Non ci aveva pensato ancora nessuno, anche se è palese che l’impianto della legge Ronchey, i meccanismi che ne derivano e la stessa interpretazione creativa dei servizi museali non funzionasse se non per caso. Non sorprende quindi la notizia della bocciatura, da parte del Tar del Lazio delle gare di assegnazione dei servizi aggiuntivi.

Qui nel Bel Paese si comincia a ragionare soltanto quando il fallimento delle cose è alle porte. Certo, Alberto Ronchey aveva lodevolmente smosso le acque in un sistema nel quale i musei erano considerati dei luoghi destinati alla protezione del patrimonio culturale ma quasi per niente alla sua fruizione. Lo stesso assioma in base al quale il settore pubblico è inefficiente ma sapiente, e prova ribrezzo nel maneggiare reddito, e invece il settore privato è ignorante ma capace di far di conto, è uno stupido dogma che molti continuano ad accreditare solo per pigrizia o per convenienza.
La cosa ha creato e rafforzato un dualismo conflittuale tra istituzioni culturali e concessionari dei servizi museali; ha generato una ripartizione feudale e concordata tra le righe del territorio in modo da evitare confronti e competizione; ha incentivato la costruzione di sacche di interesse legittimo ma deformante; ha raddoppiato la già bassa motivazione dei lavoratori museali. Soprattutto, non ha introdotto alcun criterio che spingesse la gestione dei musei a dialogare progettualmente con il resto del mondo. I bandi potranno essere riscritti, e che siano stati confezionati male non fa certo piacere e getta luce sull’annaspare di un ministero che naviga a vista senza attrezzi tecnicamente capaci di mandarlo avanti. Ma finché i musei restano uffici periferici dell’amministrazione e non diventano imprese autonome, responsabili e capaci di gestire direttamente il complesso delle proprie attività la cultura italiana perderà opportunità davvero notevoli.

Che fare? Ridisegnare il quadro istituzionale, lasciando alle soprintendenze il ruolo cruciale di organi tecnici di indirizzo e supervisione; rendere i musei centri autonomi di decisione e spesa, magari scegliendone i direttori con un concorso e in base alla propria capacità strategica e progettuale; sostituire le parole “privato” e “pubblico”, con gli aggettivi privatistico e pubblicistico: non importa chi fa le cose, ma come le fa; nei musei devono convivere con intelligenza e incisività obiettivi di interesse comune e opzioni commerciali, tutela dei beni raccolti ed estrazione del loro valore da parte dei visitatori, studio e immaginazione, poesia e concretezza. E’ già tardi.

Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro