Nato in effetti in ambito confessionale, essendo stato promosso dalla Caritas e dalla Fondazione Migrantes della Conferenza Episcopale Italiana, ma comunque caratterizzato per una bella autonomia ideologica, nel 2013 si è incrinato il rapporto fiduciario tra la Caritas-Migrantes e l’Idos. Nuovo inedito committente è giustappunto l’Unar. A fine maggio 2013, l’Idos (che pure ha sede presso il palazzo che ospita alcuni uffici della Cei), diramava un laconico comunicato stampa: “dobbiamo dirvi con rammarico che, a livello nazionale, non è stato raggiunto un accordo per poter continuare la collaborazione con Caritas e Migrantes”. Di criticità di finanziamento trattasi, sembra leggersi tra le righe.
Il Presidente di Idos Pittau ha liquidato – con grazia – questo passaggio di consegne tra committenti/finanziatori (non avvenuto forse in modo proprio sereno) ricordando un auspicio di don Luigi Di Liegro (fondatore della Caritas Diocesana di Roma), il quale pare teorizzasse che non importa lo status del proponente di una bella idea (privato o pubblico, confessionale o aconfessionale che sia), ma quel che conta è che le buone progettualità vengano sviluppate… Meglio ancora se dallo Stato, che la collettività tutta deve (dovrebbe) rappresentare e tutelare. Verrebbe da commentare, con ecumenica benedizione: “tutto è bene, quel che finisce bene”. E quindi la comunità scientifica è ben lieta che il rapporto sopravviva ai travagli tra finanziatori. Anche se Pittau, ieri mattina, ha fatto comprendere a chiare lettere, con bonomia, che il contratto per l’edizione 2014 l’Unar non l’ha ancora perfezionato.
Non riteniamo che, nel passaggio di committenza, dalla Fondazione Migrantes della Cei all’Unar dell’italico Stato, ci sia stato un salto di qualità: il rapporto era e resta uno strumento di conoscenza importante. Spiace osservare che nell’edizione 2013 non vi sia più quella pur minima attenzione che c’era nel rapporto 2012, che dedicava pagine interessanti alle testate radiotelevisive di immigrati, intitolando efficacemente “Comunicare il diverso”.
Come utilizzano internet gli stranieri che vivono in Italia?!
Che impressione hanno di come la Rai rappresenta la loro immagine?!
Si tratta di quesiti che restano senza risposta. E che pure meritano essere analizzati, perché potrebbero fornirci interpretazioni inedite di stereotipi e cliché, e forse anche strumentazione adeguata per superare le discriminazioni. Che sono frutto di degenerazioni dell’immaginario collettivo. E proprio la cultura e l’arte possono combattere in modo efficace le distorsioni
Una battuta finale sull’apprezzabile autoironia della Ministra Kyenge: ha enfatizzato come le tematiche della migrazione debbano essere affrontate meglio soprattutto dagli operatori scolastici, ed ha raccontato che, in un incontro con studenti di una scuola elementare, si è trovata qualche giorno fa spiazzata alla domanda di un bambino: “ma ministro… il vostro governo ha un programma???”. Una risata convinta s’è elevata dalla platea.
Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult
Pawel Kuczynski è un illustratore polacco che ha affidato alla sua creatività messaggi di libertà e giustizia. I suoi disegni sono denunce vere e proprie contro sistemi totalitari, strapoteri travestiti da democrazie, ingiustizie sociali e mancato rispetto dell’ambiente. Per le sue opere ha già vinto 92 premi e riconoscimenti internazionali. Questo creativo è la dimostrazione di quanto l’arte possa essere più incisiva di tante altre manifestazioni di dissenso e ci ricorda quanto è importante preservare la libertà di espressione in ogni sua forma: Pawel Kuczynski affida infatti alle illustrazioni la rivelazione di verità scomode inerenti l’attualità sociale e politica che riguarda tutti.
Scoprite tutte i disegni di Pawel Kuczynski sul suo profilo Tumblr
A quanto pare la diceria che dai momenti di crisi si viene fuori più forti, nuovi e positivamente resettati, non è finzione ma realtà. Il collasso economico che ha interessato l’Europa negli ultimi anni sta rivelando sorprese impensabili riguardo alle direzioni che l’economia e la società contemporanee stanno prendendo.
Abbiamo passato una fase di capitalismo sfrenato, di predominanza dell’egoismo e dell’individualismo, di chiusura verso il prossimo. Ancora adesso subiamo gli strascichi di questo stadio, che potrebbero sembrare acuiti dalla crescente predominanza della realtà virtuale sulle vite di ciascuno di noi. In realtà è proprio dal mondo della tecnologia e del virtuale che stanno nascendo i primi germogli di quella che potrebbe essere una vera e propria rivoluzione sociale. Un nuovo cambio di rotta nel modo di vivere i rapporti individuali e comunitari.
Uno startupper bolognese, di origini fiorentine, Federico Bastiani, un bel giorno si è reso conto di ignorare l’identità dei suoi vicini di casa. Se un tempo il quartiere era la comunità per eccellenza, luogo di pettegolezzi e piccoli sgarbi, ma anche di condivisione e comunione, oggi, chiusi nei nostri piccoli o grandi appartamenti, viviamo giornate isolate, costellate da cenni del capo e freddi convenevoli. Bastiani ha pensato di voler modificare questo status di cose, quantomeno nel suo quartiere e, quasi per caso, ha dato il via al primo esempio di social street.
A settembre ha creato un gruppo chiuso su Facebook – strumento tra i più semplici e democratici, anche perché gratuito – per chiamare a raccolta gli abitanti della via Fondazza di Bologna. Ha stampato dei volantini per dare notizia della sua iniziativa e li ha distribuiti nei condomini del quartiere. In più di 300 hanno risposto, creando la prima comunità cittadina che nasce con l’intento precipuo di “scollare” dagli schermi di un pc le stesse persone con le quali condividiamo un pianerottolo e che non abbiamo mai conosciuto, per avviare forme di collaborazione, di sostegno, di aiuto reciproco, di scambio di idee, socialità e quando serve, anche di merci.
Non si tratta solo di un esperimento sociale, infatti, ma anche dell’incarnazione di un sistema economico che sta prendendo sempre più piede in diverse forme. Teorizzata qualche anno fa dalla studiosa Loretta Napoleoni, la pop economy sta diventando la risposta più concreta alle magagne della crisi, che fa un baffo alle spesso finte riforme dei politici. È l’economia del popolo, quella basata sullo scambio, sul baratto, sul dare e sul ricevere, gratis o in cambio di qualcos’altro. È l’evoluzione di eBay, che evita lo spreco, incentiva il riciclo e assicura il risparmio. Lo spiegano bene sul sito che è nato dall’esperienza di Bastiani, www.socialstreet.it: “Dovete cambiare il frigorifero? Perché metterlo su ebay, creare un annuncio, pagare una commissione, pagare un trasporto quando magari il vostro vicino di casa ne sta cercando proprio uno come il vostro?”. Lo stesso vale se non si vogliono buttare le uova prima di partire per le vacanze, se serve l’aiuto di una baby sitter, se si cerca un appassionato di cinema con cui condividere il proprio hobby, se si vuole trovare una comitiva di amichetti al proprio bambino, e così via. Dalla rete, da internet, dai social, si passa di nuovo alla realtà, alla strada, al quartiere.
Di esempi di pop economy ce ne sono molti altri: dal bike e car sharing, al cohousing, dal couchsurfing al baratto turistico in cambio di cultura, dalle comunità ormai diffusissime in tutta Italia “Te lo regalo se vieni a prenderlo”, fino agli swap parties nel quale scambiarsi vestiti e altri oggetti.
Di necessità si fa virtù e l’unione fa la forza, l’uomo ha una grande capacità di adattamento e si è stancato di vivere da solo. Non semplici luoghi comuni, ma un ritorno vero e istintivo al branco.
Fino a qualche decennio fa fare la spesa online sembrava una follia. Oggi, invece, e-Bay potrebbe essere considerato un sito sorpassato. G21 offre una piattaforma commerciale innovativa che addirittura permette di guadagnare acquistando. Si tratta, in gergo tecnico, di una social commerce, di un misto tra un social network e un sito di shopping online. È una community vera e propria tramite la quale fare acquisti, condividere le proprie azioni commerciali o le offerte del sito e risparmiare.
La pagina di presentazione di G21 è molto esaustiva riguardo al modo di usufruire della piattaforma. Il primo passo è iscriversi, gratuitamente. Il secondo passo è cominciare ad acquistare. Ogni acquisto prevede un risparmio del 20% sul prezzo della merce. La quota risparmiata verrà registrata in GPoint. Ogni GPoint equivale a un euro e, arrivati a quota 50, potrà essere richiesta la conversione in cash. In ogni caso i GPoint possono essere sfruttati per altri acquisti all’interno del sito. Una volta effettuati i primi acquisti, questi si possono condividere con la community, invitando nuovi amici a entrare a far parte del progetto. Ogni spesa effettuata da amici vale il 10% del prezzo della merce da loro acquistata. Questo processo può espandersi fino alla creazione di una propria rete commerciale che permette di iniziare un’attività di vero e proprio social franchising.
L’accesso alla piattaforma è sempre gratuito, anche quando il proprio status all’interno della community è avanzato. Le offerte proposte provengono da collaborazioni con grandi partner nazionali e internazionali.
Si tratta di una piattaforma di recente creazione che necessita di essere implementata.
La propria avventura commerciale all’interno di G21 è una vera e propria scalata verso il successo, che porta l’acquirente dallo status di Guest a quello di Social Executive. Un meccanismo strategico e divertente che stimola la partecipazione al processo di acquisto, risparmio e guadagno.
Gli aspiranti imprenditori, gli shopaholic, gli amanti dei social network e degli acquisti online.
The Art Collecting Legal Handbook
Chiunque abbia a che fare in modo approfondito con il mondo dell’arte sa quanto sia difficile barcamenarsi tra la legislazione dei beni culturali. Una volta varcati i confini di una nazione, infatti, le normative riguardanti arte e cultura cambiano, così come cambia la tassazione, le leggi che regolano copyright e diritto d’autore, la natura e la forma dei contratti d’artista. The Art Collecting Legal Handbook interviene proprio in aiuto di coloro che in un modo o in un altro hanno a che fare con il mercato dell’arte, presentando degli approfondimenti riguardanti i Paesi europei, ma anche i mercati internazionali di Stati Uniti, America Latina, Cina, Giappone, India, Canada. Una panoramica completa e variegata che colleziona in maniera agevole i punti principali inerenti la legislazione di ogni singolo Paese analizzato.
Il volume è introdotto da alcuni paragrafi di presentazione del lavoro, che si soffermano anche su argomenti specifici come l’evoluzione del mercato dell’arte o la natura del contratto d’autore. Si entra, poi, nel vivo del testo con l’Argentina per finire con gli Usa e New York, in un’analisi dei principali mercati dell’arte internazionale che viene svolta sotto forma di intervista. I curatori del volume, infatti, Bruno Boesch e Massimo Sterpi, hanno raccolto una serie di interviste ai principali esperti di legislazione culturale del territorio preso in considerazione. La tipologia di domande è sempre la stessa e divisa per settori: “cultural heritage and art market”, “purchase and export”, “peaceful enjoyment”, “sale”, “art philantropy”, “tax” e, per finire, una parte dedicata alle informazioni pratiche e ai contatti.
Si tratta di un testo davvero completo, non solo dal punto di vista “geografico”, in quanto analizza la legislazione di un esteso ventaglio di Paesi, ma anche dal punto di vista contenutistico in sé, trattando un’ampia varietà di argomenti, inerenti sia il diritto comparato dei beni culturali che il mercato dell’arte. La forma dell’intervista, snella e dinamica, facilita la lettura e la comprensione di argomenti che, altrimenti, potrebbero risultare ostici ai non specialisti del settore.
Il testo è reperibile solo in inglese e non vi è ancora una traduzione in lingua italiana, o in altre lingue.
Alla fine del testo, si trovano i dettagli di contatto di tutti gli intervistati e dei loro uffici legali, di cui sono riportati indirizzo, numeri di telefono, e-mail e sito internet.
Gallerie, musei, fondazioni, case d’aste, collezionisti, artisti, acquirenti o venditori di opere d’arte, ereditieri, studiosi e studenti di economia della cultura, di diritto, di arte e beni culturali.
The Art Collecting Legal Handbook, a cura di Bruno Boesch e Massimo Sterpi, Thomson Reuters, Londra, 2013.
Il tema dei contributi alternativi (o per meglio dire complementari) alla tradizionale offerta cinematografica sta gradualmente prendendo piede anche nel nostro Paese.
Va da sé che lo sviluppo di titoli “extra-filmici” è direttamente proporzionale al processo di digitalizzazione delle sale tuttora in atto e che prevede lo switch-off a partire da gennaio 2014.
In proposito fonti diverse indicano un tasso di penetrazione ancora basso che si muove all’interno di in una forbice molto ampia tra il 50% ed il 66% a seconda del perimetro di rilevazione utilizzato. Tornando ai contenuti alternativi (intesi come eventi o riedizioni di vecchi film) distribuiti nelle sale cinematografiche, il peso di tali contenuti sul totale box office è assai marginale (0,47% sul box office nazionale nel 2012, fonte. ANEM) a dimostrazione che siamo di fronte ad una tendenza ancora embrionale a differenza di mercati più evoluti come il Regno Unito e la Francia.
Vanno però segnalati alcuni casi significativi (in particolare gli eventi musicali come i concerti di Ligabue o dei Led Zeppelin o ancora il doc su Vasco Live) che hanno registrato risultati positivi in termini di incasso relativo, soprattutto se ottenuti in giorni come il lunedì ed il martedì che la normale programmazione riesce a “riempire” mediamente al 5-10%.
Alcuni eventi inoltre (come la lirica o l’arte) sono diretti ad un pubblico spesso molto diverso da quello che tradizionalmente frequenta i cinema, rappresentando un importante strumento di ampliamento degli spettatori.
Su queste ipotesi e strategie si è mosso ad esempio il circuito The Space che ha dato vita da poco più di un anno a “The Space Extra”, un marchio che pone il circuito e le sue strutture al top tra quelle che proiettano (con successo) contenuti alternativi, come dimostra il focus con cui si chiude la ricerca.
In conclusione quello dei contenuti alternativi, pur essendo ora un fenomeno limitato, è destinato nei prossimi anni a diventare uno strumento efficace per dimostrare che anche le sale devono aprirsi maggiormente alla multi-programmazione, fidelizzando il proprio pubblico, attraendo nuove fasce di utenza ed arricchendo in questo l’esperienza di consumo.
Bruno Zambardino è analista senior della Fondazione Rosselli e Direttore didattico As.For. Cinema
Se vi capita spesso di girare per negozi e di essere stufi delle solite marche e dei soliti prodotti, se cominciate a sudare freddo ogni volta che è il compleanno di qualcuno a voi caro perché incapaci di trovare un regalo originale, bene, allora dovreste dare un’occhiata a Buru Buru. Si tratta di uno store online dedicato esclusivamente all’artigianato contemporaneo. Si possono vendere o acquistare prodotti fatti a mano, di alta qualità, ma con un brand moderno, fresco e divertente… Persino a costi abbastanza contenuti!
È anche una community di crafter che ricerca e seleziona artigiani e creativi che necessitano di assistenza e supporto per far decollare la propria produzione, il proprio “piccolo brand”. Le parole chiave di Buru Buru sono sostenibilità, creatività, valore.
Buru Buru funziona un po’ come Ebay, nel senso che è possibile sia vendere dei prodotti, sia comprarli. Solo che il mercato di Ebay prevede merci di tutti i tipi e qualità. Per vendere su Buru Buru, invece, bisogna “candidarsi”, cioè sottoporre le proprie creazioni al giudizio dello store che valuta la compatibilità con la linea e il gusto adottati dal resto degli articoli.
Per acquistare basta solo registrarsi, scegliere tra abbigliamento, accessori, gioielli, cartolerie, prodotti per bambini, green, poster, ovviamente pagare e aspettare l’arrivo dell’agognato pacco a casa. È possibile anche personalizzare i propri acquisti, scegliendo l’illustrazione da abbinare all’accessorio o alla t-shirt preferiti. C’è anche una sezione “Offerte” per scoprire i prodotti scontati del momento. Per le fashion blogger sulla cresta dell’onda è, poi, possibile diventare “Ambasciatrici” Buru Buru e portare alto il vessillo della cultura artigianale indipendente.
Infine, è possibile navigare sulla sezione “Magazine” dello store, il blog di Buru Buru che contiene news, articoli, interviste sul mondo del design, della grafica, della moda.
Il sito ha una grafica adorabile, semplice e divertente. Muoversi all’interno della pagina web, alla ricerca del prodotto giusto, è facile e veloce.
Il tipo di merce messa in vendita potrebbe essere gradito maggiormente da chi ha un determinato tipo di stile, “alternativo”.
Il nome, “Buru Buru”, si ispira al linguaggio dei bambini che, pur farfugliando, riescono a fare capire cosa vogliono, soprattutto quando qualcosa li cattura, li attrae, li stupisce. Buru Buru quindi è volontà, entusiasmo, stupore.
I/le fashion victim, i/le fashion blogger, i designer, i creativi, gli artigiani 2.0, gli imprenditori fantasiosi, tutti coloro che hanno letto e amato “I love shopping”.
Che peccato! Avevamo un monumento e lo abbiamo distrutto! So bene che può apparire paradossale, ma avrei preferito che la Concordia restasse nelle acque dei Giglio.
Quel colosso bianco adagiato nelle acque azzurre era il più straordinario “relitto” del Mediterraneo e sarebbe senz’altro divenuto uno dei più importanti siti turistici del nostro Paese.
Le decine di migliaia di turisti e curiosi che per mesi hanno scrutato il maestoso relitto, attratti dal fascino lugubre della tragedia e dell’evento mediatico, in cerca di quella fastidiosa ma ipnotica aurea magica di morte, avevano già dato la misura della forza turistica del sito. Allo stesso modo i graffiti lasciati sullo scafo dai visitatori subacquei, apparsi quando la nave è stata raddrizzata, così come le numerose incursioni subacquee di cacciatori di souvenir, mostrano che di fatto, nel bene e nel male, la Concordia era già diventata un sito di turismo subacqueo. Non sarebbe stato scandaloso: la storia del turismo e dei siti archeologici è da sempre una storia di morte e voyeurismo. Danni ambientali? Non dobbiamo sempre credere alla retorica di chi ha altri interessi. D’altra parte in Italia le stesse Aree Marine Protette (anche nell’area dell’Arcipelago Toscano) sono essenzialmente luoghi turistici, in cui la dimensione del consumo turistico è essenziale, costitutiva e ineludibile.
Ed ora? Il pellegrinaggio al luogo della catastrofe e dell’italica idiozia (l’inchino, la Moldava, l’abbronzatissimo comandante…) ed ora anche dell’italica esagerazione (“un’operazione mai tentata prima”) ne faranno comunque un sito dal fascino discreto, con la complicità delle migliaia e migliaia di immagini che navigano nella rete e nel nostro immaginario. Ma anche questo sarà un turismo post-moderno: un luogo del “nulla” alla ricerca di qualcosa che c’era e ora non c’è più.
Marxiano Melotti insegna Turismo culturale e archeologico all’Università Niccolò Cusano di Roma
Vi presentiamo Cesare Bellassai, giovane siciliano che ha fatto il giro del mondo per trovare la sua strada: tra Noto, Milano e Londra si muove alla ricerca di ispirazioni e intuizioni per creare i suoi poster “ideas on walls“.
Come inizia la tua carriera di designer e illustratore? Come è nato il progetto di ideas on walls?
Tutto è partito nel 2006, quando mi sono trasferito in Inghilterra, dove ho cominciato disegnando biglietti d’auguri, i famosi “greetings card”, per clienti privati. Ero dedito a pittura e scultura, ma disponevo solo di un piccolo spazio, con un tavolo da campeggio, e perciò potevo al massimo disegnare, la mia passione di sempre. Da lì è stato facile, perché l’Inghilterra è un mercato molto ampio e gradisce humor e tratto semplice. Io avevo entrambi, perché venivo da un’esperienza di clown per bambini negli ospedali e il disegno, come ho detto, è da sempre una mia propensione. Ho creato biglietti d’auguri fino al 2011 e dall’anno successivo è nato il marchio ideas on walls: un amico inglese mi ha chiesto un disegno da appendere in camera da letto e da lì ho creato il mio primo poster. Ho cominciato a pensare al progetto, mentre proseguivo la carriera di illustratore con agenzie francesi, grazie anche alla collaborazioni di molti altri colleghi inglesi e americani che mi hanno spinto a creare nuovi poster per altre stanze. Da lì in poi ho compreso che quella era la strada da seguire, poiché era un percorso ancora mai battuto: nessuno aveva pensato di dividere i poster a seconda degli ambienti, seguendo una linea semplice, che lasciasse apparire la realtà così com’è, senza ricorrere ad immagini astratte, con colori vivaci e allegri, mettendo un pizzico di ironia.
Questi gli elementi principali del progetto ideas on walls, che se per ora dispone solo di una piattaforma e-commerce, sarà presto lanciato attraverso dei franchising presenti in diverse città italiane.
Da cosa si differenzia la tua attività da quella di un grafico tradizionale? Quali le peculiarità delle tue creazioni?
Io non sono un grafico e nemmeno un illustratore: in realtà non sono una gran cima nel disegnare. Vivo di intuizioni e di visioni. Tutto quello che creo è frutto di studio, di notti passate a pensare o da improvvise illuminazioni: si tratta di una sovrapposizione di pensieri, di idee che emergono mentre guido, faccio la doccia e conduco le mie attività quotidiane. Non disegno dei bozzetti, ma il più delle volte registro le mie idee in maniera vocale. Per certi aspetti l’idea nasce già finita nella mente e solo successivamente diventa grafica. L’importante è che il disegno abbia un’armonia, un centro dal quale farlo partire, e soprattutto che venga partorito col cuore. Io non posso definirmi un grafico, ma un designer che entra nelle case e nei luoghi; non sono nemmeno un illustratore, che disegna su libri e fogli di giornale; si tratta per lo più di etichette. Io arredo gli ambienti con i miei disegni.
Come scegli i soggetti dei tuoi poster? Quanto e cosa c’è di Cesare Bellassai in quello che crei?
I soggetti vengono scelti dopo un accurato studio: tento di capire come rappresentare determinati elementi facendo indagini anche su motori di ricerca on line. Se il poster è per la cucina mi ingegno ad esempio a raffigurare una forchetta o un piatto tradizionale. Le “penne all’arrabbiata” è nato da un forchetta trovata su Google e poi, studiando la forma della pasta infilzata ho avuto l’intuizione di vederci una bocca aperta, evocativa della fame e della rabbia che il languore genera. E’ un gioco di visioni, un cercare di guardare le cose al di là, da un altro punto di vista, da una diversa postazione, che consente di vedere altro. Un disegnatore è abituato a guardare il foglio dal tavolo da disegno o dal computer, sempre nella stessa direzione, ma se ci girasse intorno, alzandosi, riflettendo, socchiudendo gli occhi, farebbe più un lavoro da artista, abituato a muoversi attorno al cavalletto. Questa propensione mi deriva proprio dal passato di pittore e scultore, come anche i colori che utilizzo, di una tavolozza ben più ampia rispetto alla gamma cui ricorrono i grafici.
C’è stata una telefonata o un contatto che ti ha svoltato la carriera?
Nel 2010 sono stato a New York dove ho incontrato l’ideatore del famoso logo d’artista “I love NY”, Milton Glaser, il più grande grafico e designer vivente al mondo, che mi ha accolto nel suo studio. C’è stata una sorta di benedizione da parte sua e una collaborazione per un logo destinato a Miami. Mi ha dato dei consigli e mi ha rassicurato dicendomi che la strada che stavo percorrendo era quella giusta.
Come lui, altri grafici, designer, artisti e creativi mi hanno dato delle utili indicazioni spronandomi a provarci. Ci vuole poi tanta testardaggine e curiosità per fare questo lavoro: bisogna guardarsi attorno, conoscere i colleghi, scambiandosi idee, senza rivalità, perché è talmente vasto questo settore che c’è posto per tutti. Non credo vi sia concorrenza. Nel mio caso, a dimostrazione di ciò, sono il primo in Italia ad aver fatto questo tipo di attività, proponendo poster per ciascun ambiente della casa, con tutte queste categorie e forme, dalla cucina alla camera per i bambini, cercando di prendere soggetti precisi da reinterpretare in chiave umoristica e metaforica. Si tratta soprattutto di un gioco, nel senso che è un lavoro perché è fonte di rendita, ma per me è un’attività continua che mi diverte.
Chi sono i tuoi principali committenti? Come influenzano le tue creazioni? Quale la richiesta più particolare che hai ricevuto?
I committenti sono privati e pubblici, dai ristoranti ai liberi professionisti, italiani e stranieri. Mi mandano delle e-mail con suggerimenti su cui io cerco di costruire l’immagine. Ci sono coppie che magari mi inviano riferimenti di lui o di lei per poster di anniversari o magari genitori che vogliono un’immagine da appendere nella cameretta del bambino e bar che chiedono elementi evocativi come ad esempio i croissant; poi lavoro io sull’idea da sviluppare: nessuno dei committenti comunque ha mai rifiutato l’opera.
La più particolare è stata la richiesta di un signora inglese che voleva un poster da regalare al suo compagno per appenderlo sopra una grande vasca da bagno: mi ha infatti scritto via e-mail che per loro il momento del bagno era una sorta di rituale, in cui lei si presentava in autoreggenti e decolleté con tacco a spillo, attorniata da candele e musica. Ho allora pensato di realizzare questo poster erotico con una calza a rete blu, che indossa una scarpa con tacco rossa, e all’interno della gamba ci sono i pesci, che rappresentano i pensieri di entrambi, racchiusi in questo ambiente acquatico d’amore. Un omaggio di lei per lui e per il loro amore.
Un designer e illustratore come te, risente della crisi economica? In che modo si reagisce?
Quando nel 2012 ho ideato il marchio ideas on walls ho pensato subito ad un qualcosa di low cost. Avere dei brand con una buona qualità, con idee belle ed innovative, ma a prezzi giusti, è un concetto che dovrebbe essere sempre valido, non solo nel mio settore. La crisi economica si può sentire, ma considera che i costi dei poster non sono eccessivi. La gente abita la casa e vuole farlo in maniera armonica, perciò non rinuncia ad arredarla, per sentirsi a proprio agio e affinché rispecchi chi ci vive. Per quel che riguarda l’illustrazione lascio la parola ai colleghi, perché nel campo dell’editoria le condizioni sono diverse. Dal mio frangente posso dire che non subisco contraccolpi perché le persone hanno bisogno di nutrirsi di immagini e sembrano esorcizzare la crisi economica proprio con i miei poster.
Tre “dritte” che daresti a chi intende intraprendere la tua stessa professione.
Innanzitutto bisogna capire qual è il proprio talento, ma soprattutto è bene affacciarsi al mondo, uscendo dalle quattro mura italiane e proporsi verso altri luoghi. Si faccia poi la differenza: è bene scegliere la strada meno battuta che consenta di far emergere la peculiarità che contraddistingue ciascuno di noi. Se non si trova la propria originalità e la propria unicità, ci si ripeterebbe solamente.
Per saperne di più consulta il sito www.cesarebellassai.com
Sport ed economia: due mondi solo all’apparenza lontanissimi e che nascondono, in realtà, legami molto forti, soprattutto in termini turistici. Non a caso, più che di economia, bisognerebbe parlare di sviluppo del territorio, perché ogni grande evento sportivo di rilevanza internazionale è in grado di generare una ricaduta economica sul territorio. L’esempio recente delle Olimpiadi di Londra del 2012 lo ha dimostrato in pieno: a fronte di costi organizzativi spesso ingenti, la comunità che ospita l’evento sportivo può contare su un indotto molto elevato grazie al turismo, a patto che i servizi erogati siano all’altezza della situazione e siano in grado di rendere piacevole l’esperienza vissuta dagli appassionati.
A proposito di grandi eventi internazionali, l’Italia ha ospitato, poco più di una settimana fa, il Gran Premio di Formula 1, che si svolge da tempo a Monza. Il tracciato brianzolo è uno dei circuiti storici più importanti e apprezzati da chi vive il mondo dei motori, sia per il suo esclusivo layout a basso carico aerodinamico, sia per i leggendari piloti del passato che hanno corso su questa pista. In poche parole, impossibile non rimanere affascinati dall’atmosfera elettrizzante che si respira durante il week-end di gara.
Come ogni grande evento sportivo internazionale, anche il Gran Premio d’Italia a Monza è un attrattore turistico in grado di generare un elevato indotto economico sull’intero territorio milanese e brianzolo. Secondo gli ultimi dati rilasciati dalla Camera di Commercio di Monza e Brianza, l’edizione 2013 del Gran Premio d’Italia è riuscita a generare, nell’arco di una sola settimana, un indotto diretto di 31,5 milioni di euro, il 2,5% in più rispetto all’edizione dell’anno precedente. Merito delle attività legate alla ricettività alberghiera (compresi campeggi, ostelli e appartamenti), stimate in 10,4 milioni di euro, e le attività direttamente connesse allo shopping, con 10,2 milioni di euro. Senza dimenticare il settore della ristorazione, in grado di generare sul territorio lombardo l’equivalente di 8,4 milioni di euro, e quello della mobilità (autobus, taxi e treni), con una stima di 2,4 milioni di euro.
E se albergatori, ristoratori e commercianti brianzoli possono contare su un indotto turistico stimato in poco più di 16 milioni di euro, anche l’area milanese deve ringraziare il Gran Premio d’Italia e i suoi ospiti, con una stima di poco più di 9 milioni e mezzo di euro. C’è anche chi sceglie di combinare la passione per lo sport a una breve vacanza all’insegna del verde e del relax, come è avvenuto nei territori di Como e Lecco, che pure riescono a generare un indotto rispettivamente di 3,4 milioni e circa 1 milione di euro.
Tutti questi dati, uniti alla stima della Camera di Commercio secondo cui il brand “Gran Premio d’Italia” varrebbe la bellezza di 3,8 miliardi di euro, dimostrano che l’evento brianzolo è un catalizzatore turistico di tutto rispetto, in grado di far respirare abbastanza l’economia lombarda. Fin qui i numeri, ma nella realtà come viene vissuto il Gran Premio d’Italia? E soprattutto, come viene organizzato? Su quest’ultima domanda, la risposta non può essere pienamente positiva. E chi lo ha vissuto in prima persona, come il sottoscritto, lo sa bene…
Partiamo dai trasporti, che sono il cuore nevralgico dell’organizzazione, considerando che la stragrande maggioranza degli appassionati si muove con i treni e gli autobus. Come ogni anno, anche stavolta gli organizzatori hanno previsto delle navette che dalla stazione di Monza portano all’interno dell’autodromo. Ma con una brutta sorpresa per gli appassionati: mentre in passato le navette erano gratuite, quest’anno è stato introdotto un ticket di 4 euro andata e ritorno per ogni giorno di utilizzo.
È buona norma che, a fronte del pagamento di un servizio che è sempre stato gratuito, questo venga erogato nel migliore dei modi. Ma in Italia, spesso e volentieri, le cose non vanno così e Monza non è da meno: navette strapiene, con lunghe file da parte dei tifosi ai capolinea, e spesso imbottigliate nel traffico (il venerdì delle prove libere non era prevista neanche una corsia preferenziale). Arrivate nel parco dell’autodromo, le navette fermano in un parcheggio distante circa 20-30 minuti a piedi dall’area del villaggio, dalla quale è possibile raggiungere buona parte delle tribune. Una passeggiata piacevole, immersa nel verde, ma per chi ha fretta di seguire le competizioni in pista diventa davvero un inferno. Paradossalmente, basta prendere un comune autobus di linea per arrivare all’ingresso Vedano, dal quale è possibile raggiungere in appena una decina di minuti l’area centrale del villaggio, spendendo, per giunta, 3 euro andata e ritorno.
Anche sui treni bisogna fare qualche appunto: possibile non prevedere treni speciali dalla stazione di Biassono – Lesmo, limitrofa a uno degli ingressi principali dell’autodromo, il venerdì e il sabato, costringendo così i tifosi ad aspettare un treno ogni ora? Una leggerezza che inevitabilmente ha portato lamentele e discussioni, soprattutto da parte dei turisti provenienti dall’estero. Situazione migliorata la domenica, giorno in cui sono stati previsti treni speciali dalla stazione di Milano Centrale a quelle di Monza e Biassono – Lesmo. Ma anche in questo caso con una sorpresa: se fino all’anno scorso questi treni speciali erano gratuiti, quest’anno è stato previsto un biglietto di 4 euro per l’andata e il ritorno. Secondo alcuni, questa soluzione si è resa necessaria per evitare che qualcuno se ne approfittasse del treno gratuito per farsi una gita a Monza. Ma se davvero fosse stato questo il problema, bastava semplicemente controllare sul binario chi avesse i biglietti per vedere il Gran Premio, evitando così un’ulteriore spesa ai tifosi.
I controlli, altro grande problema… Approssimativi il giovedì, quando gli appassionati in possesso dell’abbonamento per tutto il week-end (fino all’anno scorso bastava il solo biglietto del venerdì) hanno potuto prendere parte all’esclusivo walk-about, ovvero la passeggiata nella corsia dei box, per ammirare da vicino le proprie vetture preferite e i meccanici all’opera, a patto di riuscire a superare la tagliola degli spintoni da parte dei tifosi più incivili (dobbiamo sempre farci riconoscere!). Un walk-about travagliato, dove è regnato il caos anche per una semplice sessione di autografi, gestita in modo scandaloso e senza un’organizzazione specifica a monte. Persino i commissari di pista si sono trovati in difficoltà nel dare indicazioni precise in merito.
Parlavamo di controlli e viene da chiedersi dove sono stati durante tutto il week-end se in tantissimi hanno montato le tende a due passi dalla pista pur essendo vietato il campeggio all’interno dell’autodromo. E che dire dei tanti bagarini che hanno affollato gli ingressi principali dell’autodromo e i tantissimi truffatori che hanno cercato di spillare soldi ai più sprovveduti con il classico gioco della pallina da trovare sotto uno dei tre bussolotti?
Impossibile non rimanere infastiditi da tutte queste evidenze. E, del resto, basta dare uno sguardo alla pagina Facebook dell’autodromo per scoprire le diverse lamentele e i messaggi stizziti lasciati da tanti appassionati (anche stranieri) che, giustamente, dopo aver speso cifre ragguardevoli per vedere il Gran Premio, si aspettavano un quadro generale decisamente migliore. L’insoddisfazione genera un pericoloso passaparola negativo che, a lungo termine, può danneggiare non solo l’immagine di Monza, ma anche l’attrattività turistica del nostro Paese, che già ha subito duri colpi nel corso degli ultimi anni.
Riprendendo uno di questi commenti, i monzesi hanno tra le mani un patrimonio straordinario, ma ce la stanno mettendo tutta per perderlo. Si, perché se i progetti per fare un Gran Premio a Roma (su un tracciato cittadino) sono ormai tramontati da tempo, esiste sempre il “rischio” di spostare tutto a Imola, altro storico tracciato legato purtroppo a un evento nefasto (la morte di Senna), ma amato fortemente da piloti ed appassionati. La provocazione, a questo punto, è d’obbligo: perché non dare una chance a Imola e spingere Monza a una doverosa pausa di riflessione? Sarebbe un modo per valorizzare fortemente il territorio romagnolo, non solo dal punto di vista turistico e culturale, ma anche economico. E, cosa più importante, ne guadagnerebbe l’Italia intera di fronte a turisti ed appassionati: almeno non saremo costretti a vedere sventolare vergognose bandiere con il “Sole delle Alpi” in mondovisione sotto al podio.
Una donna velata siede al capezzale del marito ormai stremato, privo di conoscenza. Non piange, ma è solo arrabbiata e dopo tanti anni ha il coraggio di gridargli quello che per molto tempo gli ha celato per paura delle sue reazioni.
Questa è l’immagine che ormai si staglia sul nostro paese, allo stremo, senza più grandi prospettive, dove anche quest’ultimo decreto cultura – che come operazione di marketing ha funzionato molto bene – è il disperato tentativo di salvarlo, senza forzare e smontare alcuni strumenti di apparato che ormai non hanno più motivo di esistere.
Sono tre anni che Banca d’Italia rivede le stime di crescita e dobbiamo essere realistici: nel 2014 il Pil calerà dell’1,8% e sul tema dell’occupazione saliremo dall’11,8% del 2013 al 13% nel 2014.
I dati in negativo saranno dovuti soprattutto al calo della spesa delle famiglie dovuta alla contrazione dei redditi disponibili. Tra i motivi di fiducia di questo governo c’è il pagamento dei debiti delle amministrazioni pubbliche verso i creditori: al riguardo esprimo grandi dubbi, come sono molto critico sulla possibilità di sostenere consumi ed investimenti privati con la semplice immissione di liquidità nel sistema economico.
Per il 2014 le prospettive delle imprese e delle famiglie saranno stazionarie, se non in alcuni casi peggiori. Questa è la realtà ed è da qui che dobbiamo partire.
Proprio ad agosto, bisognerebbe avere il coraggio di essere realisti, evitando di esprimere desideri sotto le stelle cadenti della notte di San Lorenzo e cominciando a gridare a “quest’uomo ormai allo stremo” di smettere con le opere di salvataggio attraverso gli ormai famosi sistemi di commissariamento in cui in Italia siamo maestri, di interpretare con maggiore attenzione i dispositivi che la comunità Europea mette a disposizione, di alleggerire in modo intelligente quell’imponente apparato che si occupa del restauro e conservazione del nostro patrimonio, di costruire una struttura in grado di interagire tra le soprintendenze, le direzioni generali e il mondo delle imprese.
Perché in questa crisi profonda del nostro paese, si sta verificando un paradosso che troverà riscontro nei dati dei prossimi anni. La contrazione dei consumi non avverrà infatti nel comparto turismo e cultura, ma in questo momento non abbiamo le capacità, le strutture e le mentalità per capire profondamente come cogliere questo opportunità.
Ci sono ancora troppi pesi morti, troppe clientele, troppa politica e troppi favoritismi. Ma non basta “gridare”, servono azioni concrete e semplici: nuovi strumenti giuridici, trasparenza decisionale negli appalti, nelle assunzioni, nella distribuzione delle risorse.
La donna velata, alzando il capo al cielo, dentro di sè, pensa “lo diverremo mai?”.
Stefano Monti è il direttore editoriale di Tafter.it
Chissà se nel lontano 1860 il signor Stefano Pernigotti, droghiere specializzato in “droghe e coloniali” in piazza del mercato a Novi Ligure (AL) , rinomato per la sua mostarda e in particolare per il suo torrone, si sarebbe mai immaginato che la sua straordinaria ricetta sarebbe passata poco più di un secolo e mezzo più tardi nelle mani di una famiglia straniera, turca per giunta?! Eppure è Averna, dopo diciotto anni dall’acquisto dall’ultimo erede omonimo pronipote Stefano Pernigotti , a vendere a sua volta. Acquirenti due fratelli della famiglia Toksoz, big turchi nel settore alimentare- dolciario, farmaceutico ed energetico.
Il gruppo Toksoz, con sede a Istanbul, realizza un fatturato annuo pari a circa 450 milioni di euro. Inoltre, attraverso una società controllata detiene i marchi Tadelle, Sarelle e una gamma completa di snack dolci, creme spalmabili e gelati per un valore annuo di circa 80 milioni. Acquisendo Pernigotti, il cui ricavo viene per poco più della metà dal segmento dolciario e per il restante dai prodotti per il gelato e la pasticceria, venduti maggiormente in Italia ma da qualche anno apertisi ai mercati internazionali, Sarelle duplicherebbe quindi il suo fatturato.
Ottimiste le dichiarazioni di entrambi i contraenti con prospettive di continuità e sviluppo, più preoccupata invece la Coldiretti, la quale teme che il passaggio di proprietà possa portare alla perdita di occupazione per gli attuali 150 dipendenti e alla delocalizzazione della produzione.
Tutte la costa turca del Mar Nero è famosa infatti per la produzione, oltre che di tè, di nocciole; tanto che nel 2012, la Turchia ha raggiunto un nuovo record di vendite conquistando il primato mondiale secondo i dati forniti dalla Borsa Merci di Trabzon (capoluogo della regione) con 265.000 tonnellate di esportazioni.
Altissima e spietata quindi la concorrenza con i produttori italiani di Piemonte, Lazio, Campania e Sicilia, che vantano le rispettive Nocciola di Giffoni I.G.P., Nocciola Romana D.O.P. e la Nocciola Piemonte I.G.P.; se queste da un lato rivendicano una superiorità rispetto a quelle estere per dolcezza e persistenza olfattiva, la proposta turca dall’altro sembra avere un rapporto qualità/prezzo che soprattutto nel grande mercato ottiene spesso il sopravvento.
Diverse aziende italiane, tra cui anche la Ferrero, per realizzare la tanto italiana Nutella, utilizza da tempo gran parte di nocciole provenienti Georgia, Cile e ha aperto negli ultimi mesi un branch proprio in Turchia.
Non è forse un caso dunque se Pernigotti, vincitore del Sapore dell’anno 2013 ha scelto proprio una società turca a cui affidare il prestigio e la tradizione dei suoi cioccolatini, gelati e torroni. Del resto i Toksoz vantano un elevato know-how nel campo della nocciola. Il loro cavallo di battaglia risiede ancora una volta nella ricerca di prodotti semplici, naturali e biologici di alta qualità e raffinatezza.
Marchio ricco di storia e fascino, immagine nel mondo della gianduia e del torrone italiano, Pernigotti nelle mani della brand turca ha da un lato la possibilità di espandersi verso nuovi mercati e diffondere ancor più il suo gusto di successo, dall’altro lato ci si augura che continuerà ad essere garantita non solo la qualità dei prodotti ma anche la scelta delle materie prime e delle tecniche di produzione.
Il 18 luglio scorso è stato annunciato l’accordo che sancisce la concessione d’uso del Palazzo della Civiltà Italiana, per 15 anni, a Fendi, società che oggi fa capo al gruppo francese LVMH. A promuoverlo è stata EUR S.p.a., l’azienda pubblico-privata che rappresenta l’evoluzione di quello che era l’Ente EUR, fondato nel 1936 in qualità di Ente Autonomo per l’Esposizione Universale di Roma del 1942.
La storia ha poi voluto che quell’anno l’Italia, l’Europa e il mondo si trovassero a combattere la Seconda Guerra Mondiale. L’esposizione non si è mai tenuta e con lei le celebrazioni del ventennio fascista; ma l’EUR, il quartiere sorto a sud di Roma, deve molto ad entrambe.
Oggi ribattezzato quartiere Europa, è stato progettato negli anni Trenta in vista del grande evento, voluto da Benito Mussolini in persona, per celebrare i vent’anni della marcia su Roma. Da sempre ha voluto rappresentare l’espansione della Capitale verso il mare.
Costruito sul modello dell’urbanistica classica romana, reinterpretata secondo l’ideologia fascista e il Razionalismo Italiano, quello che viene oggi considerato il business district della città di Roma è costellato di edifici monumentali, massicci e squadrati, in marmo bianco e travertino, dal forte valore simbolico. L’EUR è un complesso architettonico ed urbanistico denso di significato, di storia, di cultura, pensato sin dagli esordi per essere più di semplice materia, per costituire viva testimonianza di una parte del nostro passato.
L’edificio che più di ogni altro simboleggia l’operazione condotta e il modello architettonico e culturale secondo cui questa è stata sviluppata è proprio il Palazzo della Civiltà, noto anche come Colosseo Quadrato per la presenza degli archi sulle sue quattro facciate. Progettato da Giovanni Guerrini, Ernesto Lapadula e Mario Romano è una struttura dal grande eco storico e politico, densa di simbologia e significati allegorici: dall’incisione che vuole raccontare l’italianità, alle statue narranti le virtù del popolo italiano, alla scelta del travertino che, oltre a ripristinare il legame con le tradizioni dell’Impero romano, voleva sottolineare i moti autarchici del regime, fiero di esibire la propria autosufficienza economica.
Dal punto di vista amministrativo il quartiere rappresenta, a tutti gli effetti, un’anomalia. A governare il patrimonio di palazzi, musei, strade e parchi naturali, lasciati in eredità dall’ente originariamente fondato per l’esposizione del 1942, è dal 2000 EUR S.p.a., una società controllata al 90% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e per il restante 10% dal Comune di Roma.
Tale soggetto è stato creato per gestire e valorizzare il patrimonio mobiliare e immobiliare di sua proprietà, ma negli ultimi anni si è rivelato particolarmente interessato alla sua messa a reddito, perseguita tanto con l’affitto di spazi ed intere strutture, quanto con attività inerenti lo sviluppo immobiliare, l’energia e i servizi in genere.
EUR S.p.a. rappresenta a tutti gli effetti la privatizzazione di una porzione di territorio, un soggetto giuridico fuori dagli schemi che, sfruttando la forza patrimoniale dei beni che dovrebbe gestire e valorizzare e la protezione politica ed istituzionale che deriva dalla sua natura ibrida, s’impegna in forti indebitamenti e porta avanti operazioni d’investimento secondo logiche d’interesse non sempre trasparenti.
Non estranea alle critiche, la società è stata di recente portata all’attenzione dei media per l’accusa di corruzione rivolta a Riccardo Mancini, ex AD, per le assunzioni e i favoritismi in pieno stile Parentopoli e per la magistrale bravura nell’innescare giochi di scatole cinesi fra società connesse e controllate.
L’ultima operazione controversa riguarda proprio il Colosseo Quadrato, il cui uso è stato dato in concessione a Fendi per 15 anni, alla cifra apparentemente esorbitante di 2.800.000 euro annui. La griffe vuole fare della struttura il proprio headquarter, adibendo il piano terra a contenitore per un’esposizione dedicata al Made in Italy e alla creatività italiana. La società ha dichiarato di aver scelto l’edificio per valorizzare il suo legame con l’italianità e la città di Roma.
Peccato però che dal 1999 il marchio sia stato sapientemente acquisito da Patrizio Bertelli e Bernard Arnault, quest’ultimo – particolarmente interessato ai brand del Made in Italy – è proprietario del colosso francese LVMH, che controlla circa una sessantina di marchi nei settori moda e lusso, e che nel 2012 ha registrato un fatturato di 28 miliardi di euro.
Le multinazionali straniere iniziano così a farsi strada verso la nostra più grande ricchezza, il patrimonio culturale, nella cui gestione continuiamo a mostrare debolezza e mancanza di prospettive. Non c’era un modo migliore di intervenire sul Palazzo della Civiltà Italiana se non quello di darlo in concessione ad un colosso internazionale della moda? Siamo sicuri che procedendo in questo modo EUR S.p.a. possa dire di perseguire l’obbiettivo per cui è stata creata, ovvero la gestione e la valorizzazione del patrimonio affidatole?
Non la pensa così Umberto Croppi, che sulla questione ha molto da dire. Direttore generale della Fondazione Valore Italiana, in un recente intervento su Repubblica ha chiamato in causa la legge 24 dicembre 2003 n. 350, con la quale è stata istituita l’Esposizione Permanente del Design Italiano e del Made in Italy, la cui gestione è stata affidata proprio alla Fondazione Valore Italia in seguito ad una convenzione sottoscritta in data 28.05.2009 dal Ministero dello Sviluppo Economico, dal Ministero dei Beni Culturali e da EUR S.p.a.
Ebbene sì, l’esposizione avrebbe dovuto avere sede proprio nel quartiere sud ovest della Capitale, all’interno del Colosseo Quadrato.
La struttura, infatti, più volte era stata destinataria di investimenti pubblici, sia da parte del Mibac, che spese 16 milioni di euro per interventi di consolidamento e restauro quando si pensava di farne il Museo dell’Audiovisivo, che da parte della società partecipata. L’obbiettivo era farne una struttura espositiva sicura e attrezzata per ospitare attività culturali, oltre alla Discoteca di Stato.
Nel luglio 2012 anche il governo tecnico ha intuito la necessità strategica di un’iniziativa per la promozione del Made in Italy, differendo di fatto al 2014 la decisione di sopprimere la Fondazione Valore Italia, avanzata nel decreto “spending review”.
Secondo Croppi l’operazione condotta da EUR S.p.a. è di una gravità assoluta per diverse motivazioni. Innanzitutto, la convenzione sottoscritta nel 2009 è da considerarsi, di fatto, ancora in vigore e, inoltre, l’intesa è stata sottoscritta quando nella società pubblica non era ancora stato nominato uno degli organi – l’amministratore delegato. In aggiunta a tutto ciò, se anche le autorità competenti dovessero autorizzare tale procedura, si dovrebbe comunque procedere con un’evidenza pubblica e, oltretutto, procedendo in questi termini, l’investimento di 16 milioni di euro effettuato dal Mibac in passato costituirebbe, di fatto, un’indebita elargizione di denaro pubblico a beneficio di un privato.
C’è ancora un aspetto, però, assai difficile da capire. Croppi parla di una valutazione effettuata in data 26 ottobre 2007 dall’Agenzia del Territorio su istanza dell’Eur Spa che, a fronte dei 2.800.000 euro anni chiesti a Fendi, attribuisce alla porzione del palazzo un valore locativo di 4.680.000 euro annui. Se questi dati sono corretti, perché mai il canone richiesto alla griffe dovrebbe essere più basso? Saremo mica innanzi alla svalutazione di una delle nostre più eloquenti testimonianze di civiltà a favore di una multinazionale straniera?
Quel che è certo è che ancora una volta il management italiano della cultura ha dimostrato di vivere dell’espediente e mancare di prospettive. Che sia semplicemente un limite delle figure preposte alla gestione e alla valorizzazione del patrimonio o piuttosto la spia di una vulnerabilità che ci rende particolarmente appetibili agli occhi dei colossi internazionali?
Non capitava da tempo che un luogo e un evento trasmettessero tanto entusiasmo e ottimismo, soprattutto non a Roma, una città che sembrava fosse morta.
Il 25 giugno scorso, durante l’Investor Day della LUISS EnLabs – la fabbrica delle start up, la capitale si è mostrata capace di guardare al futuro scommettendo sui giovani, il talento e il cambiamento.
Nel salone, di 1500 metri quadri al secondo piano della Stazione Termini, gremito di gente curiosa, 7 aspiranti imprenditori, dopo 5 mesi di incubazione nella “fabbrica delle start up”, hanno presentato il risultato del loro lavoro. Solo 7 minuti a disposizione per attrarre circa un centinaio di investitori presenti in sala e almeno 3 mesi per chiudere le trattative con chi deciderà di credere e scommettere nei loro progetti.
Le start up in gioco.
Sette le start up in gioco.
Atooma – A Touch of Magic consente di combinare in modo creativo sia le futures del telefono sia le applicazioni esterne per ottenere nuove e “magiche” funzionalità.
CoContest: una piattaforma dedicata al mercato dell’interior design.
GamePix: una start up del settore gaming.
Le Cicogne: start up in grado di far incontrare domanda e offerta di baby-sitting, baby-tutoring e baby-taxi.
Maison Academia: piattaforma che permette a stilisti emergenti di realizzare le proprie collezioni coniugando la creatività e l’eccellenza Made in Italy.
Pubster: l’applicazione che ti offre da bere quando esci la sera.
Risparmio Super: la web che aiuta i consumatori a risparmiare confrontando i prezzi dei supermercati della zona.
Da sognatori a imprenditori
Come emerso dalle interviste con Luigi Capello (fondatore LUISS EnLabs), Alexandra Maroiano (LUISS EnLabs), Monica Achibugi, Giulia Gazzelloni (Le Cicogne) e Mary Palomba (Maison Academia), prima di approdare al programma di accelerazione della LUISS Enlabs e imparare come trasformare un sogno in un progetto imprenditoriale, i giovani sturtupper hanno superato molti ostacoli e barriere, partecipato a molti eventi e frequentato altri corsi di “preparazione all’imprenditorialità”.
Tra i programmi più seguiti: I-Lab (laboratorio delle idee), InnovationLab e InnovAction Camp, un programma che tiene “reclusi” in una ex base Nato 20 perfetti sconosciuti che, alla fine della maratona di 5 giorni e 4 notti, devono essere in grado di costruire un team e presentare un progetto.
Come nasce la LUISS EnLabs
Il progetto nasce da un’idea di Luigi Capello, imprenditore e business angel, che nel 2007, dopo aver intrapreso un viaggio nella Silicon Valley promosso dall’ambasciatore Ronald Spogli, è tornato in Italia con l’idea di colmare un vuoto. Inizialmente fonda “Italian Angels for Growth”, un gruppo di business angels che ha lo scopo di “promuovere l’imprenditorialità come motore di crescita economica” e nel 2010 dà vita al progetto EnLabs che, nel 2013, in seguito ad una joint venture con la LUISS, si trasforma nella LUISS EnLabs.
Tra i suoi startuppers, Luigi Capello sembra non “solo” un imprenditore, ma anche il padre di tanti sognatori che attraverso dure prove e sacrifici hanno imparato come superare gli ostacoli e intraprendere la strada della felicità.
Come essere selezionati dalla LUISS EnLabs
Per essere ammessi al programma di accelerazione della LUISS Enlabs non basta solo una buona idea; bisogna aver un buon progetto, un buon team e una buona capacità di vedersi nei 7 minuti a disposizione per la video presentazione.
Consigliano di frequentare gli eventi dedicati alle start-up, mettere a confronto le proprie idee e andare avanti con determinazione senza aver paura di crollare.
Le cadute fanno parte del cammino.
In pochi giorni si è consumato il rito annuale della presentazione dei Rapporti sull’economia della cultura nel nostro Paese. Figli di una stirpe blasonata e prolifica, mostrano in modo chiaro il dna dei progenitori: giustificare l’esistenza della cultura non come un’inutile decorazione ma come uno snodo per la crescita del Paese, con metafore tratte dalla chimica organica, dall’ingegneria meccanica, dalla sociologia; dimostrare che la cultura genera una cascata di effetti economici e finanziari sull’economia italiana: il MiBAC aveva azzardato un moltiplicatore di 16, il Rapporto Symbola si limita a 1,7 e nessuno ha il buon senso di ammettere che ogni attività legale genera un impatto sull’economia, che i turisti non sono per forza motivati da intenzioni culturali, che ogni iniziativa, anche se non culturale, riesce ad accrescere il giro d’affari di alberghi e ristoranti; chiedere nuove norme che inseriscano per l’ennesima volta obblighi e divieti, dopo aver già fallito con l’esenzione fiscale per le donazioni, che rimuove un vincolo ma non crea una motivazione, con la creazione dei poli museali autonomi che replicano gli stessi disastri dei musei, uffici periferici delle Soprintendenze, con la trasformazione estetica degli enti lirici in fondazioni, e così di seguito; chiedere, a gran voce, più denaro pubblico e privato, magari introducendo ulteriori normative che predispongono una griglia ma non possono incidere sui vincoli dei bilanci pubblici né sulla volontà delle imprese private.
Così, si racconta che la cultura italiana è importante e rispettata in tutto il mondo (lo sapevamo già); che il benessere degli italiani e le sorti dell’economia possono essere rafforzati dalla cultura (il che è innegabile); che il turismo internazionale va consolidato (lo dicono in tanti, ma evidentemente non hanno mai parlato con un fiorentino o un veneziano); che dentro il regno della cultura hanno piena cittadinanza i creativi (etichetta molto in voga negli anni più recenti usata per includere architetti, chef, ceramisti e sarti). Si indicano possibili percorsi che dovrebbero convincere le organizzazioni culturali a pensare e agire imprenditorialmente, l’economia privata a finanziare progetti culturali, la società a donare qualcosa; obiettivi condivisibili ma tuttora lontani nonostante (o a causa di?) l’inondazione normativa e regolamentare degli ultimi quindici anni. E si fornisce una fotografia dimensionale che, aggregando per categorie attività eterogenee e possibilmente in evoluzione, perde di vista i processi, le dinamiche, le relazioni causali e dunque anche le credibili opportunità che un sistema culturale funzionante potrebbe regalare a sé stesso e alla società italiana. Dire teatro o museo non basta più, sarebbe più utile analizzare la fenomenologia dell’offerta culturale nella sua complessità e nella sua collocazione territoriale negli spazi urbani in pieno fermento.
Il paradosso è che quando i posteri leggeranno la sequenza dei rapporti sull’economia della cultura scopriranno che la cultura italiana è statica e ossessionata dal proprio ruolo istituzionale; che si sente trascurata dal dibattito e dalle imprese; che è rimasta più o meno nello stesso assetto e nelle stesse dimensioni per un paio di decenni; che ogni tanto cerca di attivare strumenti di marketing e di attrazione di nuovi finanziatori. In tutto questo l’unico argomento assente (spesso anche nella realtà) è quello semantico e strategico: di che cosa parliamo quando parliamo di cutura? Esporre dipinti o mettere in scena un’opera come si faceva oltre un secolo fa si può ritenere culturale? O non siamo diventati soltanto un enorme museo a cielo aperto che conserva tutto (anzi lo protegge, presupponendo l’esistenza di una minaccia) senza mai poterne estrarre il valore? Il nume della cultura italiana è Tantalo, che vede ma non tocca, e soprattutto non si può nutrire: vive accanto a un bellissimo frigorifero ma non vuole cucinare il cibo conservato dentro. Sarà vero che con la cultura si mangia, ma forse sarebbe più utile capire chi mangia, come e perché.
Magari potremmo indicare ai posteri alcune cose cruciali: deregolamentare e incentivare, in modo che finalmente l’offerta culturale si assuma qualche responsabilità e senta il dovere di diventare affidabile; selezionare e incoraggiare le risorse umane, abbandonando velocemente la smania bizantina di concorsi, bandi e percorsi formalmente ineccepibili e sostanzialmente opachi e truffaldini, accettando la necessità di negoziati trasparenti e flessibilità strategica; premiare il grado di innovazione sui metodi e sui contenuti di progetti e azioni culturali, in modo da sostenere l’ibridazione con il resto dell’economia e della società; introdurre massicciamente l’arte e la cultura nei percorsi formativi, che oggi le ignorano o le riducono a un elenco di tediose nozioni da imparare a memoria. In sintesi, superare il complesso di Edipo (lo hanno fatto i nostri padri, non c’è motivo di discuterne), l’ansia da prestazione (guardano tutti la tv e solo pochi dotti frequentano i luoghi della cultura), la rimozione psicanalitica (il successo della cultura non è connesso alla sua capacità dialogica ma all’attrazione di masse informi), la nostalgia senile (un tempo le cose andavano meglio, erano tutti colti), la paura della morte (senza soldi pubblici la cultura fallirà). Più che un rapporto, serve il medico dei pazzi.
La Confederations Cup è iniziata con la metà degli stadi pronti per il Mondiale 2014 e senza i grandi progetti infrastrutturali promessi dal governo. Tuttavia, la FIFA, che ha sempre sostenuto che il Brasile non aveva l’infrastruttura necessaria per ricevere un milione di turisti stranieri attesi per l’evento, adesso garantisce che i 12 mesi fino all’inizio del torneo saranno sufficienti per la conclusione dei preparativi. Nel bilancio delle opere pubblicate nel dicembre dello scorso anno però, il governo brasiliano ha riportato che nessuno dei 53 progetti di mobilità urbana sono ancora pronti; negli aeroporti, tra i 30 progetti legati al Mondiale, solo 8 sono stati conclusi.
Si stimava che il Mondiale esigesse R$25.5 miliardi (€8.65 miliardi), ma ormai le cifre sono molto più alte. In realtà, la stessa cosa è successa nell’occasione dei Giochi Panamericani a Rio de Janeiro. Inizialmente preventivato a R$1 miliardo (€340 milioni), si stima che l’evento abbia consumato invece R$4 miliardi (€1.35 miliardo). Nel caso del Mondiale, una parte dei fondi veniva dalle casse della Confederazione Brasiliana di Calcio (CBF), ma la spesa per le infrastrutture nelle città dove i giochi si svolgono, cioè, la costruzione di aeroporti, dei sistemi di telecomunicazione, i lavori stradali e la riqualificazione urbana, doveva essere a carico dello Stato, finanziato con denaro pubblico.
Solo il budget per i 12 stadi è attualmente pari a R$7 miliardi (€2.37 miliardi), tre volte il totale speso in Sud Africa per il Mondiale del 2010, e di cui la maggior parte proviene dalle casse pubbliche. Il governo Lula aveva promesso che il settore privato avrebbe finanziato la costruzione degli stadi e i fondi pubblici sarebbero utilizzati solo per progetti di infrastruttura urbana, però nella corsa per finire i lavori, grandi parti dei progetti sono stati ritardati o abbandonati. Le linee ferroviarie ai due principali aeroporti di San Paolo, per esempio, ora saranno finite solo dopo l’evento, mentre alcune delle nuove sedi, come quella di Brasília o Manaus, avranno poco o veramente nessun uso futuro. Le autorità ammettono che dovranno affrontare una grossa sfida dopo il 2014 per soddisfare i nuovi costi operazionali, ma il governo giustifica la spesa come in linea con il suo obiettivo di ridurre le disparità tra nord e sud, poveri e ricchi, anche se la maggior parte delle persone non possono permettersi il prezzo dei biglietti per questi eventi. Nel totale, il governo brasiliano ha speso R$31 miliardi (€10.5 miliardi) con la scusa di accelerare lo sviluppo sociale ed economico del paese e modernizzare l’immagine del Brasile dagli stereotipi di samba, carnevale e spiagge. Per il popolo, però, queste sono prove dell’onnipresenza della corruzione, un problema di vecchia data nel Paese.
Gli argomenti a favore della spesa pubblica per il Mondiale in Brasile? L’evento creerà nuovi posti di lavoro, aumenterà il flusso turistico, promuoverà la rivitalizzazione di aree urbane e rafforzerà gli investimenti nel paese, ma la realtà è che le stime dell’impatto dell’evento sono generalmente esagerate. Nel 1994, il PIL degli Stati Uniti è aumentato del 1,4%. Nel 1998, in Francia, il PIL è cresciuto del 1,3%. Nel 2002, il PIL in Corea del Sud è aumentato del 3,1%, ma in Giappone ha avuto diminuzione del 0,3%. Prima del Mondiale in Germania, si parlava della creazione di 100,000 nuovi posti di lavoro, ma uno studio fatto dopo l’evento ha registrato solo la metà. In Corea del Sud dei 500,000 turisti previsti per l’evento del 2002, solo il 50% è andato.
In Sud Africa, il Mondiale del 2010 è stato un’opportunità per rompere alcune distanze sociali che lì sono ancora molto forte e ci sono stati miglioramenti anche nei trasporti, a Johannesburg, per esempio. Ma i costi del Sud Africa per ospitare il Mondiale sono stati pari a €3 miliardi, gli stessi numeri annunciati come profitto dalla FIFA. In realtà, quello che abbiamo visto è stato un semplice trasferimento diretto di fondi pubblici del Sud Africa all’organizzazione. L’evento ha sicuramente aperto una nuova prospettiva per il paese, ma le cifre sono troppo alte e sarebbe giusto dire che il governo sud africano ha speso molto per un paese che ha ancora tanti altri bisogni più rilevanti. L’idea è che se si spendono €3 miliardi in un evento, dovrebbero avere almeno €6 miliardi di profitto sullo stesso.
