macroromaFacciamo finta che il resto del mondo non esista, altrimenti ci mettiamo a singhiozzare subito. Glissiamo con eleganza su una serie di questioni che rivelano piccoli cervelli, grandi vigliaccherie e il consueto non detto ma sottinteso. Nella nostra sempre più triste provincia dell’impero tutto è un gioco di sotterfugi e allusioni, quando non di silenzi imbarazzati. Qualcuno prima o poi si arrabbia davvero.

Formalmente si tratta di un semplice passaggio di consegne di natura burocratica: il MACRO viene posto sotto le competenze del Dipartimento Cultura del Comune di Roma e sottratto alla giurisdizione della Soprintendenza che ne portava finora la responsabilità. Sostanzialmente siamo di fronte all’ennesimo gioco di prestigio all’italiana: una struttura molteplice, funzionale e bella, oggetto di interesse e di passione da parte di un’audience non soltanto romana, più volte al centro di ipotesi strategiche e gestionali cosmopolite e dinamiche, diventa ufficio periferico della pubblica amministrazione, rinunciando a qualsiasi orientamento culturale (le parole hanno un significato, e non è il caso di indulgere in attribuzioni improprie) e accettando di languire stancamente come spazio espositivo neutrale e asettico. Chi trova i fondi può organizzarci una mostra, o qualsiasi altra cosa che non comporti una spesa da parte dell’amministrazione municipale.

Non cadiamo nella trappola delle colpe: non tocca mai al cronista imbastire processi sommari. Usando un minimo di memoria e di ragionevolezza ci appaiono evidenti le patologie ormai incancrenite che attraversano l’Italia, basti pensare ai centri culturali aperti per ogni dove con spesa milionaria, resuscitando edifici industriali o palazzi pubblici senza un briciolo di indirizzo progettuale; benvenuti nelle nuove cattedrali nel deserto.

Limitando l’autopsia a Roma, troviamo una mappa costellata di spazi notevoli per valore e per estensione nei quali la regola è tirare avanti alla meno peggio, ospitando tutto quello che capita senza alcun costrutto, estendendo progressivamente il periodo silente tra una mostra e l’altra, confidando sul dinamismo di librerie e ristoranti. Come manca il reticolo di legami con il tessuto urbano, così manca del tutto l’imprescindibile connessione con il resto del mondo.

Ad aggravare un quadro davvero desolante sale una nebbia spiacevole fatta di questioni bizantine (fondazione o azienda? Pubblico o privato?), di brividi per il giro di nomine (architetto o storico dell’arte? Conservatore o progressista?) e di sussurri e grida connessi alle parrocchie, ai club o ai circoli cui si appartiene. Sul ponte del Titanic erano più seri.

 

Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro

 

 

Foto di LittleCloudyDreams