Arriva la fondazione francese che filtra finanziamenti privati esentasse, e tutti esultano: Pompei è salva! E’ contento il direttore generale per la valorizzazione, è soddisfatta la soprintendente archeologica di Napoli e Pompei, è felice il Consiglio Superiore dei Beni Culturali. Il sottosegretario rassicura, l’Unesco garantisce. E una cordata di imprenditori paga. Il nostro Paese, colto da questa notizia nel corso degli ultimi spasimi che lo stanno conducendo allegramente a fondo, potrebbe ricordare a sé stesso i disastri forgiati dalle cordate di capitani coraggiosi (per citare gli ultimi e più feroci, nell’impero delle comunicazioni e media e nel regno del trasporto aereo). E l’establishment culturale dovrebbe smettere di aggrapparsi all’elemosina senza prima intaccare la sostanza delle regole, e senza guardare avanti con la necessaria lucidità. Così, mentre nel mondo reale la cultura diventa sempre di più il driver della crescita economica e sociale anche attraverso la nascita di nuovi mercati, nel Belpaese si continua a inseguire la catena dei finanziatori: prima lo Stato (i cui fondi sono in estinzione), poi le imprese (le cui agognate sponsorizzazioni si aspettano invano da decenni), poi le fondazioni di origine bancaria (che stanno cominciando a fare da sé); rimane Lourdes, per chi ci crede; a ben pensarci, c’è una Madonna anche a Pompei. Ma se non si incide in misura radicale sulla struttura, sulle risorse e sulle regole del gioco la partita è già perduta: dare più fondi a un sito archeologico a dir poco problematico e caratteriale equivale a dare più medicine sbagliate a un malato cronico; non è aumentando la dose che gli si salva la vita, ma rimettendolo in piedi con un nuovo approccio e nuove terapie.

Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro