tritonebiancoIn senso comune, non artistico, per restauro s’intende l’intervento che rimette in efficienza un prodotto dell’attività umana, e in questo caso i restauratori della fontana del Tritone hanno preso troppo a cuore tale principio. Infatti la possente divinità marina sembra uscita ora dallo scalpello dello scultore.

Questo assolutamente è inaccettabile in ambito artistico, una condizione simile farebbe rigirare nella tomba Cesare Brandi, luminare del ‘900 in materia di restauro.

Uno dei principi fondamentali della teoria brandiana recita: “Il restauro deve mirare al ristabilimento dell’opera senza cancellare ogni traccia del passaggio dell’opera d’arte nel tempo.
È l’opera d’arte che condiziona il restauro e non l’opposto.
L’opera infatti ha una valenza storica come prodotto umano realizzato in un certo tempo e luogo”.
In altre parole quando si restaura un’opera d’arte si deve rispettare l’artisticità, il messaggio che ci trasmette e soprattutto il passaggio del tempo su di essa.
Se sono passati quasi 400 anni dalla realizzazione è giusto che gli effetti si vedano perché essi stessi sono diventati parte integrante del monumento.

La patina, cioè quell’azione di invecchiamento naturale che si forma col passare del tempo su di un’opera che si trova in uno spazio aperto deve essere in parte mantenuta e in parte rimossa. Va rimosso solo ciò che impedisce la lettura e mai bisogna arrivare alla crudezza della materia. Esiste un punto oltre il quale il restauro non può andare perché significherebbe cancellare l’azione del tempo che è parte sostanziale e fattore tenuto in considerazione dall’autore nel momento della progettazione.

L’intervento prevedeva la disinfezione della superficie e la rimozione delle particelle biologiche e calcaree, ma qui si è andati ben oltre tale limite riportando in vista la crudezza e il candore del travertino.

Sono contrario ad interventi di restauro così radicali.

 

 

Samuel Marcuccio è curatore e critico d’arte