Non che dalle parti dell’Olimpo manchino gli argomenti di discussione: da mesi qualcuno vorrebbe vendere le isole greche e certamente gli Dèi si sono preoccupati a immaginare i monti e le valli dei loro amori intasati da saune, campi da tennis e minigolf. Quanto alla Magna Graecia, la sua propensione commerciale è nota a tutti. Anche l’Anfiteatro Flavio volevano vendere, e un po’ di anni dopo il capo dell’erario italico si era deciso a cartolarizzare tutte le cose che gli sembravano beni culturali svendendole ai privati che volessero prestare sesterzi alla Repubblica. Vecchio vizio, quello di commercializzare la bellezza (e non indulgiamo in battute facili …). Adesso è il turno dei templi di Akragas, belli e imponenti, soffocati dall’amplesso letale del cemento e del ferro; perché non offrire il loro buon nome a qualche solido imprenditore? Magari qualche denaro arriva, così il parco archeologico prende una boccata di respiro. Ma che cosa si dà in cambio? Per vendere il buon nome è indispensabile una sana reputazione, e anche la disponibilità a farsi un po’ occupare dall’eventuale acquirente. Magari qualcuno sta pensando a far serigrafare l’immagine dei templi sulle borse di lusso? O a decorare la valle girgentina con i loghi dell’acquirente? E poi, anche ammesso che arrivi del denaro, come si potrà riuscire a destinarlo in un mondo imbalsamato da norme rigide, da prassi obsolete, da luoghi comuni e dalla consueta ossessione turistica? Non è meglio chiedere consiglio alla Sibilla libica, che in questi giorni è disoccupata? Senza cambiare le regole anche il denaro serve a ben poco.

Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro