Per esempio, la scuola. Il luogo dove si impara. Insomma, dovrebbe. Cioè, dovrebbe non solo apprendere ma imparare anche a comunicare. Leggi, studi, poi sei interrogato, allora devi disciplinare un linguaggio adatto all’esposizione. La scuola, no? ce la ricordiamo tutti.
Ma quando mai si impara, figuratevi se si comunica qualcosa. Per questo poi, dopo, ci sono altre scuole specifiche: università , master in comunicazione, stage. Specializzate nella comunicazione. Metà della nostra vita la spendiamo così, nel tentativo di comunicare qualcosa agli altri. Nell’altra metà , generalmente, ci rinunciamo. Ecco, per esempio la scuola, come dicevo, almeno nella mia esperienza, insegna poco. Quello che si impara lì è del tutto accidentale. Perché la scuola (quella italiana in special modo) è tutto un commento. Non si leggono i testi, ma i commenti sui testi. Oppure si chiosano i commenti. Un florilegio di commenti. Soprattutto la scuola, organo base della comunicazione, non ha fiducia né nel testo che si va a leggere né nel lettore che a questo si avvicina. Pensa (la scuola) che c’è troppa differenza: da una parte c’è il sommo poeta dall’altra lo scapestrato studente. Un divario incolmabile. Bisogna diminuire il gap, ecco allora che appare il commento critico. Cosa ricordiamo di Leopardi? Che è uno straordinario poeta, pure divertente, un antropologo civile e lucido? No, ricordiamo quello che ci hanno spiegato di Leopardi: il suo pessimismo, prima naturale e poi cosmico (mi pare). Ricordiamo non le sue pagine ma un pesante commento.
Per quale motivo dunque dovrei in futuro comunicare ai miei figli qualcosa di Leopardi? A che mi serve quello che mi resta di lui, il pessimismo cosmico e naturale (o viceversa)?
Bisognerebbe dunque cambiare modo. Provo a ripartire. Dunque, la scuola. Il luogo dove si dovrebbe leggere, studiare e poi essere interrogato. Bene, questo luogo dovrebbe rifondarsi. E via via si dovrebbero rifondare tutti i luoghi di mediazione critica (perché anche questi risultano scolastici) Il punto di partenza dovrebbe essere: non l’interrogazione ma la necessità di interrogarsi. Cioè, se sei colpito da un racconto (ti sei interrogato), solo dopo sei in grado di comunicare la tua esperienza. Di questo tratta in fondo l’arte: una comunicazione tra esperienze. Ho letto molte metafore sul senso dell’arte. Non a scuola naturalmente, dopo, accidentalmente. Ebbene, una mi è rimasta impressa. E’ quella di Freud davanti al Mosè di Michelangelo. Guardava questa statua e pensava: cosa esprime lo sguardo di Mosè? Paura? ira? Si stava arrabbiando o calmando? E mentre cercava di capire, si rese conto che non era lui a guardare Mosè ma Mosè a guardare lui. L’arte quando funziona ha questo vantaggio (comunicativo): ti fa la radiografia, parla con te. Nemmeno ha bisogno (almeno in prima battuta) di mediazione critica, perché ce l’ha con te. Dopo questo effetto (magico) senti il bisogno di comunicare la tua esperienza ad un altro. In fondo l’arte quando funziona ha lo stesso effetto di un bel tramonto. Davanti al quale non riesci a stare da solo. Desideri sempre che la persona del cuore, la tua amata, il tuo caro, sia lì con te per dividere l’effetto del sole al tramonto. L’arte non è mai politica, dunque non ha mai bisogno di una lettura ideologica (e di una comunicazione di pari grado), tantomeno può essere pedagogica (non si basa sulla statistica ma sull’individualità ) perché è sempre civile, ricade sempre sulla comunità d’appartenenza.
La lettera di San Paolo ai Corinzi: per voi sono un vescovo con voi un cristiano. Bisognerebbe parafrasarla: per voi sono uno scrittore con voi un cittadino. Ecco, secondo me la comunicazione è tutta qua, nella capacità di trasferire agli altri (con complicità) una tua esperienza. Ma bisogna prima farla l’esperienza (di lettura) prima essere colpiti o guardati, poi, dopo, tentare il passo comunicativo. La scuola e quello che viene dopo (la critica, le pagine culturali), non sempre svolgono questa funzione. Perché c’è sempre qualcuno (nell’agorà) che ti vuole insegnare come si vive (come si legge, come si seduce, come si fa, come non si fa). Invece nell’agorà bisogna starci alla maniera socratica. Socrate, questo pingue signore che ha inventato la filosofia occidentale. Che aveva solo tre crismi: era contro il principio di autorità (non ha lasciato nulla di scritto) era contro la retorica, prediligeva i pensieri brevi (infatti detestava i sofisti) ed era contro il potere (contro il potere ha bevuto la cicuta). E che, appunto, passeggiava nell’agora e parlava indistintamente con tutti, dal mercante al filosofo, non perché volesse insegnare loro qualcosa, ma solo per capire (e riflettere) su cosa la gente avesse già in testa. Lui guardava gli altri e gli altri guardavano lui.

Socrate (470 a.C. – 399 a.C.) fu un filosofo greco di Atene ed uno dei più importanti esponenti della tradizione filosofica occidentale. Il contributo più importante al pensiero occidentale è il suo metodo d’indagine, conosciuto come elenchos, che applicò prevalentemente all’esame critico di concetti morali fondamentali. Per questo Socrate è riconosciuto come padre fondatore dell’etica o filosofia morale e della filosofia in generale. (testo tratto da Wikipedia – L’enciclopedia Libera – http://it.wikipedia.org) Antonio Pascale è nato a Napoli nel 1966, cresciuto a Caserta, vive e lavora a Roma. Il suo primo titolo, il reportage narrativo La città distratta, è uscito presso l’Ancora del Mediterraneo nel 1999 ed è stato ripubblicato nel 2001 nella collana Stile Libero Einaudi, vincendo il Premio Onofri e il Premio Isola di Procida – Elsa Morante. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati su “Lo straniero” e “Nuovi Argomenti”. Ha partecipato quest’anno (2003) al Premio Strega con la raccolta di racconti La manutenzione degli affetti, pubblicato sempre dall’Einaudi (2003).