C’è una definizione di interaction design semplice ed efficacissima, su cui vale la pena soffermare per un attimo l’attenzione. L’ha data Eyal Fried, studente dell’Interaction Design Institute di Ivrea e riassume il termine della questione -che di per sè è un salto nel buio- come “la missione impossibile di discernere cosa dovrebbe accadere (tra me e il mondo) da cosa è accaduto. E quindi adattarvisi”.
Probabilmente sarà  proprio l’interaction design a modificare più di ogni altra cosa il paesaggio urbano nei prossimi anni: è una rivoluzione già  in atto ed è una rivoluzione affatto rumorosa. Più che un cambiamento radicale si tratta di uno slittamento, ma con risultati ben percepibili. La maggior parte degli “ambienti intelligenti” che ho visto non avvertono la presenza delle persone (1), notava Nicholas Negroponte nel 1995: più o meno l’interaction design si innesta -e s’innesca- a questo punto ed è in questo punto che aggiunge un anello sostanziale alla catena. Ovvero quello che rende possibile il dialogo tra abitante e tutte quelle apparecchiature e oggetti che nell’insieme formano l’ambiente che ci circonda.
Una rivoluzione paragonabile a quella determinata ”“in ambito informatico- dall’arrivo della prima interfaccia user friendly, fattore imprescindibile nella diffusione dei personal computer in ambiente lavorativo, ma soprattutto “domestico”. “Arrivati al 2004, interaction design è l’unica maniera possibile per declinare il termine design” sostiene Stefano Mirti, architetto. Che ormai il cambiamento sia in corso appare evidente in certi alcuni progetti di edifici già  realizzati: un esempio per tutti la Torre dei venti di Toyo Ito a Yokohama (ultimata nel 1986) che registra e rende visibile il variare dell’intensità  del rumore circostante.

Si ridefinisce lo skyline cittadino e non si tratta solo di cambiamenti macro. Può essere altrettanto interessante e stupefacente pensare ad una serie di piccoli oggetti -e soluzioni- che ugualmente modificheranno l’ambiente in cui ci muoviamo. Qualche traccia ha provato a delinearla l’interessante mostra di prototipi di studenti dell’Interaction Design Institute di Ivrea, evento tra i pochi degni di nota nel Fuori Salone della Design Week milanese di quest’anno. Idee per lo più semplicissime ”“con grande utilizzo di LED, sensori e della tecnologia dei telefoni cellulari- sul filo dell’ironia. A dispetto dell’algida automazione.

Così la Mia 500 (di Dave Slocombe e Natasha Sopieva) utilitaria dall’anima digitale, manda sms, scarica mp3 mentre il serbatoio si riempie di benzina (grazie ad una sorta di juke box installato nella pompa). E, una volta parcheggiata, proietta all’esterno un montaggio random delle immagini filmate e memorizzate durante i precedenti tragitti percorsi. O ancora tutti i differenti usi e declinazioni delle superfici sensibili al tatto, quelle che una volta sfiorate si animano: dal mattone luminoso Light brix (di Helen Evans e Heiko Hansen), alla parete gonfiabile che cambia colore se percossa con un apposito sasso (Creative Collision di Giovanni Cannata e Anurag Sehgal) alla sedia che rivela quanto tempo siamo rimasti seduti o da quanto siamo andati via, al portachiavi che trasmette suoni (due delle Smart Skins di Rikako Sakai). Fino a Table portation in cui alle possibilità  di iterazione innescate dal tocco si aggiungono quelle di un sistema di proiezioni. Lo scenario è quello ”“comunissimo- di un bar o di un ristorante, il risultato è una sorta di gioco di società . Che inizia con il gesto semplicissimo ”“e del tutto istintivo- di poggiare le mani sul ripiano di uno dei tavolini.

Note:
(1) Nicholas Negroponte Being Digital, 1995 trad it Essere Digitali, 1995, ed Sperling & Kupfer, pag 221