roma-capitaleRoma diventa Capitale, dopo il decreto che ne istituisce uno status specifico nell’ambito della cosiddetta riforma federalista. Non sorprende l’enfasi dopo un periodo lungo e controverso di gestazione, né sorprendono le reazioni variegate, anche alla luce della prevalente incertezza sull’effettiva portata della norma. In un Paese che ama tanto le operazioni di maquillage nominalistico, la cosa potrebbe anche ridursi al solito cambiamento di carta intestata privo di effetti sostanziali. Certo, sulla carta i poteri previsti per il nostrano District of Columbia appaiono notevoli: dalla pianificazione territoriale alla mobilità, dalla valorizzazione dei beni artistici e ambientali allo sviluppo economico e sociale (ma non erano già competenze del Comune?). Poi, a ben guardare, si vede che valorizzazione non è tutela o gestione, e che quindi il governo della cultura rimane parcellizzato in modo bizantino. E, soprattutto, che tutte queste aree di attribuzione richiedono a monte l’elaborazione di una strategia complessiva e incisiva per il ruolo che l’Urbe vorrà assumere nei prossimi decenni, anche rispetto a sé stessa. La altre Capitali italiane, cosmopolite e dinamiche, hanno già tratto il dado della propria scommessa identitaria, magari con esiti alterni ma con grande chiarezza: Torino, Napoli, Palermo. E Roma, che si è appena fatta un tagliando progettuale con il Rapporto della Commissione Marzano, può entrare nel suo ventinovesimo secolo identificando i pilastri sui quali basare la propria crescita. La cultura è certamente uno di questi, ma va gestita con un approccio prospettico e cooperativo, con processi decisionali snelli e condivisi, con una visione chiara dei bisogni e delle opportunità.

 

Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto, Università di Catanzaro