Italia terra di cultura e di buongustai. Da sempre sono queste le due caratteristiche che fanno del nostro Paese una delle mete turistiche più ambite nel mondo. Ma se l’aspetto culturale implica di per sé, una valenza storico- artistica per la quale il territorio italiano rappresenta, da solo, il 70% di tutto il patrimonio culturale mondiale censito dall’ Unesco, un discorso diverso si deve fare per quanto riguarda l’enogastronomia.
La gastronomia -e in parte anche l’enologia- è stata per anni relegata in un ambito più che altro folcloristico, mentre la legislazione nazionale non ha riconosciuto al comparto, dal punto di vista normativo, quella valenza culturale e socio-economica che indubbiamente gli è propria. Inoltre, negli ultimi anni, l’enogastronomia ha permesso di riscoprire e salvaguardare numerose tradizioni e culture del nostro territorio, altrimenti assorbite dalla sempre crescente standardizzazione del gusto.
E proprio partendo da questo movimento di salvaguardia dei cibi e delle tecniche di coltivazione dalle trasformazione delle tradizioni locali, l’associazione Slow Food, in collaborazione con la Regione Piemonte e la Regione Emilia – Romagna, ha dato vita alla prima Università al mondo di Scienze Gastronomiche. Attiva da ottobre 2004, in due sedi, una a Pollenzo (vicino Bra, terra delle Langhe e dei vini tra più prestigiosi d’Italia), l’altra a Colorno (vicino Parma, polo dell’industria agro alimentare del centro-nord), l’Università di Scienze Gastronomiche si propone come il primo polo internazionale di formazione culturale gastronomica e come punto di incontro di tutte le discipline che trattano l’alimentazione. Unica nel suo genere a livello internazionale, l’Università nasce quindi prima di tutto come risposta alla scarsa considerazione di cui la gastronomia ha sempre goduto in ambito accademico, e in secondo luogo per garantirle il giusto valore culturale e socio-economico. Tra le materie di studio coesistono i saperi scientifici quali l’agronomia, la zootecnia e le stesse tecnologie alimentari, con quei saperi umanistici connessi alla cultura del cibo come la storia e l’antropologia. Sia in Italia che nel resto d’Europa, i programmi formativi danno sempre più spazio allo studio e alla conoscenza del cibo come strumento per ritrovare e tramandare la storia e la cultura di un territorio. Malgrado ciò non esistono centri universitari specializzati, né nomi di materie e titoli di studio che si richiamino alla gastronomia.
Facile immaginare l’immediato successo del progetto: già prima dell’inizio dei corsi erano giunte alle due sedi universitarie domande di pre-iscrizione da tutto il mondo: Stati Uniti, Canada, Brasile, ma anche Germania, Svizzera, Gran Bretagna, e Finlandia (i posti disponibili sono solo 40 all’anno). Il corso universitario favorisce la nascita di nuove figure professionali che potranno soddisfare le richieste sempre più numerose del mercato enograstromico e da quello agroalimentare. Sì perché rispetto agli altri istituti che si occupano di alimentazione, come ad esempio la tradizionale scuola alberghiera, qui non si formano gli chef ma dei professionisti con una conoscenza teorica e tecnica dei cibi, unitamente ad una preparazione sul campo, impartita a contatto con allevamenti, vigneti e cantine, industrie e laboratori artigianali.
Di fronte al successo di questa nuova facoltà di studio, ci si domanda quanto abbia inciso l’ormai collaudato sistema Slow Food in questo progetto, soprattutto per quanto riguarda la trasformazione e il rilancio del concetto culturale di agricoltura. Questa iniziativa, al di là dell’aspetto meramente accademico, rappresenta un progetto più ampio di valorizzazione e promozione del nostro territorio nazionale nelle sue diversità e peculiarità ; Consente un ritorno alle origini, a quel turismo rurale di cui tanto si parla oggi, dove si salvaguardano coltivazioni in via di estinzione, e ci s’impegna a rilanciare una agricoltura sostenibile. In definitiva rappresenta uno strumento in più per conoscere e rispettare il territorio in cui viviamo e il modo in cui ci è stato tramandato nei secoli.
Malgrado i buoni propositi insiti nell’iniziativa, c’è da chiedersi se non sia solo l’ennesimo tentativo di togliere un po’ di giovani al mondo della disoccupazione per “parcheggiarli” in studi che non garantiscono uno sbocco professionale certo. La sfida dell’Università è proprio questa: formare nei prossimi anni delle figure professionali realmente inseribili nel mondo del lavoro, promuovendo al contempo il Made in Italy, attraverso la conoscenza della nostra tradizione enogastronomica.

Riferimenti:
www.unisg.it/ita

www.slowfood.it