40 anni fa, nasceva nel vicentino uno dei più importanti distretti orafi a livello mondiale. Nei ricordi di chi ha vissuto quel periodo, rimangono impresse le immagini di operai che, lavorando nelle prime industrie orafe nate già da qualche anno, acquistavano qualche grammo d’oro e, la sera, in cucina o nel garage, mettendo al lavoro tutta la famiglia, lavorava l’intera notte a produrre catename che veniva poi commercializzato dagli stessi titolari dell’azienda per cui quell’operaio lavorava. Nel giro di qualche mese, quell’operaio, sfruttando le marginalità del “lavoro nero”, della totale evasione fiscale e del basso costo del lavoro familiare, si trasformava rapidamente in imprenditore orafo.
Furono anni di boom economico per il distretto orafo vicentino, anni in cui la Fiera dell’Oro di Vicenza era una vetrina internazionale e fattore di sviluppo del territorio.
Erano anni di guadagno facile, nei quali contava più la quantità di ore di lavoro, la furbizia e l’astuzia dell’imprenditore che non il design, la comunicazione e tutte le cose che oggi sono diventate essenziali. Negli anni successivi, quando cominciò ad irrompere la necessità del marketing e della pubblicità e si iniziò a percepire che la competitività nel settore era elemento discriminante, la cultura imprenditoriale cominciò già a dare evidenza dei suoi limiti. Una parte degli imprenditori orafi la considerava uno spreco, e si tagliò fuori dal mercato diventando nei fatti produttori di serie B. Un’altra parte decise di investire, ma lo fece senza nessuna cultura della comunicazione, con politiche tragicomiche di investimenti folli su testimonial con i quali si trasmetteva più il senso di “potenza” dell’azienda, che non di comunicazione di prodotto. Segni di potenza esteriore, molto simili a quelli che si davano la domenica pomeriggio (unico pomeriggio non dedicato al lavoro) facendo uscire dal garage una delle due o tre Ferrari o Porsche parcheggiate lì per sei giorni alla settimana.
Oggi, in cui tutto è cambiato, dalle strategie di comunicazione al “contenuto” del prodotto, il settore è entrato in una crisi verticale.
L’ascesa del prezzo dell’oro non ha fatto altro che accentuare i problemi che stavano alla base della mancanza di una cultura imprenditoriale evoluta, che, peraltro, nelle stesse area si è sviluppata nel settore dell’abbigliamento con brand come Dainese e Diesel.
La sfida dei prossimi mesi e dei prossimi anni sarà quindi quella di recuperare la sapienza di una “industria artigiana” dell’oreficeria che permetta di riempire di contenuti e valori il “prodotto orafo”, di comunicarlo come oggetto di tendenza, e, sul piano delle strutture commerciali e produttive, di costruire filiere in grado di penetrare i mercati internazionali così come hanno fatto altri settori nel campo della moda e del design. Che si tratti di prodotti di lusso o di lusso accessibile ha poca importanza, e dove materialmente si produrrà ancora meno. Quello che conterà sarà la capacità di ricostruire l’identità di un prodotto ed inventare nuovi bisogni e nuovi mercati per soddisfarli.
Filiberto Zovico è editore di Nordesteuropa.it e direttore del Festival della Città Impresa