Le parole ascoltate a caldo in occasione della nomina dei Ministri del nuovo Governo nazionale, che, da parte leghista, annunciavano un’opposizione “ad personam” al Ministro per l’integrazione, di origine congolese, Cécile Kyenge, fanno parte di un repertorio già noto, ma non per questo meno inquietante e, soprattutto, fuorviante rispetto alle strategie più efficaci da intraprendere per rilanciare il paese.

Sul “noto repertorio” non si può che rimandare alla sinistramente illuminante “antologia” di esternazioni razziste e xenofobe dei leghisti nostrani recentemente pubblicata dall’altro neo onorevole del Parlamento italiano di origini africane Khalid Chaouki, dalla lettura della quale emerge con grande lucidità come il problema sia culturale, prima che politico.

Sulle strategie per rilanciare il paese può essere interessante evocare qualche dato.

Gli immigrati in Italia, nel 2011, secondo l’ISTAT, erano 4.029.145 e le stime della Fondazione Caritas Migrantes, ne contavano circa un milione in più, 5.011.000, (circa l’8,4% sui quasi 60 milioni di abitanti) rappresentando, secondo questa stessa fonte il 10% degli occupati, situandosi prevalentemente, per il momento, nelle fasce più basse del mercato del lavoro e producendo beni e servizi per un valore stimato pari all’11% del PIL, secondo un recente studio dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni.

I risultati delle elezioni politiche e amministrative di quest’anno indicano che gli elettori che hanno votato per la Lega Nord sono stati 1.390.156 (per la Camera dei Deputati, dato numericamente superiore rispetto al Senato), pari al 2,3% della popolazione nazionale (e a circa il 4% dei voti espressi) e 700.907 per l’elezione del Governatore della Lombardia, pari al 7,2% degli abitanti della Regione (e a circa il 12% dei voti espressi).

Oltre al cattivo gusto di opporsi alla neo Ministro Kyenge per il colore della pelle e la sua origine africana, sotto il mero profilo numerico e strategico le cifre appena evocate fanno pensare ad una sparuta retroguardia che sferra un attacco suicida contro preponderanti forze nemiche, ma più che di forza e di conflitto è opportuno, a questo punto, ragionare sulla qualità delle relazioni, sugli strumenti di dialogo e di prospettive evolutive future.

Negare l’evidenza è il peggiore degli approcci possibili e rifiutare a priori l’eccezionale novità del primo Ministro italiano di origine congolese, e la sua fondamentale missione finalizzata all’integrazione (reciproca, ci si augura…), sembra fuori da qualsiasi percorso virtuoso e vincente per lo sviluppo del nostro paese.

Conoscenza, rispetto, comprensione, protezione e promozione della diversità delle espressioni culturali sono alla base delle dichiarazioni costitutive dell’ONU e di quelle successive del 2001 (Diversità culturale – approvata a ridosso degli attentati alle Torri Gemelle) e della Convenzione del 2005 e sono valori e approcci che devono animare e orientare le scelte strategiche delle politiche italiane di tutti i settori nei prossimi anni, se vogliamo uscire dal guado in cui ci siamo impantanati.

È necessario, dunque, che il Ministro per l’integrazione sia presto accolto e ascoltato in tutte le sedi istituzionali, imprenditoriali, sindacali, religiose e civili possibili, per rappresentare esigenze, diritti/doveri e potenzialità dei nostri nuovi cittadini, per il futuro di tutti noi e del nostro paese, che, non scordiamolo, deve la sua fortuna e il suo ruolo nel mondo proprio all’essere stato un crocevia obbligato di popoli e culture, un laboratorio indiscusso di civiltà … e terra di origine di milioni di migranti sparsi in ogni angolo della terra.

 

Emilio Cabasino è ricercatore su temi di politica ed economia della cultura

 

 

Nome Massimo

Cognome Bray

Luogo e data di nascita Lecce 11 aprile 1959

Incarichi assunti Ministro per i Beni e le attività culturali con Delega al Dipartimento del Turismo

Formazione Laureato in Lettere e Filosofia

Curriculum

Nel 1991 entra come redattore responsabile della Sezione Storia Moderna nell’Istituto della Enciclopedia Italiana e tre anni dopo ne diviene direttore editoriale.

Attualmente è direttore responsabile della rivista Italianieuropei, collegata all’omonima Fondazione di cultura politica, cui fanno parte anche Giuliano Amato e Massimo D’Alema.

E’ presidente del consiglio di amministrazione della Fondazione La Notte della Taranta, che svolge attività di promozione e divulgazione della cultura salentina, organizzando il festival estivo che da anni riscuote grande successo.

Annovera inoltre un suo blog su l’Hufifngton Post Italia e un sito web personale che porta il suo nome.

E’ stato eletto alla Camera dei Deputati nelle elezioni del 24 e 25 febbraio 2013, candidandosi nelle liste del Partito Democratico.

 

Visione

Nel suo sito internet Massimo Bray parla così della cultura:

“In Italia, la Cultura ha la possibilità di riappropriarsi del ruolo e la considerazione passata, riacquistando la capacità di influenzare le scelte politiche, sociali ed economiche. La Cultura è elemento costitutivo della personalità del cittadino, della sua capacità di giudizio, elemento centrale per rendere più libero, indipendente il singolo individuo. La Cultura dunque deve essere al centro dell’attenzione di chi ha responsabilità istituzionali, stimolo e catalizzatore di attenzione, dibattiti, progetti, fornendo gli elementi guida ai cittadini per sviluppare le capacità di scelta e di proposta. La Cultura e i beni culturali non possono essere trattati come un bene normale, come una merce che si può comprare e vendere a seconda del l’utilità del momento.
Ricondurli ad una sfera pubblica non deve significare affidarli alla sfera politica, ma alle cure e al controllo della comunità. La Cultura così interpretata diviene elemento fondante della necessità di ricostruire il nostro Paese.”

Il neo-ministro ritiene dunque necessario parlare di più culture:

1. La Cultura dei Diritti: “Il diritto di ciascuna donna e uomo che vivono in Italia, si di vedere pienamente applicato il “diritto dei diritti”, ossia la Costituzione Repubblicana, unico modo per vivere non con diritti adattati alle esigenze di singoli o di comunità e corporazioni particolari, ma con diritti uguali per tutti”.ù

2. La Cultura dell’integrazione e della solidarietà: “Perché non ci si illuda che basti alzare mura e scavare fossi per difendere identità reali o, come capita, immaginarie. L’Italia deve partecipare in modo responsabile e solidale, con le migliori sue energie politiche, al vigoroso processo di trasformazione del mondo attuale”.

3. La Cultura della Formazione: “Dove l’istruzione sia considerato straordinario strumento di mobilità sociale, pietra fondante della costruzione del futuro dei giovani, e della leadership italiana”.

4. La Cultura del Lavoro: “Il diritto al lavoro è elemento principale per il cittadino, senza dimenticare l’attenzione alla qualità dello stesso, e lo stesso diritto a cambiare lavoro, come generatore di valore”.

5. La Cultura della Politica economica: “La valorizzazione degli sforzi passati dell’integrazione europea, e l’apertura al confronto critico e costruttivo con le diverse realtà economiche per introdurre innovazione e generare valore a riduzione della sperequazione”.

6. La Cultura del Passato: “L’attenzione alla tutela e valorizzazione del passato per generare valore per il futuro; la comprensione del valore del nostro patrimonio culturale, ambientale e paesaggistico come guida nella generazione della volontà di rispettosa Cultura del futuro”.

7. La Cultura del Digitale: “La considerazione della centralità del digitale per il cittadino, motore di sviluppo democratico, e media di esportazione della cultura verso il mondo non solo virtuale”.

 

Dove trovarlo

www.massimobray.it

twitter.com/massimobray

facebook.com/Massimo-Bray

 

In un momento di recessione economica come quello attuale, le possibilità per i giovani nel nostro paese sono piuttosto esigue, eppure non del tutto assenti. Una delle iniziative più interessanti l’ha proposta e portata avanti proprio il Governo, dallo scorso agosto, all’interno del Decreto Cresci Italia: si chiama Società a Responsabilità limitata semplificata, e consente a tutti i giovani al di sotto dei 35 anni di aprire la propria s.r.l., spendendo solo un euro e sfuggendo a lentezze burocratiche ed amministrative.

Una delle peculiarità di questa società è che per redigere l’atto costitutivo, al fine di iscriversi al registro delle imprese, si è esenti dal diritto di bollo e da onorari notarili; il capitale deve essere pari ad un euro ed inferiore ai 10.000. a costituire la società devono essere persone fisiche e non giuridiche, al di sotto dei 35 anni e non è consentito le quote a soggetti che non presentino questi requisiti.

A volte, tuttavia, l’iniziativa non basta se non c’è il mezzo che la comunica. Così, per fare in modo che tutti i ragazzi vangano a conoscenza di questa opportunità, sempre sfruttando il canale web a loro più confacente, il Governo ha anche lanciato una campagna pubblicitaria divulgativa.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=M80ESsoH2tc&w=400&h=230]

Si chiama “Che ci faccio con un euro” ed è stata realizzata da quattro giovani video- maker e distribuita per via virale sul canale Youtube (gli spot pubblicitari saranno anche proiettati all’interno dei canali Rai).

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=p2bqYGIuM2g&w=400&h=230]

Quattro spot divertenti ed ironici per trasmettere la semplicità della messa in opera di questo progetto, comunicandone al tempo stesso l’importanza che può rivestire per il futuro delle giovani generazioni. Perché se a volte un euro non basta neanche per comprare un chilo di pane, oggi è davvero sufficiente per avviare un’attività giovanile e contribuire così alla ripresa economica del paese, alla creazione di nuovi posti di lavoro e alla realizzazione dei propri sogni.

Sul canale Youtube del Ministero invece potrete gustarvi i divertenti video pubblicitari, se poi siete interessati ad aprire la vostra impresa sul sito del Governo troverete tutte le informazioni.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=xOHIWG2WRfs&w=400&h=230]

Perciò mettete da parte un euro perché, come accadde a zio Paperone con un semplice scellino, questa moneta potrebbe rappresentare la vostra fortuna.

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Siamo in pieno clima pre-elettorale e molti temono che nell’agenda politica del prossimo Governo il tema del rilancio del turismo italiano sarà ancora una volta all’ultimo posto.
Siamo consapevoli ormai che il fascino del patrimonio artistico e naturale del nostro paese, conosciuto e apprezzato in tutto il mondo, non basti più da solo ad attirare i turisti. Il turismo è un’industria vera e propria e come tale necessita di una politica industriale e non soltanto promozionale.
In Italia i progetti turistici che hanno avuto maggior successo fino ad ora sono stati portati avanti principalmente dal settore privato. E questa è certamente una tendenza da invertire per ottenere risultati reali capaci di coinvolgere tutto il paese.
Per riportare l’Italia ai primi posti delle classifiche mondiali, il turismo ha quindi bisogno di investimenti per l’innovazione e di azioni di governance robuste.
La speranza è quindi che i partiti, consapevoli che in Italia il turismo vada a braccetto con cultura e ambiente, abbiano dato la giusta attenzione a questi temi perché ciò avrebbe implicazioni non solo simboliche ma anche concrete.
Ma basta un rapido sguardo ai programmi e alle dichiarazioni dei candidati per rendersi conto che i temi legati alla valorizzazione del patrimonio culturale e del territorio sembrano essere ancora una volta marginali. Qualche parola in più sulle politiche per lo sviluppo del turismo, ma ancora molto generiche.
L’Agenda Monti, ad esempio, non parla di cultura né di ambiente, e dedica al turismo solo 12 righe del programma. Fra i punti centrali dell’azione di Governo, in caso di elezione, troviamo invece giustizia, costi della politica, lavoro, Europa, fisco, evasione fiscale. Tutti aspetti fondamentali, ma spiace che sia assente qualsiasi idea che riguardi la valorizzazione del nostro patrimonio culturale, artistico e ambientale. Certo, non c’è molto da stupirsi, visto che fra i molti meriti del Governo Monti non si può contare sull’impegno in questo ambito. Per gli addetti del settore dei viaggi, l’ultimo Governo, quello dei tecnici, è stata una delusione, visto che alla guida del Ministero non c’e’ stato un “tecnico” con un’esperienza concreta nel turismo e che il Piano Strategico di Gnudi non è stato presentato agli ultimi Consigli dei Ministri, restando quindi sostanzialmente fermo.
All’interno del manifesto programmatico del Pdl troviamo invece un capitolo intitolato “Turismo motore di sviluppo”, che si avvicina a una presa di posizione sui temi della cultura e dell’ambiente, ma che rivela però un errore di prospettiva: il turismo è uno degli effetti positivi di una politica attenta al nostro patrimonio, non la causa.
Una luce si accende se si guarda al programma del Pd che annovera tra i punti chiave del programma incentivi all’innovazione per le agenzie di viaggio, un Fondo di Garanzia per i viaggiatori, un Fondo per le micro e piccole imprese, Iva turistica al 7% e un’accademia per la formazione d’eccellenza. Nella sezione “Le nostre idee” il Pd accenna all’esigenza di puntare sulla riqualificazione del già costruito, contro il consumo di suolo.
Spiace però concludere che le nostre forze politiche non sembrano considerare la valorizzazione del patrimonio e del territorio un’intelligente via per uscire dalla crisi, e che non se ne prendano carico neanche quando trattano di turismo.
Per questo sono da accogliere con entusiasmo le “Primarie della cultura” indette dal Fondo per l’ambiente italiano (Fai): sul sito www.primariedellacultura.it i cittadini possono esprimere le loro priorità in materia di politiche ambientali e culturali. Le cinque più votate verranno sottoposte ai candidati delle liste, nella speranza di vincere la loro distrazione. E tra le priorità individuate dal Fai non poteva mancare il turismo: “Meno Italialand, più Italia: politiche integrate per il turismo” è il titolo scelto. Nella sezione dedicata si parla di titolo V della Costituzione, di frammentazione delle politiche, dell’abolizione del Ministero per il Turismo e della necessità di una programmazione coordinata a medio termine tra Ministero dello Sviluppo, del Turismo e dei Beni culturali, insieme agli Enti Locali, che riporti il nostro Paese tra i primi in numero di visitatori.
A volte, per fare una buona politica, basterebbe saper ascoltare i cittadini.

 

Se gli Stati Generali evocano un’idea antica di assemblea condivisa volta a limitare il potere monarchico  nell’epoca del regime assoluto, l’evento odierno promosso dal Sole24Ore ha rappresentato appieno questa concezione. Partito un po’in sordina nella mattinata di oggi all’interno del teatro Eliseo alla presenza delle più alte cariche dello stato, moderate dal direttore del giornale economico per eccellenza, Roberto Napoletano, gli Stati Generali della Cultura, hanno scalato la vetta di Twitter, divenendo topic trend con l’hashtag #sgcultura12 e hanno rapidamente portato alla ribalta la voce polemica e combattiva di quel terzo stato che sedeva in platea. È bastato che iniziassero i primi interventi dei tre ministri presenti sul palco, Lorenzo Ornaghi dei Beni Culturali, Fabrizio Barca per la Coesione Territoriale, Francesco Profumo per la Pubblica Istruzione, che le proteste in sala sono cresciute rapidamente arrivando più volte ad interrompere e a contrastare i regi interventi.
La retorica non basta più ed ecco che i lineari discorsi del palco sono stati più volte confutati da domande incalzanti che il direttore Napoletano ha cercato di far tacere. La tavola rotonda (chiusa) ha iniziato a vacillare quando, durante il primo intervento del Ministro Ornaghi che rispondeva ad una domanda dell’archeologo Andrea Carandini, la folla ha urlato:  “Basta parlare di passato, parliamo di futuro”. L’intervento era iniziato, infatti, rivangando gli errori perpetrati nel passato, quelli che hanno portato all’emergenza profonda in cui versa il sistema culturale attualmente. Da subito, tuttavia, si è fatto strada il tema che terrà banco l’intera giornata: arrivare alla cooperazione con il settore privato, soprattutto oggi che il pubblico è responsabile di un deficit immenso.

E mentre va avanti la discussione, non si arrendono i presenti in sala continuando a domandare quale futuro per i lavoratori della cultura, tanto da portare il ministro Barca a paragonare l’effervescenza del teatro alla stessa dimostrata dai lavoratori del Sulcis “con la differenza però che lì davvero sono scarse le possibilità di riavere indietro il proprio lavoro, mentre il settore culturale rappresenta ancora un settore proficuo”.

Il ministro fa riferimento a quell’enorme risorsa rappresentata da Pompei che, se non debitamente tutelata,  rischia di finire con tutte le sue ricchezze in mano internazionale.
Si continua poi a parlare della centralità crescente del terzo settore per cui sono stati stanziati dal Governo 35 milione di euro. “Il governo ha fatto troppo poco per la cultura” afferma Napoletano,così come il direttore dell’Accademia dei Lincei ricorda che per combattere la corruzione epidemica che dilaga nel paese, solo la cultura può essere la via d’uscita.

 

Ed in questo frangente che arriva l’intervento del ministro Profumo, che pone l’accento sull’importanza della formazione, perché “senza scuola non c’è cultura“. Non passa un minuto che la folla si scalda ancora: “ma di quale formazione parlate se continuate a dare soldi alla scuola privata e i nostri giovani scappano dal paese?”, tuona la platea.

Solo il successivo intervento del capo dello Stato Napolitano riesce a calmare gli animi; il valore della costituzione è il suo leitmotiv e gli applausi non si fanno attendere “la cultura è un’emergenza dimenticata e trascurata da troppo tempo- afferma – la spending review deve portare avanti i tagli in modo selezionato e non indiscriminato ed è la politica che deve decidere in modo responsabile a chi togliere le risorse. Perché non tutto è difendibile e produttivo. Bisogna avere il coraggio di innovare”.
Il presidente ricorda anche il prestigio della ricerca italiana riconosciuto in particolar modo all’estero e parla della necessità di sfoltire la nostra “intricata foresta normativa”.
L’intervento del capo dello Stato sarà l’unico ad ottenere l’approvazione della folla.

Dopo la pausa il dibattito proseguirà ma perdendo l’euforia della mattinata. Cambia il moderatore, Armando Massarenti, ma cambiano anche i toni degli interventi. Meno discorsivi e più tecnici durante questa sessione. Il primo ad arrivare sul palco è Alessandro Laterza, Presidente della Commissione Cultura di Confindustria, che espone come incentivare la collaborazione tra pubblico e privato, mantenendo il primo centrale e insostituibile per i finanziamenti al settore. “ E’ necessario- afferma-  attrarre nuovi interlocutori economici che vengano da risorse private che vadano a corroborare l’intervento pubblico”. Vengono snocciolati i primi dati economici: 26 milioni sono i fondi stanziati dal settore pubblico, 29 quelli da fondazioni e cittadini, ma per fare di più la defiscalizzazione al 19% non è sufficiente. Il problema rimane come salvare  tutti quei musei che fanno parte delle 425 istituzioni museali statali italiane cui le sponsorizzazioni non sono indirizzate direttamente.

Continuando sul tema delle fondazioni, segue l’intervento di Emanuele Emmanuele, presidente della Fondazione Roma, che chiarisce sin da subito che il ruolo della Fondazione non deve essere né quello di una banca né quello della Cassa Depositi e Prestiti e che soloin questo modo si può realmente puntare su cultura e territorio. A tal fine bisogna “superare il pregiudizio nei confronti dell’amministrazione privata e far sì che pubblico e privato godano di pari dignità. Per far ciò bisogna avere un bilancio chiaro e approvato della Fondazione” .

Il terzo intervento è quello del professore Pierluigi Sacco, uno degli autori del Manifesto della cultura uscito la scorsa estate sul Sole24 Ore: “finalmente sento pronunciare le parole industria creativa nel nostro paese- reclama- in ritardo di15anni rispetto alle istituzioni europee”. Afferma inoltre di non voler più sentir paragonare la cultura al petrolio del nostro paese “perché la cultura non è una risorsa creativa da estrarre passivamente, la cultura passa dalla partecipazione attiva da parte dei cittadini ( in Italia tra i più bassi al mondo) e dall’esportazione del brand all’estero, migliorando il rapporto di impresa creativa con il settore manifatturiero”.

Il presidente di Federculture Roberto Grossi richiama l’attenzione sul calo consistente dei finanziamenti e sulle ricadute della legge Fornero nell’occupazione del settore “Dall’Italia sono scappati 6000artisti e l’investimento destinato al ministero è solo del 17%del Pil” incalza.

Successivamente Antonio Cognata, ricorda l’importanza delle Fondazioni Liriche nel nostro paese, dal momento che la lirica è nata italiana e ha contribuito ad esportare la lingua nel resto del mondo, sottolineando però la necessità di rivedere il sistema dei finanziamenti in questo settore.

Segue l’intervento di Gabriella Belli, direttore dei Musei Civici veneziani, che proprio sull’importanza della creazione di una rete tra musei incentra il suo intervento sull’esigenza di separare le nomine museali dal controllo e dall’andamento della politica.

Paolo Galluzzi del Museo Galileo di Firenze pone l’attenzione sulle nuove tecnologie soprattutto per un’apertura verso il mercato globale per la fruizione della nostra cultura.

Walter Santagata, del Consiglio Superiore dei Beni Culturali accenna, invece,  all’incapacità del settore pubblico italiano di fare fundraising “Forse anche per non dover sottostare al controllo privato nella gestione”.

Massimo Monaci, direttore del Teatro Eliseo fa un intervento ancora più acceso sostenendo che in un momento di crisi come quello attuale bisogna mettere mano e rivedere le regole, in particolar modo quelle sulla distribuzione del FUS.

Segue Guido Guerzoni dell’Università Bocconi che propone la creazione di un ordine professionale per i progettisti culturali e chiude gli interventi Alberto Melloni per parlare di Cultural Heritage. La sintesi finale di questa giornata partita con le proteste e continuata come accademica spetta al ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera, che oltre a prospettare una espansione dei provvedimenti dell’Agenda Digitale al settore dei Beni Culturali, cerca di sintetizzare tutti i concetti emersi durante il lungo dibattito, ponendo l’accento sulle difficoltà incontrare dall’attuale governo tecnico.

Molte le proposte, maggiori le proteste. Quanto di ciò che è stato messo sul piatto oggi vedrà la luce nei prossimi anni? Chissà. Certo è che ad oggi l’ Italia corre il rischio di vedere rivalutare le proprie risorse dagli stati esteri e di vedersi sfuggire un patrimonio immenso, esattamente come già da qualche anno si lascia sfilare sotto il naso giovani cervelli che portano all’estero il proprio know how. E non c’è Stato Generale che tenga per evitarlo

 

Una delle parole più abusate e usate di questi tempi è indubbiamente Agenda Digitale, fiore all’occhiello del governo dei tecnici e chiave di volta per semplificare e digitalizzare quello che viene definito il “carrozzone” del sistema Italia e l’inefficienza della nostra pubblica amministrazione. Se è vero che il tempo è denaro, agevolare le procedure amministrative e il rapporto del cittadino con quest’ultime rappresenta il fulcro centrale per migliorare non solo la qualità della vita ma anche le performance finanziare del nostro Pil in sofferenza.

Tutti ne parlano, ma forse in pochi hanno realmente compreso appieno di cosa si tratta e di quali sono le tempistiche effettive per la sua piena realizzazione. Tra dire il fare c’è di mezzo il mare: per quanto attiene alla sfida del digitale in Italia che dal mare è circondata, ci passano in mezzo barriere cementificate nel tempo che renderanno forse difficile il raggiungimento degli obiettivi di maggiore competitività, produttività e coesione sociale.

Innanzitutto vediamo i punti salienti del progetto Agenda Digitale Italiana, che si prefiggono di colmare il gap che ci separa dal resto dell’Europa.

identità digitale: entro il termine fissato al 2020, ogni cittadino italiano dovrà detenere come documento di riconoscimento, la carta di identità elettronica assieme alla tessera sanitaria. Il documento digitale mira a semplificare l’accesso del cittadino a tutti i servizi della pubblica amministrazione, ma soprattutto a completare un processo di informatizzazione della struttura pubblica che porti alla creazione di un’anagrafe unificata (Anagrafe nazionale della popolazione residente) al fine di consentire all’Istat di effettuare un censimento annuale della popolazione residente. Nello stesso filone si inserisce anche la realizzazione dell’Archivio nazionale delle strade e dei numeri civici sul territorio italiano.

PEC: dal primo gennaio 2013 verrà sempre più introdotta la prassi di comunicare con la PA attraverso la posta elettronica certificata, che da valore ufficiale ai documenti inviati via mail. Tutte le aziende inscritte al Registro delle Imprese hanno l’obbligo di dotarsi di una PEC.

OPEN DATA: come previsto dal decreto legge “Crescita 2.0” i dati e le informazioni della Pubblica amministrazione dovranno essere resi pubblici in formato digitale, per favorire il coinvolgimento e l’accesso alle informazioni di utilità per i cittadini.

Bigliettazione elettronica per tutto il trasporto pubblico su scala nazionale. Incentivazione del cosiddetto ITS, sistema di trasporto intelligente, per consentire in tempo reale di ottenere informazioni su traffico e mobilità

Comunicazione obbligatoria via telematica tra le amministrazioni pubbliche

Fascicolo elettronico per gli studenti universitari a partire dall’anno accademico 2013/2014

Diffusione di libri digitali all’interno degli istituti scolastici

Fascicolo sanitario elettronico (FSE) per i pazienti: una sorta di cartella clinica elettronica con una panoramica di tutte le informazioni socio sanitarie del cittadino

Diffusione della banda larga (dai 2 ai 20 Mbps)e ultralarga(dai 30ai100Mps) su tutto il territorio nazionale, in particolar modo nel Mezzogiorno, dove per colmare il divario sono stati stanziati 150 milioni di euro in più (il finanziamento standard è di 600 milioni). Questa operazione sarebbe alla base della necessaria alfabetizzazione digitale per i cittadini e per i funzionari pubblici, che dovrebbe svilupparsi contestualmente al conseguimento della digitalizzazione entro il 2020.

Obbligatorietà del pagamento elettronico, in particolar modo per gli operatori che erogano servizi per la pubblica amministrazione. Questo provvedimento è volto a contrastare la piaga dell’evasione fiscale e del riciclaggio di denaro. È prevista anche la diffusione del commercio elettronico per favorire gli scambi di import export da e per il nostro paese

Snellire i tempi della giustizia: soprattutto per quanto attiene la giustizia civile tutte le comunicazioni tra il cittadino e le cancellerie, dovranno essere effettuate per via telematica quando il destinatario detiene un indirizzo PEC

Realizzazione di smart cities: rendere gli spazi urbani a misura di cittadino, favorirne il coinvolgimento attraverso discussioni comuni, al fine di concordarne lo sviluppo futuro e l’innovazione. Creare quindi delle città partecipative a misura di cittadino.

 

Questo quanto espresso nei punti cardine che riassumono gli intenti dell’Agenda Digitale. Certo è che gli obiettivi sono attraenti ma ambiziosi. Il nostro paese è decisamente indietro rispetto al resto dell’Europa, lo sa bene ad esempio chi possedendo un tablet o uno smartphone non riesce a trovare una rete wireless disponibile in giro per la città. O chi nei paesi del Mezzogiorno la connessione al web non riesce ad ottenerla perché mancano le infrastrutture. Soprattutto, le perplessità maggiori riguardano l’alfabetizzazione digitale per tutti i cittadini e per i funzionari dell’amministrazione pubblica. In uno dei paesi con il più alto numero di popolazione senile e con dipendenti della pubblica amministrazione con un’età media non al di sotto dei cinquant’anni, dove non brilliamo per velocità ed efficienza nel disbrigo delle pratiche amministrative (in particolar modo nel settore della giustizia) sarà possibile raggiungere e completare la rivoluzione digitale nei prossimi 8 anni?

 

Ricapitoliamo: l’Italia è un paese provvisto del patrimonio artistico e naturale più invidiato al mondo, è considerato la meta turistica più ambita, dal momento che racchiude al suo interno il maggior numero di siti UNESCO ed è circondato da chilometri di costa e spiagge le quali affacciano su acque cristalline.

Una realtà oggettiva sotto gli occhi di tutti: che la cultura costituisca il petrolio dell’Italia forse l’avrete sentito dire tutti, che siate giovani o meno giovani, eppure a giudicare dalla gestione portata avanti nell’ultimo cinquantennio di questo settore, sembra che noi italiani non siamo poi tanto esperti nel far fruttare questo proficuo giacimento. Neanche i “tecnici” sembrano essere stati in grado di invertire la rotta: basta leggere l’ultimo Decreto Sviluppo, approvato in Senato lo scorso 3 agosto e sottotitolato “Misure urgenti per la crescita del paese” per accorgersi che nelle 188 pagine che costituiscono il corposo testo di legge, delle materie turismo e cultura si parla davvero ben poco. Perché in mezzo a programmi per edilizia e ristrutturazioni, incentivi per energie rinnovabili, sburocratizzazione e riqualificazione di aree urbane periferiche degradate non si accenna ad alcuna misura di investimenti e strategie per la promozione e potenziamento del redditizio settore turistico e culturale? Forse, a detta dei tecnici, i comparti non richiedono “misure urgenti”, nonostante i dati sulle affluenze turistiche dell’ultima stagione estiva non siano dei più incoraggianti (è stato registrato un calo del 10% del fatturato nei primi otto mesi dell’anno secondo Federalberghi)

E se le strutture ricettive non godono di buona salute, non sembrano trovarsi in una situazione migliore i nostri monumenti e siti archeologici. Non stupisce più la notizia di un nuovo crollo a Pompei o del Colosseo, non si attendono più finanziamenti per far ripartire il settore e non si mettono in campo misure per la promozione di quei luoghi della cultura periferici ma di notevole rilievo che rischiano di soffocare perché soppiantati da mete più conosciute e gettonate come Venezia, Firenze e Roma.

E così, invece che contrastare il turismo “mordi e fuggi”, di rendere competitivo il nostro paese sia per la facilità degli spostamenti che per prezzi ragionevoli ( chiunque abbia provato a prenotare o abbia prenotato un traghetto per la Sardegna quest’estate forse avrà un esempio lampante della scarsa competitività dell’Italia rispetto ad altri paesi più organizzati e lungimiranti) nel settore turistico culturale si continua a procedere sulla via dei proclami, senza passare a misure di sviluppo. Ad esempio l’ultima considerazione riguardo il valore del comparto beni culturali che secondo le previsioni, entro il 2020 dovrà creare ricchezza pari al 20% del Pil nazionale. Non è ancora chiaro secondo quali modalità, che, a quanto pare, non verranno applicate a breve, dal momento che la parola sviluppo non viene affiancata a questo settore.

Una strada completamente diversa da quella imboccata dall’Unione Europea che attraverso il suo ultimo rapporto sull’argomento, Promoting cultural and creative sectors for growth and jobs in the EU, prevede un finanziamento da 1,8 miliardi di euro per la cultura e le attività creative, settori che ad oggi costituiscono il 3,3% del Pil europeo e il 3% dell’occupazione contro il 2,6% del 2006.

 

Fu già ampiamente criticata all’indomani della sua approvazione al Senato e pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, il 18 luglio scorso. A fare le prime osservazioni sulla Riforma del Lavoro realizzata dall’attuale ministro tecnico Elsa Fornero fu l’insigne “Financial Times”, che non esitò a bollare la norma insufficiente e incompleta per tutelare quel 36% di giovani disoccupati italiani, definiti dal quotidiano economico come la generazione perduta di un paese che non è in grado di investire nelle nuove leve e che rischia così di bruciare il suo futuro economico oltre che le speranze di milioni di ragazzi: in sostanza, una riforma troppo sbilanciata a sfavore dei padri e dei nonni e poco incisiva per gli under 50.

Per evitare fuga di cervelli o ingrossamento dell’esercito dei cosiddetti Neet (not in Education, Employment or Training) uno degli articoli del testo normativo puntava, ad esempio, a smascherare tutti quei contratti a progetto solo a parole, che poi nei fatti costituivano un escamotage nemmeno troppo nascosto per assumere giovani sottoposti ad orari lavorativi uguali a quelli dei dipendenti, ma con retribuzione e contributi pensionistici nettamente inferiori. Le buone intenzioni c’erano tutte, tuttavia economisti del calibro di Tito Boeri e Gustavo Piga fecero prontamente notare che, a parità di costi, probabilmente sarebbero state rare le aziende che avrebbero scelto il giovane al posto del lavoratore più anziano, il quale sarebbe altresì dovuto andare in pensione. Al fine di evitare l’abuso della contrattazione co.co.pro., diffusa ampiamente tra le fasce di lavoratori under 40, è stato così approvato l’innalzamento del costo del lavoro dal 28 al 33% proprio sui temuti contratti a progetto con lo scopo propriamente di disincentivarne l’utilizzo. Peccato che molti sindacalisti palesarono il timore che questi costi aggiuntivi potessero essere scaricati da parte del datore di lavoro, senza troppi rimorsi, direttamente sul lavoratore.

La via d’uscita l’aveva delineata lo stesso ministro Elsa Fornero, che aveva auspicato una detassazione sul costo del lavoro al fine di incentivare l’occupazione. Proposta bocciata nell’arco di 24 ore dal ministro dell’Economia e delle Finanza Vittorio Grilli, che ha chiaramente fatto sapere che i finanziamenti al momento non sono reperibili.

Certo, al di là delle polemiche, sicuramente le buone intenzioni da parte dei tecnici per cercare di far integrare i giovani italiani con quel mondo del lavoro a loro non troppo favorevole alla base c’erano. Fatto sta che, a distanza di più di un mese, tutti e 37 decreti attuativi per l’applicazione della legge Fornero sono mancanti. Tra questi:

-articolo 3, commi 4-6 per l’istituzione presso l’Inps dei fondi di solidarietà bilaterali per l’integrazione salariale

-la definizione delle linee guida per i tirocini formativi

-favorire il coinvolgimento dei lavoratori alle scelte imprenditoriale e partecipazione agli utili e al capitale

-commi 48-50 dell’articolo4 sui servizi all’impiego, gli incentivi all’occupazione , la riqualificazione professionale e il reinserimento dei soggetti svantaggiati

 

Per questi decreti c’è ancor un margine di tempo di realizzazione. Scaduti e non più attuabili sono i commi 24, 25 e 27 dell’articolo 4 della legge 92/12 in favore della maternità e paternità: questi prevedevano la possibilità per il padre lavoratore dipendente di astenersi un giorno dal lavoro sino a cinque mesi dalla nascita del figlio o due giorni ( da concordarsi con la madre) indennizzati al 100%; inoltre l’acquisizione da parte della madre lavoratrice di un voucher per servizi di baby sitting o spese di asili nido. Una mancata realizzazione di un decreto chiave per sottrarre dalla disoccupazione le giovani donne italiane, le più penalizzate a livello europeo perché costrette a dover decidere se dedicarsi alla famiglia oppure proseguire nella carriera lavorativa. Eppure nel primo articolo la legge 92/12 recita esattamente queste parole:

La presente legge dispone misure e interventi intesi a realizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione, in quantità e qualità, alla crescita sociale ed economica e alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione, in particolare, (al punto f) promuovendo una maggiore inclusione delle donne nella vita economica.

Speriamo che tutti gli altri buoni propostiti non finiscano allo stesso modo.

La foto del grafico è tratta da Financial Times

 

Con un debito pubblico tra i più alti d’Europa, difficilmente l’Italia avrebbe potuto continuare imperterrita per la sua strada, senza abbandonare una condotta di “spendi e spandi” portata avanti da sempre e senza contenimento. A fronte di una solida ricchezza privata ( non a caso nella passata legislatura Giulio Tremonti aveva proposto di calcolare il debito tenendo conto di questa ricchezza in mano alle famiglie al fine di ridurre drasticamente l’ammontare del debito), il Bel paese ha dovuto adeguarsi alle direttive della rigorosa Europa e il neo arrivato governo tecnico ha messo in campo la strategia per rientrare dei costi eccessivi del mastodontico apparato statale: si tratta della cosiddetta “spending review”, parola inglese temuta in questi giorni soprattutto dalla pubblica amministrazione. Enrico Bondi, commissario eletto per lo studio di fattibilità in merito, ha passato il testimone al ministro dell’economia Vittorio Grilli, l’ultimo rappresentante del governo che ha giurato in questi giorni e che ora avrà il compito di portare a termine i tagli voluti dal Decreto legge 7 maggio 2012, n. 52 convertito con modifiche dalla Legge di conversione 6 luglio 2012, n. 94.

Ecco alcune misure previste dal decreto:

– la sospensione del temuto aumento dell’Iva sino al 30 giugno 2013

– riduzione e accorpamento degli uffici giudiziari e dei piccoli ospedali

– taglio di una sessantina di province

– rescissione da parte della PA dei contratti continuativi troppo onerosi

– taglio del valore dei buoni pasto distribuiti ai dipendenti delle PA ( valore che non potrà superare i 7 euro)

– riduzione del 20% dei dirigenti della pubblica amministrazione e del 10% del personale dipendente ( rimangono fuori da questo taglio alcune categorie come i magistrati)

– bloccare le dispendiose consulenze nel settore pubblico soprattutto quelle affidate a personale in pensione che si è occupato delle medesime mansioni

Linee generali che verranno applicate ad ogni singolo ministero, amministrazioni pubbliche, enti locali, società partecipate. Tra le proteste e le preoccupazioni sollevate da più parti in questi giorni, il primo dubbio che potrebbe sorgere è quello relativo all’efficacia e al raggio d’azione di tale provvedimento. Per quanto la zavorra della pubblica amministrazione italiana vada sicuramente riformata, c’è da chiedersi se il problema di una revisione ragionata possa passare solamente dalla riduzione dei buoni pasto dei dipendenti.

Ad esempio una mancanza potrebbe essere quella citata all’articolo 2 della legge in questione: da tutti questi tagli sono esclusi la Presidenza della Repubblica, Camera e Senato, scelta poco chiara dal momento che queste tre istituzioni non sono certo le più economiche a livello europeo, a giudicare anche dal numero dei componenti al loro interno.

Nello specifico per quanto attiene il settore dei Beni culturali e il Turismo, le uniche notizie ufficiali sugli effetti immediati di questo provvedimento sono la soppressione e liquidazione entro il 31 dicembre 2013 della discussa società per la promozione culturale Arcus s.p.a., che ha beneficiato di finanziamenti da 200 milioni di euro annui (da cui venivano scalati i 18 milioni di euro pagati al mese d’affitto per un ufficio che ospitava dieci dipendenti in pieno centro di Roma a via Barberini) ed è al al centro di numerose polemiche per la sua effettiva utilità e per i suoi legami con Propaganda Fide; altra conseguenza sarà la trasformazione della Fondazione Centro Sperimentale di cinematografia in Istituto Centrale del MiBAC. Saranno inoltre soppresse molte fondazioni, tra cui la Fondazione Valore Italia adibita alla promozione del design made in Italy e l’Associazione Luzzati, dipende dal ministero dello Sviluppo Economico, il cui scopo era quello di promuovere la cultura cooperativa. Saranno ridotte inoltre a dieci le città che potranno usufruire delle normative di città metropolitane ( si tratta di Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli, Reggio Calabria). Di tutte queste verranno abolite le rispettive province.

Per quanto riguarda l’esubero dei dipendenti pubblici è previsto un taglio di 11 mila lavoratori all’interno dei ministeri che saranno mandati in regime di mobilità. Lavoratori tra cui non è chiaro se rientreranno anche i consulenti esterni, tutelati dal comma 6 del D. Lgs. n.165/2001. Solo nell’anno 2011/2012 sono stati dodici gli incarichi di consulenza attribuiti dal ministro Lorenzo Ornaghi all’interno del Mibac, con uno stipendio medio per consulente di 40 mila euro annui: secondo la tabella pubblicata dal sito del Mibac si tratta di Cardarelli Francesco, Elkann Alain, Miracco Franco, Ungari Pierfrancesco, Varrone Federica, Verdesi Marco, Quatela Giuseppe. Nel MIBAC i dipendenti in pianta organica che perderanno il lavoro potrebbero essere intorno alle 2000 unità, mentre 8 saranno i dirigenti ad andare a casa. Intanto, non solo le retribuzioni dei consulenti, ma anche quelle dei direttori generali non sembrano subire flessione, arrivando ad una media lorda di 166 mila euro annui (vedi tabella del MIBAC, all’interno della quale non è pervenuto tuttavia lo stipendio del Segretario generale Antonia Pasqua Recchia).

Per quanto riguarda il settore del Turismo i conti sono più difficili da fare. Ad esempio il contestato Enit, Ente nazionale per il turismo, la cui utilità per la promozione e valorizzazione dell’immagine del nostro paese non è propriamente accertata, non ha reso noti quali e quali siano i costi per le retribuzioni degli incarichi di consulenza al suo interno. All’interno del dipartimento per gli Affari regionali, a cui afferisce l’attuale ministro per il Turismo, Piero Gnudi, gli incarichi di consulenza sono 8, tutte in scadenza entro il 31 dicembre 2012, la cui retribuzione annua lorda ( esclusi due consulenti che svolgono il proprio incarico a titolo gratuito) è di 15 mila euro l’anno. Per quanto attiene invece gli stipendi dello staff del ministro, solo alcuni sono stati resi noti. Dal decreto legge datato 6 luglio 2012, n. 95 ed entrato in vigore il 7 luglio di quest’anno, non è chiaro se tali posizioni ed incarichi saranno intaccati in qualche modo. Sicuramente l’operazione di trasparenza e merito, grazie alla quale sono state pubblicate le tabelle con le retribuzioni annue del personale sono una nota positiva. Al fine di effettuare una spending review dettagliata ed efficace sarebbe auspicabile affiancare alle tabelle con gli stipendi, una lista dei risultati e dei progetti portati avanti da ogni singolo dirigente e consulente. Una tabella comparata dunque, che sia facilmente fruibile online da parte dei cittadini e che renda la trasparenza realmente efficace al fine di portare avanti una spending review più mirata.

 

È stato presentato oggi tra le polemiche il Rapporto annuale Federculture 2012 ma quest’anno non sono mancate le polemiche. La conferenza di presentazione infatti è coincisa con il tavolo di discussione per il rinnovo di contratto nazionale del lavoro del personale delle società dei servizi esterni Lazio Service, Zetema e Ente Eur. Il contratto è scaduto infatti da due anni e i membri del sindacato Cisl si sono radunati davanti le porte del Maxxi, Museo nazionale del XXI secolo, sede della presentazione del Rapporto.

E mentre fuori sventolavano le bandiere sindacali, all’interno del Museo alla presenza del Ministro dei Beni Culturali Lorenzo Ornaghi, il vicepresidente di Confindustria Ivan Lo Bello, il presidente di Rai Cinema Franco Scaglia, il direttore del Sole 24 ore Roberto Napoletano, sono stati snocciolati i numeri della cultura e i dati relativi i consumi, la domanda culturale, il turismo, i finanziamenti del settore.

Il primo elemento significativo emerso dalle pagine del rapporto è che lo stato economico del comparto culturale italiano risente di un clima di incertezza e di recessione generale dell’intero settore dell’economia del nostro paese, che traina al ribasso tutto il settore produttivo. Un numero tra tutti che possa esemplificare questa situazione è la percentuale della disoccupazione del nostro paese che si attesta all’8,4%, numero che supera il 7,3% del 1951, in pieno dopoguerra e ricostruzione. Non è incoraggiante neanche il dato sulla fuga dei talenti dal nostro paese: il numero dei giovani cha hanno varcato i confini del nostro paese alla ricerca di lavoro negli ultimi dieci anni raggiunge quota 1 milione.

Eppure il settore cultura e turismo in Italia, grazie alle risorse e alle ricchezze che racchiude il nostro territorio, avrebbe al suo interno un potenziale che potrebbe far raddoppiare le percentuali di crescita rispetto a quelle attuali. Il comparto culturale oggi infatti rappresenta il 5% del Pil mentre il turismo il 10% (sommati raggiungono il 15%). Per quanto attiene agli investimenti totali, 1,5 miliardi di euro sono messi in campo da Ministero dei Beni Culturali, 3,6 miliardi sono le risorse degli enti locali e le regioni mentre 720 milioni di euro i finanziamenti privati.

Nonostante la crisi degna di nota è la tenuta dei consumi culturali da parte delle famiglie e dei cittadini: nel 2011 sono stati 70,9 i miliardi incassati, quasi il 7,4% della spesa totale con un incremento del 2,6% in più rispetto all’anno precedente. Entrate che corrispondono all’aumento della fruizione degli intrattenimenti culturali, aumentata nel periodo dal 2001 al 2011: le entrate a teatro sono aumentate del 17%, le presenze nei concerti di musica classica dell’11%, le visite a musei e mostre più 6,1%. Positivi inoltre sono anche i dati dei biglietti venduti nei siti culturali statali: i visitatori lo scorso anno sono stati oltre 40 milioni (+ 7,5% ) per un totale di 110,4milioni di euro di introiti. Proventi che vanno a colmare il drastico taglio che hanno subito i contributi sia pubblici che privati. Per quanto attiene i finanziamenti privati infatti c’è stato un’erosione del 40,5% mentre sul fronte pubblico i contributi sono stati quasi dimezzati, raggiungendo un meno 43%. Anche nel campo delle sponsorizzazioni si è assistito ad una progressiva riduzione: sono stati 166 i milioni stanziati, l’8,3% in meno rispetto agli anni precedenti. Una riduzione delle sponsorizzazioni dovuta sicuramente ad una minore disponibilità economica da investire da parte delle aziende e delle imprese, mentre rimangono invariate le erogazioni da parte delle fondazioni bancarie. Eppure le sponsorizzazioni culturali sono state ricompensate con grande successo di pubblico: quasi 2,5 milioni sono stati i visitatori all’interno delle dieci esposizioni di maggior successo dell’anno passato.

Tuttavia, la fame di cultura non sembra conoscere battute d’arresto: nonostante la crisi dei consumi, le entrare nei musei e nei teatri sono la prova che il desiderio di conoscenza continua a rimanere constante e a subire variazioni sono stati solo i finanziamenti ricevuti: il bilancio del Mibac è diminuito del 36,4% e da parte dello Stato lo stanziamento messo in campo per la cultura rappresenta solo lo 0,19% ( lo 0,11% del Pil). Una cifra sconfortante se paragonata a quella del dopoguerra, quando gli investimenti statali raggiungevano lo 0,5%. Anche all’interno dei bilanci comunali la voce cultura ha subito una decurtazione notevole: se nel 2009 era del 3,3% ad oggi è sceso al2,6% ( una perdita per il settore di circa 500 milioni di euro). Per fronteggiare questa decurtazione si è assistito invece ad una incisiva azione da parte delle istituzioni culturali per incrementare l’autofinanziamento che è balzato ad un più 70%. “ Si tratta di risolvere un problema di gestione soprattutto del rapporto tra lo stato e il privato sociale. È necessario capire che il ruolo dello Stato per reperire e allocare le risorse, sebbene sia essenziale, non può essere ritenuto esclusivo.” ha dichiarato il ministro Ornaghi nel suo intervento che ha seguito la presentazione “ Il cambio di gestione deve riguardare in particolar modo il privato sociale: dal momento che il sistema delle Fondazioni non si è rivelato la soluzione, bisogna incrementare l’azione del mecenatismo e delle sponsorizzazioni attraverso la defiscalizzazione”. Riuscire dunque a portare a reddito i beni culturali e il patrimonio monumentale e artistico di concerto con il settore turistico del nostro paese che racchiude in sé delle potenzialità di crescita e di sviluppo sostenibile inesistente nel resto del mondo. La ricetta per il superamento della crisi è dunque che la sviluppo coincida con la cultura: esattamente come recita il sottotitolo del documento di Federculture.

 

Si sono ridotte drasticamente da 25 ad 11mila le domande di riscatto degli anni di laurea ai fini del calcolo pensionistico presentate all’Inps nel 2011. La causa scatenante di questo trend negativo, secondo il presidente dell’istituto nazionale di previdenza sociale, Antonio Mastarpasqua, sarebbe stata l’intenzione manifestata da parte del governo lo scorso agosto di non prendere più in considerazione gli anni riscattati per anticipare la pensione. Dichiarazioni che avevano certamente creato confusione e sconforto in quanti avevano temuto di veder sfumare non solo l’uscita dal mondo del lavoro, ma anche i soldi investiti per raggiungere anticipatamente questo traguardo.

A questa preoccupazione si era aggiunta, inoltre, la demoralizzazione di non vedersi riconosciuti anni di sacrifici passati sui libri e di sentirsi considerati “da meno” rispetto a tutti coloro che i sacrifici invece li hanno vissuti parallelamente nel mondo del lavoro.

Per quanto questo paventato rischio non si sia infine concretizzato, indubbiamente ha influito notevolmente sul calo delle domande di riscatto. Tuttavia una tale flessione che ha raggiunto un trend negativo del 55% non può avere un’unica giustificazione.

Riscattare la laurea innanzitutto è un costo, spesso molto elevato. Prima si avviano le pratiche e meno onerose sono le somme che bisogna versare all’istituto di previdenza ( la cifra può essere inoltre rateizzata senza interessi aggiuntivi e può essere detratta dal reddito). A secondo che vengano avviate da neolaureati o da neo assunti nel modo del lavoro, le pratiche per il riscatto prevedono un minimo di cinquemila euro da versare per ogni anno riscattato: pertanto, per una laurea specialistica di cinque anni la spesa totale ammonterebbe a venticinquemila euro. Una cifra cospicua a cui non viene più associata la garanzia di una pensione altrettanto remunerativa. I giovani che si affacciano oggi nel mondo del lavoro sono consapevoli, infatti, non solo dell’assenza di tutele contrattuali, ma anche di una incertezza generalizzata per le proprie prospettive future: la pensione viene considerata un traguardo decisamente aleatorio e non sufficiente a coprire le esigenze minime della vita quotidiana. Quanti ragazzi temono che i contributi versati non verranno mai corrisposti o che l’uscita dal mondo del lavoro venga ritardata a tal punto da sembrare quasi irraggiungibile?

Sul sito dell’Inps è disponibile una tabella in cui sono riportate le cifre esemplificative dei costi complessivi, sicuramente non incoraggianti in un momento come questo in cui le prospettive future dei giovani non sono rassicuranti.

La sfiducia generalizzata nell’investimento negli studi universitari per raggiungere un livello occupazionale superiore è legata anche al valore legale del titolo universitario. Il dibattito in merito si è riacceso all’inizio di quest’anno quando l’attuale governo tecnico ha deciso di riportare in auge una passata diatriba che attiene non solo la qualità e il livello giuridico del cosiddetto “pezzo di carta”, bensì l’intero sistema di valutazione e di classificazione delle università italiane.

Si concluderà proprio oggi la consultazione pubblica avviata dal Miur per il valore legale del titolo di studio. E in attesa dei risultati definitivi, le prime anticipazioni non sembrano lasciare spazio a dubbi. La maggioranza degli utenti che ha partecipato al sondaggio ritiene che il titolo di studio rappresenti ancora un “valore aggiunto” per l’ingresso nel mondo del lavoro, in particolar modo per l’accesso nell’ambito della pubblica amministrazione. In questi anni, infatti, si sono scontrati sulla questione due opposti schieramenti: da un lato chi continua a difendere lo status del titolo di studio universitario e il suo peso per l’accesso ai concorsi pubblici; dall’altro invece chi ne chiede l’abolizione, rimarcando lo scarso criterio oggettivo nella valutazione di tali titoli, a causa della mancanza di un controllo di qualità altrettanto oggettivo per le università italiane. In sostanza, viene messa in dubbio l’uguaglianza e l’equiparazione delle lauree conferite dagli ottanta atenei italiani abilitati. Questo livellamento indiscriminato per l’ingresso nei concorsi pubblici non incentiverebbe le università ad investire nelle docenze di qualità, né sarebbe utile per le famiglie nella selezione degli istituti maggiormente formativi e utili per l’ingresso nel mondo del lavoro. Tuttavia è necessario considerare le conseguenze di questo annullamento generale del titolo: qualora non vi fosse alcuna differenza tra diploma e laurea, il giovane intenzionato a proseguire gli studi verrebbe demotivato nel proseguire la propria formazione. Inoltre, sebbene non ci sia un criterio di valutazione oggettivo per la classificazione degli atenei, bisogna riconoscere che il livello di preparazione fornito dalle università italiane sia nettamente superiore a quello europeo. A confermare questo dato sono i numerosi giovani italiani che, grazie alla propria preparazione, riescono con facilità a trovare il lavoro per il quale hanno studiato all’estero, proprio in ragione delle competenze acquisite in patria.

Queste considerazioni dovrebbero far riflettere: probabilmente il problema non consiste nell’abolizione o meno del valore legale, bensì nella espulsione dall’elenco delle università abilitate di tutti quegli istituti che ne abbassano il livello qualitativo. Nel momento in cui il titolo di laurea perdesse il suo valore, accanto alla sfiducia e al calo dei riscatti degli anni universitari per il calcolo pensionistico, quale incoraggiamento avrebbero i giovani nel proseguire la propria formazione?

 

 

“Il turismo e’ l’unica leva su cui puntare per lo sviluppo del futuro e invece in Italia e’ stato sempre considerato una Cenerentola, diversamente da quanto succede all’estero.” Queste sono le parole del neo ministro del Turismo Piero Gnudi. Come non dargli ragione? In effetti, in un periodo di profonda crisi economica, nessuna strada potrebbe rivelarsi migliore che investire nelle potenzialità e nelle risorse turistiche: l’Italia benché povera di materie prime è fortunatamente dotata delle risorse naturali, paesaggistiche e culturali che costituiscono quella che viene considerata un’industria non ancora sviluppatasi appieno. Bisogna allora chiedersi quali siano le strade e le iniziative messe in campo per permetterne il potenziamento e quali siano gli organismi preposti ad occuparsene.

Sebbene sempre lo stesso Ministro abbia affermato che il turismo debba tornare ad essere materia concorrente, affinché Stato e Ragioni lavorino al meglio insieme per non sprecare i fondi, ad oggi in prima linea per la promozione turistica del territorio sono ancora le istituzioni regionali. In maniera autonoma o associandosi tra di loro, sono le Regioni, infatti, che decidono quali progetti realizzare e solo in seguito chiedono l’approvazione e il finanziamento al dipartimento ministeriale.

Qualche esempio: la regione Sardegna insieme a Liguria e Molise è capofila di un progetto interregionale denominato “Borghi d’eccellenza: identità, cultura e tradizioni”. Partito due anni fa, ha come obiettivo quello di promuovere e valorizzare maggiormente le specificità dei territori regionali, risaltando gli itinerari e i borghi quali tratti distintivi dell’identità regionale. In sostanza, si tratta di estendere il modello di quelli che in passato sono stati definiti borghi d’eccellenza partendo dai Comuni già insigniti dei titoli “La Bandiera Arancione” e “I Borghi più belli d’Italia”, marchi di qualità assegnati ai borghi italiani in grado di garantire servizi, qualità ambientali e presenza di elementi di pregio (storici, culturali e tradizioni locali) tali da soddisfare pienamente anche il turista più esigente. Questa almeno la definizione. Nella pratica si tratta di avviare progetti di riqualificazione dei piccoli centri, creare percorsi di accoglienza e rete tra le strutture ricettive e piccole imprese artigiane, al fine di incrementare in questo modo l’ attrattività dei borghi. L’obiettivo è quello di realizzare un vero e proprio brand intorno a queste realtà e poterle poi veicolare attraverso campagne di comunicazione mirate, volte ad attrarre flussi nuovi, in aggiunta agli utenti europei. Nella stessa Sardegna sono numerose anche le iniziative autonome: come il piano di cooperazione Italia- Francia che prevede la creazione di una rete interattiva dei porti, che dia vita ad un sistema informativo georeferenziato e che fornisca tutte le informazioni turistiche della zona ancor prima di attraccare in porto.

Spostandoci al nord, ugualmente, le idee da mettere in campo non mancano. La regione Friuli Venezia Giulia, piccola di superficie ma con un paesaggio variegato, promuove diversi itinerari ambientali e storici a tema. Oltre al percorso interregionale che porta alla riscoperta dei luoghi protagonisti della Grande Guerra, al fine di destagionalizzare gli afflussi turistici, la Regione si sta dedicando a progetti incentrati sulla meeting industry: in concreto si tratta di un piano di promozione turistica nel settore congressuale rivolto ad un target diverso rispetto al turista tradizionale, che si sposta non per piacere, bensì per lavoro. Il proposito della Regione è, inoltre, quello di potenziare il settore del turismo sportivo: si tratta di ampliare i campi da golf già presenti nel territorio e dar vita al progetto chiamato “Italy Golf and more”.

Questi sono solo alcuni esempi, sicuramente interessanti ed indicativi di come lo sviluppo di questo settore dipenda soprattutto dalla creatività unita all’intraprendenza. L’investimento mirato in questo comparto dipende dalla conoscenza approfondita del territorio e delle sue potenzialità, peculiarità implicita delle istituzioni regionali che lavorano a stretto contatto con il contesto ambientale e culturale e con gli operatori turistici ivi presenti.

Tutte le iniziative elencate sono per adesso solo delle proposte rimaste su carta. Al fine di essere realizzate e diventare operative, infatti, stanno aspettando l’avallo del dipartimento del turismo: in sostanza mancano i finanziamenti per avviarli e solo il governo può autorizzarli. Al fine di promuovere il settore turistico e fare in modo che questo arrivi realmente a garantire il 18% del Pil nazionale entro il 2020, come auspicato dallo stesso Gnudi, le sole idee su carta probabilmente non sono sufficienti. Per attirare i nuovi flussi turistici bisogna innanzitutto investire e valorizzare cercando di ampliare il più possibile l’offerta e senza finanziamenti questo scopo è difficilmente realizzabile. Inoltre sarebbe auspicabile che l’Italia si renda competitiva a livello internazionale anche riducendo i prezzi degli spostamenti. Ammesso ad esempio che il progetto dei “Borghi d’eccellenza” fosse realizzato, quanti avranno la possibilità di raggiungere la Sardegna con i prezzi così alti per i viaggi in traghetto o in aereo?

 

 

Ce lo ha più volte ripetuto anche l’Europa, il mercato del lavoro italiano soffre di quel male chiamato ‘segmentazione’: troppa inefficienza ed iniquità tra contratti tipici e atipici, troppa protezione da un lato e eccessiva flessibilità dall’altro.
Il governo Monti sta dunque tentando di dar risposta ai richiami dell’Unione Europea affinché si provveda ad una riforma razionale del lavoro in Italia: di qui il coraggioso e impopolare passo di metter mano al fatidico articolo18 dello Statuto dei Lavoratori (L. 20 maggio 1970, n.300).
I punti su cui la riforma andrebbe ad agire sono principalmente il reintegro e l’indennizzo.
Per quel che concerne il reintegro sarà limitato solo ai casi di licenziamento discriminatorio e per giusta causa, qualora lo decida il giudice; non sarà previsto invece il reintegro nel caso di licenziamento per motivi economici, novità che ha molto scontentato le rappresentanze sindacali, con la Camusso, segretario generale della CGIL, sul piede di guerra.
L’indennizzo dovuto al lavoratore in caso di licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo da parte del datore, così come proposto nella revisione del Ministro Fornero & co., ammonterà invece ad una cifra che dovrà essere stabilita dal giudice competente e potrà variare dalle 15 alle 27 mensilità di retribuzione. Ciò vuol dire che il datore sarà tenuto a pagare cifre importanti che renderanno ben difficile l’eventuale ripresa della sua attività.
Fin qui i provvedimenti citati interessano la sfera dei cosiddetti contratti tipici, come quelli a tempo determinato e indeterminato, ma novità sono previste anche per l’altra sfera della realtà lavorativa nazionale, quali i contratti atipici e precari, che interessano soprattutto i giovani.
In tal frangente la riforma intende scoraggiare il ricorso reiterato e indiscriminato dei contratti a progetto e dell’abuso della pratica di apertura delle partite IVA, anche per le prestazioni a carattere coordinato e continuativo.
Attraverso disincentivi contributivi, come l’aumento dell’aliquota contributiva prevista a favore della gestione separata INPS, si intende dunque frenare la tipologia contrattuale delle collaborazioni a progetto, che alimenta il precariato, mentre limiti più stringenti saranno posti per le nuove aperture di partita IVA.
Resta valido il contratto di apprendistato, che diventa la principale via di accesso nel mondo del lavoro con alcuni correttivi: il datore deve confermare infatti una percentuale degli apprendisti già presenti nell’azienda, è obbligatoria la figura del tutor e deve essere prevista una durata minima dell’apprendistato.
Tutti questi cambiamenti cosa comporteranno? Quali i settori che maggiormente saranno interessati alla riforma?
Di sicuro per i datori di lavoro, i costi dei licenziamenti ingiustificati saranno maggiori, distogliendoli da tale pratica, mentre per i lavoratori che perderanno il posto, il reintegro in caso di motivi economici sarà molto difficile. E questi sono i proprio i punti su cui si è arenata la trattativa tra governo e parti sociali.
Le novità nel campo del lavoro precario non sembrano invece affatto deprecabili, con un giusto stimolo al passaggio dai contratti atipici a quelli che garantiscono maggior protezione per i lavoratori.
La stragrande maggioranza dei giovani attivi ricade infatti nella categoria dei lavoratori a progetto, come pure le risorse umane impiegate nello spettacolo e nell’industria dei beni culturali; per loro, dopo un periodo di apprendistato, sarà infatti possibile essere stabilizzati e non vedersi rinnovato reiteratamente un contratto a scadenza, o peggio, dover vedere semplicemente concludersi il rapporto per scadenza dei termini, pur avendo fornito una prestazione di fatto subordinata.
La riforma avrà però successo e fornirà realmente gli effetti sperati solo se comprenderà un decisivo sgravio dei costi del lavoro per i datori che intendono integrare in modo stabile i lavoratori: un dipendente con uno stipendio mensile di 1.200 euro guadagnerà 15.600 euro l’anno, ma costerà all’impresa più di 30.000 euro annui. Tale sperequazione è infatti il vero nodo da sciogliere per giungere ad un vero sviluppo nel mercato del lavoro italiano, che consentirà di abbassare la disoccupazione, aumentare i consumi e limitare il fenomeno del “nero”.
Se da un lato dunque il cambiamento e le riforme spaventano, dall’altro è pur necessario agire per dare nuovo stimolo alla nostra economia, che rischia altrimenti di rimanere stagnante a remissione di tutti. Per giungere alla miglior soluzione possibile è bene però che ciascuna delle parti agisca responsabilmente, conscia della delicata fase che sta attraversando il nostro Paese.

 

Aggiornamento del 5 aprile 2012

Le principali novità delle ultime ore sono le seguenti:
– la previsione del reintegro del lavoratore nei casi di licenziamento per motivi economici insussistenti;
– gli indennizzi risarcitori possono arrivare fino alle 24 mensilità;
la riduzione al 30% delle stabilizzazioni per l’assunzione di nuovi apprendisti per il prossimo triennio ;
– le previste limitazioni per le partite IVA entreranno in vigore dal prossimo anno.

Il 15 febbraio si è spento il sogno delle Olimpiadi a Roma. In questa data, infatti, dovevano essere concretizzate le domande di partecipazione al Comitato Internazionale, ma l’Italia non ha mai formalizzato la candidatura. Perché se da una parte Comune di Roma e Regione Lazio si sono prodigate a favore della realizzazione del grande evento che avrebbe concentrato sulla Capitale non solo l’attenzione internazionale ma anche una pioggia di finanziamenti per la costruzione di infrastrutture ed impianti sportivi, dall’altra il Governo dei tecnici sin dal suo insediamento si è pronunciato a sfavore dell’iniziativa manifestando le sue perplessità. Già prima dell’incontro con il primo ministro inglese David Cameron, che ha messo in guardia dal rischio di non rispettare il contenimento dei costi, il premier italiano Mario Monti i suoi conti li aveva iniziati a fare e non c’è voluto molto tempo per capire che questi non sarebbero mai tornati.

In sostanza, con un elevato debito pubblico, l’Italia non avrebbe mai potuto coprire le spese totali che il grande evento avrebbe comportato. A maggior ragione se teniamo presente che gli importi preventivati in realtà poi non vengono mai rispettati. Secondo la relazione economica di Marco Fortis, membro del comitato promotore istituito ad hoc per l’occasione dal Coni e dal Comune di Roma l’intero volume di spesa messo in bilancio era di 8.2 miliardi di euro: una parte di questo introito, 3.5 miliardi sarebbero derivati dai proventi del Cio ( Comitato Olimpico Internazionale) e dai diritti degli sponsor internazionali e locali, tv, lotterie. I restanti 4,7 miliardi sarebbero stati garantiti dallo Stato, il che equivale a spesa pubblica. E questo tenuto conto solo della valutazione di spesa che difficilmente sarebbe stata rispettata. A fronte di una sfiducia nella puntualità e precisione italiana, il governo tecnico ha deciso di infrangere un sogno troppo costoso che ad oggi non possiamo permetterci.

 

Eppure anche senza concretizzarsi materialmente, le Olimpiadi sono già risultate un “costo”. Il budget stimato per la comunicazione – e quindi soldi da anticipare- era fissato sui 42 milioni di euro e doveva essere finanziato con soldi pubblici, nello specifico dal Comune di Roma, Provincia e Regione Lazio.
Se questo pericolo sembra scampato in realtà dei soldi effettivi almeno la regione Lazio li ha già sborsati. Si tratta dei fondi che servono a mantenere in piedi la Commissione speciale per i Giochi Olimpici 2020, istituita nel febbraio 2011: l’organismo presieduto dal pidiellino Romolo Del Balzo annovera al suo interno il vice presidente Francesco Carducci (UDC), Mario Brozzi (lista Polverini), Alessandro Vicari (lista Polverini), Angelo Bonelli (Verdi), Mario Mei (Api) e l’assistenza di una macchina blu e di un ufficio di segreteria. Dal giorno del suo insediamento si è riunito solo tre volte, tuttavia il costo medio all’anno è di 200 mila euro (gli oneri standard delle commissioni). Ad un mese dall’uscita ufficiale di Roma dalla corsa per le Olimpiadi questo organismo è ancora attivo: essendo stato designato attraverso una legge regionale infatti per essere destituito deve seguire esattamente lo stesso iter, come ha sostenuto il presidente del Consiglio regionale della regione, Mario Abruzzese. Tuttavia la discussione di questa legge regionale non è ancora stata messa all’ordine del giorno, come ci conferma Rocco Berardo, consigliere regionale dei Radicali, che sta seguendo la faccenda. E, infatti, all’interno del sito della regione Lazio la commissione risulta ancora esistente e, nonostante le dichiarate dimissioni del presidente e del vice presidente, nel sito i loro nomi figurano ancora.

 

Un altro sito ancora attivo è quello della rosa di imprenditori e politici che costituiscono quello che viene rinominato il Comitato Promotore per le Olimpiadi 2020. Scorrendo l’elenco dei diciassette componenti troviamo non solo quello del presidente onorario Gianni Letta e il presidente operativo Mario Pescante (ex segretario generale del Coni), ma ad occupare quella che viene definita una carica onoraria figurano come direttore generale Ernesto Albanese (amministratore delegato di Atahotels) e il sindaco di Roma Gianni Alemanno insieme con il presidente del Coni Gianni Petrucci in qualità di vicepresidenti; e ancora Luigi Abete, Luca Cordelo di Montezemolo, Azzurra Caltagirone, Diego della Valle, Marco Fortis (presidente del Comitato compatibilità e programmazione economica), John Elkan, Giovanni Malagò (già presidente per l’organizzazione dei mondiali di nuoto del 2009), Emma Marcegaglia, Cesare Geronzi.

 

Per tre anni il finanziamento previsto per i lavori del Comitato promotore era fissato a tre milioni di euro. Di questi, al fine di coprire il primo anno di operatività, (il Comitato è stato istituito nel luglio 2011) i componenti hanno ricevuto finanziamenti per un milione di euro, 500 mila stanziati dal Coni e 500 mila del Campidoglio. In una nota presente sul sito del Coni risulta però che alla data del 12 aprile 2011 lo stanziamento totale sotto forma di beni, servizi, prestazioni, risorse umane da parte del Coni era fissato ad un milione di euro. Quanti di questi fossero cash non è specificato, né è pubblico il documento che attesta come questi soldi siano stati ripartiti. Da quanto dichiarato dall’ufficio stampa del Coni, questi fondi sono stati spesi per la presentazione della domanda al comitato internazionale, mentre una parte è servita a finanziare le retribuzioni delle uniche sei persone che all’interno del comitato venivano stipendiate (una tra queste è il direttore generale Ernesto Albanese) e le loro trasferte presso il comitato olimpico internazionale. Non da ultimo tra le spese c’è stata la preparazione del dossier da presentare al comitato internazionale, che a causa della prematura bocciatura non è mai arrivato a destinazione.

 

L’unico documento che è stato redatto in questi sette mesi è stata l’indagine di previsione economica presentata lo scorso febbraio dalla commissione Fortis, volta a presentare gli investimenti preventivati e l’impatto economico dei Giochi sul Pil nazionale. La commissione, composta da Pierpaolo Benigno, Giulio Napolitano, Fabio Pammolli, Giuseppe Pisauro e Lanfranco Senn, con il coordinamento di Franco Carraro, e presieduta da Marco Fortis, membro a sua volta del Comitato promotore, si è occupata della redazione del documento a titolo gratuito. La realizzazione vera e propria è stata portata avanti, infatti, dalla società di consulenza finanziaria Prometeia e il compenso di questa redazione è stato pagato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, che aveva fortemente richiesto la relazione. Dopo lo stop definitivo di Monti, in ogni caso, le uniche sei persone stipendiate sono state licenziate. Tuttavia a distanza di un mese dalla bocciatura della candidatura di Roma alle Olimpiadi il sito del comitato è ancora attivo. Per quanto attiene le procedure amministrative per lo scioglimento la società è stata messa in liquidazione.

 

Non sono ancora chiare, invece, le modalità con cui sono stati spesi i fondi messi a disposizione da parte del Campidoglio e, nonostante la redazione di Tafter abbia più volte cercato di mettersi in contatto con il Dipartimento dello sport,   stiamo aspettando una risposta. L’unica informazione certa è che il Comune ha attinto personale per il comitato dalla società RpR (Risorse per Roma).
Queste dunque erano le premesse per la gloria olimpica ancor prima che il progetto vedesse la luce, venissero avviate le procedure per la campagna di comunicazione e finanziati gli appalti. Ad un mese dalla bocciatura c’è da chiedersi forse quanto ci costerà ancora il sogno olimpico ormai infranto.


A quanto ammonta il danno economico prodotto dal giro d’affari sommerso della malavita organizzata? In questi in giorni in cui la lotta all’evasione fiscale si è inasprita fortemente non è un quesito fuori luogo. A giudicare dai beni immobili e dai patrimoni che ogni anno vengono confiscati a mafia e camorra, l’introito sottratto annualmente alle casse dello Stato non è di certo irrisorio. Secondo una statistica stilata dalla neonata Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata, sono 11.954 le proprietà sottratte alla gestione malavitosa, di cui 10.438 sono immobili e 1.516 aziende. Tutti edifici, terreni e attività che divengono di proprietà della Stato, il quale è chiamato a riqualificarli ed eventualmente a riconvertirne le funzioni.
Grazie alla legge 109 del 1996, i patrimoni sottratti vengono riconvertiti ad un uso sociale: nella maggior parte dei casi la riconversione prevede che all’interno di questi terreni sorgano delle vere e proprie cooperative agricole dove vengono impiegati giovani e ragazzi che faticano a trovare occupazione soprattutto nel Mezzogiorno. Il metodo delle indagini patrimoniali e bancarie sui capitali mafiosi viene avviato, per la prima volta, da Falcone e Borsellino e da allora i beni patrimoniali dei boss, prima sequestrati e poi confiscati, divengono, una volta riconvertiti, armi di riscatto economico e sociale per aprire un futuro alla fascia più disagiata, quella dei giovani oppressa dalla disoccupazione e dalla mancanza di prospettive. Questo attraverso l’aiuto e l’impegno di associazioni che operano sul territorio nazionale, come Libera, nata nel 1995 e che ha sede a Roma, proprio in uno delle case espropriate ai boss della banda della Magliana, che da quest’anno è stata anche inserita dal The Global Journal nella classifica delle migliori 100 Ong del mondo.
Tuttavia la quantità di beni che arrivano in gestione allo Stato è spesso difficile da gestire: la sola destinazione sociale sembra essere insufficiente per rivalorizzare nel suo complesso tutta la mole di edifici e terreni di cui lo stato diviene proprietario. Ed è proprio in vista dello sfruttamento di ogni potenzialità di questi beni, al fine di trasformarli in opportunità di lavoro, che in questi giorni il governo Monti ha presentato nel decreto semplificazione la proposta di poter dare in concessione i beni confiscati e sequestrati a cooperative di giovani sotto i 35 anni al fine di sviluppare attività turistiche, come agriturismi. Una possibilità di sviluppo che ha in sé tutti i presupposti per il rilancio del settore turistico- fonte di guadagno principale soprattutto nel sud Italia – e per l’imprenditoria giovanile. Si tratta di un’apertura alla dimensione imprenditoriale e produttiva attraverso le agevolazioni al credito bancario per gli under 35 che piace anche alla stessa associazione Libera: “Abbiamo accolto con favore la proposta soprattutto perché si tratta di un ulteriore incentivo per creare un futuro occupazionale per i ragazzi- afferma Davide Pati, responsabile del settore Beni confiscati per conto di Libera– Noi chiediamo al Governo proprio questo: maggiore impegno per favorire tutti questi progetti di riscatto. Il prossimo passo in avanti è quello di togliere tutti quei lacci amministrativo-burocratici che impediscono il pieno sfruttamento del bene, come le ipoteche o il degrado provocato dall’abbandono. In questo senso bisognerebbe anche aumentare le risorse, non solo economiche ma anche di personale, all’interno della nuova Agenzia per i beni confiscati: si tratta infatti uno strumento utile per creare le condizioni affinché la mafia non riprenda il possesso di questi beni.”
Un’ulteriore strada da percorrere, quindi, per evitare che il degrado, l’incuria o la burocrazia porti alla perdita di questi beni, che spesso sono rimasti occupati dai vecchi proprietari o abbandonati proprio perché difficili da riqualificare per mancanza di fondi. Ora, come chiede Libera, bisogna mettere in campo tutte quelle azioni concrete affinché questa idea per favorire l’imprenditorialità giovanile si realizzi nella realtà quotidiana.

Natale è sempre Natale, ma di anno in anno si festeggia in modo diverso: con questa vignetta Luca De Santis ci propone un’interpretazione della festività del 25 dicembre dal punto di vista dell’andamento politico-economico italiano.

Scopri tutte le altre vignette di Luca De Santis su http://www.ifioriblu.it/

Dopo i recenti avvenimenti che hanno fatto balzare alla cronaca il danneggiamento di alcuni beni culturali del Paese (da ultimo quello della Fontana del Moro a Piazza Navona a Roma), il Ministero per i Beni e le Attività Culturali ha colto l’attimo per predisporre un disegno di legge per il conferimento al Governo della delega atta a riformare la disciplina sanzionatoria in materia di reati contro il patrimonio culturale.
La Costituzione italiana già all’art.9 sancisce la cultura come valore fondamentale da promuovere e sviluppare ma insufficienti sono state le misure prese fino ad oggi per contrastare il vandalismo contro le opere d’arte, le cui conseguenze possono spesso determinare la perdita del bene in questione.
È per questo motivo che, come già auspicato in maniera bipartisan, il ministro Galan, di concerto con il ministro della giustizia Nitto Palma, ha deciso di presentare, il 22 settembre scorso, la nuova normativa che inasprisce le pene già previste dal decreto legislativo n. 42 del 2004, introducendo per giunta nuove figure di reato.
Si tratta del delitto di furto di bene culturale, per il quale è prevista la reclusione da 1 a 6 anni e un’ammenda da 5mila a 10mila euro e dei delitti di danneggiamento, deturpamento o imbrattamento dei beni culturali o paesaggistici per i quali è prevista la stessa pena di cui sopra.
Viene inoltre introdotto il reato di possesso ingiustificato di strumenti per il sondaggio del terreno o di apparecchiature per la rilevazione dei metalli, aggravato nel caso in cui si venga colti in flagranza nell’uso di tali apparecchiature su aree sottoposte a vincolo archeologico e prevedendo per l’illecito la reclusione fino ad un massimo di due anni.
Particolarmente colpite saranno poi le esportazioni illegali di materiale sottoposto a vincolo e le violazioni in ambito archeologico.
Oltre agli usuali organismi di tutela, che si occupano di proteggere i beni compresi negli artt. 10 e 11 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, si aggiungerà quindi il Governo ad affiancare le attività delle già competenti Regioni (con le commissioni regionali per i beni e le attività culturali anche per quelle a Statuto Speciale), Direzioni regionali del Mibac, Soprintendenze di settore, Soprintendenze a gestione autonoma e Forze dell’ordine. Partendo dall’assunto che il deturpamento di un bene culturale non lede solo il territorio di competenza, bensì l’intera popolazione mondiale, il ddl fa dei beni culturali una vera e propria “questione di Stato”, gettando le basi per quella che potrebbe in futuro divenire una vera e propria misura normativa a livello europeo.
Su scala europea, infatti, la tutela dei beni culturali appare esclusivamente nell’art. 167 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), unico articolo che si occupa della materia.
Si è quindi ben lontani dal prevedere una tutela dei beni culturali a livello europeo in quanto la sola azione che l’Europa unita intende perseguire per il patrimonio culturale è quella di “incoraggiare la cooperazione tra Stati membri e, se necessario, integrare e appoggiare l’azione di questi ultimi”. L’UE affianca dunque gli stati membri nella lotta contro i vandali dell’arte, sostenendo e promuovendo il patrimonio ma non prevedendo azioni attive in campo legislativo, per le quali si rimanda agli ordinamenti statali.
Almeno su base nazionale, però, qualcosa in Italia sembra essersi sbloccato: ma davvero è giunta l’ora di cantar vittoria?
L’iter legislativo è infatti ancora lungo, visto che il ddl dovrà essere integrato con i decreti legislativi di attuazione, presentato ed eventualmente, approvato da Camera e Senato.
Calcolando inoltre che nel 2013 finirà la legislatura, riusciranno i nostri eroi nell’ardua impresa di sgominare i vandali del nostro patrimonio?

 

 

Come si diventa Michelangelo. Il mercato dell’arte, la retorica, l’Italia” è il breve saggio, dal tono spiccatamente ironico, polemico, a volte cinico, del professore dell’Università di Trento Claudio Giunta. Il docente di Letteratura italiana non si lascia sfuggire l’occasione per intervenire nell’accesa quanto mai controversa questione circa la croce attribuita nel 2008 a Michelangelo, fatto che ha divampato per molto tempo sulle pagine di quotidiani e riviste specializzate e acceso gli animi degli esperti, ma anche di chi ama semplicemente crogiolarsi sui fatti dai lunghi e orpellosi cerimoniali riguardanti il nostro Paese.
Questa la prospettiva e il taglio che l’autore conferisce alle sue considerazioni sul ritrovamento, l’attribuzione di paternità artistica e le conseguenti vicende istituzionali legate alla promozione della grande scoperta. L’autore racconta, commentando in maniera critica, alcuni momenti salienti legati all’acquisto da parte dello Stato Italiano del crocifisso in legno attribuito a Michelangelo, fino ad allora in possesso di un antiquario torinese, che nel corso del 2009 fu presentato, da Roma a Palermo, da Milano a Napoli, quale trofeo delle autorevoli politiche gestionali intraprese dal governo.
Il susseguirsi delle numerose incertezze e dei giustificati dubbi sollevati da critici e storici dell’arte e da alcune frange della politica e delle istituzioni sull’acquisto dell’opera, condussero i carabinieri al sequestro il bene, la Corte dei Conti ad aprire un’inchiesta per danno all’erario e la Procura di Roma a condurre un’indagine per truffa ai danni dello Stato.
Il prof. Giunta, infatti, nel libro si domanda, porgendo allo stesso tempo i medesimi quesiti al lettore, in che modo, secondo quali criteri e con l’ausilio di quali esperti e tecniche scientifiche è stata ponderata la decisione che ha condotto all’acquisizione di un’opera d’arte che ha previsto una spesa pubblica pari a tre milioni e duecentocinquanta mila euro. Come si giustifica una scelta così importante e quali sono stati gli attori in campo?  Il testo procede indagando i meccanismi della politica gestionale dei beni culturali in Italia, del mercato dell’arte, delle istituzioni competenti e gli esperti del settore, prendendo in considerazione anche l’intervento onnipresente della Chiesa, mai paga di visibilità, il “loop informativo” dei mezzi di comunicazione, testate giornalistiche e internet, che con faciloneria cavalcavano l’onda della polemica, proponendo articoli sempre uguali e la retorica generale con cui fu gestito il “pasticcio mediatico” del crocifisso michelangiolesco.
Il libro, piccino nelle dimensioni, è modesto anche nella trattazione dell’argomento; sembra essere infatti, a tratti, lo sfogo di un outsider che come tanti si chiede cosa succede, in che modo e perché, senza tuttavia mai raggiungere le dovute conclusioni. Anzi, la retorica che lo scrittore dice contraddistinguere l’operare tutto italiano sembra proprio non escluderlo: “L’Italia è un muro di gomma contro cui rimbalzano tutte le buone opinioni, tutte le buone intenzioni, e la strada che tutti scelgono, anche i migliori, anche gli idealisti, è , dopo qualche patetica resistenza, la resa”.

Come si diventa Michelangelo
Il mercato dell’arte, la retorica, l’Italia
Claudio Giunta
Donzelli Editore, € 13,50
ISBN 978-88-6036-559-0

La sanatoria sulle violazioni alla proprietà industriale prevista dal nuovo Decreto Sviluppo, articolo 8, comma 10, scuote il sistema delle imprese italiane del mondo del design. La lampada “Arco” dei fratelli Cassina, la “Panton chair del designer danese Verner Panton, le chaise longue di Le Corbousier possono essere riprodotte senza alcun riguardo.
Il sistema del design italiano, che oggi significa presenza diffusa di attività, competenze, azioni, prodotti e relazioni, che vedono questa disciplina come promotrice di processi d’innovazione da cui il nostro sistema economico-produttivo trae da tempo un importante vantaggio competitivo, viene affossata dal  Dl Sviluppo, entrato in vigore il 14 maggio.
La norma infatti afferma: “La protezione accordata ai disegni e modelli ai sensi dell’articolo 2, n. 10, della legge 22 aprile 1941, n. 633, comprende anche le opere del disegno industriale che, anteriormente alla data del 19 aprile 2001, erano divenute di pubblico dominio a seguito della cessazione degli effetti della registrazione. Tuttavia i terzi che avevano fabbricato o commercializzato, nei dodici mesi anteriori al 19 aprile 2001, prodotti realizzati in conformità con le opere del disegno industriale allora divenute di pubblico dominio a seguito della scadenza degli effetti della registrazione non rispondono della violazione del diritto d’autore compiuta proseguendo questa attività anche dopo tale data, limitatamente ai prodotti da essi fabbricati o acquistati prima del 19 aprile 2001 e a quelli da essi fabbricati nei cinque anni successivi a tale data e purché detta attività si sia mantenuta nei limiti anche quantitativi del preuso”.
Un duro colpo per il Made in Italy. Uno schiaffo alla creatività d’autore e al mondo del design, potenziale asset per rigenerare la competitività del nostro sistema economico.
La questione, precedentemente regolamentata dall’articolo 239 del decreto legislativo del 10 febbraio 2005 n. 30, era stata riformulata lo scorso agosto per adeguarsi alla direttiva Ue del 1998. La nuova versione della legge di riforma del diritto della proprietà industriale è stata ora scalzata dal nuovo decreto generando l’indignazione degli addetti ai lavori.
Si sono levate le critiche e lo sconcerto di tutte le associazioni di categoria: il vicepresidente di Confindustria con delega all’internazionalizzazione Paolo ZegnaRoberto Snaidero, presidente designato di FederlegnoArredo, Carlo Guglielmi, presidente di Indicam, Gianluca Armento, brand manager di Cassina, gruppo Poltrona Frau e da New York il presidente di Assoluce Piero Gandini tuonano contro la norma che avalla la contraffazione delle opere.
Dal “Rapporto Unioncamere 2011” si evince che la capacità di produrre innovazione in Italia, si esplicita attraverso il design e il brand, più che attraverso la tecnologia. Infatti, in base alle domande di registrazione dei marchi presentate all’Uami (Ufficio Armonizzazione del Mercato Interno), le imprese italiane risultano essere molto attente alla tutela di brand e creatività e quindi all’originalità del Made in Italy.
Di fatto negli ultimi cinque anni i marchi che conoscono i più alti tassi di crescita sono quelli che operano nei servizi: pubblicità, formazione e cultura, progettazione, ricerca; proprio per questo il crescente numero di contraffazioni e di reati contro la proprietà intellettuale e industriale deve allertare le imprese e il governo e stimolare un intervento di protezione e salvaguardia che tuteli anche all’estero la nostra creatività.
L’indagine condotta da Unioncamere mette inoltre in evidenza, come il design rappresenti un processo di progettazione, uno strumento efficace affinché la realtà produttiva delle imprese italiane possa affrontare i cambiamenti legati alla globalizzazione dei mercati e incrementare la propria produttività (l’industria italiana dell’arredamento ha riscosso un notevole successo sul mercato mondiale, nonostante la crescente concorrenza di nuovi competitori, forti di bassi costi del lavoro e delle materie prime).
Le grandi imprese del design italiano, Flos, Cassina, Vitra, a fronte delle royalties versate agli eredi dei designer, stanno studiando come muoversi per vie legali contro la norma,  ritenendo che questa, da una parte violi la Convenzione di Berna, dall’altra abbia profili d’illegittimità incostituzionale.
Sarebbe tuttavia auspicabile che la norma, “incostituzionalmente barbara”, fosse questione da discutere non nelle aule dei tribunali, quanto piuttosto in fase di conversione del decreto legge in Parlamento.