Un movimento puro che non si qualifica per le stazioni di partenza e di arrivo, piuttosto per le mutue relazioni ricontrattate nel traffico globale caotico di corpi e segnali continuamente dislocati dal referente originario.
Il transito si qualifica come dato dell’abitare ed esperienza cognitiva che non riconosce zone di purezza primitiva, bensì lavora sulla molteplicità del pensiero e sulla contaminazione dei linguaggi. Il nomade si “riterritorializza sul deterritorializzato” (G. Deleuze, F. Guattari, 1987), in quello spazio relativo, tra locale e globale, che si sviluppa orizzontalmente, rizomaticamente, derivando in tutte le direzioni al di fuori di gerarchie stabili e centri assoluti.
Il nomade abita nel viaggio, costruendo percorsi sincretici e multiculturali da interpretare ogni volta nel transito, svolgendo un’operazione di traduzione della lingua che è anche dislocazione di significati, decodificazione normativa e transizione identitaria, seguendo ogni volta una strada diversa in grado di modificare mutuamente testo e interprete. Il territorio individuale, ormai affrancato da vincoli anagrafici definitivi, diventa così un itinerario multiculturale instabile, disegnato nei luoghi eterogenei dell’attraversamento. Le singole biografie, da codice acquisito e permanente ad habitus di differenziazione liberamente scelto e negoziato nel movimento con i luoghi attraversati, individuano così una sorta di polimorfismo identitario, una scomposizione prismatica del sé declinabile nella sperimentazione di panorami ontologici incerti, fragili, sempre mobili e contingenti, al di fuori da fondazioni normative uniche.
Mentre la semiosi del migrante è racchiusa nel segmento racchiuso dalle immagini dei nodi di partenza e di arrivo che ne condizionano l’esperienza cognitiva, il nomade fa esperienza del mondo nel movimento continuo, un diagramma vettoriale in cui l’identità si forma continuamente senza risolversi mai. Radici e strade (J. Clifford, 1999) mutuamente concorrono in questo senso nella composizione delle culture e dell’immaginario individuale: il viaggio, il percorso nel transito, la connessione intermedia tra i nodi segna un’esperienza formativa peculiare nella pluralità della costituzione identitaria e nella memoria collettiva. “Un tragitto è sempre tra due punti, ma lo spazio intermedio ha preso tutta la sua consistenza, e gode di un’autonomia come di una direzione propria” (G. Deleuze, F. Guattari, 1987).

Deterritorializzazione e riterritorializzazione, nel loro rapporto contraddittorio, contengono il transito, il trasferimento semiotico costruito nell’atto di partenza come in quello di arrivo. Ma anche nel movimento, tale da disegnare una sorta di habitat in transito, uno spazio mobile che contraddice ogni chiara identificazione stabile e ascritta di luogo ereditato geneticamente, di autenticità originaria, scoprendo altresì una geometria variabile, una mappa modellata dalla continua mobilitazione di soggetti ed oggetti in circolazione. L’ambiente costruito allora non è solo il prodotto di un’abitudine sedentaria, la forma cristallizzata risultante da un atto di residenza stabile, ma il prodotto stratificato di spostamenti, diaspore, circuiti di viaggio, pellegrinaggi, uno spazio continuamente ricontrattato nel movimento, risultato esperienziale transculturale e polisemico. Il movimento può essere allora considerato come principio dinamico nella modellazione della forma, un cambiamento di prospettiva tale da mettere in risalto caratteri di impermanenza, contingenza, provvisorietà , mutamento, contrapponendoli a permanenza, stabilità , inerzia, staticità .
La contemporanea mobilità delle relazioni spaziali, umane, comunicative, se da un lato conduce a nuove forme di prossimità geografica, e quindi di contiguità e corrispondenza spaziali, riferibili al superamento del legame indissolubile con il luogo ed all’omogeneizzazione delle espressioni, dall’altro fa emergere l’articolazione di sempre nuove relazioni mobili in grado di riaffermare le infinite variazioni e contaminazioni possibili. In tale scenario, le pratiche di transito e di spostamento diventano, attraverso continue negoziazioni e articolazioni, una forza dinamica nella formazione del paesaggio, come nella costruzione di nuove tappe dei saperi e delle culture, sempre più contingenti e mutevoli, laddove l’insediamento nomade diventa metafora fisica, ma anche simbolica e sociale della condizione contemporanea di attaccamento transitorio alla terra e della mobilità delle relazioni con i luoghi.

