Mykola-Yaroshenko-The-PrisonerNon è la caccia alle streghe, anche se molti la evocano per difendersene. Quel viandante che passasse dall’Italia in questi mesi non potrebbe restare indifferente alla gragnuola di sospetti, accuse, avvisi di garanzia e rinvii a giudizio che colpiscono con ecumenico distacco politici e amministratori di ogni schieramento e di ogni settore. Non vogliamo né possiamo (nel senso che non abbiamo gli strumenti per valutare la cosa) emettere ulteriori sentenze o comunque giudicare. Però qualche domanda emerge comunque.

Tra i tanti, e tanti sono davvero, compaiono a tutte le latitudini della Penisola assessori, dirigenti e funzionari del comparto cultura, turismo, formazione e comunicazione, con accuse che vanno dall’abuso d’ufficio al peculato passando per truffa, corruzione e concussione. Ora, evitando di cedere al gossip o alla massificazione ci si può chiedere come mai tali reati possano attecchire in area culturale, con buona pace di tutte le frasi da Bacio Perugina che affollano gli orizzonti dell’arte italiana.

Naturalmente non si tratta di una deriva antropologica. Chi si occupa di cultura non è migliore né peggiore di chi si occupa d’altro. Ma non dimentichiamo che regole cattive e procedure opache possono dare una mano a chi vuole trasformare le risorse pubbliche in gruzzolo privato: poche e trasparenti regole potrebbero quanto meno minimizzare l’estro dei delinquenti. Il fatto è che il nerbo dell’azione pubblica in campo culturale rimane esclusivamente il sussidio finanziario.

Sono fondi pubblici erogati periodicamente a copertura di tutto il versante della spesa di ogni bilancio. Non c’è collegamento con specifici flussi di spesa, né con precise desti-nazioni dei sussidi stessi, né con componenti dell’intero progetto culturale. La maggior parte delle risorse culturali non ha un reference price: sappiamo quanto costa un sacco di cemento, un chilometro di cavo d’acciaio, un’automobile, un ettolitro di benzina. Ma il lavoro di un attore, un musicista, un regista o uno scenografo, così come di un curatore o esperto d’arte non hanno una tariffa oggettiva e stabile. La cosa vale pure per strutture, oggetti e materiali.

In sintesi, le regole del gioco sono nebulose e generiche, i meccanismi di valutazione e decisione sono variegati e instabili, il monitoraggio è di fatto assente e la sanzione non prevista o comunque non credibile. Con animo laico potremmo dire che l’emersione di reati amministrativi è conseguenza naturale del reticolo di norme e prassi che quasi invitano a una certa disinvoltura. Se poi siamo – come pure avviene in moltissimi casi – in presenza di persone oneste e di professionisti limpidi dobbiamo renderci conto che l’onestà non può bastare ad arginare il piano inclinato dello sfilacciamento finanziario: anche se nessuno ruba i conti della cultura vanno peggiorando senza alcun parametro di riferimento, e guai a discuterne le scelte, come se la libertà espressiva (sacrosanta) fosse mescolata in modo inestricabile all’arbitrio gestionale (devastante).

Finché le regole non cambiano le cose non possono funzionare. Eppure basterebbe poco: fornire infrastrutture, tecnologia e formazione anziché denaro; misurare l’andamento del prodotto culturale dalla durata della sua vita economica all’ampiezza del suo bacino territoriale; monitorare la congruità delle attività con i programmi; verificare la crescita del pubblico e la sua provenienza; incentivare le connessioni esterne; premiare le innovazioni creative. Se l’azione pubblica consiste in un sussidio tutti si possono autocertificare come professionisti della cultura; se il piano si sposta al sostegno in-kind solo i programmi credibili ed efficaci potranno essere realizzati. E la tentazione di delinquere finirà per annegare nella mancanza di appigli e pretesti.

 

Michele Trimarchi è Professore di Analisi Economica del Diritto all’Università di Catanzaro