Il governo della cultura nel terzo millennio passa da diversi interrogativi. Uno, ma non l’unico, è quello del coinvolgimento dei privati, e quale sia il ruolo di questi, nella gestione delle Istituzioni culturali.
Recentemente l’assessore capitolino alla cultura Gasperini ha tassativamente negato la possibilità di privatizzare il Palaexpo. Nei mesi scorsi si vociferava, infatti, un affidamento in concessione della storica istituzione romana prefigurando scenari più o meno negoziali tra l’amministrazione comunale e i “privati”.
Uscendo dal caso specifico confinato alla attualità della capitale, può essere utile ragionare su qualche ipotesi di coinvolgimento dei privati nella cultura e per fare questo bisogna chiedersi: perché un privato dovrebbe impiegare le proprie risorse nella cultura in un momento per altro di difficile congiuntura economica? Non sarebbe meglio che li investisse in attività produttive che facciano sopravvivere il suo core business?
Nella cultura non si parla di “privati” in senso ampio. Le imprese, in tutto il mondo, sono giustamente interessate al profitto e non al mecenatismo, semmai quest’ultima attività è una delle tante ma non certamente quella prevalente.
Quando si parla di privati nel nostro paese ci si riferisce a istituzioni spesso miste come ad esempio le fondazioni o le società partecipate. Miste perché hanno una forma giuridica privata a tutti gli effetti ma non sempre i fondatori sono enti privati e la governance è in qualche modo pilotata dalla politica (o almeno la politica tenta di pilotarla).
Ci troviamo, quindi, di fronte ad una specie di paradosso: un ente pubblico da in concessione ad un privato una istituzione pubblica solo perché in questo modo può “risparmiare” sul bilancio, ma il privato è “di fatto” controllato (o controllabile) dall’amministrazione pubblica.
Sarà un’utopia, ma sono convinto che la partecipazione dei privati, quelli veri, al governo della cultura passi per alcune fasi che provo a sintetizzare: 1) Avere un’idea su quale sia l’identità del proprio territorio; 2) Avere un’idea di quali siano le strategie di medio periodo per lo sviluppo della città; 3) Avere un’idea su quale sia il ruolo della cultura in questo processo di sviluppo; 4) Far convergere gli interessi degli stakeholders (questo presupporrebbe identificarli con chiarezza) nel percorso di sviluppo individuato; 5) Far partecipare tutti al processo di cambiamento, dai cittadini alle grandi istituzioni, alle imprese; 6) Individuare e realizzare progetti operativi che percorrano la strada individuata e condivisa nelle fasi precedenti.
Per fare questo ci vuole una amministrazione illuminata, capace di ascoltare le esigenze del territorio, di interpretarle e di guidarle.
Se il dilemma tra pubblico e privato rimane confinato al praticissimo argomento di “chi ci mette i soldi”, procrastiniamo una serie di altri interrogativi forse più interessanti: le istituzioni culturali come possono essere governate in modo trasparente, equo, sostenibile? Come possono avere una missione culturale condivisa che integri le energie del territorio al fine del più ampio obiettivo dello sviluppo socio-economico? Come possono essere uno strumento di scambio e di arricchimento, non solo finanziario, per la collettività? Come possono dialogare proficuamente con i cittadini? Come possono contribuire meglio al benessere collettivo?

Giulio Stumpo è economista