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Lirica commissariata. Prima il Maggio Musicale, poi il San Carlo, adesso l’Opera di Roma. Qual è il virus che appesta l’opera italiana? Alcuni addebitano la responsabilità ai singli sovrintendenti, che gestirebbero la complessa macchina con metodi a dir poco obsoleti e con molto lassismo: in un paio d’anni, argomentano, Lissner ha messo in ordine l’attività e i conti della Scala. Altri sostengono che la lirica sia un’enclave di privilegi e si trovi sotto ricatto sindacale permanente. Sono vere, in buona parte, entrambe le cose. Ma nessuno considera l’importanza delle regole. L’opera è disciplinata da norme ottocentesche, prive di qualsiasi carica incentivante, indifferenti rispetto alla necessità di stabilire gli obiettivi e misurare le performance, renitenti all’urgenza di attivare metodi flessibili di gestione delle risorse umane.
Chi si appassiona alla notizia sul nome del prossimo sovrintendente di Roma sarà comunque deluso; non c’è demiurgo che possa “mettere le cose a posto”. Servono regole incisive e intelligenti, e soprattutto una visione strategica che stabilisca una connessione forte tra la creazione e la produzione di teatro musicale e i complessi bisogni culturali della società contemporanea. Che ama la lirica. Quando la ascolta nella pubblicità, nelle colonne sonore, nelle piazze e sul proprio i-pod. Ma non riesce a fruirne nel fortino dei teatri d’opera, tuttora bizzarri club per iniziati.
Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto, Università di Catanzaro