Quando Cesare Brandi nel 1939 fondò l’Istituto Centrale del Restauro, realizzò un sistema complesso ed efficace che traduceva in razionalità, metodo ed approccio scientifico il concetto stesso di tutela del Bene Culturale, strappandolo alle pratiche artigianali incontrollate.

Il restauro scientifico, inaugurato dal pensiero brandiano, focalizza sull’intervento di restauro conservativo l’occasione per lo studio e la conoscenza dell’opera stessa, attraverso l’operatività che impone la presenza di professionisti preparati ed informati, in grado di interpretare i dati conoscitivi ed effettuare le scelte più opportune, nell’ambito del progetto di intervento programmato.

Dal criterio di responsabilità di tutela dei beni culturali, espresso da una sentenza della Corte Costituzionale (N° 9 del 13 gennaio 2004) e dal Codice dei Beni Culturali (art. 29 comma 6), deriva la regolamentazione della  professione (D.M.86/2009) che si acquisisce con formazione o laurea specialistica (D.M. 87/2009).

I restauratori ed i tecnici del restauro operano sui beni tutelati con le imprese specialistiche (OS2A – restauro di superfici decorate di beni immobili del patrimonio culturale e beni culturali mobili di interesse storico, artistico, archeologico ed etnoantropologico) caratterizzate da un alto profilo di qualificazione professionale degli addetti che prevedono precise percentuali di restauratori e di tecnici del restauro di beni culturali nell’organico aziendale.

Una solida teoria del restauro, la metodologia scientifica coniugata alla qualità operativa hanno condotto la cultura del restauro italiano ad un indiscusso riconoscimento in ambito internazionale, dove vengono particolarmente apprezzati e privilegiati i contributi progettuali, i professionisti e le imprese italiane, rese solide da un sistema di qualificazione estremamente rigoroso.

Si direbbe la situazione ideale per affrontare con successo qualsiasi tipo di intervento specializzato, invece in occasione di un restauro di grande visibilità come quello del Colosseo e proprio quando il mondo chiede all’Italia un cenno di credibilità, si pone in atto una pericolosa inversione di tendenza.

Le superfici marmoree del Colosseo e del Tempio di Antonino e Faustina al Foro Romano vengono considerate materiale da costruzione come se le loro stesse superfici millenarie non fossero pura e altissima testimonianza della decorazione architettonica, e si afferma che un’imprenditoria edile possa attuare senza danno quelle procedure che costituiscono il fondamento della formazione presso gli istituti Italiani di restauro.

Il restauratore, che fino ad oggi è stato considerato una ricchezza per la tutela, essendo allo stesso tempo intellettuale e artefice diventa un ostacolo, una sgradevole interferenza con il pieno e totale controllo del ciclo del restauro avocato da altre figure professionali e da una imprenditoria con interessi dilaganti.

Si sta così risolutamente emarginando, fino a esautorarlo, un sapere che per decenni ha costituito un’eccellenza del nostro paese, anche a livello internazionale.

Una ulteriore conferma del pericolo incombente è la costituzione di una “Task force” organizzata dal Ministro Bondi per far fronte alle emergenze di Pompei e che prevede la presenza di architetti, archeologi e operai.
Pompei è un’intera città, antica di 2000 anni e con 66 ettari di estensione, che necessita di restauri e manutenzione costante da affidare a mani esperte. Avrebbe bisogno di molti restauratori, assiduamente occupati nel curare le preziose opere e prevenirne i danni. Sarebbe importante, oltre ad un rafforzamento degli organici attraverso l’assunzione di restauratori, agire sui meccanismi di qualificazione dei professionisti e delle imprese che lavorano nel settore e che realizzano ormai la parte più consistente degli interventi. Non si comprende dunque come tra i componenti della “Task force”, ammesso che sia utile un’ennesima struttura commissariale, siano indicati persino gli operai ma non i restauratori.

L’Italia ha poco rispetto del suo patrimonio e sta perdendo il ruolo di esempio internazionale nel campo della conservazione. La situazione europea è certamente variegata, ma caratterizzata semmai da un’inversa tendenza alla crescita sul piano culturale, recependo proprio le esperienze della scienza del restauro italiana, anche per quanto riguarda la formazione (i restauratori italiani sono i più richiesti all’estero nei programmi formativi d’eccellenza).

La questione su cui ci si dibatte dunque è davvero spinosa e indicativa delle politiche culturali messe in atto nel nostro paese. In gioco, infatti, c’è non solo una questione di etica professionale, non solo il destino dei nostri monumenti, ma lo stesso concetto di tutela del patrimonio culturale, e se la legge non riesce a garantirne i massimi livelli che settanta anni di cultura del restauro hanno contribuito a costruire, vuol dire che è sbagliata e va cambiata.

L’iniziativa sul Colosseo che poteva rappresentare un esempio virtuoso delle varie qualità italiane, dallo sponsor a tutte le professionalità coinvolte a vario titolo, si sta trasformando in una operazione opaca, con possibili rischi per il monumento, una mortificazione per le imprese di restauro specialistico, e senza alcun risparmio economico.
Riteniamo necessario ripristinare la collaborazione, la possibilità di realizzare una filiera virtuosa, una rete di interessi produttivi, un volano di qualità reciproche, il rispetto per le proprie specificità contro il cannibalismo rivolto a settori di grande qualità ma anche di estrema fragilità, come quello del restauro specialistico.
Solo così potremo dare un cenno concreto di credibilità ed affrontare insieme il difficile futuro che si presenta, con serietà e disponibilità, con ragionevolezza e concretezza.

Carla Tomasi è Presidente dell’Associazione Restauratori d’Italia