“Stiamo cercando di fare un gioco che non segue nessuna delle convenzioni che ci infastidiscono così tanto e che, secondo noi, tolgono molta della gioia che si prova giocando”. Con queste parole Michael Samyn e Auriea Harvey presentano 8, che secondo le loro stime verrà distribuito durante il 2007. Samyn e Harvey, prima separatamente (come zuper! e entropy8), poi assieme (come entropy8zuper) hanno portato avanti lungo gli anni Novanta una duplice carriera di artisti e di designer di prodotti multimediali.
Nel 2002 fondano Tale of Tales, uno studio di game design. Il nome traduce il titolo di una celebre raccolta di racconti, Lo cunto de li cunti del napoletano Giambattista Basile (1634): ma si presta bene a raccogliere tutta l’eredità delle narrazioni a cornice (dalle Mille e una notte al Decameron) e a connetterla emblematicamente alle narrative aperte e non lineari dell’epoca del multimedia.
Così 8, il loro primo gioco, si ispira alle differenti tradizioni della bella addormentata nel bosco, immergendole in una atmosfera mutuata dalla pittura orientalistica di moda nell’Ottocento. Il risultato sarà un videogame anomalo e curiosamente innovativo che, come dichiarano gli autori, intende anteporre il “play” al “game”, l’esperienza di gioco al raggiungimento di un obiettivo, il divertimento alla vittoria. Un gioco in cui la protagonista, una bambina sordomuta di 8 anni, non è un semplice avatar del giocatore, ma un personaggio parzialmente autonomo, il cui comportamento può essere condizionato, ma non determinato, dal giocatore. Un gioco senza livelli, senza menu, senza parole; una struttura non lineare, in cui il divertimento nasce dall’esplorazione dei sentieri in cui si articola la narrazione.
Se gli autori riusciranno a tradurre questi esperimenti in forme semplici e familiari, adatte al vasto pubblico cui il gioco – che verrà distribuito come qualsiasi altro gioco ”“ si rivolge, lo scopriremo nel 2007. Per il momento, 8 è un affascinante work in progress, un progetto aperto e condiviso, un approccio inedito al game design. Ed è già una mezza vittoria.

Come nasce “The Tale of Tales”? Per quale motivo un collettivo di artisti ha sentito l’esigenza di organizzare un team indipendente e lavorare a un videogame?
Non siamo mai stati solo un duo di artisti. Eravamo anche uno studio di design. Ma non abbiamo mai distinto troppo le due cose. Quando disegniamo un sito, vogliamo che abbia un significato. E quando facciamo arte, vogliamo che sia in grado di comunicare.
Ci sono sempre stati elementi ludici nel nostro lavoro. E siamo sempre stati interessati a creare ambienti virtuali di diverso tipo. Quando la web technology ha cominciato a stagnare e la rete nel suo complesso a sembrare una via di negozi, ci siamo rivolti a una tecnologia ancora in rapida crescita, e che consentiva applicazioni molto più sofisticate: il 3D interattivo in tempo reale.
Ci eravamo anche un po’ stufati di fare, da un lato, lavori su commissione per guadagnare e, dall’altro, arte senza alcun compenso economico (è noto il fallimento del nostro tentativo di fare, on-line, dell’arte pay per view con Skinonskinonskin). In rete la gente vuole tutto gratis. Eppure, non si fanno problemi a pagare un disco in scatola in un negozio. E’ una contraddizione che abbiamo accettato perché ci consentiva di fare qualcosa di nostra invenzione ”“ e di ottenere un compenso per questo (il che significa che possiamo permetterci di prendere con più serietà il nostro lavoro).

Il completamento del progetto richiederà alcuni anni di duro lavoro. Mi potete spiegare quali saranno le tappe di questo processo?
Penso di poter affermare che ci siamo lasciati alle spalle la prima tappa fondamentale, quella della pre-produzione. Abbiamo steso uno scenario, disegnato il gioco, fatto una demo e messo insieme una squadra di produzione. Ci sono voluti due anni. Abbiamo trovato editori interessati a investire in questa produzione (il che ci ha preso altri sei mesi). A questo punto, non ci resta che fare il gioco. Quando sarà pronto (fra più o meno un anno), gli editori si occuperanno del marketing e della distribuzione. E la gente potrà comprarsi il gioco e goderselo, si spera.

Quanto la comunità della rete è coinvolta in questo processo? Qual’è il suo ruolo, se ne ha uno? C’è ancora una comunità della rete?
Quando abbiamo cominciato a lavorarci, attorno al 1995, eravamo ispirati da una ambiziosa ed intelligente cricca di persone con ideali quasi utopistici. Al passaggio di millennio, internet ha cominciato a somigliare sempre più al cosiddetto mondo reale: rumoroso, noioso e sporco. Non è più il rifugio sicuro dei buoni e dei gentili che era solito essere. Detto questo, lo usiamo ancora, forse per nostalgia. È un bel mezzo di discussione, in cui verificare la risposta delle persone a certe idee. Internet fa ancora parte del nostro processo di lavoro: per esempio, il nostro design document è un Wiki, e comunichiamo con gli altri membri del nostro team grazie a diverse tecnologie di rete.

La scena videoludica vede un continuo fiorire di team indipendenti, impegnati, come voi o Selectparks, in giochi impegnativi oppure in piccoli software, addirittura instant games di ispirazione politica o d’attualità (penso a Newsgaming o a Molleindustria). Cosa pensate della scena del gamedesign indipendente? Qual’è, secondo voi, il suo futuro?
Riuscirà a ritagliarsi uno spazio accanto alle grandi multinazionali del settore? In realtà, non vedo come questa scena indipendente possa avere qualcosa a che fare col game design. Sembrano piuttosto utilizzare i giochi ironicamente per questo o quest’altro proposito. Non vedo alcun segnale che questa gente prenda sul serio l’arte di fare videogiochi. Credo che si siano già ritagliati una nicchia per se stessi. Meglio: riempiano una nicchia che stava già lì. Gli accademici che studiano videogiochi sono molto ricettivi a questa roba. Sono sicuro che preferiscono guardare intelligenti parodie degli sparatutto che Doom o Half Life. Se questo gli attribuisce una qualche autorità in campo di giochi, il game design e la game culture sono un’altra questione.
Penso che queste attività siano parte del mondo dell’arte, cioè parte di un sistema autosufficiente e marginale che ha tagliato ogni legame con il mondo abitato dagli umani perché è il suo unico modo per sopravvivere.
Anche all’interno dell’industria videoludica c’è una scena indipendente. Di solito lavora a giochi che possono essere prodotti con pochi mezzi e che a volte sviluppano un design innovativo così estremo da poter essere apprezzato solo da altri designer. In generale, come nella community open source per altri tipi di software, la scena del game design indipendente è una scusa per l’industria videoludica pet non aver a che fare con limiti morali, etici o addirittura estetici.

Vi sembra ci sia in atto una trasformazione dell’industria videoludica e del modo di intendere i videogame come oggetti culturali?
Noto una certa polarizzazione in atto. I grandi editori divengono sempre più grandi. E i loro prodotti sono per lo più robaccia che piace alle masse. Man mano che diventano più imponenti, molti piccoli editori semplicemente smettono di cercare di competere con loro. Per questo, credo, giochi più originali e sperimentali avranno sempre più possibilità di essere prodotti in futuro, nel momento in ci riusciamo a trovare modi per farli con budget relativamente modesti. Non sono sicuro di aver capito cosa intendi con l’espressione “videogame come oggetti culturali” e cosa significhi pensarli in questi termini. Me lo puoi spiegare?

Beh, non è facile… Credo di essere vittima (più o meno consapevole) del pregiudizio per cui il videogioco sia una forma culturale minore, ma che lentamente “cresce” e si raffina, diventando cultura e arte. Che i primi giochi siano robaccia che soddisfa al massimo l’esigenza di divertirsi sparando a qualche cattivo, ma che si stiano sviluppando narrative sempre più affascinanti e complesse. Che si stia passando dal treno dei Lumiére agli indiani di John Ford. Immagino che non siate del tutto d’accordo…
Per completare il riferimento al cinema, bisogna anche essere consapevoli del fatto che il primo cinema hollywoodiano era considerato ai suoi tempi bassa cultura popolare. Ora consideriamo tutti quei film alla Bogart dei grandi classici. Crediamo che la società abbia bisogno di sviluppare una comprensione dei nuovi media prima di poterli apprezzare.
Detto questo, siamo perfettamente d’accordo con te che la maggior parte dei videogame sono di bassa qualità artistica. Ma non crediamo che questo migliorerà in generale. Credo che nel futuro ci saranno più giochi di grande qualità artistica, ma anche molte più schifezze.
Del resto, le schifezze fanno parte della cultura tanto quanto i capolavori. È una triste realtà che nella società moderna l’opinione di tutti è valutata allo stesso modo e poiché, statisticamente, la maggioranza ha intelligenza e sensibilità limitate, la cultura moderna sarà, per la gran parte, di bassa qualità. Specialmente oggi che l’educazione estetica e intellettuale non è più considerata una priorità, avendo i nostri governanti democratici scoperto i mass media.

“8” è un ambizioso progetto di sintesi tra una raffinata narrativa e esperienza videoludica. è l’arte che cerca di rinnovarsi tramite la forma-videogioco o il videogioco che cerca di elevarsi al livello dell’arte?
Bella domanda. Credo che sia entrambe le cose, e anche di più. Penso che “8”, come molto del nostro precedente lavoro, sia un tentativo di far venire alla luce una forma di arte non moderna. Pensiamo che l’arte moderna sia arrivata a un vicolo cieco. Il Postmoderno l’ha dimostrato, ma non è stato in grado di provvedere una soluzione. Non credo che i futuri storici dell’arte si cureranno molto dei musei e delle gallerie del tardo XX° secolo. Per scoprire qualcosa della nostra cultura, guarderanno il cinema, la pubblicità e il design. Come saprai, molto di quanto viene prodotto in questi media è spazzatura. E una delle ragioni di questo è che troppe persone realmente creative si nascondono con codardia dietro le barricate delle riviste d’arte e delle vetrine delle gallerie.
In altre parole, è vero, stiamo cercando di portare un’esperienza artistica a un pubblico più ampio. Penso che i videogame siano arte. Nella maggior parte dei casi sono cattiva arte. Ma anche gran parte dell’arte è cattiva arte. Per cui, i giochi non hanno bisogno di “elevarsi al livello dell’arte”: sono già abbastanza in basso. Alcuni giochi sono addirittura meglio di molta arte. E certa arte è meglio di molti giochi. Se c’è qualcosa che ha bisogno di elevarsi al livello dell’arte, è l’arte stessa.

The Tale of Tales sarà un videogioco un po’ anomalo: nessun livello, nessun punteggio, nessuna competizione, un design raffinatissimo basato sulla pittura orientale, una narrativa che si ispira alle varie versioni della ‘bella addormentata’, un personaggio che evolve in risposta all’interazione dell’utente: è il vostro modo, anti-ideologico e estetico, di rispondere all’ideologia aggressiva e militarista dei videogiochi mainstream?
Non definirei “8” anti-ideologico. La scelta di are un gioco non violento e non competitivo che si concentra sul piacere è di per sé una affermazione ideologica. Il fatto che dia un’immagine positiva di una cultura ispirata dall’Islam è anch’esso non privo di implicazioni ideologiche in questi giorni. Direi addirittura che fare un gioco che tenta di essere esteticamente piacevole sia essa stessa una scelta ideologica.
I giochi mainstream, come tutte le altre espressioni culturali mainstream sono semplicemente lo specchio di una società. Non credo che Bush abbia attaccato l’Iraq dopo aver giocato a Counterstrike. Se un’industria si comporta in maniera aggressiva, è perché c’è una larga tolleranza (se non apprezzamento) di questo tipo di comportamento nella società. Per questo, se ci opponiamo a questo nel nostro lavoro, non stiamo semplicemente attaccando l’industria dei videogame, ma la società in genere, credo.
I paesi occidentali stanno diventando sempre più conservatori ed aggressivamente destrorsi. In Belgio ci si riferisce a questa evoluzione dicendo che le persone diventano sempre più acide. Col nostro lavoro, cerchiamo di opporci a questo inacidimento dando piacere alla gente. Il piacere è la dolcezza in grado di dissolvere l’acidità.

Che sistema di distribuzione adotterete per “8”?
“8” sarà distribuito da diversi editori. Per questo, non siamo soli del decidere di questo. Sarà sicuramente disponibile nei negozi dove la gente potrà trovarlo debitamente inscatolato, visto che è questo che sembra piacergli tuttora. Ma se riusciamo a farlo, ci piacerebbe distribuirlo anche in rete, per chi dispone del lusso della banda larga.

Approfondimenti:
http://tale-of-tales.com

http://entropy8zuper.org
www.selectparks.net
www.newsgaming.com
www.molleindustria.it

Domenico Quaranta (Brescia, 1978) è curatore e critico d’arte. Redattore della rivista “Cluster”, cura una rubrica sull’arte in Rete sul portale “Exibart” e collabora ad “Arte e Critica”. Suoi contributi sono stati pubblicati su “Boiler”, “Noemalab”, “Titolo”. Ha realizzato, per la casa editrice Skira, i volumi monografici Magritte e Warhol. Per “Vita e Pensiero” ha pubblicato NET ART 1994-1998. La vicenda di Äda’web. Vive e lavora tra Brescia e Torino.