In occasione della Confederations Cup, milioni di persone sono scese in piazza in diverse città brasiliane, sdegnate dal budget che il governo spenderà per l’organizzazione del Mondiale 2014, cifra giudicata eccessiva per un grande paese dove i servizi sociali sono estremamente carenti. I brasiliani ormai vedono la realizzazione del Mondiale come un’occasione perduta di un vero sviluppo: un grosso investimento federale che ormai è stato mal pensato e male utilizzato in progetti che prevedono il miglioramento dell’infrastruttura del paese solo a breve termine, e non per i suoi cittadini.
L’amore del Brasile per il calcio è stato a lungo accusato di distrarre la popolazione dai suoi problemi sociali. È ironico, quindi, che è stata la preparazione del paese per ospitare il Mondiale che ha mosso i brasiliani nelle ultime settimane. La gente in piazza chiede a gran voce la fine della corruzione e dello spreco di denaro pubblico, che sono entrambi purtroppo così abituali. Piani del governo sono stati riformulati, gli investimenti pubblici sono stati tagliati, ma gli impegni con la FIFA sono sempre rimasti gli stessi. Gli investimenti nelle città che ospiteranno le partite del Mondiale sono stati ritenuti prioritari rispetto ai bisogni del popolo: il denaro pubblico è stato versato prevalentemente in progetti sportivi, a danno della sanità, dell’istruzione e della sicurezza. La mancanza di investimenti per l’istruzione, per esempio, ha contribuito ad un aumento di persone senza occupazione e così anche alla mancanza di sicurezza nelle grandi città. In molti centri urbani le condizioni nelle scuole sono deplorevoli, gli insegnanti sono mal pagati e demoralizzati. Anche la situazione della sanità pubblica è preoccupante: chi deve contare sugli ospedali pubblici spesso finisce per aggravarsi a causa della mancanza di un trattamento professionale.
La proposta del governo per quanto riguarda il Mondiale in Brasile era di avere un evento in cui ci fosse totale trasparenza sulla spesa pubblica, ma si è verificato il contrario. Il budget iniziale di R$25.5 miliardi (€8.65 miliardi), è salito adesso a 31 miliardi di reais (€10.5 miliardi), quasi tre volte il costo del Mondiale in Germania nel 2006.
Nel frattempo, la FIFA ha annunciato che avrà un profitto di R$4 miliardi con il Mondiale, esentasse. Il suo profitto contrasta con la totale mancanza di un lascito per il popolo brasiliano. Il presidente Dilma Rouseff, dopo due settimane di manifestazioni di protesta in tutto il paese, che hanno messo addirittura in discussione il proseguimento della Confederations Cup, ha dichiarato nel suo discorso a reti unificate alla nazione, venerdì scorso, che “faremo un grande Mondiale, ne sono sicura. E vi assicuro che il denaro per la costruzione degli stadi non ha sottratto risorse all’istruzione o alla sanità”, senza spiegare però da dove vengano tutti i soldi spesi finora. Il popolo brasiliano, però, non è d’accordo. Un sondaggio diffuso negli ultimi giorni rivela che il 40% degli intervistati è “totalmente a favore” della realizzazione del Mondiale, il 27% “a favore” ed il 29% “contrario”.
Se solo la FIFA profitterà del Mondiale, il popolo brasiliano coglie l’occasione dei riflettori accesi sul paese per scendere in piazza e protestare, nel tentativo di invertire almeno la logica di un sistema che privilegia il denaro a discapito di questioni sociali urgenti e affinché il poter politico sia più vicino alla società e non agisca per esclusivo interesse di pochi individui.
301.277 kmq la superficie dell’Italia. Una spina dorsale rocciosa adornata da una fascia costiera della lunghezza complessiva di 8.300 km. Un paesaggio naturalistico senza pari della cui tutela e valorizzazione è competente il “Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare”. Un titolo lungo e altisonante per un dicastero al quale, a ben vedere, poche sono le risorse umane e finanziarie destinate, pari circa a 1/3 di quelle destinate al Ministero per i Beni e le Attività Culturali, che pure a presidio del territorio opera (504.402.890 mln di euro a fronte di 1.673.088.469 mln di euro le cifre rispettivamente messe a disposizione per il bilancio di previsione per l’anno finanziario 2013).
Dobbiamo, dunque, ritenere che l’ambiente e il territorio siano meno importanti dei beni culturali che su di esso insistono? Un confronto tra le strutture e le cifre messe a disposizione dei due ministeri sembrano confermare tale impressione.
A fronte di una struttura, quella del Mibac, che annovera 8 Direzioni Generali e 2 organi di vertice, e un radicamento nel territorio periferico che sconta in non pochi casi di sovrapposizioni e giustifica lo stipendio esoso di una vasta schiera di dirigenti, la struttura del Ministero dell’ambiete si articola in 5 Direzioni Generali, coordinate dal Segretario generale, e nell’Ispettorato generale per la difesa del suolo; 3 organismi di supporto – il Comando Carabinieri per la Tutela dell’Ambiente, il Reparto Ambientale Marino (RAM) del Corpo delle Capitanerie di Porto e il Corpo Forestale dello Stato – e una serie di Commissioni e Comitati scientifici.
Una fascia dirigenziale più contenuta, dunque, quella del Ministero dell’Ambiente e una spesa di “funzionamento” ben diversa. Se, in effetti, si deve rilevare che le cifre di retribuzione annua lorda della dirigenza siano grosso modo in linea con quelle afferenti la dirigenza di prima e seconda fascia del Mibac, attestandosi su una media di 69.000,00 mln di euro per quelli di seconda fascia e sui 180.000,00 per quelli di grado più elevato, le risorse economiche a disposizione sono state così utilizzate.
A fronte di una liquidità via via decrescente nel corso degli ultimi anni, sul sito del Minambiente possiamo leggere, in riferimento al bilancio del 2011, che le risorse complessivamente messe a disposizioni sono state pari a 554.181.895, di cui 323.003.212 mln di euro destinati alle spese correnti e 231.178.683 alle spese in conto capitale. Tra le spese correnti, la cifra destinata al “funzionamento” dell’apparato ministeriale è si è attestata sui 78.903.460 mln di euro.
All’incirca 1/3 della spesa andando ad includere gli oneri comuni di parte corrente (pari a poco più di 24 mln di euro), laddove per il Ministero per i Beni Culturali nel bilancio di previsione per l’esercizio finanziario 2012 ha destinato metà del proprio budget complessivo di spesa corrente (1.371.409.968 mln di euro) al “funzionamento” (869.043.350 mln di euro).
Perché, dunque, al Mibac ci si lamenta di una carenza di risorse quando il Ministero dell’Ambiente, che pure si occupa della valorizzazione di un bene altrettanto importante, il nostro territorio, ha a disposizione risorse nettamente inferiori? Piuttosto che lamentarsi non sarebbe invece più opportuno che si andasse a verificare come queste risorse vengono spese? Siamo davvero sicuri che la valorizzazione e la tutela dei beni culturali necessitino di un organico dirigenziale tanto folto e lautamente stipendiato o forse si è ecceduto con troppe assunzioni?
L’artigiano è l’operoso custode di un antico saper fare e l’abile creatore di manufatti che raccontano le tradizioni e la cultura del paese d’origine. Inestimabile risorsa per i paesi più ricchi, è altrettanto fondamentale in quei paesi in cui lo sviluppo tarda ad arrivare. Questi ultimi, tuttavia, a differenza dei primi, scontano una difficoltà di accesso al mercato insormontabile. La carenza di risorse, la mancanza di collegamenti fisici e infrastrutturale, le barriere linguistiche determinano, di fatto, l’esclusione dal circuito economico dei manufatti artigianali realizzati dalle popolazioni più povere, divenendo mancate opportunità.
In che modo, dunque, l’innovazione tecnologica, unita all’agire economico possono coniugarsi a favore dello sviluppo delle popolazioni rurali più povere? Come consentire l’accesso al mercato agli artigiani di questi paesi?
Queste probabilmente le domande che si sono posti i fondatori di GlobeIn, quando nel 2011 hanno creato la loro start-up, una piattaforma di e-commerce che consente agli artigiani dei Paesi emergenti di entrare in contatto con il mercato globale, ma anche uno spazio virtuale nel quale la vendita dei manufatti si accompagna al racconto della storia dell’artista che lo ha realizzato.
Cerchiamo di capire, dunque, come funziona GlobeIn, ufficialmente online dalla fine dello scorso aprile. La piattaforma risponde alla sfida di creare l’inclusione economica, individuando nella creatività, nella cultura e nella sostenibilità insite nel lavoro artigianale le leve da valorizzare per favorire il cambiamento. La ricerca degli artigiani e la collaborazione con essi sono attivate e mantenute a livello locale attraverso la figura chiave dell’artisan helper. Questi “country and regional managers”, così come definiti nel sito, oltre ad occuparsi delle questioni di ordinaria amministrazione, ovvero di corrispondere il pagamento dell’oggetto venduto e provvedere alla spedizione dello stesso, gestiscono le diverse criticità e opportunità di sviluppo del territorio, contribuendo alla crescita economica e sociale della comunità locale. L’importante funzione svolta si riflette nel modello economico individuato dai fondatori di GlobeIn. Come precisato nel sito, sono gli artigiani a definire il prezzo dei loro manufatti, prezzo che gli verrà interamente corrisposto loro al momento della vendita dell’oggetto. Rispetto alla cifra definita GlobeIn applica un sovrapprezzo del 25%, una parte del quale è destinata agli operatori locali.
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