Intervista a Marco Senaldi, filosofo e critico d’arte

Siamo eredi di un’interpretazione statica e unilaterale del fattore cultura, frutto della tendenza ad identificarla tutta per lo più con l’area umanistico-letteraria Che significato ha, dal tuo punto di vista, la parola “cultura” oggi nel nostro Paese?
Mi hanno rivolto la stessa domanda tempo fa durante un dibattito televisivo. Mentre stavo per rispondere mi sono immediatamente reso conto che qualunque cosa avessi detto sarebbe stata un’affermazione fatta dal classico “opinionista televisivo”. Con questo intendo dire che, nel caso della cultura, ci troviamo di fronte ad un oggetto bizzarro che, quando tentiamo di definirlo, in realtà è lui che definisce noi.
Detto con termini più altisonanti, il luogo da cui formuliamo la nostra enunciazione prevale sempre sul contenuto enunciato. In altre parole, siamo già sempre immersi nella cultura che ci sforziamo di definire. Per fare un riferimento “alto” a Lacan -ma il concetto è senza dubbio duchampiano, per fare un richiamo all’arte contemporanea- si potrebbe anche dire che “non esiste metalinguaggio”. Non esiste più -o forse non è mai esistito- uno spazio privilegiato, un punto di vista meta-storico, meta-linguistico, meta-fisico dal quale esprimere un giudizio sulla cultura “come oggetto”.
La presunzione di pensare che esista questo spazio è ciò che caratterizza la (falsa) posizione dell’intellettuale, ossia dello specialista della cultura. Insomma: intellettuali e opinionisti commettono due violazioni concettuali simmetriche e analoghe: da un lato gli uni si chiamano sempre “fuori”, gli altri sono già da sempre acriticamente “dentro”. In realtà , ciò con cui abbiamo a che fare è una cultura immersiva, il che però può anche essere considerato una condizione privilegiata. All’interno di questo spazio culturale non esistono più solo due dimensioni: l’alto e il basso, il davanti e il dietro, il passato e il futuro, la destra e la sinistra, ma n-dimensioni entro le quali occorre imparare a muoversi in modo nuovo.

Si parla tanto -da sembrare ormai una specie di ritornello- della fusione di culture alte e culture popolari, dello sdoganamento di alcuni fenomeni underground (e del loro sfruttamento commerciale), dell’inserimento di contenuti “non ortodossi” all’interno di corsi universitari e master. Come studioso e come docente, qual è la tua idea in proposito?
Se è vera questa ipotesi della cultura come spazio multidimensionale, allora è abbastanza logico pensare che l’opposizione tra le vecchie dimensioni, per così dire aristoteliche, di sopra e sotto, alto e basso, elitario e popolare, per addetti ai lavori/per le masse, perda il suo significato. Il problema diventa come muoversi in questo contesto privo di cornici concettuali e che cosa farsene degli artefatti culturali che ci vengono disordinatamente incontro. Uno dei filosofi che in questo momento stanno affrontando questo problema in modo radicale, cioè Slavoj Zizek, ha coniato l’interessante concetto di anamorfosi ideologica.

Che cosa significa?
Significa afferrare un artefatto culturale ed evitare la duplice trappola da un lato dell’adesione spontanea e acritica e dall’altro dell’analisi falsamente distaccata. Ciò che si tratta di fare è piuttosto collocare l’oggetto con cui abbiamo a che fare -che sia un libro, un film, un’opera d’arte, una tendenza, un programma televisivo- sullo sfondo delle sue stesse possibilità mancate e/o censurate, nel contesto delle proprie contraddizioni.

Puoi farci qualche esempio?
Si tratta, ad esempio, di considerare un film come Blade Runner non solo in sé, ma in rapporto al finale più inquietante concepito da Ridley Scott nel suo Director’s Cut, nonché in rapporto al testo originale di Philip Dick da cui il film era stato tratto. In questo modo si può vedere come ciò che solitamente noi chiamiamo “cultura” sia in effetti uno spazio profondamente contraddittorio, una specie di Zona alla Stalker, per citare un altro capolavoro cinematografico. Gli stessi concetti di “cultura alta” e di “cultura popolare” andrebbero sottoposti ad una “anamorfosi ideologica”: allora si vedrebbe bene come ciascuno di essi si definisce meno in relazione al suo opposto quanto in relazione alla contraddizione che ha dentro se stesso. Un altro esempio: un giovane artista emergente ormai affermato in Italia e all’estero come Francesco Vezzoli ha recentemente presentato, all’interno di quel sofisticato contenitore di tendenza che è la Fondazione Prada di Milano, un’installazione (Comizi di non Amore) il cui contenuto ultimo era il ri-facimento dei classici stilemi del più tradizionale enterteinment televisivo di prima serata, con tanto di pubblico caciarone, ballerine scosciate e bei ragazzi a torso nudo. Viceversa, durante la prima edizione del più famoso e più popolare dei reality show italiani, cioè Grande Fratello, ad un certo punto i partecipanti furono invitati a replicare una delle performance che hanno segnato la storia dell’arte d’avanguardia del secondo Novecento: le celebri Antropométries di Yves Klein. Al fondo del desiderio inconscio della cultura sofisticata sta la cultura pop. E viceversa.

E’ stato teorizzato l’avvento di una “terza cultura”, anello di congiunzione tra la cultura umanistica e quella scientifica, “separate in casa” da qualche secolo. E sembra che gli strumenti digitali di manipolazione delle informazioni e le reti telematiche abbiamo favorito questo processo, mettendo in contatto un sapere di tipo tecnico-pratico con la sfera teorica, grazie anche ad una rinnovata predisposizione al lavoro di squadra. Si tratta di una teoria che condividi?
La separazione tra il sapere scientifico e quello umanistico appartiene all’insieme degli pseudo dualismi feticistici, non meno di quella tra cultura alta e cultura bassa. Anche qui è istruttivo osservare in che modo il cosiddetto “lavoro di squadra” è stato utilizzato ad esempio dal principe degli scienziati contemporanei, cioè Stephen Hawking. Con il suo famigerato progetto SETI Hawking ha proposto a qualunque possessore di un PC in qualunque parte del globo di utilizzare una piccola parte di capacità di calcolo del suo computer (quella solitamente usata per i programmi salvaschermo) per creare una sorta di megacomputer planetario in grado di decrittare possibili segnali radio provenienti dallo spazio. E’ chiaro che con questo progetto Hawking intende occuparsi di problemi quali l’esistenza di altri esseri intelligenti oltre l’uomo, e da ultimo dell’esistenza di un ipotetico Dio – che erano evidentemente i temi da sempre appartenenti a quella interessante branca della scienza medioevale denominata teologia. Ancora una volta, nel cuore stesso del pensiero scientifico, troviamo il suo esatto opposto, il nucleo del pensiero umanistico. L’attuale disponibilità della tecnologia digitale non cancella affatto questo genere di contraddizioni, anzi semmai le rende ancora più evidenti.

L’utilizzo del medesimo strumento -il computer- da parte di scienziati e umanisti è un fattore rilevante?
Il fatto che tanto il ricercatore scientifico dedito alle scienze “dure” (dalla fisica, alla biologia, ecc…) quanto lo studioso umanista o persino il narratore o il poeta, oggi condividano completamente l’uso del computer
come strumento di lavoro, ribadisce quanto abbiamo detto sopra sul concetto di cultura “immersiva”. Lo si vede bene anche nell’evoluzione stessa del computer, da “elaboratore elettronico” a “terminale”: all’inizio si trattava di processare di dati “oggettivi” (provenienti dal mondo “là fuori”), oggi si tratta di confrontare continuamente il nostro sapere con altri utenti nella Rete (il “mondo là fuori” siamo proprio noi). In questo senso nessun lavoro oggi, né umanistico né scientifico, può non essere di équipe. Ma questo cambia radicalmente i termini del concetto stesso di “lavoro” e di “ricerca”: il vero “oggetto” di studio è diventato il Soggetto. Facciamo due esempi, appartenente l’uno alla cultura umanistica l’altro a quella scientifica: recentemente un’équipe di zoologi, impiegando strumenti informatici, ha fatto una scoperta veramente interessante perché non consisteva nella scoperta di una nuova specie mai classificata di formiche, ma nella scoperta del fatto che moltissime specie di formiche erano state classificate due, tre o anche più volte con nomi diversi! L’oggetto di una simile ricerca non sono evidentemente i simpatici insetti, ma il Sapere stesso. D’altra parte, è noto come la maggior parte degli scrittori e dei poeti attuali, accanto alla propria produzione letteraria, tenga, spesso quotidianamente, dei diari virtuali (i cosiddetti blog) accessibili ai lettori e in costante colloquio con essi. Anche in questo caso il concetto di “opera d’arte” cambia radicalmente per diventare un colloquio costante del quale alla fine non è più possibile dire chi sia l’autore. In altre parole: il digitale non costituisce una terza cultura rispetto alle (presunte) prime due, ma mette in luce il carattere già-da-sempre “riflessivo”, e “immersivo”, della cultura come tale. La cultura non che “facciamo”, ma che “siamo”.

