E così il ponte sullo Stretto resterà un plastico, un sogno, un’illusione, forse anche una metafora. Ma non diventerà mai vero, con buona pace dei turisti che messinesi e reggini contavano di poter vedere mentre scattano foto al meraviglioso manufatto. Peccato? Certo, peccato aver sprecato così tanti soldi per studi di fattibilità controversi, peccato aver aizzato appetiti d’ogni tipo (basti pensare a quanto pesa un ciclopico movimento terra, un ventaglio ampio e variegato di espropri, una maxi fornitura di acciaio e cemento, un lungo scavo di gallerie). Peccato aver messo troppo a fuoco un’opera immaginata anche dagli antichi romani, perdendo di vista l’evoluzione delle cose come la sempre minore credibilità della conurbazione dello Stretto, la capacità di anticipare i tempi tipica della criminalità organizzata, lo sviluppo mondiale del traffico merci lungo le autostrade del mare, il valore crescente degli ambienti paesaggistici solidi e del disegno urbano coerente con l’identità del territorio.
Il ponte è stato, per un periodo anche troppo lungo, una vistosa metafora delle speranze ardite di una comunità troppo imbevuta di scetticismo, di furbizia a buon mercato, di oppressione dolorosa ma comoda, di renitenza alla crescita e alla strategia. E’ stato come quando si pensa che qualcuno salverà la patria e ci farà tornare felici. Sarebbe bastato guardare la mappa dello Stretto per vedere che il ponte avrebbe di fatto scavalcato d’un botto proprio le due città adagiate tra Scilla e Cariddi, trasformando quelle poche cose a dimensione umana in parcheggi per camion, depositi merci, stazioni di servizio e ferraglia d’ogni genere. Inutile dire che i tempi di percorrenza sul ponte o sui traghetti sarebbero stati sostanzialmente uguali: per arrivare alla campata alta ottanta metri avremmo dovuto attraversare una rampa in parte sotterranea e in parte sopraelevata, la cui durata avrebbe superato la sosta alla biglietteria dei traghetti.
Avrebbe generato dei cambiamenti irreversibili: il deturpamento del bel paesaggio dello Stretto (o di quello che ne rimane), la deviazione senza ritorno dei percorsi di tutte le specie migranti di mare e d’aria con un impatto devastante sulla catena biologica, l’aumento verticale dell’inquinamento atmosferico, sonoro e visivo. E avrebbe privato di prospettive quei pochi che ancora coltivano la speranza di normalità serena e costruttiva in uno dei luoghi più pigri del Mediterraneo. Certo, il mordente non sarebbe mancato; costruire una bretella monumentale più lunga di tre chilometri sospesa su una faglia imperscrutabile ma capricciosa avrebbe inoculato una suspense permanente, in un posto tuttora flagellato da memorie sismiche piuttosto scomode.
Soprattutto, il ponte avrebbe trasformato un’isola in una sorta di estremo brandello del continente europeo, facendo scomparire quelle uniche diottrie isolane che generano e giustificano bizzarrie rituali, ma anche fertilità creative e capacità interpretative. Il mare che circonda un’isola può risultare per molti una barriera invalicabile, ma per molti altri è uno spazio aperto senza limiti, che incoraggia l’immaginazione, spinge alla curiosità, invita alla contemplazione, induce al cosmopolitismo. L’isola non può essere periferica, è il resto del mondo a girarle intorno; con il ponte la Sicilia sarebbe diventata una periferia magari carica di memorie ma senza futuro. Gesualdo Bufalino lo scrisse un po’ di anni fa: il ponte fatelo, ma di libri.

Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro