Agire in maniera creativa in un contesto sociale è un’azione che chiunque può fare attraverso strumenti di uso comune: cellulari, videocamere, computer. Di conseguenza nel campo delle arti la competizione con la tecnologia è molto forte. L’introduzione di tecniche della comunicazione e l’avvenuta sincronia fra sperimentazione artistica e tecnologia ha portato all’introduzione di queste comuni azioni creative all’interno del percorso espositivo ed attraverso le opere d’arte contemporanea. Ma l’arte manifesta delle differenze rispetto agli oggetti. Prendiamo l’esempio di qualcuno che voglia comperare un oggetto qualsiasi. Difficilmente questi opterà  per una scelta a basso quoziente tecnologico. Come dire: se comperi un nuovo elettrodomestico non puoi aspettarti un oggetto a basso livello tecnologico. Se comperi un’opera d’arte sì. In qualche modo nell’arte contemporanea la comprensione della sua necessità  tecnologica non è avvenuta. Esiste un’accademia perigliosa, un’università  altrettanto ostile, un sistema museale spesso ottuso, vuoi per incapacità  dei singoli ma più spesso per la sua stessa costituzione. Il processo di verticalità  tecnica nell’arte è comunque inarrestabile, ma nascosto.
Proprio nell’indagare lo status dell’opera attuale, dove la tecnologia del presente è base fondante, ho lavorato alle applicazioni delle nuove tecnologie nei rispettivi ambiti della cura critica e della creazione artistica. In particolare mi riferisco al testo Manuale del Curator, Teoria e pratica della cura critica, (Gangemi 2004), da me recentemente pubblicato, in cui alcuni dei temi sulle relazioni fra tecnologia, potere politico e creatività  artistica vengono dibattuti. In fase sperimentale queste ricerche sono state incentrate su una serie di mostre “Laboratorio” dichiaratamente proiettate nella definizione di cosa sia un’opera ad alto quoziente tecnologico e quali condizioni determina nella comune fruibilità . In certo modo sappiamo da tempo che con la tecnologia possono farsi delle opere ma non abbiamo ancora misurato la ricaduta sul pubblico di queste continue innovazioni. In particolare, riferendoci all’arte contemporanea ed alla sua sperimentazione attraverso i nuovi media, dobbiamo considerare che stiamo trattando un “oggetto” di per se stesso simbolico.
L’intromissione delle nuove tecnologie ha modificato il modo di valutare e di fruire l’opera d’arte. Ad un coefficiente molto alto di tecnologia corrisponde un parametro molto elevato di democratizzazione della realizzazione artistica. Al gesto umano, quello della pennellata e dello scalpello, si sostituisce la capacità  di usare a proprio piacere strumenti tecnologici e riuscire a farli interagire.
Mi sembra anche naturale che una società  in cui chiunque può intervenire, grazie alla tecnologia, per definire e indirizzare la produzione televisiva chieda, o comunque produca, un’arte tecnologica che è sostanzialmente proiettata ai desideri del pubblico. Questa sensibilità  nei confronti del pubblico può apparire solo erroneamente una finzione, una posa snobistica o una simulazione sporadica. Si tratta veramente delle conseguenze inarrestabili dell’impatto della società  telematica nei costumi e nelle ambizioni del pubblico. Non a caso queste tematiche hanno prodotto una Biennale del 2003 dal titolo “La dittatura dello spettatore” in cui le forme d’arte meno sperimentali soffrono della mancanza di comprensione. Quell’oggetto incomprensibile, quella scultura minimal ha un “interessante peso culturale” a chi proprio non ne vuole sapere di sforzare il proprio pensiero. La tecnologia invece spazza via ogni remora. A questa siamo abituati. Chiediamo l’estratto conto da ogni angolo di strada, filmiamo e fotografiamo a ritmo continuo, si capisce bene come tutti siano sollecitati da qualche minimo interesse creativo attraverso la tecnologia.
Il pubblico si pone quindi nei confronti dell’arte tecnologica con un atteggiamento già predisposto. Ne capisce quasi sempre la perizia, ne distingue gli scopi e ne sa usare gli strumenti. Nel ciclo di mostre di cui accennavo è stato realizzato anche un evento espositivo che aveva come caratteristica quella di lasciare liberi i fruitori, il pubblico, di realizzare da sé l’esposizione. Si trattava di un’installazione plurima interattiva e multimediale che puntava in tempo reale, attraverso una connessione ad alta frequenza, ad uno sterminato magazzino di opere video e di computer art. In un altro caso l’opera proiettata poteva essere articolata nello spazio intervenendo con semplici SMS. Estremizzando questo modello si può dire che una mostra ad altissima tecnologia può diventare una mostra self service. In fondo perché no? Abbiamo gli strumenti e la tecnologia per poter realizzare mostre ed installazioni in cui ciascuno selezioni, leghi ed esponga ciò che gli sembra più interessante, in cui quindi da pubblico si diviene performer creativi. Tutto ciò naturalmente comporta dei cambiamenti nelle relazioni fra autore, pubblico e curatore.
Una mostra ad alta tecnologia può essere realizzata senza aver mai incontrato l’autore, con delle virtuali che poi si espongono concretamente. Può essere dislocata, virtuale, autoreferenziale. Musiche, foto, filmati e altro materiale possono essere facilmente distribuiti in spazi lontanissimi tra loro nel medesimo istante. Si tratta di modelli in fase sperimentale della cui futura realizzazione in opere complesse possiamo soltanto immaginare la portata, ma in cui naturalmente non sarà lasciato spazio alla contemplazione inerme, ma si chiederà, perché è nel desiderio del pubblico, che questi intervenga senza complessi d’inferiorità.

MLAC www.luxflux.org/museolab/museo.htm
l Museo Laboratorio di arte contemporanea della Università degli studi di Roma “la Sapienza” è volto a far conoscere, promuovere, tutelare, studiare, valorizzare l’arte contemporanea internazionale. E’stato ideato, progettato e realizzato da Simonetta Lux nel 1985, nell’ambito di una sua precisa (ma flessibile) teoria della ricerca e della didattica, con un primo obiettivo: creare e affermare la necessità del rapporto con l’artista e con l’opera d’arte.

www.luxflux.net
www.gangemieditore.it/cat043_p73_l4.htm

Domenico Scudero è curatore, storico e critico d’arte contemporanea. Ha indirizzato le sue ricerche nell’ambito della Cura critica, e sullo stesso argomento ha conseguito il Dottorato di Ricerca “Arte di confine” in Sviluppo e trasformazione della cura espositiva presso l’Università di Roma “La Sapienza”. È docente di Metodologie storico-critiche curatoriali (2002-2003; 2003-2004) e Curatore del MLAC, Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dal 2001, nella stessa Università di Roma. Fra i suoi libri Avanguardia nel Presente, Lithos 2000, Inés Fontenla. Alla fine delle utopie, Lithos 2002, L’alba elettronica, Lucia Di Luciano (con Simonetta Lux) Lithos 2002, Maurizio Bolognini, Installazioni, disegni, azioni, Lithos 2003, Manuale del curator, Gangemi 2004.