Culture21 srl – Gruppo Monti&Taft Ltd
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E’ vero, la grande riforma che tutti aspettiamo forse non ci sarà mai. Anche perché se volessimo davvero farla saremmo costretti a rimettere in discussione troppe cose, e dunque troppe posizioni, troppe abitudini, prassi opache, comode scorciatoie. Il cambiamento in sé non è virtuoso. Però, nel governo della cultura che vive da molti anni in uno stato di emergenza permanente un po’ di sostanziali messe a punto non guasterebbero. Soprattutto in una fase di rapida evoluzione. La cultura italiana è un territorio di veti incrociati e di intoccabilità. Storici dell’arte e architetti si guardano in tralice per la conquista delle soprintendenze, salotti e corridoi diventano la sede in cui si decide il destino dei teatri lirici, imprese private svolgono una pietosa supplenza per attività che sono impedite al pubblico dalla pax sindacale e da una legislazione a dir poco bizzarra. Su questa palude anche una sommessa modifica organizzativa deflagra, enfatizzandone la fragilità intrinseca. Gesto dalla forte valenza simbolica, l’istituzione di una Direzione per la valorizzazione sembra scompaginare un ordine scolpito nel bronzo. Che dire? Di valorizzazione si parla (impropriamente) da anni, istituzionalizzarla potrebbe aiutarci a capire di che si tratta. In un club di tecnici l’imprenditore può stonare. Ma non siamo al ballo dei Ponteleone. Sarebbe il caso di accogliere il nuovo venuto (sia l’istituzione che la persona) ponendogli le domande giuste, cercando aree di cooperazione, scambiando e ibridando i punti di vista e gli approcci. Dopo aver bruciato tante povere vergini come streghe, ci ostiniamo ad aver paura del nuovo difendendo una verità le cui lettere maiuscole suonano soltanto come una triste giustificazione della stasi.
Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto, Università di Catanzaro