Nella contemporanea mutazione dei percorsi professionali e del consumo, il nomade globale attraversa quotidianamente frontiere culturali, fisiche e immateriali, per adeguarsi, nella condizione di flessibilità di vita, che è anche flessibilità di lavoro e relazionale, a sempre nuovi paesaggi di senso, un’esperienza disgiunta dal risiedere in luoghi fissi e configurata nella velocità. Si modifica così profondamente il processo di identificazione tra luogo e individuo: l’habitat può essere incorporato e portato con sé nel continuo trasloco, per aprirsi in ogni tappa del viaggio, nell’Heideggeriana impresa quotidiana del “fare spazio”.
Il nomade più che migrare da un punto all’altro del territorio, porta con sé il territorio, anzi è il corpo stesso che si fa territorio, accogliendo su di sé gli oggetti che lo abitano e si muovono con esso, inventando nel soggiorno temporaneo, come tappe all’interno del continuo viaggio, nuovi contesti disancorati da quelli fisici stanziali. Il territorio diventa uno spazio disgiunto dal suolo e scomposto per articolarsi in dimensioni da esperire attraverso tecnologie ambientali, equipaggiamenti portatili in grado di riprodurre spazialità sinestesiche attraverso strutture immateriali, mentre il corpo diventa così oggetto di progetto per essere arredato come un luogo.
Nella compresenza di città fisiche e città della rete, il nomadismo rompe così le configurazioni mentali di spazio e di luogo, rivedendone gli schemi identitari e disegnando una molteplicità di territorialità, mobili e trasportabili.

Mentre nella visione romantica il nomadismo è percepito come deriva antiurbana nella perlustrazione clandestina di terrain vagues dismessi e dimenticati dagli usi artificiali, alla ricerca di orizzonti vergini e inesplorati per il recupero di una preciviltà nomadica basata sulla pastorizia, Pierre Clastres (1977) nel descrivere modelli relazionali di organizzazione e di aggregazione comunitaria mobile, con il continuo distacco e avvicinamento di unità in viaggio, ne dimostra la coesistenza anche ai territori stabili della produzione stanziale agricola che diventeranno poi la metropoli del progresso. Clastres rompe così il postulato evoluzionista per cui originari gruppi tribali itineranti sarebbero semplicemente uno stadio primitivo precedente la sedentarizzazione e la costruzione delle strutture urbane, disegnando gruppi molecolari autorganizzati “acefali”, senza centro e periferia, che, raggruppati in famiglie, clan, tribù, lignaggi, si distribuiscono in maniera flessibile al di fuori di istituzioni locali; società organiche fondate sull’autonomia economica dell’unità di produzione e riproduzione biologica, caratterizzati quindi da requisiti di mobilità, indipendenza, autosufficienza. Il dibattito scientifico sviluppato intorno agli anni Novanta legato alle radicali trasformazioni della cultura materiale quanto immateriale indotte dalla transizione al modello di organizzazione sociale e spaziale postfordista segnala un passaggio epocale verso modelli dinamici flessibili, una forma di decentramento e disseminazione plurale delle coordinate di riferimento in grado di aprire forme periferiche e transitorie di uso dello spazio. La società dei flussi e delle reti del contemporaneo si muoveranno così altrettanto formulando una lisciatura dello spazio attraverso le striature solide delle strutture industriali del fordismo: al nomos della terra sedentario analizzato da Schmitt (1991) come atto primigenio di divisione-appropriazione stabile del suolo, si sovrappone così il nomos nomadico, che Deleuze e Guattari mutuano direttamente dal filologo Laroche, nella distribuzione provvisoria degli uomini e delle bestie nel luogo del pascolo, richiamandone la mobilità della struttura organizzativa. La metropoli più che il luogo della sedentarietà, si mette in evidenza come il luogo dove si intrecciano tutti questi flussi, materiali e immateriali, di soggetti ed oggetti: “(…) anche la città più striata secerne spazi lisci: abitare la città da nomade o da troglodita. A volte bastano dei movimenti, di velocità o di lentezza, per rifare uno spazio liscio” (…) Si possono abitare perfino le città in spazio liscio, essere un nomade della città (ad esempio una passeggiata di Miller a Clichy o a Brooklin è un percorso nomade in spazio liscio, fa in modo che la città secerna differenziali di velocità, ritardi e accelerazioni, cambiamenti di orientamento, variazioni continue, tutto un patchwork (…)” (G. Deleuze, F. Guattari, 1987).