Gli italiani, agli occhi degli stranieri, sembrano essere l’unico popolo capace di parlare di cibo anche quando mangia. L’iscrizione della dieta mediterranea nella lista del Patrimonio immateriale dell’umanità dell’UNESCO potrebbe addirittura rafforzare tale convinzione, visto che ora esiste un riconoscimento internazionale che ci autorizza a discutere di olio, pasta e pomodoro, a qualsiasi ora del giorno e della notte, senza dover più provare vergogna.
La decisione di istituire un’apposita convenzione dedicata alla salvaguardia del patrimonio culturale immateriale risale al 2003 quando gli Stati riuniti a Parigi per la 32esima sessione della Conferenza Generale dell’UNESCO, definirono come patrimonio immateriale “le pratiche, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, le capacità che le comunità, i gruppi e, in alcuni casi, gli individui, riconoscono come parte integrante del loro patrimonio culturale”.
Al di là delle polemiche che hanno accompagnato l’iscrizione nella lista della dieta mediterranea – sulla giusta estensione geografica dell’area di riferimento, oppure sulla sua reale esistenza -, il riconoscimento, atteso fin dal 2008 e giunto il 16 novembre 2010, offre all’Italia, come anche alla Spagna, alla Grecia e al Marocco, visto che la candidatura è stata presentata in maniera congiunta dai quattro Stati, la possibilità di trasformare il settore enogastronomico in uno degli asset portanti dell’economia nazionale, in generale, e dell’economia culturale, in particolare.
Il sistema produttivo legato all’industria del cibo muove ogni anno in Italia circa 200 miliardi di euro, con oltre 600 milioni di consumatori nel mondo che acquistano almeno una volta alla settimana specialità italiane. E’ finito il tempo in cui poteva apparire azzardato considerare ugualmente importanti da un punto di vista culturale un’opera d’arte e una creazione culinaria, ed è iniziata l’era in cui anche il cibo di qualità è parte delle cultural industries.

Vittoria Azzarita è caporedattrice di Tafter Journal