Emergenza! La cultura è in pericolo! Quante volte abbiamo sentito o letto frasi così apocalittiche? Quello che chiamiamo cultura, e che nessuno tuttora osa definire con qualche precisione, naviga scompostamente in una sorta di emergenza permanente da molti anni.
I giornali, invece di raccontare che Anna e Marco si danno un bacetto nei pressi di Paolina Borghese o al cospetto della Primavera, rigirano il coltello nella piaga di muri crollati, cupole dissestate, debiti non pagati, nomine improprie, veri Cristi di falsi Michelangeli in tournée per le province dell’impero. E ogni tanto pubblicano pagine cariche di firme illustri che denunciano la prossima morte della cultura italiana.

Così il MiBAC, forte di un allenamento pluriennale volto alla creazione di etichette rassicuranti, sta per impiantare nelle turbolente interiora di un Paese che non vuole declinare la cultura al futuro un’Unità di Crisi pronta a intervenire nel caso tutt’altro che eccezionale di minacce serie alla sopravvivenza fisica del nostro patrimonio culturale. Prima ci pensava la Protezione Civile, adesso sarà il compito delle MiBAC Troops. Bene, benissimo.

E se qualcuno si facesse carico di disegnare una strategia? Magari una lista tecnica di priorità che metta in ordine risorse, azioni e fondi? Basterebbe poco: una mappa esaustiva dell’infrastruttura culturale con l’indicazione del grado effettivo di fragilità e di precarietà delle cose; un elenco del fabbisogno tecnico e tecnologico che possa garantire per via ordinaria e in modo fisiologico conservazione, restauro e soprattutto diffusione dell’offerta culturale; un protocollo d’azione che identifichi i responsabili di ogni struttura (anche nei siti Unesco spesso non si capisce chi decide che cosa); una griglia di parametri che permetta di valutare la performance progettuale e gestionale e ne faccia discendere le decisioni (tuttora ermetiche e opache) sull’assegnazione dei fondi pubblici.

Mentre si esegue la danza del rischio con tutti i riti apotropaici che la prassi richiede sarebbe il caso (se non ora quando?) di ridisegnare le regole, il reticolo istituzionale, le responsabilità e gli orientamenti strategici del patrimonio culturale italiano: dai beni archeologici all’arte contemporanea, dallo spettacolo dal vivo agli spazi urbani. Si tratta di un esercizio semplice e sempre meno differibile. Salvo non aspettare che lo spread culturale si impenni ulteriormente per giustificare ciò che in qualsiasi altra galassia sarebbe il frutto di decenza istituzionale, logica elementare e ragionevolezza culturale.

Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro