Su cosa litighiamo quando parliamo di Pompei? Di fatto, sui soldi. Mancanti, mal spesi, da distribuire, da nascondere. E quando i soldi arrivano, l’imperfezione del caso Pompei emerge in tutta la sua contraddittorietà. Certo, i circa cento milioni pescati dal barile POIN permettono una boccata d’aria a un sito in palese debito d’ossigeno, e funestato da una varietà di esperienze negative. Ma come era prevedibile scatenano anche appetiti e proteste: attenti alla tecnologia, guai alle università, non dimentichiamo le forze locali (magari non dimentichiamo neanche che in parte appartengono al club della criminalità organizzata), facciamo le nomine giuste. Spezzatino, in altre parole, e possibilmente indigesto. E’ chiaro che una volta reperiti i fondi si debba far riferimento alle urgenze, e si possa immaginare una qualche evoluzione del sito archeologico più importante del mondo. Ma forse sarebbe stato opportuno far piovere il denaro pubblico su un piano strategico di medio-lungo periodo che avesse riscritto gli obiettivi credibili, le regole del gioco, la pianta organica, i meccanismi di reclutamento, le modalità del monitoraggio e gli organi di controllo. Macchina complessa, vero. Ma indispensabile per trasformare un rudere gestionale affidato al caso in un pilastro dell’offerta culturale destinata innanzitutto alla comunità locale e nazionale, e di seguito a turisti molto diversi antropologicamente dai riccastri oleografici dei film anni Cinquanta. E’ il momento di farlo, e di farlo seriamente. La natura ha distrutto Pompei in poche ore. L’italico governo sta completando l’opera, per indifferenza e per miopia, da molti anni.

Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro