Trattandosi di Google la notizia non poteva di certo passare inosservata. Così martedì 1 febbraio molti di noi hanno appreso, attraverso una moltitudine di fonti, che il colosso di Mountain View aveva appena presentato un’altra delle sue sensazionali iniziative dall’evocativo nome di “Google Art Project”.
Cosa sia e come funzioni tale progetto è ormai patrimonio della conoscenza comune: una selezione di 17 musei – e non di tutti i musei del mondo, come l’espressione “esplora i musei di tutto il mondo”, scelta da Google per promuovere il progetto sulla homepage del proprio sito, lascerebbe intendere -, all’interno dei quali è possibile effettuare una visita virtuale grazie alla stessa tecnologia utilizza per Street View.
Eppure, dopo l’entusiasmo iniziale, visitando con maggiore attenzione il sito www.googleartproject.com ho provato una strana sensazione, quasi di insoddisfazione, come se questa volta Google avesse lavorato al di sotto delle sue potenzialità e possibilità.
In fondo ciò che “Google Art Project” permette di fare è un’esperienza a cui le nuove tecnologie ci hanno ormai abituato da tempo, grazie alla ricostruzione in 3d di edifici e ambienti interni e alla predisposizione di collezioni virtuali, sovente visibili sui siti internet ufficiali degli stessi musei.
Certo, obietteranno in molti, al contrario di quanto accadeva prima, “Google Art Project” permette di guardare immagini ad altissima risoluzione, oltre ad avere il merito di aver reso accessibili alcuni tra i più importanti luoghi della cultura anche a coloro che non potranno mai vedere di persona simili capolavori, per i motivi più disparati. Non potendo negare questo, dico però che se l’obiettivo ultimo di un gigante come Google è quello di rendere l’arte interattiva e di stimolare le persone a visitare i musei che hanno aderito, e che aderiranno, al progetto, la modalità scelta mi appare alquanto spicciola e poco consona ad un’azienda che dell’innovazione unita alla creatività ha fatto il suo principale cavallo di battaglia.

Vittoria Azzarita è caporedattrice di Tafter Journal