Allarme rosso per la sopravvivenza della cultura in Italia: ne riferisce un chirurgico articolo di Marilena Pirrelli sul Sole24Ore di due giorni fa, nel quale si mostra che il 55% dei fondi assegnati alle Soprintendenze e alle Direzioni Regionali non vengono spesi per “incapacità manageriale di programmare e monitorare la spesa del MiBAC”. Il quale, tanto per cambiare, lancia l’allarme.
Piuttosto che chiederci chi ne è responsabile, dovremmo cercare di capire che cosa non funziona in un meccanismo decisionale e operativo che definire obsoleto è un eufemismo. L’organizzazione dell’offerta culturale pubblica è tuttora tardo-crociana, e snobba con sussieguo una società sempre più cosmopolita e delocalizzata, in nome di principi da fumetto.
Qualche innovazione c’è stata, ma senza grandi effetti: la legge Ronchey ha attivato meccanismi perversi e non è riuscita finora a connettere i mercati della cultura; le soprintendenze speciali hanno fatto passare istituzioni problematiche attraverso lo specchio di Alice senza innovarne la sostanza e i meccanismi; la direzione della valorizzazione, accolta da bordate di dubbi preventivi, è stata lasciata senza domande tecniche e sta applicando vecchi trucchi di marketing manifatturiero per non far scappare i turisti di massa.
Soprattutto, rimane un dualismo molto forte tra i tecnici e i burocrati, in assenza totale di una strategia: l’offerta culturale, e la sua relazione con la domanda, è da decenni in preda all’emergenza permanente, senza che nessuno si ponga il problema del valore che la cultura dovrebbe rappresentare per l’Italia di domani. Il massimo del brivido riguarda le nomine, e nessuno si occupa degli strumenti. Ovviamente, guai a parlare di autonomia dei musei, di concorsi internazionali per i dirigenti, di incentivi ai professionisti e alle istituzioni.
Che fare? Il momento è cruciale: a fronte di una crisi a geometria variabile la domanda di cultura cresce senza precedenti; nel resto del mondo emerge un’attenzione inedita per la galassia culturale. E’ tempo di ridisegnare il sistema istituzionale, comprendendo che la mera protezione dell’esistente conduce al collasso. Se è così, iniezioni di denaro (peraltro non consentite dalla legislazione vigente, se recuperano i residui passivi o addirittura le cifre non stanziate) non servono a nulla se non precedute da una seria centrifuga istituzionale e da una coraggiosa individuazione degli obiettivi strategici della cultura in Italia.

Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro