L’aspetto più sconfortante di questa vicenda della mozione di sfiducia al ministro per i Beni e le Attività Culturali è il carattere del tutto strumentale che la questione ha assunto nella dinamica parlamentare. L’Italia è, per ovvi motivi, un paese in cui, in via di principio, il tema della cultura dovrebbe avere un peso politico di primo piano, e invece al contrario è del tutto marginale. La conseguenza di ciò è che la nostra è una delle poche democrazie di mercato avanzate che non ha alcuna strategia, né alcuna iniziativa organica e coerente sul tema centrale dello sviluppo delle industrie culturali e creative, in un momento in cui ad esempio a livello comunitario è sempre più chiaro che in quest’ambito verranno creati molti posti di lavoro nell’Europa del futuro, e soprattutto molti nuovi modelli imprenditoriali, a fronte di una concorrenza già molto agguerrita da parte di vari paesi emergenti particolarmente dinamici.

Questa incredibile, offensiva inerzia si registra in un paese con un livello allarmante di disoccupazione giovanile, che pure trova nella cultura uno dei pochi ambiti nei quali gode di una notorietà globale e nel quale potrebbe, dovrebbe investire le sue risorse e i suoi talenti migliori. Ce ne sarebbe, quindi, da dire e da discutere (e soprattutto, da fare). Ma di tutto questo, naturalmente, nel dibattito parlamentare non c’è traccia – non a caso, si è svolto nel disinteresse generale e non ha prodotto argomenti e contenuti degni di nota al di fuori della cronaca politica.
Al massimo, da un dibattito parlamentare sulla cultura in Italia ci si deve oggi aspettare qualche ragionamento miope e banale sulla questione dei tagli, all’interno di un quadro generale di riferimento basato su strategie di sviluppo e valorizzazione culturale che ad essere generosi sono vecchie di vent’anni, ma che non vengono messe in discussione perché chi dovrebbe prendere decisioni su questi temi semplicemente non conosce lo stato del dibattito a livello internazionale, non conosce i modelli e le esperienze di riferimento, o non ne comprende la portata e le implicazioni di politica culturale e quindi economica.
La stessa opposizione, che pure ha sollevato la questione della fiducia, non ha certo contribuito a dare al dibattito il senso che avrebbe potuto, avrebbe dovuto avere. Non consola certo pensare che situazioni analoghe di grottesco immobilismo si riscontrano in tante altre dimensioni di primaria importanza della vita economica e sociale italiana. Il nostro paese sembra sempre più una nave senza timone, e pochi ambiti come quello culturale riescono ad esprimere questa crisi in modo tanto efficace e tanto visibile a livello internazionale. Qualche tempo fa il Times, toccando in modo caustico e provocatorio una questione importante di politica culturale relativa ad una delle nostre maggiori città d’arte, deplorava il fatto che purtroppo tale città si trova in un paese che possiede “una delle classi politiche più inette del mondo occidentale”, e lamentava che ciò fosse un danno per l’intera umanità, suggerendo, per scongiurare il peggio, di dare il patrimonio culturale della città in gestione ad una multinazionale straniera dell’intrattenimento che ne garantisse quanto meno una gestione efficace come parco di divertimenti a tema. Mi sembra proprio che tristi episodi come quello di ieri contribuiscano ben poco a togliere fondamento a questi sferzanti (e ahimè, sempre più frequenti e condiscendenti) giudizi della stampa globale (dài. su, tutti in coro: è tutta invidia, i migliori siamo noi, ecc. ecc.…).

Pier Luigi Sacco è Professore ordinario di Economia della Cultura, Università IULM di Milano