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Discontinuità: è la parola chiave per comprendere l’andamento e l’esito finale delle elezioni per il comune di Roma, nel giugno del 2013. Il risultato ha parlato chiaro. Discontinuità, nei confronti degli anni disastrosi della giunta Alemanno, non votato neanche dagli elettori di centrodestra. Discontinuità, anche verso le ultime esperienze delle giunte di centrosinistra che, pur avendo non avendo fatto male in molti ambiti, sono indissolubilmente legate a una fase storica ormai definitivamente trascorsa.
La candidatura di Ignazio Marino ha rappresentato proprio questo: discontinuità. Un outsider lontano dalle diatribe interne al PD, interno a una cultura di sinistra e disponibile a occuparsi di questioni cruciali della vita cittadina anche schierandosi contro poteri fortemente consolidati.
Sulle politiche culturali, in particolare, il tema della discontinuità ha assunto una rilevanza significativa. Nei fatti, non solo la giunta Alemanno è stata messa duramente sotto accusa, ma lo sono state anche le politiche nazionali dei governi di centrodestra e delle larghe intese che proprio sulla cultura si sono abbattute con una veemenza degna di altre cause.
Roma è stata la città che ha pagato il prezzo più alto di queste scelte. Ma è stata una città che ha reagito, ha tentato di resistere e si è organizzata combattendo questa deriva che tutti sanno poter comportare dei costi altissimi per la partecipazione critica dei cittadini e per la vita democratica.
Oggi vediamo che la stessa forte spinta dal basso che ha portato all’elezione di questa maggioranza al Comune di Roma, si stia tramutando comprensibilmente in una forte pressione in termini di aspettative di cambiamento. A questa pressione se ne aggiungono altre: le difficoltà economiche e finanziarie della crisi attuale; gli attacchi e le polemiche di chi pensava di “contare di più” in una logica vecchia che la giunta attuale non vuole condividere e, naturalmente, le bordate mediatiche di chi è stato abituato a fare sempre il bello e il cattivo tempo nella città. Insomma: c’è di che preoccuparsi e non dormire sonni tranquilli.
La nomina di Flavia Barca alla guida dell’assessorato alla cultura, per molti aspetti ha rappresentato uno degli esiti della spinta alla discontinuità. Sarebbe sbagliato definirla “un tecnico”, nonostante la sua serietà e le sue competenze. Piuttosto si tratta di una “indipendente” saldamente ancorata all’interno di una cultura politica di sinistra con una rete qualificata di contatti nel mondo degli studi e della ricerca, in Italia e all’estero.
Dopo un periodo di assestamento, l’assessore Barca si è impegnata in un’agenda fittissima di incontri con gli operatori del settore. Ora arriva il momento dei segnali concreti anticipati da dichiarazioni di intenti chiari e forti.
Barca vuole cambiare metodi di governo nella cultura a Roma: bandi e concorsi per le nomine e trasparenza nella gestione. Tra non molto sarà la volta della sovrintendenza e la vedremo alla prova.
Vuole valorizzare il patrimonio archeologico e museale. Per questo sembra voglia allargare il campo agli investitori stranieri e privati. Cosa buona solo se la governance pubblica mantiene chiara la definizione di quei beni che sono e devono rimanere comuni e non essere privatizzati. Men che mai svenduti per usi privati, spesso impropri. Servono ai cittadini romani, italiani e di tutto il mondo. Appartengono a loro.
Ha dichiarato di voler implementare le politiche di decentramento coinvolgendo i Municipi e utilizzando il sistema delle biblioteche pubbliche come presidi culturali sui territori. E per questo ha voluto ridisporre dei fondi che Alemanno aveva fatto tagliare.
Si dichiara interessata a valorizzare i talenti sul territorio romano.
Infine, e non in ultima istanza, come ha recente dichiarato a un quotidiano, vuole occuparsi della domanda di cultura devastata in qualità e quantità negli ultimi vent’anni.
Grandi ambizioni. Non certo realizzabili nel ciclo di pochi mesi. Ma non è questo che le si chiede. Le si chiede piuttosto di assumere da subito il ruolo di indirizzo che le compete.
Di non perdersi nel balletto e nelle polemiche in cui sicuramente la costringeranno i media romani che vorranno parlare solo di nomine e di fondi. Insomma le si chiede di decidere.
Nulla potrà essere perfetto. Anche i bandi, in alcuni casi, potrebbero contenere in sé il morbo del disimpegno da parte dell’amministratore pubblico. E i fondi saranno comunque insufficienti. Ma ci sono gli spazi inutilizzati da mettere a disposizione. C’è da dare nuovo ossigeno alla cultura del contemporaneo. C’è da ripensare l’estate romana. C’è da ragionare sulla miriade di piccoli editori e sul circuito delle librerie indipendenti. C’è tanto altro ancora.
A Roma ci sono le risorse umane e intellettuali per costruire un sistema di collaborazioni che valorizzi la città nella direzione del recupero dello spazio pubblico, del bene condiviso secondo una chiara gerarchia di valori. Che sia consapevole che la cultura rappresenti un formidabile volano dell’economia e della vita sociale.
Certamente occorrono idee e progetti e occorre l’Europa. Ma occorre soprattutto costruire un’alleanza con chi in questi anni ha lottato per affermare la centralità delle politiche culturali nella vita della città; con chi opera e ha operato per dare alla gestione dei beni culturali quelle caratteristiche di razionalità, efficienza e trasparenza nella gestione, e quella reputazione necessari per vivere e crescere anche sul piano economico. Insieme sarà possibile farcela.
Gioacchino De Chirico è un giornalista culturale ed esperto di comunicazione