Da molto tempo ci vantiamo di essere migliori degli altri. Il patrimonio culturale, l’opera lirica, la cucina e i vini, la bellezza delle donne, l’arguzia degli uomini, perfino il catenaccio nei campi di calcio, non c’è area dello scibile che non ci spinga a mostrare i muscoli pensando che l’Italia sia stata creata prima e meglio degli altri Paesi.
Nelle classifiche fatichiamo non poco a risultare credibili. Anche lasciando stare quelle più pesanti (la libertà di stampa, la parità di genere, l’apertura dei mercati, l’innovazione industriale) ci rimanevano i gioielli di famiglia: arte, cultura e turismo. E magnifici premi Nobel in una varietà di discipline. E adesso?
Scivoliamo ogni anno nella graduatoria delle destinazioni turistiche, e proprio qualche giorno fa abbiamo emesso il nostro consueto rantolo nella graduatoria internazionale del soft power. Quattordicesimi, abbiamo guadagnato due posizioni dall’anno scorso ma siamo comunque in un’area grigia che attesta la nostra incapacità istituzionale e culturale di gestire le opportunità di crescita e di benessere.
La questione non riguarda il posto in classifica in quanto tale, ma il significato di una valutazione svolta attraverso indicatori oggettivi che mostra quanto poco ci importi delle cose che troppo spesso usiamo per gonfiare il petto. Il soft power è fatto di cultura, spettacolo, sport, ricerca e turismo. Musei e monumenti sono tantissimi, ma gestiti in modo antiquato e passivo; i teatri non mancano certo, ma risultano comunque burocratizzati e molto poco capaci di innovare, ragionando più come bacheche del passato; lo sport produrrà anche medaglie olimpiche ma soffre di un’infrastruttura precaria e talvolta assente; non parliamo della ricerca, considerata anche dalla recente legislazione una specie di gadget per l’industria anzichè la costruzione di un sistema di valori e di azioni; quanto al turismo, rimane una mera somma aritmetica di luoghi ameni e volenterosi visitatori.
Eppure, le risorse e i talenti che descrivono con una presenza incisiva e ammirevole il nostro Paese sono disseminate per tutto il territorio. Manca la visione strategica del potere politico, tanto centrale quanto locale, che spesso usa la cultura e il turismo come un banale dato dimensionale; manca l’approccio progettuale e coraggioso da parte di molti addetti ai lavori, che continuano a fondare la propria professione e le proprie lamentele sulla garanzia – sempre più precaria – di sostegno finanziario pubblico.
Così, mentre l’Italia continua a languire in una classifica che registra dinamismi inediti, perde l’ennesima occasione di mettere a sistema un palinsesto di risorse e di stili che potrebbe generare un solido valore e facilitare la crescita di una comunità nazionale sempre più ibrida, fertile e creativa. La cultura non va difesa dal nemico ma messa in circolo con acutezza e velocità. E’ quello che abbiamo fatto in passato, quando non ci preoccupavamo di vantarci e ci dedicavamo alle relazioni, agli scambi e all’invenzione di un mondo che risultasse bello in quanto efficace e generoso di opportunità.