Tanto tuonò che piovve. Preceduto dalla pubblicazione dei dati di bilancio sul sito web del MiBAC il decreto sulla lirica irrompe nella palude italiana e provoca qualche schizzo di fango. Se negli anni Settanta le prime della Scala si prestavano per le proteste di operai manifatturieri, qualche giorno fa fuori dal Teatro milanese a manifestare c’erano proprio loro, i lavoratori dello spettacolo. Difesa di diritti costituzionali o protezione di privilegi obsoleti? I fatti suggeriscono una situazione di stallo che si protrae da troppo tempo, una generale insostenibilità delle spese, alcune situazioni di crisi piuttosto incisive, uno scollamento tra esiguità del pubblico e faraonismo del sistema. Le colpe? Ahimè diffuse: in primis un quadro istituzionale a dir poco antiquato, con quote bloccate, un punteggio di qualità che incentiva allo spreco, un’assoluta mancanza di indicatori di performance; sul versante dei teatri una diffusa percezione che qualcuno pagherà, un bassa proporzione di attività sul totale delle giornate, contratti generosi; e ancora il peso delle agenzie, l’incapacità di rivolgersi a nuove quote di mercato, una certa statica ricorrenza nel ventaglio dei titoli. Quanto a lungo si può protrarre una situazione del genere anche alla luce delle perdite evidenziate, magari con un po’ di intenzione, dal Ministero? Di fatto, da molti anni la pentola della lirica italiana è a un passo dall’esplosione. Evitare il fallimento delle fondazioni, dopo averne dovuto officiare in più di un caso il commissariamento, è cosa saggia. E se il ridimensionamento del Fondo Unico e il blocco delle assunzioni sembrano misura drastiche, allora vuol dire che la questione non è ancora valutata nella sua gravità. Terapie possibili? Se il governo tiene duro, le cose da fare sono semplici: fissare obiettivi e indicatori di performance; rendere autonomi orchestra e coro, da legare ai teatri con un contratto di servizio che garantisca continuità e che consenta lo svolgimento di attività concertistica utilizzando il marchio della fondazione; introdurre gradualmente un sistema di repertorio che coesista con alcuni allestimenti nuovi e possibilmente innovativi; destinare una quota del finanziamento statale alla commissione di nuove opere; rafforzare ed estendere la formazione interna; incoraggiare la produzione e la vendita di beni e servizi connessi all’opera; soprattutto, incentivare l’accesso e far espandere il pubblico. E dare un’occhiata seria a quello che hanno fatto alcuni Sovrintendenti per cambiare marcia. Il decreto può essere un palliativo o un primo passo: forse è davvero il momento delle scelte.

Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto, Università di Catanzaro