Tu ti sei spesso occupato di divulgazione della cultura e dell’arte, soprattutto nella sede apparentemente più difficile cioè la televisione commerciale. Qual è la tua personale ricetta per conciliare contenuti e comprensibilità, cultura e appeal?
Se mi avessi rivolto questa domanda qualche tempo fa avrei risposto senza dubbio in modo diverso. Considerando però quanto abbiamo detto sopra e l’intima crisi di identità che caratterizza gli attuali prodotti culturali, direi che attualmente la sola ricetta sarebbe quella di riproporre (ammesso che ci fosse qualche produttore abbastanza coraggioso per farlo) il più classico dei programmi culturali televisivi vecchio stile. Come L’approdo, con gli esponenti più paludati della cultura “autentica”, il Poeta, l’Intellettuale, lo Scienziato, il Filosofo…Il mio indelebile ricordo è legato ad un programma in bianco e nero di cui non ricordo il nome, in cui, in un severo e spoglio studio televisivo anni sessanta, Pier Paolo Pasolini veniva intervistato da un serioso interlocutore e rispondeva che gli era impossibile parlare di cultura televisiva da dentro la televisione. Il problema sarebbe reperire degli individui che avessero il coraggio di incarnare queste figure mitiche che appartengono ormai al passato. Il massimo che può accadere oggi (e in parte, non lo nego, è una colpa della quale anch’io, ahimè, mi sono macchiato nella mia esperienza televisiva, sebbene con moderazione) è che il Filosofo esprima qualche augusto concetto sul problema del taglio dei blue-jeans o che la rockstar di turno sia invitata a chiarire la sua adesione alla dottrina cabbalistica. Non vorrei con questo apparire eccessivamente conservatore, ma all’interno di quell’autentico sistema di arte contemporanea che è oggi la televisione occorrerebbe, forse anche solo per farsi notare, un tocco -per quanto possibile- di “classicità”…

Approfondimenti:
www.impackt.it
www.fondazioneprada.org
www.hawking.org.uk

Marco Senaldi è filosofo e critico d’arte. Ha pubblicato, tra gli altri: Lo spirito e gli Ultracorpi. Vicissitudini della Ragione tra i sintomi dell’Immaginario (Franco Angeli, 1999), Maccarone m’hai provocato. La commedia italiana del piccolo Sé (Bulzoni, 2002), Enjoy! Il godimento estetico (Meltemi, 2003) e Van Gogh a Hollywood – La leggenda cinematografica dell’artista (Meltemi, 2004). Ha curato diverse mostre di arte contemporanea tra cui Cover Theory (Piacenza, Officina della Luce, 2003); scrive su Flash Art ed exibart.onpaper. Insegna Fenomenologia dell’arte contemporanea all’Accademia Carrara di Bergamo e collabora alla cattedra di Estetica dell’Università Statale di Milano-Bicocca. È stato autore di trasmissioni televisive di arte e cultura contemporanea per Canale 5 e RaiTre. Ha ideato e dirige con Sonia Pedrazzini la rivista di contenitori e contenuti ‘Impackt’.