Intervista a Cristian Valsecchi

Iniziamo dal convegno Master incontra Master, svoltosi a Rovereto in gennaio. Quale panorama si è delineato dal confronto tra docenti e allievi dei maggiori master culturali italiani?
Un risultato significativo dell’incontro è dato dal fatto che si è riscontrata una generale difficoltà , inconsapevole o consapevole, nel definire la figura del manager culturale.
Nel primo caso, a mio avviso, manca da parte di alcuni direttori di master, una adeguata riflessione preliminare sul tema, con il risultato che spesso la professione del manager culturale viene confusa con quella dell’organizzatore culturale, rendendo pertanto inadeguata la metodologia formativa dell’aspirante manager. Nel secondo caso, invece, emerge chiaramente che altri direttori, consci del fatto che la formazione di un manager destinato ad operare nel settore della cultura comporta problematiche e specificità che non consentono l’adozione acritica dei modelli sviluppati dall’economia aziendale, sentono la necessità di individuare nuovi percorsi formativi, che tuttavia devono essere sperimentati e valutati.
Il discrimine tra un approccio consapevole e inconsapevole alla formazione manageriale (che influenza evidentemente il livello qualitativo del master) è secondo me fondato su tre elementi essenziali:
– etica professionale e senso di responsabilità : l’attivazione di un master comporta, da un lato, per la comunità un costo economico e, dall’altro, per gli allievi un investimento di tempo e di denaro giustificato dalle aspettative che gli stessi si pongono rispetto al proprio futuro professionale; mentre troppo spesso, la scelta di attivare master o corsi di formazione sembra rispondere più ad esigenze di marketing o di collocamento del personale docente anziché all’effettiva necessità di preparare professionalità destinate ad essere realmente collocate nel mondo del lavoro;
– ricerca: è fondamentale che un master sia connesso ad una specifica area di ricerca dell’istituto che lo attiva, in modo tale da avvalorare i contenuti della proposta didattica; la ricerca deve peraltro essere svolta in modo sistematico e continuo, e riguardare sia le problematiche del settore in oggetto, sia l’adeguatezza delle metodologie formative;
– contatto con il mondo del lavoro: è fondamentale che gli istituti di formazione dialoghino con le organizzazioni culturali, al fine di recepire e valutare i profili professionali necessari alle stesse.

Com’è cambiato, secondo lei, l’universo dei beni culturali negli ultimi anni e, di conseguenza, quali sono le figure professionali di cui necessita?
Negli ultimi decenni abbiamo assistito ad una progressiva estensione delle funzioni dei beni culturali che, da patrimonio di pochi, sono diventati patrimonio di tutti.
L’aumento del livello culturale medio e del reddito medio pro capite, nonché l’incremento del tempo libero a disposizione dei potenziali utenti, sono elementi che hanno favorito un significativo incremento della domanda di cultura, e delle aspettative del pubblico relativamente al consumo culturale.
Al tempo stesso, il settore culturale è stato caratterizzato da una crescente offerta di cultura, il che ha alimentato una sorta di “competizione” in ambito culturale, anche a fronte di pressanti richieste provenienti dagli stakeholders.
Ciò ha comportato la necessità di investimenti finalizzati da un lato alla promozione delle attività connesse alla gestione dei beni culturali, rendendo necessario il ricorso al marketing, dall’altro al miglioramento dei servizi verso il pubblico, sollecitando lo sviluppo di alcune attività in termini di management service.
Tutto ciò a fronte di una progressiva riduzione dei finanziamenti pubblici. Quest’ultimo aspetto ha determinato, per le organizzazioni culturali, la necessità di affidarsi a esperti nella ricerca dei finanziamenti, pubblici e privati (i cosiddetti fund raisers).
I fenomeni che ho brutalmente sintetizzato ed il conseguente moltiplicarsi delle figure professionali ha aumentato la complessità della gestione delle organizzazioni culturali, con la conseguente necessità di introdurre professionalità capaci di gestire una organizzazione evoluta rispetto alle precedenti (manager culturali). Molte nuove figure professionali sono invece generate dall’avvento della new economy, che in certi ambiti ben si sposa con il settore culturale.

Che caratteristiche deve avere il “manager della cultura” oggi? Che formazione ha e che skill dovrebbe acquisire?
I contesti e i settori della cultura nei quali il manager è chiamato ad operare sono tra loro talmente diversi che non è a mio avviso possibile individuare un unico percorso formativo (a seconda dei casi, per esempio, il manager potrà avere una formazione umanistica o economica).
Basti pensare alle diverse logiche che guidano il sistema cinematografico o discografico, da quelle che contraddistinguono invece quello museale o teatrale.
Credo tuttavia che una determinante delle capacità manageriali sia riconducibile alla flessibilità con la quale il manager riesce da un lato a confrontarsi con il mutare dei tempi e delle situazioni, ragionando quindi non in termini statici, bensì processuali, e, dall’altro, a modellare le proprie competenze e i propri strumenti in funzione degli obiettivi peculiari perseguiti dall’organizzazione nella quale opera e del contesto nel quale sviluppa la propria attività. Il tutto, abbinato alla capacità di coordinare un team di lavoro e, dunque, di relazionarsi nell’ambito di una struttura in cui il capitale umano è determinante.

Quali sono le reali possibilità di inserimento nel mondo del lavoro per un manager di questo particolare tipo?
Il settore culturale si sta aprendo lentamente alle problematiche gestionali, ma non è ancora in grado di assorbire la forza lavoro in modo significativo. Ciò vale in particolare se valutiamo le possibilità di collocamento in strutture quali musei, teatri, nei quali c’è ancora una certa resistenza ad integrare i propri staff con figure professionali dedicate agli aspetti più strettamente gestionali.
Esistono tuttavia un numero sempre maggiore di associazioni, di operatori e di società la cui attività è destinata ad offrire servizi al sistema dei beni e delle attività culturali. Pensiamo alle società di comunicazione e di marketing, piuttosto che a quelle che svolgono attività di ricerca fondi, oppure alle banche che sviluppano prodotti di investimento e servizi legati ai beni culturali e alle arti visive. Se allarghiamo il campo dell’indagine al mercato del lavoro nel suo complesso – costituito dall’universo di attività che gravitano intorno al mondo delle organizzazioni culturali – e non ci limitiamo a considerare unicamente la possibilità di inserimento diretto, troviamo un numero sempre crescente di possibilità occupazionali.
Non solo, ma talvolta la difficoltà degli operatori economici non è tanto quella di assorbire forza lavoro, quanto piuttosto di trovare persone adeguatamente preparate.
Un ulteriore aspetto da considerare in relazione alle effettive possibilità di inserimento professionale è che la personalità dell’individuo gioca un ruolo determinante. Ci si può formare con ottimi master, acquisire solide competenze teoriche e pratiche, ma è fondamentale una forte motivazione di base ed una notevole intraprendenza.

La formazione in questo campo, nella specifica forma del Master, risulta davvero efficace? Oppure l’esperienza sul campo resta l’unica forma di training possibile?
Il master è un efficace strumento di formazione, a condizione che le logiche che stanno alla base della sua attivazione e che il modo in cui viene strutturato e sviluppato tengano conto dei requisiti che ho già indicato rispondendo alla prima domanda.
Una formazione teorica specialistica è anzi in grado di dare un valore aggiunto all’esperienza sul campo, al punto che le organizzazioni culturali sentono sempre più l’esigenza di garantire anche ai propri collaboratori adeguati percorsi di formazione e di aggiornamento. La professionalità non deve essere definita nei termini di un traguardo che si conquista e si acquisisce in un momento puntuale, ma è il frutto di un processo continuo di miglioramento e di arricchimento individuale da alimentare attraverso esperienze teoriche e pratiche.

Che percentuale di “masterizzati” riesce ad inserirsi nel mondo del lavoro?
Non sono a conoscenza di dati aggregati relativi ai master di management culturale, ma certamente, si tratta di percentuali molto basse (in particolare se analizziamo l’equivalenza tra il percorso di studi e l’attività effettivamente esercitata). In parte, ciò è dovuto ad alcuni fattori evidenziati più sopra.
Da un lato, la proliferazione di master in management culturale non mi sembra attualmente compatibile con quello che il mercato del lavoro può offrire. Per di più, questo fenomeno genera una certa diffidenza anche da parte delle istituzioni culturali rispetto all’efficacia con cui molti di essi sono in grado di formare persone adeguatamente qualificate da inserire nella propria struttura. Dall’altro, la percentuale sarebbe certamente superiore se gli allievi dei master imparassero a considerare il mercato del lavoro nel settore culturale in modo un po’ più ampio di quanto non facciano attualmente. Ribadisco inoltre che l’intraprendenza e la motivazione individuali sono due elementi fondamentali per riuscire ad inserirsi in questo settore.

Questo numero della rivista si concentra sulle “nuove professioni”. Esistono professionalità inedite nel campo dell’industria culturale?
Allo stato attuale, la stessa figura del manager culturale può considerarsi inedita. Così come le professionalità connesse alla ricerca fondi. La complessità che stanno assumendo molte organizzazione impone spesso un coordinamento tra più progetti che vengono sviluppati contemporaneamente, e dunque la necessità di affidarsi ad un project manager. Sono tutte figure di cui sentiamo parlare da tempo anche in ambito culturale, ma che costituiscono un dato ancora limitato in termini occupazionali.

Riferimenti:
www.tsm.tn.it

www.puntomac.it

Cristian Valsecchi è Responsabile Affari Generali della GAMeC di Bergamo (Galleria d’Arte Moderna e contemporanea); Segretario Generale di AMACI (Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani) e docente di Economia dei beni e delle attività culturali presso l’Università degli Studi di Bergamo.